Illegalità o emigrazione: le uniche strade per moltissimi giovani dell’Italia del Sud Il Mattino di Padova, 16 settembre 2013 Ci sono regioni del nostro Paese dove è meno facile vivere rispettando la legge, o perché la criminalità organizzata è forte, le istituzioni sono deboli e il senso della legalità basso, o perché trovare lavoro è complicato, e per farlo bisogna andarsene. La realtà è che i sogni dei ragazzi sono ovunque gli stessi, solo che per realizzarli la strada finisce troppo spesso per essere quella dell’emigrazione, e a volte anche quella dell’illegalità. E così il carcere è pieno di persone che arrivano da Paesi stranieri, ma anche dal nostro Meridione, dalla Sicilia, dalla Sardegna, solo che noi ci dimentichiamo facilmente di essere stati un Paese di forte immigrazione, verso Paesi stranieri o al nostro interno, dal Sud al Nord. Ce lo ricordano però le carceri, e le persone che le abitano, attraverso le loro testimonianze. La mia scelta di vita perché volevo la libertà Sono Luca e mi trovo ristretto presso la Casa di reclusione di Padova. Sono un ragazzo di Catania e già dirvi questo dovrebbe mettervi di fronte a una realtà molto diversa da quella che può essere il nord. La mia famiglia rispecchia la classica famiglia lavoratrice del sud, cioè lavoratori sottopagati, dunque si sopravviveva con mio padre in giro per il nord facendo il muratore, invece mia madre arrangiava le giornate facendo la casalinga. Io davo il mio contributo lavorando in un forno a pietra di notte. Diciamo che la mia età non corrispondeva a quella dell’anagrafe, avevo delle responsabilità a cui far fronte e forse proprio quel peso, che un bambino non dovrebbe mai avere, è stato uno dei motivi di una scelta di vita. Era una notte come le altre, calde, molto calde data l’elevata temperatura del forno, non ero da solo a lavorare, con me c’era un uomo adulto, un padre di famiglia. Quella notte, il nostro principale ebbe l’idea di lasciare a casa questo padre per sfruttare la mia bravura nel lavoro e, ovviamente, guadagnarci sotto l’aspetto economico. Ho sempre odiato le ingiustizie e quella lo era, così decisi di licenziarmi. Non pensai che anch’io avevo delle responsabilità nei confronti della mia famiglia, comunque io ero giovane e poi tutto sommato questo lavoro non mi piaceva più di tanto. Avendo le giornate completamente libere, mi avvicinai di più a una compagnia del mio quartiere, che già conoscevo ma per l’impegno del lavoro non riuscivo a frequentare. Non potevo avere quello che avevano gli altri ragazzini, perché non potevo permettermelo, così la decisione fu presa in gran fretta: cosa c’era di meglio di una rapina in una banca che poteva consegnarti soldi veloci e soprattutto in contanti? Ancora prima di farla, mi ricordo che già programmavo cosa mi sarei comprato con i soldi rubati, il motorino era una priorità necessaria, ti permetteva di essere autonomo, di avere le ragazzine vicino e di andare a ballare anche fuori città. Quello volevo. Essere libero. Ma ecco che tutti questi bei progetti e sogni in un attimo si tramutarono in incubi. Il carcere minorile. Prima di essere portato al carcere passai tre giorni al Centro di prima Accoglienza. Accoglienza è una parola che dà un senso piacevole, a me per esempio fa pensare a delle braccia aperte. Appena mi interrogarono mi convalidarono l’arresto e fui portato al carcere. Ero spaventato ma cercavo di non mostrarlo, e quando mi accorsi di avere attorno ragazzi che conoscevo, essendo del mio quartiere, mi tranquillizzai. Eravamo molto uniti e, pur essendo seguiti da educatori e assistenti sociali, il nostro pensiero era di essere dei duri, dunque questo significa anche di dimostrare di esserlo. Mio padre non la prese per niente bene, mi veniva a trovare ogni 3/4 mesi ma per lettera era sempre vicino. Come al solito mia madre era presente e puntuale, una volta si presentò con 40 di febbre, lì capii la sofferenza che stavo recando alla persona più importante che ho nella mia vita. Il più delle volte ero nelle celle di isolamento, per via dei casini che combinavo. Dopo due anni uscii, non per aver finito la mia condanna, ma per scadenza. Uscii con gli arresti domiciliari, per cinque mesi dovetti stare chiuso in casa. Al termine ricominciò la mia vita da ragazzo libero. Gli anni passavano senza che ne fossi consapevole. Il pensiero del divertimento, delle ragazze ma soprattutto dei soldi non era passato, continuava a farmi crescere con la convinzione che potevo fare tutto e avere tutto subito. Così cascai ancora nello stesso errore. Il problema è che non ti fanno capire la realtà vera qual è, non ti aiutano a trovare la motivazione giusta per capire gli errori che hai commesso. Non c’è una prevenzione vera. Ho tanti rimpianti e questo è uno su tutti, l’aver perso quel calore della mia famiglia. Non aver vissuto a pieno quella che credo sia l’età più bella e più importante per un adolescente. Luca R. Ho buttato tanti anni e anche la mia salute Mi chiamo Paolo, sono nato in Sardegna in un paese alle pendici del Gennargentu. Sono figlio di un pastore e io stesso ho fatto il pastore in un ambiente patriarcale. Vengo da una famiglia abbastanza povera, ma nonostante la povertà non ci è mai mancato l’indispensabile per vivere. Devo premettere che in quei luoghi di pastori, banditi e gente onesta ma duri come le pietre di quel monte, per poter reperire l’indispensabile si doveva andare con il coltello in mezzo ai denti. Un luogo dove l’infanzia non esiste, dove devi fare alla svelta a diventare un ometto, portandoti sulle spalle il peso di una vita che un bambino stenta a reggere. All’età di tredici anni, vedendo quanti sacrifici doveva fare la mia famiglia, è venuta fuori in me una forma di ribellione, così ho deciso di cercare un altro lavoro, panettiere, manovale, e altri piccoli lavoretti. Ma tutto questo non mi portava a raggiungere quel traguardo che mi ero imposto. Quando ho compiuto i diciassette anni, ho deciso di emigrare in una grande metropoli, un po’ per caso sono approdato a Milano dove c’era un mio fratello che faceva l’infermiere presso l’ospizio per anziani. Li sono stato assunto anche io. Oltre a lavorare studiavo come ausiliare generico d’infermeria, tutto sembrava andare bene, fino a quando i debiti, per poter pagare la pensione dove dormivo e mangiavo, mi hanno sommerso. Il proprietario della pensione era proprio del mio paese. L’orgoglio e la vergogna di non poter far fronte alle spese mi hanno fatto cadere in una crisi. Da lì iniziò il mio deragliamento, cosi decisi, invece di avere l’umiltà di chiedere aiuto, che con l’ultimo stipendio mi sarei comprato un’arma. E ben presto mi sono aggregato ad una compagnia di ragazzi che vivevano alla “bene e meglio”, accordandoci di fare qualche piccola rapina. Rapina perché durante la mia infanzia avevo fatto pratica con le armi, poiché nel mio paese quasi ogni famiglia possedeva un’arma, anche se illegalmente. Così facendo tutto mi sembrava facile, sino al punto di farmi perdere il lume della ragione. La realtà che vivevo mi dava euforia, i soldi facili mi permettevano di avere cose che non avrei mai pensato di poter avere, portandomi a spostare i limiti sempre più oltre. Poi il mio primo arresto per una rapina in banca. In carcere, nella sezione dove mi avevano collocato, c’era “la crema della crema” della malavita, e con il contributo dei giornali, che descrivevano le mie gesta in modo esagerato, mi sono montato la testa. E quando uscii, dallo sprovveduto che ero quando sono entrato, mi ritrovai a essere un vero e proprio rapinatore, quasi senza neanche saperlo. Da li, ho cominciato ad alzare il tiro, fino al punto di usare armi sempre più potenti, finché in un conflitto a fuoco con dei portavalori ho avuto la peggio, rimanendo ferito, ed uno dei miei compagni è stato ucciso. A seguito di ciò, facendomi curare clandestinamente ho riportato anche delle complicazioni fisiche che mi hanno segnato per sempre. Ed è così