Giustizia: 100 direttori carceri in sciopero fame “non vogliamo essere complici illegalità” Tm News, 11 settembre 2013 “Dal carcere di Milano fino al carcere di Palermo sono più di cento i direttori penitenziari e i provveditori regionali che hanno partecipato allo sciopero della fame fissato, in concomitanza con il digiuno di Papa Francesco, dal 7 al 9 settembre e promosso da Marco Pannella anche contro la violenza di Stato che si consuma, nostro malgrado, nelle carceri”. A rendere note le cifre è stato il segretario del sindacato dei direttori penitenziari, Rosario Tortorella, intervenuto ieri durante la puntata di Radio Carcere su Radio Radicale. “Con questa partecipazione straordinaria dei direttori penitenziari - ha precisato Tortorella - abbiamo voluto far sentire anche la nostra voce perché non vogliamo più essere, o sembrare, complici di uno Stato che non è più in grado di applicare la propria legalità, quando noi invece vogliamo e dobbiamo essere messi in condizione di applicare la legge”. Nel corso della puntata di Radio Carcere, oltre alla partecipazione dei direttori delle carceri, Pannella ha ringraziato “gli oltre 17 mila detenuti, ristretti in 33 carceri, hanno aderito allo sciopero della fame con Papa Francesco”, ha detto il leader radicale. Giustizia: riforma delle circoscrizioni giudiziarie finita nel caos, risparmi vicini allo zero di Marino Longoni Milano Finanza, 11 settembre 2013 Il 13 settembre i tribunali minori (non tutti, però) dovrebbero chiudere i battenti. L’obiettivo è quello di razionalizzare le strutture del sistema giudiziario, evitare la dispersione di risorse, rendere un servizio migliore ai cittadini. In definitiva recuperare qualche decina di milioni di euro. Obiettivi condivisibili, anche a costo di qualche sacrificio, non c’è dubbio. Ma le modalità attraverso le quali si sta arrivando all’accorpamento lasciano perplessi. Partiamo dall’obiettivo di fondo. I risparmi. Nella prima relazione, il ministero della Giustizia li aveva quantificati in 80 milioni. Poi sono cominciati a emergere i problemi concreti e la cifra è più che dimezzata. Secondo una dettagliata analisi compiuta dall’Anai di Maurizio de Tilla si avrà un aggravio di spesa di almeno 30 milioni di euro. Questo per la necessità di adeguare le strutture dei tribunali ai quali si vanno ad accorpare le altre competenze e strutture. Probabile che la verità stia nel mezzo: un risparmio vicino allo zero o addirittura negativo in un primo periodo e minori spese di gestione tra due o tre anni, difficili però da quantificare al momento. Anche perché, a pochi giorni dal 13 settembre, non sono pochi gli elementi di incertezza e ambiguità che rimangono sul tappeto. A cominciare dalla soppressione o meno degli ordini degli avvocati che facevano riferimento ai tribunali soppressi. Il Consiglio nazionale forense, su questo punto, non è disposto a scendere a compromessi. Il 22 luglio ha diffuso un articolato parere sulle ragioni giuridiche che sostengono l’impossibilità della soppressione degli ordini locali in assenza di una norma specifica. I problemi più gravi sarebbero relativi ai dipendenti degli ordini, ai debiti e crediti (si trasferiscono in capo al nuovo ordine?), ai procedimenti disciplinari, alla gestione dell’albo. Essendo gli ordini enti pubblici, sostengono gli avvocati, c’è una riserva di legge che non può essere scavalcata nemmeno dal ministero della Giustizia. A via Arenula, però, non ci sentono. Anzi, il ministro avrebbe già firmato una circolare nella quale si sostiene la tesi contraria, cioè l’adeguamento degli ordini forensi alle nuove circoscrizioni giudiziarie. Facile prevedere che sulla questione si innescherà un contenzioso gigantesco. Anche sulla sopravvivenza per due anni, con funzioni limitate, di otto piccoli tribunali, non mancano i problemi. Intanto per l’intempestività della decisione, arrivata solo una settimana prima della chiusura, con un comunicato stampa (mentre il testo del decreto non è ancora disponibile) e quando ormai una parte delle attività necessarie al trasferimento era già in corso: ci sono quintali di faldoni già spostati che ora dovranno ritornare al tribunale di origine. Con il rischio di creare ulteriore caos negli uffici giudiziari. Ma a via Arenula non ci potevano pensare prima? Anche perché nei giorni precedenti il ministro Cancellieri aveva firmato 42 decreti ministeriali che autorizzano tribunali minori e sedi distaccate in corso di abolizione a usare i vecchi locali per la celebrazione delle udienze civili e penali già fissate, o per mantenervi il deposito degli archivi. A qualcuno è stato concesso un anno di proroga, a qualcuno di più, a qualcuno meno. In ogni caso, alla scadenza del termine, bisognerà sgombrare il campo. A meno che non intervenga la giustizia amministrativa. Come ha già fatto, per esempio, il Tar di Bari, che ha accolto il ricorso per la sospensiva della soppressione della sede distaccata di Cerignola, presentato dal comune pugliese contro il ministero della Giustizia. Insomma, l’impressione è che il gioco sia appena cominciato. Giustizia: ministro Cancellieri; impossibile fermare la riforma della geografia giudiziaria www.giustizia.it, 11 settembre 2013 Intervento del guardasigilli al Senato. Signori Senatori, come tutti voi sapete tra soli due giorni entrerà in vigore la riforma della geografia giudiziaria. Questa riforma, da tutti ritenuta strategica per il recupero dell’efficienza del sistema giudiziario, è il frutto di un lungo iter, iniziato nel lontano luglio del 2011, con il Ministro Palma ed il Governo Berlusconi, che vararono la delega; proseguito nel settembre del 2012 con il Ministro Severino ed il Governo Monti, che quella delega attuarono con i decreti legislativi 155 e 156. A me ed al Governo di cui faccio parte spetta il compito forse più ingrato: quello di darvi, come la legge impone, effettiva attuazione. Una riforma da lunghissimo tempo attesa, definita epocale durante la cerimonia di inaugurazione dello scorso anno giudiziario dal Presidente della Corte di Cassazione, apprezzata dagli studiosi, dall’Associazione Nazionale Magistrati e dal Consiglio Superiore della Magistratura. Una riforma pienamente condivisa anche da me, dal Governo Letta e straordinariamente sostenuta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cui, ancora una volta, va il mio personale ringraziamento. Ma anche un cambiamento che, facendo venir meno circa il 47% degli uffici giudiziari dell’intero territorio nazionale, suscita, comprensibilmente, vive resistenze nei territori in cui maggiormente incide. Dunque, un