che stupidamente ho buttato via la mia vita, perdendo gli affetti più cari e persino la mia salute. Paolo C. Giustizia: innocenti finiti in cella per sbaglio, più di mille l’anno ottengono il risarcimento di Maurizio Gallo e Simone Di Meo Il Tempo, 16 settembre 2013 Mettete da parte per un attimo il “fattore B”. Dimenticate i guai di Silvio e concentratevi sul problema vero della giustizia, che riguarda tutti noi, cittadini del Belpaese e potenziali vittime di un “errore” che può trascinarci in un’aula di tribunale e poi dietro le sbarre di una cella. Dal 1989, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, a oggi, circa 25 mila italiani (e non) sono stati incarcerati ingiustamente. Per rimborsarli lo Stato ha pagato 550 milioni di euro. Se aggiungiamo altri 30 milioni di risarcimento per errori giudiziari, arriviamo a quasi 600 milioni. Cento abbondanti in più di quanto stanziato giorni fa dal Governo con il “decreto del Fare” per rendere più sicuri i 43mila plessi scolastici italiani e costruirne di nuovi. Non solo. Bisogna aggiungere le persone alle quali la richiesta di riparazione è stata negata, a volte per un cavillo. Eurispes e Unione Camere Penali parlano di una media di 2.500 domande all’anno di risarcimento per ingiusta detenzione e sottolineano che appena un terzo (800) sono state accolte. Quindi possiamo stimare che da 25.000 casi si arrivi a circa 50.000. Immaginate lo stadio Olimpico: gli innocenti finiti dietro le sbarre ne riempirebbero oltre la metà. Ma non è un fenomeno degli ultimi 22 anni. Accadeva anche prima e non c’era la legge sulla riparazione di ingiuste carcerazioni (galera preventiva) ed errori giudiziari (sentenza sbagliata). Per il Censis durante la storia repubblicana quattro milioni di persone sono state coinvolte in inchieste e sono risultate innocenti. E i giudici raramente hanno pagato. Dall’entrata in vigore della legge Vassalli (1988), che regolamenta la loro responsabilità civile, le cause contro le toghe sono state 406. Solo 4 concluse con una condanna, meno di una su 100. Le vittime sono sconosciuti e vip, uomini politici e tutori dell’ordine, medici e impiegati, liberi professionisti e, naturalmente, anche magistrati. Vi racconteremo le loro storie, le sofferenze patite, dalla perdita del lavoro a quella dell’immagine, nel caso di personaggi pubblici. Dopo, a poco servono le smentite e le rettifiche. E perfino i risarcimenti. Perché non è solo una questione di denaro. Quello che resta delle loro esistenze, famiglie, rapporti di amicizia e professionali sono macerie, rovine sulle quali è difficile, a volte impossibile, ricostruire. Vite bruciate. Per uno sbaglio. “Sei un cassiere della mafia”. Non era vero, ma ha passato due anni in cella L’agghiacciante storia di Benedetto: sei mesi d’inferno in carcere duro a Pianosa Sospettato a torto di appartenere all’anonima sarda, Leonardo si fa 225 giorni di galera. Per sei mesi i giudici lo tengono confinato a Pianosa, in regime di 41bis. Da innocente. Benedetto Labita è accusato di essere uno dei cassieri della mafia di Alcamo. Un pentito lo ha “mascariato”. In galera, ci resta in tutto due anni. Uscito, denuncia i pestaggi dei secondini e le violenze psichiche di cui è rimasto vittima. Lo Stato chiude il conto con 60 milioni di lire per l’errore dei pm antimafia. Tornato a casa, Labita scopre che nel frattempo l’appartamento gli è stato confiscato in un’altra indagine antimafia. Al gup che si occupa del caso di Claudio Cucos bastano pochi minuti invece per chiudere una parentesi lunga 11 mesi di galera: l’uomo è innocente, l’ordine di arresto per violenza sessuale di gruppo, sequestro di persona e lesioni è carta straccia. Capita poi che la malagiustizia faccia “strike”, arrestando, senza prove, due fratelli (Carlo e Stefano Pala) e un fratellastro (Gianni Arrus). Una famiglia azzerata. Tutti e tre ottengono l’indennizzo. Da fame: 10 milioni di lire. Dieci euro per ogni ora passata in galera è, invece, il risarcimento ottenuto da Leonardo Amati: 58mila euro per 225 giorni in cella. Era sospettato di essere il “cervello” di un gruppo dell’Anonima sarda. Specialisti dei rapimenti. L’unico rapito, in realtà, è stato lui. Dallo Stato. Appena 55 mila euro per ottantatré giorni di detenzione Appena 55mila euro per l’ingiusta detenzione di Toni Lattanzi, arrestato il 21 gennaio 2002, quando era Assessore ai Lavori Pubblici del comune di Martinsicuro (Teramo) e detenuto per 83 giorni. L’azione risarcitoria era stata avviata nel 2012 dopo una vicenda giudiziaria durata dieci anni che lo aveva visto assolto dalle accuse di tentata concussione e abuso d’ufficio. Lattanzi, che ha militato in An e in Fli, fu riconosciuto innocente in primo grado il 14 giugno 2006 e in appello l’11 maggio 2012. “Questo è per lo Stato il valore della libertà negata ad un innocente. Sono molto deluso e amareggiato - ha commentato lui. È vero che non esiste cifra in grado di risarcire le sofferenze subite, ma mi sarei aspettato un esito diverso”. Lattanzi sta valutando con i suoi legali di fare ricorso in Cassazione. Sicilia: nel 2012 risarciti in 184 con sei milioni e mezzo di euro Se Napoli, Bari e Catanzaro fanno la parte del leone, neanche nella Trinacria le cose vanno molto bene. Nel 2012 i casi di ingiusta detenzione sono stati ben 184, con una spesa totale di oltre sei milioni e mezzo di euro e una media di risarcimenti individuali pari a quasi 34 mila. Le Corti d’appello sicule con il maggior numero di casi sono quella di Catania e Palermo (70 episodi, circa 38 mila euro per cittadino di risarcimento medio) e di Caltanissetta (23 casi, con 49.500 euro per cittadino). Le cause risarcite dal 2005 a oggi sono oltre 1500, per una spesa di oltre 50 milioni. Proprio otto anni fa ci fu il picco, con 270 episodi per un totale di 8,2 milioni di euro. Nel 2007 è stato registrato il minor numero di importi liquidati per ingiusta detenzione: 118 casi per tre milioni di euro spesi. Giustizia: Spigarelli (Ucpi); settimana di astensione udienze, contro immobilismo politica Adnkronos, 16 settembre 2013 “L’astensione dalle udienze per una settimana degli avvocati penalisti rappresenta una risposta all’assoluto immobilismo e alla debolezza della politica in Italia su tutti i temi della giustizia”. A sottolinearlo è stato oggi nel corso di una conferenza che ha coinciso con l’inizio della ripresa dell’attività giudiziaria, è stato il presidente dell’Unione camere penali italiane Valerio Spigarelli. A lui ha fatto eco anche Cinzia Gaudieri, presidente della Camera penale di Roma, affermando che “di giustizia non si può parlare” e “solo con i referendum si riesce a farlo”. A determinare questa situazione, secondo gli oratori, “è la conseguenza di una politica che in questi anni ha pensato a qualsiasi cosa ma non ha mai fatto nulla perchè fossero adottare riforme organiche e omogenee della giustizia”. Durante la conferenza stampa che ha visto anche la presenza di Rita Bernardini, esponente dei Radicali, e degli avvocati Giandomenico Caiazza e Giuseppe Rossodivita che sono tra gli estensori dei quesiti referendari sulla giustizia, è stato tra l’altro sottolineato che l’iniziativa di Silvio Berlusconi di firmare la richiesta di referendum ha spinto molta gente a firmare i referendum stessi e che all’ex presidente del Consiglio “va dato merito, con la sua iniziativa, di aver bucato il muro silenzioso dell’informazione che fino a questo punto era parsa troppo carente. Sbaglia però chi pensi che questi referendum siano in favore o contro Berlusconi”. Durante la conferenza stampa i rappresentanti dei radicali e gli avvocati si sono soffermati a fare le loro considerazioni su alcuni dei quesiti referendari e in particolare quelli riguardanti la responsabilità civile dei magistrati, l’abolizione dell’ergastolo e la separazione delle carriere. In sostanza è stato detto: “Sono temi che non possono lasciare indifferenti chi ci governa eppure la politica continua ad essere sorda. Sui diritti umani stiamo perdendo una guerra. Misure emergenziali come l’amnistia e l’indulto sono necessari”. È stato anche sottolineato che alla base della situazione “c’è una chiusura della classe politica italiana che ha timori di vedersela con la magistratura associata. Abbiamo magistrati totalmente irresponsabili che avanzano grazie ad automatismi di carriera, che usano l’obbligatorietà dell’azione penale per trattare certi procedimenti e archiviarne altri”. Sciopero penalisti, adesione quasi totale Adesione "pressoché totale", in tutti i Tribunali italiani, all'astensione di cinque giorni proclamata dall'Unione Camere Penali italiane contro una politica sempre più "debole" sulla giustizia e "inadempiente" sull'emergenza carceri. Nel primo giorno di sciopero, "forte è stata la protesta dei penalisti", fa sapere in una nota l'Ucpi, impegnata in una giornata dedicata alla raccolta firme per i referendum sulla giustizia promossi dai Radicali su tutto il territorio nazionale davanti ai tribunali. In molte città la raccolta firme da parte degli avvocati proseguirà anche nei prossimi giorni; mentre per il 19, penultimo giorno di astensione, l'Unione ha organizzato un incontro a Roma con rappresentanti politici, per affrontare il merito delle questioni urgenti in tema di riforme della giustizia. Al confronto parteciperanno il Ministro per le Riforme costituzionali Gaetano Quagliariello, i responsabili Pd delle Riforme, Luciano Violante, e della Giustizia ,Danilo Leva, e i senatori Giacomo Caliendo (Pdl) e Benedetto Della Vedova (Scelta civica). Giustizia: Progetto Sicomoro, i detenuti faccia a faccia con le vittime di Marzia Paolucci Italia Oggi, 16 settembre 2013 Già applicato presso il carcere Opera di Milano a Modena e a Rieti e in fase di lancio tra Umilia Romagna, Calabria e Sardegna. Si tratta del Progetto Sicomoro, un’iniziativa di Giustizia riparativa nata nel 2009 per iniziativa della Prison Fellowship Italia, costola della più vasta organizzazione mondiale Prison Fellowship International, con sede negli Stati Uniti d’America, che si adopera da oltre trent’anni per favorire il confronto tra vittime e detenuti nelle carceri di 115 sedi nazionali del mondo, 116 con l’Italia. Gli Stati Uniti d’America lo conoscono dal 1976 dov’è nato per volere di Charles Colson, braccio destro di Nixon che, implicato nello scandalo Watergate, dopo tre anni di carcere, si converte e vende i suoi beni per dedicarsi alla causa. Un Zaccheo dei nostri tempi, il pubblicano del brano evangelico che, al passaggio di Gesù a Gerico, tra la folla, si arrampica su di un albero di sicomoro per vederlo e di rimando Gesù stesso lo chiama per nome invitandolo a scendere e fermandosi a casa sua. Zaccheo si converte e promette al Signore di donare la metà dei propri beni ai poveri e la restituzione quadruplicata del maltolto. Nella trasposizione attuale in carcere del brano evangelico che ha dato il nome al progetto, l’iniziativa mira a favorire la rielaborazione della gravità dei rispettivi vissuti, vittima e detenuto, e la riconciliazione con la propria e spesso dimenticata umanità innalzandosi, al pari di Zaccheo, oltre i propri limiti umani. In Italia, l’atto costitutivo risale al 7 dicembre 2009, a Rimini, in occasione della XXXIII Conferenza nazionale animatori del movimento cattolico Rinnovamento nello Spirito Santo (RnS). L’imprinting è infatti cristiano, tale deve essere il facilitatore del confronto tra le parti, mentre la destinazione resta aconfessionale. “Una proposta di giustizia riparativa e non retributiva come l’attuale in cui vittime e detenuti senza alcun collegamento tra di loro se non la stessa tipologia di reato, sono messi gli uni davanti agli altri”, spiega Marcella Reni, presidente dell’organizzazione che fa capo al movimento cattolico RnS di cui è direttore nazionale. Di professione notaio, la presidente racconta così a Italia Oggi la genesi di un progetto nato su input americano: “Nel 2009 gli americani ci hanno proposto di fondarlo anche in Italia dove non esisteva ancora. Il presupposto è che siano tutti detenuti con sentenza passata in giudicato e che ci sia la piena assunzione di responsabilità da parte del detenuto e per le vittime il risanamento delle ferite emotive e, dove possibile, una riparazione simbolica”. Un’operazione che almeno a Opera e Modena ha dato buoni risultati: “Nel 90% dei casi chiedono di incontrare le loro vere vittime per accedere a un vero percorso riparativo in regime di mediazione penale. Vite cambiate, quindi, come quelle dei sette detenuti ergastolani del carcere milanese di Opera come riscontrato dagli stessi magistrati di sorveglianza a cui è stato chiesto di incontrare le vittime. Stessa richiesta a Modena anche per i dieci detenuti per reati comuni coinvolti nel progetto”. Il progetto si snoda lungo un ciclo di otto incontri all’interno dell’istituto penitenziario dove detenuti e vittime si ritrovano insieme per condividere testimonianze e voglia di ricominciare. Durante il primo è presentato il progetto ai detenuti, l’adesione è libera e non ha un carattere premiale, nessuno sconto di pena, quindi, né agevolazione di alcun tipo. Un percorso a tappe con fasi di analisi e passaggi di crescita a cui si giunge dopo aver fatto propri i vari obiettivi di volta in volta raggiunti durante te otto sessioni ciascuna guidata da un tema affrontato e dibattuto a partire dalla Parola di Dio e da esempi concreti e semplici tratti dalla vita quotidiana. “Lo scopo”, conclude Reni, “è quello di sanare le ferite e spezzare le catene che legano sia i prigionieri che le vittime cosicché gli uni tornino a nutrire la speranza di essere riscattati e gli altri aprano il loro cuore al perdono. Si ristabilisce così il patto sociale che era stato infranto e si risana la società”. Giustizia: Giuseppe Luigi Palma (Cnop); licenziamenti in vista per psicologi penitenziari Adnkronos, 16 settembre 2013 “Il decreto svuota-carceri, diventato legge poco più di un mese fa, sembra aver innescato un imprevisto effetto collaterale: oltre ad alleggerire il numero della popolazione carceraria sta, infatti, alleggerendo anche il numero degli psicologi penitenziari, praticamente espellendo circa 500 professionisti (reclutati quali esperti a contratto, ex articolo 80 legge 354/1975) sui quali sta per abbattersi, aggravando una situazione di eterno precariato, la scure dell’amministrazione penitenziaria secondo la quale uno psicologo a convenzione non può restare nello stesso istituto penitenziario per più di quattro anni, e una volta sola”. Così Giuseppe Luigi Palma, presidente del Consiglio nazionale degli psicologi. “Il danno per i detenuti è evidente: privarli del diritto ad essere seguiti con continuità nel loro percorso riabilitativo - spiega Palma - significa abbandonarli a loro stessi, stravolgendo completamente la fondamentale missione che la stessa Costituzione assegna al sistema carcerario indicandola nella rieducazione del condannato. Aggravato, il tutto, dalla continua riduzione delle ore dedicate al rapporto con i detenuti e dalla carenza, in alcuni casi, e dalla mancanza, in altri, di qualsiasi strutturazione del servizio di psicologia penitenziaria”. “Ora al danno - prosegue - si aggiungono le beffe: i Provveditorati regionali dell’amministrazione carceraria, in particolare di alcune regioni quali Lombardia, Liguria, Toscana, Campania e Sardegna, hanno bandito, sulla base di una circolare della stessa amministrazione carceraria, una selezione per realizzare nuove graduatorie, senza tuttavia tener conto del protocollo d’intesa firmato tra ministero della Giustizia, l’Associazione unitaria psicologi italiani e il Consiglio nazionale nel quale veniva assunto l’esplicito impegno a ‘non disperdere le professionalità createsi e non vanificare le legittime aspettative di futura stabilizzazione degli operatori oggi legati all’Amministrazione penitenziaria con convenzioni di durata annuale”. “Ma la