intervento costoso in termini di consenso e popolarità, ma che rappresenta un’importante prova di maturità per il Parlamento e per il Governo. Si dimostra così che chi ha il compito di governare è in grado di mettere da parte i propri interessi particolari a favore di quello superiore della funzionalità della cosa pubblica. Se in passato obiettivi come questo sono stati mancati, oggi dobbiamo dimostrare al Paese e a chi ci osserva dall’estero che si è inaugurato un nuovo corso, che guarda al futuro e che tende ad un sistema giudiziario più moderno ed efficiente. Ciò premesso desidero ricordare che, sin dall’esordio del mio nuovo mandato ministeriale, ho offerto la piena disponibilità ad ascoltare tutte le sollecitazioni ed i suggerimenti costruttivi finalizzati a migliorare la riforma stessa. Ho, tuttavia, dovuto constatare, non senza rammarico, che l’insieme di tali suggerimenti non si è tradotto in una sintesi unitaria che fosse in grado, senza stravolgimenti, di garantire un intervento integrativo e correttivo largamente condiviso tra le forze politiche. Nel frattempo, la Corte Costituzionale rigettando tutti i ricorsi proposti - ad eccezione di quello riguardante il tribunale di Urbino - confermava pienamente la validità dei criteri di selezione degli uffici soppressi, sottolineandone sia la ragionevolezza sia la piena conformità alla delega conferita al Governo. Peraltro, le puntuali ed analitiche motivazioni esposte dalla Corte per affrontare le numerose censure sollevate sono, inevitabilmente, destinate a condizionare i limiti, l’ampiezza ed il merito dei possibili interventi correttivi che saremo chiamati a valutare entro i termini previsti dalla stessa legge delega. Basti qui richiamare la riconosciuta ragionevolezza del criterio tramite il quale sono stati soppressi tutti i tribunali con un bacino di utenza inferiore a 100.000 abitanti. Credo che, rimettere in discussione questo criterio - che costituisce uno dei cardini della riforma - significherebbe compromettere l’effettività di quel principio di ragionevolezza riconosciuto dalla Corte Costituzionale. E se mi è consentito fare un secondo esempio, anche la proposta di trasformare tutti i tribunali soppressi in “presidi”, pur avendo raccolto un buon consenso, non era oggettivamente percorribile. E ciò per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo l’introduzione di non meglio precisati “presidi di giustizia” esula dai limiti di operatività della legge delega. Ed inoltre perché, sotto un profilo sostanziale, la surrettizia riproduzione di un modello in tutto sovrapponibile alle sedi distaccate avrebbe, di fatto, compromesso la valenza complessiva della riforma. Tale scelta avrebbe, peraltro, imposto, per ragioni di evidente equità, il riesame, nel merito, della situazione di tutte le altre sezioni distaccate soppresse che, in alcuni casi, vantavano oggettivamente bacini di utenza e carichi di lavoro nettamente superiori perfino alla gran parte dei tribunali soppressi. Detto questo, sono pienamente consapevole che una riforma di queste proporzioni, specialmente in fase di avvio, impone di affrontare non poche difficoltà organizzative per superare le quali si è fatto ricorso, in numerose casi, allo strumento previsto dall’art. 8 del decreto legislativo n. 155. Abbiamo ritenuto di utilizzare questo strumento affidandolo, anzitutto, all’iniziativa dei presidenti delle strutture accorpanti. In tal modo, negli ultimi mesi, ho adottato ben 45 decreti ministeriali che, in vario modo e con tempistiche differenti, predispongono le migliori condizioni operative possibili per le situazioni di maggiore criticità riscontrate sul territorio e segnalate direttamente dai capi degli uffici. Ma non ho inteso limitare a questo l’operatività che l’art. 8 offre al Guardasigilli. Ho ritenuto, infatti, doveroso assumere in prima persona la responsabilità di attivare un’istruttoria finalizzata a valutare, sulla base di criteri rigorosamente oggettivi (bacino di utenza o carichi di lavoro), l’utilizzo degli edifici di alcuni tribunali soppressi, principalmente per lo smaltimento degli affari civili pendenti, per un limitato periodo di tempo. Al termine dell’acquisizione dei prescritti pareri, è mia intenzione adottare un provvedimento ex art. 8 per queste particolari situazioni. Signori Senatori, nel concludere il mio intervento avverto il dovere istituzionale di rappresentarvi l’oggettiva impossibilità di fermare, oggi, la riforma. La macchina amministrativa è ormai da tempo avviata; la quasi totalità dei traslochi è già stata eseguita; si sono adeguati i sistemi informatici, trasferiti buona parte dei lavoratori interessati, affrontando le spese necessarie. Sono state varate le nuove piante organiche ed il Consiglio Superiore – a cui a partire dal Vice Presidente, On. Vietti, desidero rivolgere un pubblico ringraziamento per il sostegno e la collaborazione ricevute - non ha più coperto i vuoti di organico presso gli uffici soppressi. In pratica, signori Senatori, è doveroso che si sappia che tali uffici sono ormai privi di molti magistrati trasferiti ad altra sede, che le nuove udienze sono già pronte per la trattazione nelle sedi accorpanti e che un rinvio– anche di breve durata - produrrebbe con assoluta certezza il caos. Tutto questo, a danno dei cittadini, nell’interesse dei quali la riforma è stata varata. Siamo, dunque, tutti insieme chiamati ad affrontare l’avvio della riforma con spirito costruttivo e lealtà istituzionale, procedendo in corso d’opera al monitoraggio della situazione, per valutare nel prossimo futuro l’eventuale necessità di interventi correttivi entro i termini previsti dalla delega. Per questo abbiamo già predisposto, nelle sue linee essenziali, un primo intervento correttivo, con alcune norme organizzative e processuali che renderanno ancor più fluida la fase di avvio della riforma, mentre adotteremo subito dopo anche un secondo decreto correttivo, per apportare alcune modifiche dell’assetto territoriale dei nuovi tribunali, così recependo alcune delle segnalazioni provenienti sia da quest’aula che dai territori. Sono convinta della necessità di questa riforma e desidero ricordare anche in quest’aula che il Governo sta operando in linea con le indicazioni formulate dalle istituzioni europee e dalla Banca Mondiale che ci invitano a proseguire con decisione in questa direzione. Un percorso che, di recente, ha contribuito a far uscire l’Italia dalla procedura di infrazione avviata dall’Unione Europea ma è anche un impegno assunto dal nostro Paese al quale non possiamo e non vogliamo sottrarci. Giustizia: Ucpi; avvocati in sciopero da lunedì 16 a venerdì 20 settembre di Silvana Salvadori www.bresciaoggi.it, 11 settembre 2013 Gli avvocati penalisti incroceranno le braccia la prossima settimana, da lunedì 16 a venerdì 20 settembre. Lo sciopero avverrà in contemporanea su tutto il territorio italiano, come deliberato dall'Unione delle Camere penali italiane (Ucpi). "La politica è, se possibile, ancora più debole sulla giustizia di quanto lo sia stata negli ultimi anni - si legge nella delibera. Appare quindi necessario mettere in atto una iniziativa di forte denuncia al fine di indirizzare la ripresa dei lavori parlamentari verso una sessione straordinaria relativa ai temi della giustizia". I quattro giorni di sciopero inizieranno lunedì 16 con una giornata di raccolta firme per i referendum sulla giustizia proposti dal Partito Radicale e interamente appoggiati dall'Ucpi. A Brescia il banchetto per la raccolta firme verrà allestito al mattino nel piazzale del palazzo di giustizia di via Gambara. Una delegazione degli avvocati penalisti domani entrerà anche nella casa circondariale di Canton Mombello per raccogliere le firme dei detenuti. "La politica ha ormai manifestato la sua totale incapacità di risolvere il problema della giustizia in modo serio - dice il presidente della Camera penale di Brescia Stefania Amato. Attendevamo con favore il decreto “Svuota carceri” che invece si è dimostrato una completa delusione perché è stato privato di ogni provvedimento efficace tranne lievissimi miglioramenti. Questo decreto non svuoterà un bel niente, ma l'Italia non si può più permettere una legislazione di emergenza in materia di giustizia, non possiamo più procedere con provvedimenti a spot e disorganici che certo non allontanano la maxi sanzione che l'Unione Europea minaccia contro il nostro Paese se non approntiamo una riforma seria della giustizia". Riforma che, con un governo moribondo come quello odierno, non è certo di là da venire. "Il governo Letta doveva fare poche cose ma determinanti per il nostro Paese, e invece nulla è stato fatto sul fronte della giustizia. Perché oltre all'incapacità della politica si aggiunge anche la pressione di una parte della magistratura che considera intangibile il capitolo IV della Costituzione che la riguarda" aggiunge il presidente Amato. Per questo gli avvocati aderenti alle Camere penali hanno deciso di incrociare le braccia per quattro giorni, non partecipando alle udienze e ad ogni attività giudiziaria. Ma poiché il tempo per la raccolta delle firme per presentare i referendum è ormai agli sgoccioli, la Camera penale che ha promosso e appoggiato i 12 quesiti, 6 dei quali specifici sulla giustizia, non vuole perdere giorni preziosi. I quesiti che stanno a cuore ai penalisti sono quelli relativi alla separazione delle carriere dei magistrati, sulla responsabilità civile dei giudici (2 quesiti), sull'eliminazione dell'ergastolo, sulla custodia cautelare e sul rientro in tribunale dei magistrati fuori ruolo. "Sulla separazione delle carriere siamo sempre tutti d'accordo a parole, ma poi chissà perché non si va mai avanti su questa strada. Bisogna fare qualcosa per costringere la politica ad intervenire là dove oggi si rifiuta di farlo anche quando ci sarebbero tutti gli strumenti per evitare la penosa situazione delle carceri che stiamo vivendo" è il parere della presidente. Come ad esempio il provvedimento di "messa alla prova" che oggi è applicato ai minorenni. "Oppure che si accordino per l'indulto o l'amnistia, in una situazione come questa serve un provvedimento eccezionale" conclude. Giustizia: la Cassazione su Bolzaneto 2001 “fu violenza sistematica” L’Unità, 11 settembre 2013 Nella caserma di Bolzaneto, nei giorni successivi al G8 di Genova del 2001, il “clima” fu quello di un “completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. Lo scrive la quinta sezione penale della Cassazione, nelle motivazioni della sentenza emessa il 14 giugno scorso, a carico degli imputati per le violenze sui no-global. La Corte confermò la prescrizione dei reati per 33 imputati, la condanna di 7 e pronunciò 4 assoluzioni, riducendo in parte, per ragioni procedurali, i risarcimenti alle vittime. Secondo la Cassazione la caserma di Bolzaneto si trasformò in una sorta di “carcere provvisorio”. Non solo: la “scarsità degli interventi sporadicamente verificatisi da parte di singoli agenti, a favore di questo o di quel detenuto - si legge ancora nella sentenza depositata oggi - lungi dal dimostrare che in altri casi analoghi interventi avessero avuto insuccesso, è piuttosto la riprova dell’atmosfera di soverchiante ostilità creatasi nel sito in danno degli arrestati”. Furono “vessazioni” “continue e diffuse in tutta la struttura” quelle a cui vennero sottoposti i no-global reclusi nella caserma di Bolzaneto nei giorni successivi al G8 di Genova del 2001. Lo sottolinea la quinta sezione della Cassazione, nelle motivazioni della sentenza con cui confermò la responsabilità di gran parte degli imputati - poliziotti, carabinieri, agenti e medici penitenziari - già sancita dalla Corte d’appello di Genova. Non si trattò di “momenti di violenza che si alternavano a periodi di tranquillità - osservano gli “ermellini” - ma dell’esatto contrario”. “Non risulta - continuano gli “alti giudici” - che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso i bagni o gli uffici) con le modalità vessatorie e violenze riferite dai testi”. Nella sentenza si ricorda, ad esempio il caso di una ragazza condotta al bagno, costretta a mantenere il “capo chino all’altezza delle ginocchia” con la “torsione delle braccia dietro la schiena”, mentre, al suo passaggio “poliziotti ai lati” continuavano con “percosse e insulti”. L’agente (donna) che accompagnava la detenuta non fece desistere i colleghi, ma invitò la ragazza a “stare attenta a non cadere quando un agente le aveva fatto lo sgambetto”. Giustizia: sentenza su Bolzaneto, la tortura innominabile di Lorenzo Guadagnucci (Comitato Verità e giustizia per Genova) Il Manifesto, 11 settembre 2013 Quando i giudici di Cassazione dalle solenni stanze del “Palazzaccio” romano usano espressioni “accantonamento dei princìpi cardine dello stato di diritto”; quando parlano di cittadini sottoposti a “trattamenti gravemente lesivi della dignità della persona”; quando specificano che “botte, gas urtanti, umiliazioni, denudamenti di ragazzi e ragazze fatte piegare a novanta gradi davanti agli uomini in divisa” avvenivano “mentre alcuni tra le forze dell’ordine cantavano inni fascisti”. Quando si legge tutto questo nelle motivazioni di una sentenza definitiva riguardante 40 persone fra agenti e medici delle forze dell’ordine, dovremmo chiederci dov’è finito lo stato democratico, in quale abisso amorale è precipitata la dignità delle istituzioni. Le durissime parole degli alti magistrati sugli orrori di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001 sono un potente grido di sdegno e di richiamo alla legalità costituzionale, ma contengono in sé il sapore dell’impotenza. Parole così gravi e così forti chiudono una stagione iniziata nel luglio 2001, ma questi dodici anni, per molti aspetti, sono trascorsi inutilmente. I fatti storici avvenuti nella caserma genovese in un clima “di vessazioni continue e diffuse” sono noti da molto tempo grazie alle testimonianze delle vittime, al lavoro di avvocati e magistrati, eppure sono stati scientemente ignorati - potremmo dire accantonati, come lo stato di diritto all’interno della caserma. Perciò le parole della Cassazione colpiscono e sconvolgono i pochi che vi prestano attenzione ma in realtà sono pronunciate in un vuoto politico e culturale desolante. Sono parole che non avranno seguito. Non ora, non nel contesto politico e informativo attuale. La sentenza Bolzaneto come quella Diaz dell’anno scorso non hanno prodotto il terremoto politico e istituzionale che sarebbe stato necessario. Se non fosse stato per la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, inflitta ai dirigenti di grado più alto imputati nel processo Diaz, tutto sarebbe rimasto come prima. Capi della polizia al loro posto, condannali e prescritti lasciati tranquillamente in servizio, zero approfondimenti sullo stato di salute democratica delle forze di sicurezza e sui meccanismi interni di verifica e sanzione degli abusi. Non ci sono riforme in vista e nemmeno provvedimenti sui singoli punti emersi in questi dodici anni, ad esempio sulla riconoscibilità degli agenti in servizio di ordine pubblico tramite codici su caschi e divise (provvedimento consigliato addirittura nel 2001 dall’ispettore Pippo Mìcalizio, inviato a Genova dopo il G8 dal capo della polizia Gianni De Gennaro). E vero, è cominciato nei giorni scorsi l’iter parlamentare per introdurre il crimine di tortura nel nostro ordinamento. Ma il testo di legge dal quale è partita la discussione è il degno frutto dell’opera di occultamento e rimozione dell’eredità di Genova condotta scientificamente per dodici anni ai piani alti del potere politico, poliziesco e mediatico di questo paese. I parlamentari che hanno steso quel testo sì sono rifiutati di qualificare la tortura come reato specifico del pubblico ufficiale; hanno cioè ignorato gli standard normativi internazionali pur di assecondare le poco responsabili pretese dei vertici degli apparati. Un testo simile, al cospetto del meditato giudizio della Cassazione, ha i contorni di una beffa. L’introduzione del reato di tortura, invocato anche da pm e giudici del processo Bolzaneto, ha soprattutto finalità di prevenzione, specie in un paese come il nostro, nel quale i vertici delle forze dell’ordine, anche di fronte ad abusi clamorosi e innegabili, hanno mostrato verso i propri uomini l’istinto della protezione corporativa (e diciamolo: antidemocratica). Un testo serio, vero, di rifiuto e punizione della tortura serve a mandare un messaggio forte e preciso a chi veste una divisa: un messaggio di civiltà, di trasparenza, il segno tangibile della non sindacabilità dei diritti umani fondamentali. Serve ad avviare un cambio vero di cultura e di mentalità. Una seria legge sulla tortura dev’essere la premessa di una riforma democratica delle forze di sicurezza. Il testo all’esame del parlamento rischia invece di mandare il messaggio opposto. Sembra dire: questa legge ci tocca farla per via degli impegni internazionali, ma niente alla fine cambierà L’opzione corporativa, il rigetto della trasparenza continueranno a dominare la vita interna ai corpi di polizia Di fronte ad abusi e prepotenze continueremo a parlare di mele marce. I giudici di Cassazione, su Bolzaneto come nel caso Diaz, hanno parlato così chiaro che la ripresa del dibattito parlamentare sulla tortura sarà un evento surreale, se ancora una volta il Palazzo resterà cieco e sordo, insensibile a ogni richiamo. Guardando alo stato dei diritti civili e sociali del nostro paese, possiamo dire che l’inusuale grido di sdegno dei giudici di Cassazione rischia di rivelarsi un urlo di disperazione, se dalla cittadinanza attiva, quella che ancora crede nella Costituzione, non arriva una risposta all’altezza della sfida che anche su questo fronte si profila. Giustizia: femminicidio; una sola uccisa è già troppo… ma l’emergenza non c’è di Roberto Volpi Il Foglio, 11 settembre 2013 Di buoni propositi come tutti sanno sono lastricate le vie dell’inferno. Le leggi sull’omofobia e il femminicidio hanno questo marchio dei buoni propositi, dunque non lasciano del tutto tranquilli. Per di più vengono da una lettura troppo “coinvolta” dei dati e della realtà sociale dell’Italia da cui scaturiscono, e questo è un altro elemento che aggiunge preoccupazione. Gli omicidi volontari in Italia sono tendenzialmente in calo da molti anni e sono scesi a circa 550 l’anno. Con un tasso pari a 0,9 omicidi ogni 100 mila abitanti l’anno, il dato ci colloca agli ultimi posti di questa particolare classifica in Europa e nel mondo. Le donne rappresentano il 30 per cento - meno di un terzo - delle vittime. Quante, tra queste, sono uccise per mano di chi dovrebbe amarle? Un centinaio l’anno, forse un poco di più, stando a stime recenti. Non aumentano, se non per oscillazioni che non risultano statisticamente significative. Per quanto sia troppo e intollerabile anche un solo omicidio di una sola donna per mano di un marito, un fidanzato, un amante - che, lasciato, non sa farsene una ragione e passa alla più feroce e definitiva delle vie di fatto - non sono cifre tali da delineare una vera emergenza di questo tipo nel nostro paese. C’è un fenomeno criminoso e insopportabile che deve essere seguito, monitorato, contrastato, è fuori discussione. Ma non un’emergenza, perché l’emergenza è un’altra cosa. Così come non ve ne è una di questo tipo più generalmente riferita alla violenza sulle donne o sugli omosessuali. Qui, se non si fa attenzione, l’Italia passa (e viene già largamente descritta) come una terra di violenti e retrogradi, di paranoici e antisociali in cui quello di perseguire donne e omosessuali in tutti i modi possibili per far loro del male, fino a ucciderli o a spingerli a uccidersi, finisce per passare come una sorta di sport nazionale. Certo, i