beffa è tanto maggiore, e anche questo andrà a tutto danno dei detenuti, nel verificare che nella nuova selezione non vengono tenuti in alcun conto le esperienze penitenziarie pregresse di quanti volessero candidarsi”, avverte. “Da qui - conclude Palma - la nostra esplicita e ferma richiesta al ministro Cancellieri di ritirare la circolare, sospendere gli avvisi di selezione in attesa, tra l’altro, di definire la sorte di 39 psicologi penitenziari vincitori di concorso e che ancora non sono stati messi in grado di iniziare la loro attività”. Giustizia: Sappe denuncia; uso e abuso automezzi di servizio della polizia penitenziaria Comunicato stampa, 16 settembre 2013 Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria, invia al Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri una dettagliata nota sull’uso e abuso delle autovetture in servizio al Corpo di Polizia Penitenziaria, specie da parte dei dirigenti in servizio al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Il Sappe denuncia che “numerose autovetture del Corpo di Polizia Penitenziaria dislocate in tutta la Penisola e destinate ad assolvere le esigenze istituzionali ed operative dell’Organismo, non sono impiegate in quanto inutilizzabili per mancanza di fondi”. E aggiunge: “Sarebbe doveroso, ancorché opportuno, che le autovetture di servizio, in particolare quelle del Corpo di Polizia Penitenziaria, siano impiegate esclusivamente per ragioni di servizio, di pertinenza del Corpo di Polizia Penitenziaria, in particolare ci riferiamo a tutte le autovetture targate Polizia Penitenziaria dotate di targa di copertura, le quali dovrebbero essere impiegate esclusivamente per assolvere le esigenze direttamente connesse ai servizi tutori disposti dall’U.C.I.S. o alle traduzioni di detenuti particolarmente pericolosi per i quali è necessario adottare particolari misure di sicurezza e riservatezza o alle esigenze dell’Ufficio Ispettivo e del Nucleo Investigativo Centrale”, scrive al Guardasigilli Donato Capece, segretario generale Sappe. “Tali autovetture, in nessun caso dovrebbero essere utilizzate ad esempio per il prelievo e l’accompagnamento di dirigenti e funzionari dell’Amministrazione Penitenziaria, specialmente presso la sede Centrale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dirigenti e funzionari non destinatari, almeno, di una misura di protezione L4, i quali potrebbero usufruire tranquillamente dei servizi navetta messi a disposizione dal Dipartimento”. “Altro che spending review” denuncia ancora il Sappe. “l’Amministrazione penitenziaria (i suoi dirigenti), in barba ai quei sani principi di austerità e risparmio, ha brillantemente aggirato la norma iniziando ad impiegare, per tali accompagnamenti, autovetture targate Polizia Penitenziaria, dotandole di targhe di copertura, aggirando così la norma atteso che a giusta ragione lo Stato non ha posto le medesime limitazioni introdotte per le autovetture di servizio, più comunemente conosciute come “auto blu”. Tale consuetudine si è trascinata rovinosamente sino ai giorni nostri, così che il servizio di accompagnamento e prelievo di dirigenti da e per le rispettive abitazioni è effettuato in via prioritaria, utilizzando autovetture targate Polizia Penitenziaria dotate di targa di copertura, aggirando ingegnosamente la norma.” Per questo il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria chiede l’intervento del Ministro Cancellieri: “avendo ricoperto già la carica di Prefetto della Repubblica e di Ministro dell’Interno, saprà ben distinguere la differenza tra le esigenze di sicurezza e l’impiego di mezzi direttamente correlati alle esigenze proprie di un Corpo di Polizia e l’abuso surrettizio di questi, ad uso e consumo di dirigenti che non ne avrebbero diritto”. Giustizia: Referendum Radicali… le nostre firme contro lo scempio di Marco Pannella Il Tempo, 16 settembre 2013 Caro Direttore, caro Gian Marco, grazie davvero per l’inchiesta che hai messo in cantiere sulla “mala-giustizia” italiana; approfitto subito (e coscientemente abuso) dell’opportunità che mi offri per dire ai lettori de “Il Tempo” che abbiamo ancora pochi giorni per firmare i 12 referendum radicali. Qui ne posso elencare solo i titoli: per la responsabilità civile anche per i magistrati; perché i magistrati fuori ruolo tornino al loro lavoro originario e non facciano come accade i consulenti di ministeri, enti vari, ecc.; per limitare l’uso abnorme della custodia cautelare; per eliminare l’ergastolo, come ha fatto papa Francesco a Città del Vaticano; per la separazione delle carriere: diceva Giovanni Falcone che solo separando le carriere del Pm e del Giudice si avrà obiettività e serenità di giudizio. E ancora: abolizione del finanziamento pubblico ai partiti; per eliminare i 3 anni di separazione obbligatoria prima di ottenere il divorzio; per abrogare le norme che ostacolano lavoro e soggiorno regolare degli immigrati; per lasciare allo Stato le quote dell’8 per mille di chi non esprime una scelta; per eliminare la carcerazione per fatti di lieve entità previste dall’attuale legge anti-droga. È possibile, probabile, che molti lettori concordino solo in parte con gli obiettivi dei referendum. Dico loro, fate come Berlusconi: “Firmo i sacrosanti referendum sulla Giustizia e anche altri su cui non sono d’accordo: per auspicare il diritto di tutti i cittadini italiani, del popolo, di potere la primavera prossima votare in coscienza come vorranno, pro o contro, ciascuno di questi 12 importanti quesiti”. Caro Gian Marco, nel glorioso giornale di Angiolillo, Mattei, Letta e tanti altri, hai subito dato la tua “impronta”, con l’inchiesta su carcere e giustizia. Ci fai sentire meno soli, nel dar voce alla comunità carceraria: i 67mila detenuti e le loro famiglie, metà dei quali in attesa di giudizio, e tantissimi di loro verranno dichiarati poi innocenti; ma anche gli agenti della polizia penitenziaria, i volontari, i cappellani, i direttori delle carceri. Sai, sapete, per esempio, quanti agenti di polizia già si sono tolti la vita negli ultimi 10 anni? Più di cento, e continuano. Allora, caro Direttore e lettori: ce la date oggi una mano per raccogliere le firme per rendere possibile la tenuta di questi referendum? È questione di ore, più che di giorni. Grazie. Giustizia: i Referendum Radicali e il paradosso di una sinistra che c’è (ma non c’è) di Valter Vecellio Notizie Radicali, 16 settembre 2013 Come finirà la campagna per i 12 referendum radicali non ci si azzarda a dirlo e prevederlo. La raccolta delle firme è ancora in corso, ed è cominciata la complessa procedura di “controllo” e “pulitura” dei moduli e delle firme stesse: che vanno accompagnate dai certificati elettorali, occorre controllare che i timbri richiesti dalla legge ci siano tutti e siano regolari, e via così. Ma si raggiungano o meno le 500mila firme autenticate per tutti o per alcuni dei referendum promossi, qualche considerazione (e qualche riflessione) già ora può essere fatta. Per tanti motivi (e ci sarà tempo e modo per analizzarli), si può dire che nei primi due mesi circa la campagna referendaria, sia per il primo “pacchetto” di referendum, che per il secondo, è andata avanti in maniera che giustificava preoccupazione: il flusso delle firme ai banchetti allestiti non era tale da autorizzare ottimismi di sorta. Poi, grazie all’incessante pressing esercitato da Marco Pannella su Silvio Berlusconi, è scattato quel “qualcosa” che ha rivitalizzato la campagna. Il 31 agosto, un sabato mattina, Berlusconi accompagnato da Marco Pannella e da altri esponenti e militanti radicali e del PdL, firma al gazebo di Largo Argentina a Roma tutti e dodici i referendum, e dichiara: “Io firmo non solo i sei referendum sulla giustizia, che sono sacrosanti, ma firmo anche gli altri su cui non sono d’accordo, ma con questa firma voglio affermare il diritto degli italiani ad esprimersi direttamente con un voto su questioni che li riguardano direttamente”. Posizione schiettamente liberale; i sei referendum “sacrosanti” sono appunto quelli sulla giustizia. Su alcuni degli altri Berlusconi esprime chiaramente perplessità se non contrarietà: alcuni, come quelli sulla Boss-Fini, sulla Fini-Giovanardi o sull’8 per mille sono relativi a leggi varate da governi da lui presieduti; può apparire una contraddizione, dunque, ed è immaginabile che se si giungerà al sì e al no, Berlusconi voterà e inviterà a votare contro l’abrogazione; è probabilmente favorevole al finanziamento pubblico ai partiti, e dirà no all’abrogazione dell’8 per mille perché forse è convinto in questo modo di compiacere le gerarchie vaticane. Come sia, si avvierà un dibattito, un confronto, le ragioni del sì e del no potranno finalmente (forse!) essere conosciute, e l’elettore deciderà secondo l’opinione che si sarà formata. In ogni caso, è una contraddizione positiva e fruttuosa quella in cui si viene a trovare Berlusconi, e certamente ne guadagnerà punti. Il comportamento da cupio dissolvi, davvero incredibilmente incomprensibile (o se si vuole, comprensibilissimo, se si pensa chi sono i suoi leader) è quello della sinistra in generale e del Partito Democratico in particolare. Lasciamo perdere il segretario pro-tempore Guglielmo Epifani, cui Marco Pannella forse fa troppo onore definendolo Robespierre o Saint-Just de noantri. Lasciamolo sguazzare nei suoi stanchi e patetici no, no, no, da bimbetto che rifiuta tutto, pesta i piedi e fa i capricci. Prendiamo il corpo del partito, o quello che ne rimane, dopo le varie “cure” Veltroni-D’Alema-Bersani-Franceschini-Bindi-Renzi-ecc. I referendum, i comportamenti lo dicono in modo eloquente, li vedono come il fumo negli occhi. Tutti, nessuno escluso. La domanda è molto semplice: c’è l’opportunità di abrogare quell’istituto incivile e barbaro che è l’ergastolo, il “fine pena mai”, che papa Francesco ha eliminato con un tratto di penna a Città del Vaticano. Perché per quel referendum non firmano e non raccolgono le firme? Non è il solo referendum che dovrebbe vedere mobilitata la sinistra, il mondo progressista, i democratici. Perché, per esempio, rinunciano ad abrogare le norme della Bossi-Fini che ostacolano il lavoro e il soggiorno regolare degli immigrati? Perché rinunciano ad abrogare le norme che prevedono il carcere anche per fatti di lieve entità della legge anti-droga Fini-Giovanardi? Perché rinunciano a eliminare quelle norme che riempiono le carceri di consumatori? Perché rinunciano a eliminare i tre anni di separazione obbligatoria prima di ottenere il divorzio? Si diminuirebbe il carico sociale e giudiziario che grava sui cittadini e sui tribunali in termini di costi e durata dei procedimenti. Non sono battaglie politiche di sinistra, progressiste, riformatrici? Ecco cosa mettono già in luce questi dodici referendum: battaglie progressiste, riformatrici, che dovrebbero essere orgoglio, vanto e bandiera della sinistra e di un PD non ridotto alla larva che è, che sono fatte dal campione della destra; e la sinistra che tace, tetragona nel suo paralizzante immobilismo, affondata in una morta gora da cui non sa, non vuole, non riesce ad uscire. Ma di che parlano e che cosa ci propongono, oltre a Berlusconi da abbattere, “l’uomo nero” che li cementa? Possibile che non sappiano nulla, non dicano nulla, non facciano nulla? Purtroppo la risposta è tre sì. Lettere: detenuto scrive al cappellano di Poggioreale “io, condannato a morte” di Ilaria Urbani La Repubblica, 16 settembre 2013 “Caro padre Franco, da ormai quattro anni e mezzo sono ostaggio del carcere di Poggioreale e sto patendo le pene dell’inferno per la disumana e degradante detenzione alla quale sono sottoposto. Spero che, almeno lei, riesca ad evitare una interminabile pena di morte”. A scrivere a don Franco Esposito, cappellano di Poggioreale, è Vincenzo Di Sarno, 37 anni, detenuto che soffre per gravi postumi di un cancro intra-midollare, parzialmente asportato nel 2002. Sette anni dopo l’uomo è stato condannato a 16 anni di reclusione per omicidio volontario: ha ucciso un tunisino in piazza Garibaldi. Vincenzo avrebbe ucciso per una sigaretta negata. I difensori stanno ricorrendo in Cassazione per eccesso in legittima difesa. Il detenuto è riconosciuto invalido al cento per cento, avrebbe bisogno di cure giornaliere, ma né Poggioreale né altre carceri in Italia sono dotate di infrastrutture adeguate per queste terapie, piscina compresa. “Mi ha implorato di aiutarlo - racconta don Franco - la direzione sanitaria di Poggioreale ha richiesto alle strutture sanitarie esterne di rendersi disponibili per la sua riabilitazione quotidiana, ma da giugno nessuna risposta”. L’avvocato difensore Finizio Di Tommaso, spiega: “La famiglia non pretende di riportarlo a casa, ma chiede il rispetto del diritto a curarsi”. Salerno: tragedia nel carcere di Fuorni, detenuto 66enne stroncato da un infarto www.metropolisweb.it, 16 settembre 2013 Si sente male in cella, viene portato in ospe­dale ma giunge cadavere: dramma per Francesco Paiusti, 66 anni, domiciliato a Boscoreale, nativo di Torre Annunziata ma assai noto a Scafati. Era in carcere a Fuorni per scontare una pena per furto ed era in attesa di giudizio. Era da poco passata la mezzanotte di sabato quando si è sentito male. Era in cella con altri detenuti ed ha chiesto aiuto alla polizia penitenziaria che, prontamente intervenuta, è riuscita a portarlo presso l’ospedale di via San Leonardo. Purtroppo il 66enne, che in passato aveva lavorato per anni in Veneto, è morto per un arresto cardiaco ed i medici del nosocomio salernitano hanno solo potuto costatarne la morte. Oggi, presso la sala mortuaria dell’ospedale salernitano, sarà effettuato l’esame autoptico su disposizione del pubblico ministero di turno Rosa Volpe. Ma sul decesso del 66enne boschese, però, non ci sarebbero dubbi: ucciso da un infarto fulminante. Resta da stabilire da cosa sia stato causato l’arresto cardiocircolatorio e se il detenuto avesse nel recente passato avvertito malori. Sabato notte il malore in carcere, poi la morte all’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno mentre attendeva il giudizio. “Nonostante la carenza di organico e i turni massacranti ai quali siamo sottoposti il nostro personale è riuscito a soccorrere il detenuto - ha detto Lorenzo Longobardi della Uil Penitenziaria - purtroppo per l’uomo non c’è stato nulla da fare, è morto all’ospedale San Leonardo poco dopo il trasporto. Questo episodio evidenzia, in ogni caso, la necessità di rego­lamentare e migliorare il lavoro degli agenti penitenziari che in caso di urgenze rappresentano l’unico aiuto per i detenuti. Proprio per far fronte alle esigenze del­la popolazione carceraria continuiamo a tenere alta l’attenzione, nonostante le carenze di personale e il mancato rispetto del contratto di lavoro per quanto riguarda il pagamento degli straordinari”, conclude il sindacalista della Uil appena appresa la notizia del decesso del sessantaseienne di Boscoreale Bologna: detenuto di 40 anni ritrovato morto, accertamenti per stabilire cause decesso Adnkronos, 16 settembre 2013 Questa mattina un detenuto del carcere della Dozza a Bologna è stato trovato a terra, privo di vita da un altro detenuto che stava lavorando all’interno del penitenziario. Lo segnala in una nota il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante. Al momento non si conoscono le ragioni del decesso dell’uomo, di circa 40 anni, e sono in corso gli accertamenti da parte delle autorità del carcere. “Ricordiamo - scrive Durante - che lo scorso anno i decessi per cause naturali, in regione, sono stati 5, i tentativi di suicidio 67, dei quali 12 a Bologna, ed i gesti di autolesionismo 157, dei quali 34 a Bologna, dove sono presenti 916 detenuti. Dopo la visita effettuata sabato scorso nel carcere della Dozza, a Bologna, lunedì 23 settembre una delegazione del Sappe - conclude la nota - visiterà il carcere Sant’Anna di Modena e alle 10.30 