numeri delle violenze sulle donne sembrano inappellabili. Secondo le indagini campionarie Istat, una donna su tre di 16-70 anni, pari a quasi sette milioni di donne, ha dichiarato di aver subìto almeno una violenza fisica e/o sessuale nel corso della sua vita. L’Istat annota che un numero di donne che va tra il 93 e il 96 per cento non sporge denuncia, dunque è inutile andare a cercare un riscontro di queste cifre nelle statistiche della criminalità, dove infatti le persone denunciate per violenze sessuali (non sulle sole donne, peraltro) sono circa tremila l’anno e quelle condannate la metà. Non voglio mettere in discussione l’attendibilità di queste cifre, ricavate dall’Istat con indagini campionarie telefoniche. Ma lascia perplessi che, mentre la più alta criminalità misurata attraverso le persone denunciate e condannate si registra, anche relativamente agli omicidi, in regioni come la Calabria, e in generale in quelle del sud, per le violenze sulle donne la classifica s’inverte, cosicché si verifica, per esempio, che ogni cento donne che hanno subìto violenze in Calabria ce ne sono, a parità di donne, 180 in Emilia, ogni cento donne violentate in Sicilia ce ne sono 150 in Toscana e così via. Magari - sollevo un interrogativo - c’è una diversa concezione di queste violenze nelle diverse regioni. Certo è che mentre le cifre globali si rincorrono senza sosta (ed è su queste che si costruiscono le inchieste giornalistiche), la casistica delle violenze, secondo la quale al primo posto ci sono - di gran lunga - gli strattonamenti, le spinte, i capelli tirati e simili atti (che, pur essendo del tutto giustamente rubricati sotto la voce violenze non sono propriamente le violenze alle quali corre il pensiero quando se ne parla o se ne legge in giro), bisogna andarla a scovare. Né, sia detto, appare mai da alcuna parte. Insomma, c’è un rischio. Anni fa, a seguito di un aumento delle denunce per atti di pedofilia (erano stati creati nuclei investigativi appositi in tutte le questure, ecco il perché di quell’aumento) si creò un allarme smisurato attorno al fenomeno. Un allarme che ha fatto disastri. Da allora nessuno si azzarda più a fare una carezza a un bambino, a dargli un buffetto, a scompigliargli i capelli. Anche il solo guardare un bambino può sollevare un sospetto. La freddezza delle relazioni sociali, la distanza tra individui e tra famiglie, la chiusura egoistica e impaurita, ciascuno nel proprio guscio, tra le pareti di casa propria, è il frutto improprio anche di questi allarmi sollevati con fin troppa sollecitudine. Senza contare che proprio una tale chiusura porta a relazioni vissute in maniera esclusiva e morbosa all’interno delle famiglie - accusate poi di essere il terreno di coltura delle violenze sulle donne e sui minori. Attenzione a non creare di questi cortocircuiti, con l’agitazione eccessiva (e non così giustificata) di certi allarmi, attenzione a non fornire l’alibi del “così fan tutti” proprio ai violenti, a furia di descrivere una società italiana percorsa dai venti della crudeltà contro le donne, i bambini, gli omosessuali, gli immigrati. Non risulta da alcuna statistica che il nostro sia un paese dove certi fenomeni raggiungono punte tali da giustificare allarmi tanto preoccupati. Anche se la giusta attenzione è doverosa, non è male ricordare, lo ripeto, che è fin troppo facile lastricare le vie dell’inferno coi buoni propositi. Lettere: una riflessione su contenzione fisica, contenzione meccanica, Tso… di Mario Iannucci* Ristretti Orizzonti, 11 settembre 2013 Una riflessione per tentare di uscire dalla confusione e dall’ipocrisia. Devo dire la verità: più va avanti, su Ristretti Orizzonti, il dibattito che si è aperto sul TSO e sulla contenzione per motivi psichiatrici, meno comprendo ciò che si va dicendo. Avevo deciso di tacere, poiché le questioni mi sono parse trattate un po’ confusamente fin dall’inizio. Poi però, poiché sopporto sempre meno i farisei, ho deciso di dire la mia. Il dibattito è stato aperto, il 31 luglio, da Antonella Tuoni, ora Direttore Amministrativo dell’OPG di Montelupo e fino a pochi mesi or sono Vicedirettore della CC di Sollicciano in Firenze. La dottoressa Tuoni, arrivando a Montelupo Fiorentino nel febbraio 2011, si è trovata di fronte al problema della contenzione fisica (del tutto irregolare) di persone socialmente pericolose e malate di mente. Ella si è più che opportunamente adoperata affinché l’indispensabile trattamento sanitario di persone non condiscendenti alla cura seguisse le stesse leggi (L. 180/1978 ovvero L. 833/1978) e le stesse procedure che regolano all’esterno i TSO e gli ASO. Non c’è che plaudire a una simile iniziativa. Specie considerando che la dottoressa Tuoni sa bene che, nella Casa di Cura e Custodia femminile e nella restante parte del Nuovo Complesso Penitenziario di Sollicciano in Firenze, le regole e le procedure per l’effettuazione di TSO e ASO le abbiamo sempre applicate fino dal 1984, anno in cui Sollicciano è stato aperto. Antonella Tuoni lo sa bene anche se è arrivata a Sollicciano qualche anno dopo. Le considerazioni della dottoressa Tuoni le ho capite, ma le ho condivise solo in parte. Gli argomenti del mio dissenso sono gli stessi che, con lucidità, ha esposto Gemma Brandi nel secondo intervento su Ristretti, quello del 5 agosto. Consiglio di rileggere l’intervento di Gemma Brandi, quello nel quale la Collega affronta lucidamente il tema centrale della coazione benigna, che è il tema fondante della psichiatria à l’âge classique, quella psichiatria che nasce proprio in carcere, per sottrarre persone evidentemente malate ai rigori della “retribuzione” penitenziaria. Antonella Tuoni sollecita un “orientamento [scientifico] che dichiari definitivamente e per sempre fuori legge la contenzione fisica nella cura della malattia mentale”, non solo negli OPG ma anche “negli altri luoghi che ospitano pazienti psichiatrici”. Ad Antonella Tuoni vorrei semplicemente rammentare che gli Istituti di Pena ordinari (le carceri, quelle dove lei ha lavorato per molti anni prima del febbraio 2011) traboccano di persone molto sofferenti da un punto di vista psichico e che la contenzione fisica, nelle carceri, viene abitualmente e tranquillamente praticata. Ma come si pensa che venga portato in una cella di isolamento (magari una safe cell, che io peraltro non ho mai visto) un detenuto riottoso che manifesta comportamenti molto aggressivi nei confronti dei compagni e che resiste ai Pubblici Ufficiali? Oppure chiediamo ad Antonella Tuoni (e a Francesco Maisto) come ci si debba comportare nel caso di un detenuto che rifiuti violentemente (ancorché ammanettato) di essere trasferito in altro Istituto. E se si tratta di una persona che, anche se pregiudicato e condannato, presenta rilevanti turbe psichiche, come ci comporteremo? Verrà denunciato, intanto, poiché questo è l’obbligo dei Pubblici Ufficiali cui sta resistendo. Poi verrà magari sottoposto a un TSO. Ma chi si occuperà di contenerlo fisicamente, il detenuto malato di mente e aggressivo? Si aprirà un contenzioso fra Infermieri, Medici, Operatori di Polizia Penitenziaria, Vigili Urbani … Vorrei raccontare un calzante caso aneddotico. Diversi anni or sono un Pretore (esistevano ancora le Preture) della provincia toscana inviò nel carcere di Sollicciano un giovane bulgaro, alto quasi due metri per circa 100 chili di peso, tutti di muscoli di acciaio. Il giovane, che nel nostro Paese lavorava come operaio agricolo ed era molto apprezzato, praticava anche l’hockey su ghiaccio ed era un ottimo mountain biker. Durante un grave episodio di eccitamento maniacale si era reso protagonista di ripetuti furti d’uso di motociclette. Vi saliva sopra mentre erano posteggiate davanti ai bar, ci faceva un giro e le riportava lì poco dopo. Prima dell’episodio maniacale era assolutamente incensurato. I reati erano evidentemente il frutto della condizione psicopatologica. Il Pretore l’aveva capito e aveva inviato il paziente nel SPDC competente. Ce l’aveva mandato una volta e il paziente era scappato, dando un calcione alla fragile porta. Stessa cosa al secondo e al terzo ricovero. Al quarto arresto il Pretore aveva disposto l’invio a Sollicciano. Contestualmente mi aveva telefonato: “Dove altro posso mandarlo, dottore?”. Discuto talora animatamente con i Magistrati, ma quella volta non mi sentii di farlo. Fu necessario, com’è comprensibile, curare il paziente che rifiutava ogni trattamento. Ricorremmo a un nuovo TSO e, per condurlo in Ospedale, fu indispensabile contenerlo per sedarlo. Insieme a me e a due infermieri c’erano almeno dieci operatori della Polizia Penitenziaria. Fra questi c’era Nardone, un Assistente grande e grosso, che mi piace rammentare perché è morto di infarto nel maggio di quest’anno, mentre stava lavorando a Sollicciano. Ebbene, nella contenzione del paziente bulgaro, pur con tutta la forza che venne allora usata, si manifestarono un tale rispetto da parte di tutti coloro che intervennero e una tale “delicatezza”, che nel mio ricordo quella contenzione rimane uno degli atti terapeutici di maggior pregio. Lo fu anche agli occhi del giovane bulgaro, che circa un mese dopo, completamente ristabilito, venne accompagnato in Bulgaria in aereo dalla Polizia di Stato. Quando lasciò Sollicciano, venne a salutarci in infermeria con le lacrime agli occhi, nonostante lo avessimo contenuto fisicamente: aveva capito perfettamente come lo avevamo fatto e perché lo avevamo fatto. Anche i familiari ci telefonarono per ringraziarci. Io, com’è chiaro a tutti coloro che mi conoscono, non sono un opportunista: si acquisiscono un sacco di “meriti” a dichiararsi contrari ad ogni contenzione e io mi scaglierò sempre contro tutte le contenzioni gratuite e arbitrariamente violente, ma non contro ogni contenzione in assoluto. Non sono nemmeno fariseo: sono uno psichiatra, lavoro anche in carcere da molti anni, non vorrei mai essere un direttore di un carcere o un magistrato, ma a costoro non mi sognerei mai di dire di non operare una contenzione fisica (o meccanica con le manette) nei confronti delle persone che vengono condannate alla detenzione: sarebbe come dire loro di non esercitare quei mestieri! Ecco perché ho capito solo in parte l’intervento di Antonella Tuoni. Il secondo intervento è stato quello di Gemma Brandi. Si tratta di un intervento che condivido per intero, poiché non solo tratta l’argomento in maniera non ipocrita e non irrealistica, ma ricorda il lungo cammino, pratico e teorico, che ha indotto Gemma Brandi a formulare il concetto di coazione benigna, concetto che si interfaccia compiutamente con quello di diritto mite. Non è un caso che non poca parte delle norme che, nell’arco degli anni, sono andate a migliorare radicalmente il trattamento giurico-sanitario del folle-reo, siano state teorizzate, anticipate ed ispirate dal gruppo di lavoro psichiatria-giustizia diretto a Firenze dalla Collega. Un gruppo di cui faccio parte. Poi, sempre su Ristretti Orizzonti, ho letto l’intervento di Franco Scarpa, Direttore Sanitario di Montelupo dal 1986 ad oggi (fino al 2008 l’OPG aveva una sola Direzione, con il Direttore Sanitario che “dirigeva tutto”). Franco Scarpa ha descritto il progressivo decremento delle contenzioni fisiche (per motivi sanitari) che si è verificato nel corso degli anni presso l’OPG da lui diretto, così come presso altri OPG. Lavoro encomiabile il suo, che sembra peraltro essersi sviluppato quasi unicamente negli ultimissimi anni e sembra avere avuto l’opportuna accelerazione dopo l’intervento della Commissione Marino. Non capisco peraltro le argomentazioni di Franco Scarpa, che giustifica la contenzione (mi pare di capire anche del paziente psichiatrico) in ambito penitenziario, ma ritiene del tutto ingiustificata quella effettuata negli SPDC. Temo che queste considerazioni il Collega le faccia a partire da un dato di fatto: Franco Scarpa non ha mai lavorato negli SPDC. Cosa si deve fare se un paziente, portato al PS e poi nel SPDC perché su una base delirante intende aggredire qualcuno (magari lo psichiatra che lo ha in cura), rifiuta ogni proposta terapeutica e manifesta comportamenti aggressivi? Si deve cercare di contenerlo e di curarlo? Si deve chiamare la Forza Pubblica e farlo portare in carcere (magari per le minacce di lesioni o di morte nei confronti dei sanitari, o per la resistenza ai Pubblici Ufficiali)? E in carcere cosa faranno? Potranno forse contenerlo per “motivi di sicurezza” o, forse, richiederanno un TSO da eseguire nel SPDC da cui proviene ma dove non lo possono contenere…. C’è da finire matti! Gli argomenti di Franco Scarpa, dunque, non li ho capiti. Tantomeno li ho capiti alla luce delle considerazioni finali del suo intervento, considerazioni almeno contraddittorie e che a me, che lavoro da circa trentacinque anni nei Servizi di Salute Mentale e in carcere, che ho lavorato in OPG per dieci anni, sembrano stonate e pericolose, anche se in linea con una certa visione ideologica della cura della malattia mentale. Mettiamo insieme queste considerazioni e vediamo cosa ne viene fuori: -gli OPG devono chiudere, “senza se, senza ma”, senza indugi e senza proroghe (in questo sono