terrà una conferenza stampa, sempre all’interno del carcere modenese”. Milano: il Senatore Manconi svolge indagine conoscitiva sul 41bis nel carcere di Opera Ansa, 16 settembre 2013 “Si è svolta oggi la visita di una delegazione della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani all’istituto penitenziario di Milano Opera. La delegazione era composta dal presidente Luigi Manconi, dalla senatrice Daniela Donno e dal senatore Peppe De Cristofaro”. È quanto si legge in un comunicato del senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria del Senato per la promozione e la tutela dei diritti umani. “L’istituto milanese ospita al suo interno molte persone condannate all’ergastolo o al regime del 41bis. Abbiamo visitato in particolare quest’ultima sezione, le aree riservate e il centro clinico, per verificare le condizioni concrete, lo stato dell’assistenza sanitaria, la possibilità di colloquio, secondo quanto prescritto dalla normativa in materia; e abbiamo avuto occasione di parlare con numerosi detenuti sottoposti al regime di massima sicurezza. Tra gli altri, Francesco Schiavone, Salvatore Riina e Mariuccio Brusca. L’indagine conoscitiva proseguirà con ulteriori visite in altre sezioni di 41 bis nelle prossime settimane”. Avellino: al carcere di Ariano Irpino parte il progetto pilota Ode, iniziativa targata Isfol www.cittadiariano.it, 16 settembre 2013 Parte ad Ariano Irpino il progetto Ode, iniziativa targata Isfol che punta all’integrazione socio-lavorativa dei detenuti. Per il lancio del progetto pilota in Campania, realizzato tramite un’apposita sezione dell’Isfol, l’Osservatorio inclusione sociale - programma Prop.p., è stato scelto il carcere di Ariano Irpino. Scopo del progetto è orientare e formare i detenuti con la finalità di favorire l’inserimento lavorativo una volta terminata la pena. Dunque, lavoro per i detenuti come possibilità di esercitare uno dei principali diritti costituzionali e di acquisire nuove abilità che rendano, poi, più rapido il reinserimento nella società, riducendo in questo modo il tasso di recidiva. La realizzazione dell’attività di ricerca predisposta dai ricercatori Isfol, Giuliana Franciosa e Antonietta Maiorano, con la sociologa Pierpaola D’Aloia e lo psicologo Francesco Basilico, supportati dal Centro per l’impiego di Ariano Irpino, comprende diverse fasi articolate su più livelli: nazionale, regionale e locale, attraverso la raccolta e l’analisi di documentazione giuridica, sociologica e psicologica relativa ai sistemi di riabilitazione sociale, confronto scientifico con le istituzioni ad ogni livello coinvolte nel percorso di reinserimento socio lavorativo, individuazione e sperimentazione di modelli di eccellenza. Alla sperimentazione che sarà svolta secondo il metodo della progettazione partecipata, prenderanno parte 15 detenuti quasi a fine pena. Tale progetto sarà sperimentato anche a Larino. L’iniziativa prevede due momenti paralleli: il primo dedicato allo sviluppo di reti territoriali dei servizi, ad esempio in collaborazione con la Camera di commercio e la provincia di Avellino, con la finalità di combattere discriminazioni e scarsa informazione sulle normative e sui benefici riservati a chi assume detenuti; un secondo momento, invece, dedicato alla sperimentazione del programma di inserimento, per fornire ai detenuti gli strumenti idonei alla ricerca del lavoro. “Siamo orgogliosi di partecipare a questo progetto pilota, il carcere di Ariano è all’avanguardia nella sperimentazione di percorsi di inclusione sociale. Attività artistiche, sportive e lavorative: cerchiamo di fornire ai detenuti concrete opportunità”, così il direttore della casa circondariale arianese, Gianfranco Marcello. Modena: da domani due detenuti per lavori di pubblica utilità nel Comune di Sassuolo La Gazzetta di Modena, 16 settembre 2013 Arriveranno a Sassuolo martedì dal carcere di Modena i due detenuti che sulla base di una specifica convenzione della durata di un anno stipulata dal Comune di Sassuolo tramite Sgp con l’istituto detentivo modenese, svolgeranno lavori di pubblica utilità al servizio della comunità. Ad annunciarlo il vicesindaco Francesco Menani: “Si tratta di un accordo importante. Viene data la possibilità a persone che stanno scontando l’ultimo anno di pena per reati di vario tipo, di intraprendere un percorso di reale reinserimento che parta dal lavoro e dal valore che questo rappresenta. Si tratta di persone che hanno sbagliato ma che dimostrano di voler pagare il proprio debito mettendosi al servizio della società compiendo lavori utili alla collettività. Il beneficio sociale è sia per i detenuti sia per la comunità di Sassuolo, che potrà ricevere un contributo importante. Ne valuteremo in itinere i risultati e la riuscita e, nel caso di risultati positivi, potremmo promuoverla nuovamente ed estenderla ad altri soggetti”. “Si tratta di un’iniziativa rilevante nella costruzione di un percorso di reinserimento sociale - ha affermato Rosa Alba Casella, direttrice del carcere - che consente ai detenuti attraverso l’impegno a favore della collettività di riappropriarsi del senso di legalità e della propria dignità”. “L’avvio a lavori di pubblica utilità di detenuti a fine pena - ha concluso Menani - è un fatto di cui andiamo orgogliosi”. Napoli: Sdr; detenuto nuorese ristretto a Poggioreale chiede scontare pena in Sardegna Ristretti Orizzonti, 16 settembre 2013 “In 19 mesi che mi trovo in questo Istituto ho svolto pochissimi colloqui con la famiglia e la mia giovane moglie. Dal 16 maggio scorso non vedo più nessuno e non so quando riuscirò a fare un colloquio perché oltre alle spese, il viaggio comporta un grande sacrificio per la mia famiglia. Sono infatti necessari due giorni e occorre affrontare le lunghe file all’esterno del carcere”. Lo ha scritto, in una lettera inviata all’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, G.C., 25 anni, di Onanì (Nuoro), arrestato nell’agosto di due anni orsono e attualmente detenuto nella Casa Circondariale di Poggioreale a Napoli. Il giovane, ristretto in una cella sovraffollata, intende proseguire gli studi in Sardegna. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - afferma Maria Grazia Caligaris, presidente di SdR - sembra ignorare che in Sardegna sono diventati agibili Istituti Penitenziari che possono ospitare, anche nel rispetto del principio della regionalizzazione della pena, i cittadini sardi privati della libertà che vogliono poter scontare la carcerazione nell’isola. Opera invece in modo irragionevole aggiungendo doppie o triple punizioni impedendo il recupero sociale del detenuto, negando il diritto all’istruzione e gravando economicamente sulle famiglie. La permanenza in celle sovraffollate rischia inoltre di avere conseguenze imprevedibili sulla psiche individuale”. “Tra i tanti problemi che sono costretto a subire in questo carcere - sottolinea nella missiva G. C. - è quello di non avere nessuna attività di reinserimento e quindi dover trascorrere 22 ore in una cella superaffollata con 11 persone, cosa che per me, che non effettuo colloqui, è del tutto insopportabile. Mancano le scuole e nonostante le mie reiterate richieste inoltrate al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per chiedere di essere spostato in un carcere dove si possa studiare non ho mai ricevuto risposta. Lo scorso 17 maggio la Corte d’Assise di Napoli mi ha assolto dall’accusa di sequestro di persona, reato per il quale ero sottoposto al regime di Alta Sicurezza, sono stato declassificato e quindi ora posso espiare la condanna nelle sezioni dei detenuti comuni dove la situazione è anche peggiore. Vorrei però poter tornare in Sardegna per stare vicino alla mia famiglia. Ma se ciò non è possibile vorrei essere almeno trasferito in un altro carcere della Penisola dove ci sia la possibilità di seguire un corso scolastico per far diventare questa detenzione da una mera tortura a qualcosa di positivo che un domani