più che d’accordo). -le nuove strutture per l’esecuzione delle misure di sicurezza per i folli autori di reato devono essere solo sanitarie e, in esse, non si dovranno attuare la contenzione e i TSO. -La contenzione è ammessa, per motivi sanitari, solo come extrema ratio. -La contenzione va però abolita dagli SPDC. -”È del tutto evidente che [nelle strutture penitenziarie] l’estrema ratio è rappresentata dall’uso della forza da parte del personale di Polizia Penitenziaria, pertanto altra forma di contenimento fisico, contemplata nell’art. 41 della Legge 354/75”. -I Servizi di Salute Mentale Territoriali devono farsi carico dell’assistenza dei pazienti psichiatrici nelle strutture penitenziarie, specie considerando il “numero elevatissimo di detenuti con patologia psichica registrato dalla recente ricerca dell’Agenzia Regionale della Toscana”. Queste le considerazioni di Franco Scarpa. Io, che lavoro in carcere come psichiatra, mettendole insieme sono rimasto perplesso e spaventato. Ho infine letto con attenzione l’intervento di Francesco Maisto, che io conosco come una persona erudita e anche capace di profonde riflessioni. Siccome non posso essere che sintetico, proverò a riassumere quello che ho compreso delle sue argomentazioni e a esprimere qualche commento. Francesco Maisto sostiene che la contenzione fisica è diversa da quella meccanica. Dice che le contenzioni fisica e farmacologica sono ammesse in ambito sanitario, specie nel corso di un TSO, mentre non è contemplata dalla legge, e quindi non è lecita, la contenzione meccanica. Fa quindi presente che le leggi 180 e 833 del 1978 “non solo non menzionano la contenzione, ma, di più, la nozione di trattamento sanitario obbligatorio non coincide né con quella [di] trattamento sanitario coattivo, né con quella di contenzione”. Se le suddette leggi non menzionano la contenzione, in linea teorica non dovrebbero essere lecite né la contenzione meccanica, né la contenzione fisica. Maisto stesso lo dice: “la L. 180, collegata alla 833, non parla né di contenzione, né di mezzi di coercizione”. Come Franco Scarpa ci rammenta infine, anche lui, che “il legislatore ha ammesso mezzi di coercizione prevedendoli esplicitamente”, dando “indicazioni nell’Ordinamento Penitenziario tanto nell’art. 41 (L. n° 354/1975) che disciplina l’impiego della “forza fisica” e dei “mezzi di coercizione” nei confronti dei detenuti e degli internati, quanto nel relativo Regolamento di esecuzione (art. 82 D.P.R. n° 230 del 2000). Così come la L. n° 492/1992 ( Disposizioni in materia di traduzioni di soggetti in condizioni di restrizione della libertà personale...) [nel mentre prevede] all’art. 2, nel disciplinare l’accompagnamento coattivo, l’uso delle manette ai polsi, l’uso delle manette modulari multiple, pone divieti a “qualsiasi altro mezzo di coercizione fisica”. Le considerazioni del Presidente Maisto generano in me un pò di confusione. Mi pare di capire che, secondo Maisto, la forza fisica e i mezzi di contenzione, che sono leciti in determinate circostanze nei confronti degli internati (quei pazienti psichiatrici, sottoposti a misure di sicurezza detentive, nei confronti dei quali, anche secondo la Dr.ssa Tuoni, la contenzione non è ammessa), non sarebbero lecite nel corso di un TSO in un SPDC. Viene poi da chiedersi: le manette ai polsi, le manette modulari multiple, la chiusura forzata di un detenuto in una celletta di un metro e mezzo per un metro e mezzo all’interno di un cellulare per le traduzioni, sono mezzi di contenzione fisica o meccanica? Ma andiamo avanti nell’analisi delle considerazioni del Presidente Maisto. Egli osserva che vi sarebbe una tendenza, da parte degli operatori della salute mentale, a malintendere la cosiddetta posizione di garanzia, vedendone soltanto i rischi professionali che essa comporta. Prende così corpo, secondo il Presidente Maisto, una psichiatria difensiva che, perduto il significato originario di difesa dei diritti dei pazienti in antitesi a una psichiatria repressiva, sarebbe adesso soltanto una psichiatria che tende a difendere gli operatori dai rischi professionali. Vale forse la pena rammentare cosa sia la posizione di garanzia. In parole povere si tratta di questo. Si dà per scontato che i pazienti che soffrono di gravi patologie mentali in talune circostanze si trovino in uno stato che li rende incapaci di intendere o di volere. Quando si trovano in tali condizioni, non sono responsabili penalmente degli eventuali delitti che compiono o lo sono solo parzialmente (art. 88, 89, 95 cp). Possono essere anche incapaci di provvedere ai propri interessi in ambito civile: per questo è indispensabile segnalarli al Giudice Tutelare o alla Procura per la nomina di un Amministratore di Sostegno (personalmente sono contrario alla Interdizione e alla Inabilitazione, che, purtroppo, restano in ogni caso previste dalle leggi dello Stato Italiano). Se gli operatori della Salute Mentale hanno in cura un paziente che, mentre attraversa una fase di grave scompenso psichico, si trova nell’incapacità di intendere o di volere, devono occuparsi di lui senza negligenza, imprudenza o imperizia, nei limiti del possibile tutelando il paziente stesso e la società dalla conseguenza dei gesti aggressivi che, per infermità di mente, il paziente potrebbe compiere contro sé stesso o contro altre persone. Quando vi è colpa medica (derivante da negligenza, imprudenza o imperizia) i giudici condannano gli operatori della Salute Mentale (anche in penale) per i gesti dei loro pazienti (accade in tutto il mondo western, non solo in Italia). Condannano gli operatori della Salute Mentale quando non si è curato un paziente come lo si doveva curare e questo paziente aggredisce, magari mortalmente, un’altra persona. Condannano gli operatori della Salute Mentale se la stessa imperizia, negligenza o imprudenza viene appurata nel caso della morte per suicidio di un paziente. Condannano gli operatori della Salute Mentale (più che opportunamente) se la stessa negligenza, imprudenza e imperizia manifestano sottoponendo a un TSO un paziente che quindi muore mentre è legato al letto di un SPDC ospedaliero. Non solo: alla cosiddetta posizione di garanzia fanno riferimento sempre più spesso, di recente, i magistrati di sorveglianza (colleghi di Francesco Maisto, Presidente di un Tribunale di Sorveglianza), quando, mentre revocano una misura di sicurezza a un paziente che loro non ritengono più socialmente pericoloso ma che viene ritenuto tale dagli operatori della salute mentale perché non condiscendente alle cure, affidano questo paziente ai