possa servire quando uscirò dal carcere”. “Nel frattempo, almeno per poter vedere qualche ora la mia famiglia, ho inoltrato - conclude il giovane detenuto - un’istanza per avvicinamento colloqui. Nutro qualche speranza che venga finalmente accolta ma ho anche molti dubbi”. Torino: nel carcere delle Vallette detenuto ustionato da una bomboletta del gas Ansa, 16 settembre 2013 Incidente questo pomeriggio al carcere delle Vallette di Torino dove un detenuto di 68 anni è rimasto ustionato dallo scoppio di una bombola di gas. L’uomo stava sostituendo la bombola scarica del fornelletto in dotazione nelle celle con una carica. L’uomo si è accovacciato a terra per sostituire la bombola ma quella semivuota gli è scoppiata tra le mani ferendolo al collo e ai genitali. Non è in pericolo di vita. “Da tempo denunciamo la pericolosità di queste bombolette”, commenta Gerardo Romano, vicesegretario generale Osapp. Roma: teatro-carcere, “La Festa” dei detenuti del carcere di Rebibbia di Francesca Garofalo www.agenziaradicale.com, 16 settembre 2013 Primi anni del Novecento. Nelle cucine di un grande transatlantico fervono i preparativi per il diciottesimo compleanno di Miriam, la figlia dell’armatore. Non è un compleanno qualsiasi, non un viaggio qualsiasi, non una festeggiata qualsiasi. Miriam ha trascorso in navigazione i primi sei anni della sua vita, nascondendosi furtivamente tra servizi di piatti pregiati e pentoloni, assaporando le delizie che solo per lei i numerosi cuochi di bordo elaboravano con infinita maestria. Lasciando la nave per affrontare gli studi, l’adolescenza, il mondo “normale”… la ragazza lascia anche un incolmabile vuoto nell’animo dei suoi tanti padri, quanti sono i cuochi della nave. Loro la ricorderanno sempre, unico affetto filiale tra il rude cameratismo della ciurma. Ed ecco che i festeggiamenti hanno inizio, chissà se Miriam si ricorderà di quei cuochi ragazzi diventati maturi chef? Chissà se, ormai donna, sgattaiolerà nelle cucine come ai vecchi tempi, fasciata dal suo incantevole abito verde smeraldo… Nelle cucine si vive l’attesa di un ritorno che restituisca loro un attimo di gioia dopo anni di reclusione e solitudine affettiva. Ma Miriam non si fa viva. L’enigma offre un motivo ispiratore per parlare dei sogni infranti, dell’età della giovinezza, delle speranze di uomini che non hanno mai trovato il coraggio di salire le scale che da sottocoperta conducono agli sfavillanti saloni di prima classe... Con il sostegno della Fondazione Roma- Arte- Musei, l’organizzazione del Centro Studi Enrico Maria Salerno e grazie alla passione di Laura Andreini Salerno e di Valentina Esposito, i detenuti del Reparto G8 Lunghe Pene del Carcere di Rebibbia hanno debuttato sul prestigioso palcoscenico del Teatro Argentina nella pièce La Festa. I detenuti sono stati affiancati da venti giovani allievi attori dell’Accademia Internazionale d’Arte Drammatica, che grazie a permessi speciali, hanno avuto la possibilità di provare con i loro colleghi all’interno della struttura carceraria. Un testo piacevole, un alternarsi di sorrisi e lacrime sospeso tra passato e presente portato in scena con una professionalità e un sentimento da non sottovalutare. Essenziali ma suggestivi la scenografia e i costumi di Enzo Grossi e Paola Pischedda. Elegante ed estremamente delicato l’epilogo, durante il quale ognuno ritrova finalmente la “sua” Miriam, proiezione di sogni infranti, di un ideale di affetto, di percorsi mancati. Teatro non solo come rieducazione sociale, ma come riabilitazione per l’anima. Con il teatro si acquisiscono abilità tecniche, manuali, linguistiche, interpretative, si lavora sul singolo e sull’insieme, si infrangono le consuetudini del carcere, si trasformano le funzioni degli spazi ipotizzando luoghi di libertà e scambio laddove vigeva la separazione. Il carcere, da istituto di pena, può diventare un istituto di produzione di cultura dove si analizzano a fondo le contraddizioni della società, dove si indirizzano diversamente energie in precedenza mal utilizzate. Il lavoro nelle case di reclusione ha bisogno di finanziamenti e interventi ragionati. Purtroppo però il grande fermento delle attività legate al teatro e carcere si scontra quotidianamente con una legislazione attualmente inadeguata. Assurdo che resti un teatro invisibile alla società, che si venga privati della possibilità di assistere ad un rito puro di cui si è persa quasi memoria, essendo ormai, molte volte, contaminato dal meccanismo economico e commerciale. Più spesso dovremmo poter partecipare ad eventi del genere, momenti di condivisione vera, dove la barriera che separa proscenio e platea viene demolita consentendo all’emozione di sommergere il pubblico completamente. In questo caso si trattava di un’emozione particolare, di uomini alla disperata ricerca di un cenno d’approvazione da parte delle loro famiglie, di figli, padri, fratelli accorsi in massa, disseminati negli eleganti palchi del teatro e pervasi dal desiderio di gridare un nome, di far sentire la loro presenza, il loro sostegno, incuranti del silenzio assordante o della solennità di una scena. Quella la vera suggestione, il vero spettacolo. Televisione: “Presunto colpevole”, su Rai 2 seconda edizione programma su malagiustizia Tm News, 16 settembre 2013 Al via martedì 17 settembre, alle 23.45, la seconda edizione di “Presunto colpevole”, il programma di Rai 2 che racconta storie di “malagiustizia”. In studio Fabio Massimo Bonini. Nella prima puntata la storia di Anna Paglialonga, una donna di 48 anni, che vive a Capua e che lavora al Sert. Il 21 aprile del 2008 Anna è stata arrestata con un’accusa infamante: aver aiutato un camorrista a uscire di galera. Gli uomini della procura di Caserta hanno eseguito 23 ordinanze di custodia cautelare verso alcuni componenti del clan Belforte, i quali una volta usciti dal carcere con certificati falsi tornavano a delinquere a Marcianise e in alcuni comuni vicini in Campania. Secondo l’accusa la donna, il 1 agosto di cinque anni prima, avrebbe fatto firmare un documento, per aiutare un camorrista a uscire dal carcere. Ma perché viene accusata proprio Anna? Un collaboratore di giustizia afferma: “il documento l’ha fatto firmare una certa Annarella” un nomignolo. Al Sert di Capua, però, ci sono almeno altre quattro persone che si chiamano Anna, ma la giustizia prende Anna Paglialonga. Quel giorno Anna non era neppure in Italia. In carcere la donna trova solidarietà e amicizia. Il suo compagno Enzo De Camillis, che fa lo scenografo e che è stato disegnatore e fumettista, ha deciso di raccontare la storia in un documentario per dimostrare che Anna è estranea ai fatti. Il 9 maggio 2008, Anna finalmente può abbracciare di nuovo Enzo e sua figlia, ma prima di avere la sentenza di assoluzione definiva devono passare quattro anni. La seconda storia, invece, riguarda lo spagnolo Oscar Sanchez, che per un atto di gentilezza è finito nei guai. A causa di una perizia sbagliata e di indagini fatte in fretta, l’uomo è stato portato in Italia. La puntata si chiude con la vicenda di Giuseppe Gulotta, che ha passato in carcere buona parte della sua vita. L’uomo aveva 18 anni quando è stato arrestato, dopo la “confessione” per un reato che non aveva mai commesso. Da allora è iniziato per lui un calvario durato 36 anni, 22 dei quali in carcere. Droghe: appello per la scarcerazione di Fabrizio Cinquini, medico che cura con cannabis Ansa, 16 settembre 2013 È in carcere dal luglio scorso in attesa del processo fissato il 26 settembre dopo l’arresto da parte dei carabinieri per produzione, coltivazione e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, il medico di Pietrasanta Fabrizio Cinquini, 50 anni, che da anni si batte per la diffusione e l’ampliamento dell’uso terapeutico della cannabis. In occasione della consegna dei premi di “Satira Politica” a Forte dei Marmi è stato fatto un appello, come riporta oggi Il Tirreno, per la sua liberazione: “Cinquini libero” hanno chiesto i fratelli Emmanuel e Fabrizio Vegliona, che sono stati fra i premiati per la loro satira sul web. Cinquini ha fatto uno sciopero della fame nel carcere di San Giorgio a Lucca, poi è stato trasferito all’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino e da qui di nuovo nel carcere di Lucca. I carabinieri due mesi fa trovarono nel giardino della sua abitazione 277 piante di canapa, ma in precedenza aveva avuto altre disavventure con la giustizia, perché il medico crede nella cura di certe malattie utilizzando la cannabis, non consentita dalla legge. Svizzera: arrestato detenuto sospettato di aver ucciso educatrice che lo accompagnava Ats, 16 settembre 2013 È stato arrestato Fabrice Anthamatten, il detenuto 39enne con due condanne per stupro sospettato di aver ucciso giovedì nel canton Ginevra la socioterapeuta 34enne Adeline M. che lo accompagnava durante un’uscita educativa autorizzata. La notizia di stampa è stata confermata dalla Procura di Ginevra. Le manette sarebbero scattate alla frontiera fra Germania e Polonia, secondo la “Tribune de Genève”. Sulle sue tracce, oltre alle polizie di Svizzera, Francia e Germania, c’era anche l’Interpol, che aveva spiccato un mandato di arresto internazionale. La pista del fuggitivo si era persa a Weil am Rhein, città tedesca a pochi chilometri da Basilea e dall’Alsazia. Anthamatten, cittadino franco-svizzero di 39 anni, era detenuto dal 2012 nel centro di socioterapia La Pâquerette nel carcere ginevrino di Champ-Dollon, dove scontava una condanna cumulativa a 20 anni per due casi di violenza carnale, uno a Ginevra (5 anni di carcere) e uno in Francia (15 anni). Si sono perse le sue tracce giovedì, sulla strada che porta a un centro equestre, dove doveva svolgere attività con i cavalli a scopo terapeutico in vista del reinserimento nella società. Il cadavere della sua accompagnatrice, madre da pochi mesi, è stato trovato l’indomani vicino a Bellevue, località sulla riva destra del lago Lemano a pochi chilometri da Ginevra. La vicenda, che ricorda i recenti casi di Lucie nel canton Argovia e Marie nel canton Vaud, ha scatenato una serie di reazioni da parte della classe politica, già sollecitata dalla stampa per vicenda di “Carlos”, l’adolescente pregiudicato i cui costi di “rieducazione” ammontavano a 29.000 franchi mensili. Sono in molti a sostenere la necessità di un registro centrale dei delinquenti sessuali, mentre altri chiedono norme standardizzate a livello nazionale per la sorveglianza dei delinquenti pericolosi. Svizzera: Ghisletta (Vpod): no alla privatizzazione della sorveglianza carceraria in Ticino Ats, 16 settembre 2013 Si avvicina la domenica 22 settembre, in cui il popolo ticinese deciderà in merito alla privatizzazione parziale della sorveglianza carceraria in Ticino. Il popolo ticinese ha sempre difeso con forza i servizi pubblici fondamentali: poste, ferrovie, scuole, servizi sanitari, aziende elettriche, polizia. Penso che farà lo stesso per le carceri, dato che ben 9.000 cittadini (ne bastavano 7.000) hanno firmato il referendum contro la facoltà di affidare ad agenzie private la sorveglianza di determinate categorie di detenuti. Noto tuttavia che in queste ultime settimane crescono le improvvisazioni dei fautori della privatizzazione carceraria parziale, che cercano di vendere lucciole per lanterne al popolo ticinese. Innanzi tutto il Consiglio di Stato ci ha messo del suo nell’opuscolo informativo, assicurando che gli agenti assunti dalle ditte private saranno svizzeri: peccato che una sentenza del tribunale cantonale abbia già demolito questa garanzia nel caso della privatizzazione della ronda esterna del penitenziario cantonale. Un’altra figuraccia il Governo l’ha rimediata nei confronti della Commissione nazionale per la prevenzione della tortura, tirata in ballo scorrettamente nel medesimo opuscolo: quest’ultima lo scorso 12 settembre ha precisato di non aver mai raccomandato l’assunzione di agenti privati. Su questa linea di disinformazione prosegue venerdì 13 settembre Bruno Ongaro, che in un articolo apparso sul Giornale del Popolo, scrive che gli agenti assunti dalle ditte private di custodia saranno sottoposti addirittura alla LORD, la legge sugli impiegati cantonali. Ohibò, forse che Ongaro conosce già la ditta che vincerà la gara d’appalto e che questa gli ha rivelato che applicherà ai suoi agenti la scala stipendi cantonali? Discutibile è anche l’argomento di Galusero, Gobbi e altri, secondo i quali la modifica di legge serve ad evitare che i poliziotti vadano in carcere a sorvegliare i detenuti in caso di picchi di lavoro, lasciando scoperto il territorio. È un argomento facilmente rovesciabile: perché non creare un nucleo di agenti di custodia cantonali polivalenti, che sarebbero svizzeri e sottoposti a regole contrattuali dignitose, in modo da impiegarli su più fronti in caso di bisogno? Essi sarebbero agenti pubblici formati che potrebbero dare una mano sia agli agenti di custodia del penitenziario, sia agli agenti della polizia cantonale (e il lavoro non manca). Da ultimo va sottolineata la presa di posizione della Federazione Agenti di Custodia Ticino e del Gruppo Vpod Penitenziario. Le due associazioni, che sanno di cosa si parla, sono contrarie alla privatizzazione parziale, perché per lavorare in carcere e per una corretta presa a carico delle persone da sorvegliare bisogna essere agenti di custodia con attestato professionale federale e non agenti di sicurezza: “non si può fare il panettiere con un attestato di giardiniere” – scrivono giustamente le due associazioni professionali. In conclusione, votiamo No alla privatizzazione, perché il Cantone non deve e non può speculare nell’ambito della sicurezza: lo Stato deve invece formare ed assumere agenti di custodia cantonali in numero sufficiente presso le carceri e altre strutture detentive per affrontare i compiti esistenti e quelli nuovi. Grecia: 14 detenuti feriti per rissa nel carcere di massima sicurezza di Atene Ansa, 16 settembre 2013 Almeno 14 detenuti di un carcere di massima sicurezza di Atene sono rimasti feriti in una rissa scoppiata nel penitenziario dopo che un prigioniero curdo aveva accoltellato un compagno albanese. Lo ha riferito la polizia greca. Le carceri del paese sono in una difficile situazione di sovraffollamento, aggravato dall’afflusso nel paese di immigrati clandestini. L’anno scorso, la prigione di Korydallos - quella teatro della rissa di oggi - aveva chiesto di bloccare i trasferimenti di detenuti a causa del sovraffollamento. Siria: 400 detenuti politici a rischio pena morte Ansa, 16 settembre 2013 È a rischio la vita di circa 400 detenuti politici siriani rinchiusi nelle prigioni dei servizi di sicurezza fedeli a Bashar al Assad nella regione di Damasco, mentre giungono testimonianze di alcune esecuzioni compiute nelle stesse carceri e di uccisioni sotto tortura. È quanto nelle ultime ore ha denunciato il Centro di documentazione delle violazioni in Siria (Vdc), che da anni lavora per monitorare i crimini commessi nel Paese in guerra e dominato da circa mezzo secolo dalla famiglia Assad e da clan alleati. Secondo il Vdc, centinaia di prigionieri politici rischiano di essere giustiziati o di morire sotto tortura. Il rapporto di trenta pagine è basato sulle testimonianze dettagliate di cinque detenuti rinchiusi a lungo nella prigione dei servizi di sicurezza dell’aeronautica di Harasta, sobborgo a nord di Damasco. I testimoni, tutti identificati con le generalità complete, di età compresa tra i 23 e i 27 anni, erano stati arrestati in modo arbitrario assieme a migliaia di altri attivisti e cittadini comuni nell’ambito della repressione delle manifestazioni e della rivolta anti-regime scoppiate nella primavera del 2011. Le testimonianze confermano l’uso di strumenti di tortura già noti nelle carceri siriane, punizioni collettive, esecuzioni sommarie e l’impiego di medici conniventi con i servizi di repressione.