Servizi richiamando la posizione di garanzia, vale a dire intimando ai Servizi di occuparsi “efficacemente” di quel paziente evitando che commetta altri reati. Non è così difficile, per i Magistrati, richiamare gli operatori della salute mentale alla posizione di garanzia. Specie considerando che loro, i Magistrati, sono gli unici membri di una categoria professionale che, in Italia, non rispondono personalmente degli errori commessi, a meno che non li abbiano commessi con dolo. Stamani un signore umbro mi rammentava un simpatico proverbio: se tutto va bene, evviva Michele, se invece va male, colpa di Pasquale. A me, in ogni caso, fanno molto piacere le parole con le quali il Presidente Maisto conclude il suo intervento. Il Presidente, che dalla sua posizione libera le persone detenute o internate ma che può mantenerle anche in stato di detenzione/internamento. Il Presidente, che sa in quale quantità le gravi patologie psichiche siano presenti nelle carceri italiane, ci rammenta che “l’istituzione non può essere contenzione, ma soltanto accoglienza”. E infine, sempre dalla sua posizione, citando Elias Canetti rammenta che “noi tutti abbiamo un compito supremo nell’esistenza: custodire delle vite con la nostra vita. Guai a noi se non scopriamo chi dobbiamo custodire, guai a noi se li custodiremo male!”. Il buon operatore della Salute Mentale sa bene di avere questo compito supremo. La contenzione per gravi motivi psichiatrici è indispensabile che rimanga un evento eccezionale, che sia praticata con grandissima accortezza e umanità, che duri il minimo indispensabile. Quando si contiene un paziente agitato, aggressivo e not compliant al trattamento, occorre che gli operatori sanitari gli rimangano accanto costantemente, “accogliendo” il suo disagio e cercando senza posa di favorire la sua condiscendenza. Altre cose, a mio parere, non ci sono da dire. * Psichiatra psicoanalista, Servizio di Salute Mentale Firenze 4 e Casa Circondariale di Sollicciano Lettere: il Coordinamento dei detenuti ha iniziato una mobilitazione nazionale… di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 11 settembre 2013 Il Coordinamento dei detenuti ha iniziato ieri 10 settembre una mobilitazione nazionale articolata in 8 giorni di sciopero della fame e 12 di mobilitazioni autodeterminate. Le parole d’ordine sono, nelle loro modalità, una risposta al sovraffollamento, che l’art. 27 della Costituzione venga perseguito e non calpestato ma soprattutto che vengano abolite le forme di tortura legalizzate quali il 41bis, 14bis e Alta Sorveglianza. Vengono fatte nostre inoltre le rivendicazioni degli ergastolani in lotta. Non possiamo più restare in silenzio e accettare che migliaia di detenuti vengano trattati come bestie, noi abbiamo una dignità e vogliamo difenderla. Chiediamo a tutti i fratelli carcerati di appoggiare la nostra protesta legittima e quindi di impegnarsi al massimo affinché tutti sappiano che settembre sarà un mese di lotta”. In un paese dove la Giustizia si guadagna la cronaca soprattutto per contraddirla, svilirla e piegarla ai voleri dei potenti, una notizia simile è confortante. Ringrazio “News contro la crisi.org” per averla data, e sostengo che, in attesa di conoscere l’esito della raccolta Tre firme di Antigone, A buon diritto ed anche quelle dei Radicali si potrebbero di nuovo legare le condizioni di vita nelle carceri alla lotta per l’estensione dei diritti come avveniva negli anni 70 e 80. Esistono molte associazioni che svolgono attività trattamentali con alto contenuto artistico ed educativo nelle carceri, e coloro che le portano avanti hanno ben chiaro quanto sia dannoso vanificare questa crescita nelle condizioni di sovraffollamento e conseguente inoperosità (67.000 persone in luogo di 45.000). Penso che sia doveroso rivolgere un appello agli uomini ed alle donne presenti nelle istituzioni perché ascoltino queste proteste e vigilino sulla regolarità e sulla legalità negli istituti, intendendo tale anche per tutto il personale presente. Piemonte: due strutture sanitarie per pazienti dimessi da Ospedali Psichiatrici Giudiziari La Stampa, 11 settembre 2013 Il suo futuro è già deciso perché la giunta regionale lunedì ha deliberato il programma per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (6 in tutta Italia) che prevede l’apertura di due strutture sanitarie extra ospedaliere, una a Bioglio e una ad Alessandria, con uno stanziamento di 12,5 milioni di euro (per il 95 % a carico dello Stato). Ma la residenza sanitaria Madonna Dorotea di Bioglio è sotto i riflettori perché la sua chiusura è imminente (il 30 settembre) e ci sono problemi nel piano di assorbimento del personale: 27 dipendenti sono salvi, gli altri 8 rischiano di rimanere a casa dal 1 ottobre, seppure con il sostegno della cassa integrazione in deroga già patteggiata dai sindacati con la cooperativa Bios (che gestisce la casa di riposo) fino al 31 dicembre. “Sino ad agosto la situazione pareva definita - dice Lorenzo Boffa della Cgil. I pazienti, una ventina, inviati dall’ospedale per la lungodegenza si sarebbero trasferiti al Degli Infermi, insieme a una parte del personale, nel reparto post-degenza gestito da Bios; i 20 ospiti della casa di riposo e il resto dei dipendenti si sarebbero divisi tra la casa di riposo di Sordevolo (12 anziani e 5 operatori) e quella di Netro (8 anziani e 4 operatori)”. Tutto bene per la lungodegenza e Netro. Ma Sordevolo non è comodo per tutti e alcune famiglie hanno scelto per i propri parenti altre residenze. Così Sordevolo può assorbire solo 2 operatori potendo contare su un numero minore di rette e gli altri si aggiungono a chi ancora non ha una collocazione. Catanzaro: Referendum Radicali; sabato 14 settembre raccolta firme nel carcere di Siano www.catanzaroinforma.it, 11 settembre 2013 “Per sabato 14 settembre abbiamo chiesto l’autorizzazione per poter raccogliere le firme nella Casa Circondariale di Siano dove, lo scorso fine settimana, nei giorni di sabato 7, domenica 8 e lunedì 9 settembre, vi sono state numerose adesioni allo sciopero della fame di Marco Pannella e al quale hanno aderito diversi direttori delle nostre patrie galere. Se saremo autorizzati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dalla Dottoressa Angela Paravati, direttrice della struttura penitenziaria, con alcuni compagni del circolo di Sel di Catanzaro Lido, entreremo alle ore 10 con il consigliere comunale Antonio Giglio che autenticherà le firme raccolte sui dodici referendum per la giustizia giusta e i nuovi diritti sociali”. A comunicarlo in una nota è Giuseppe Candido, militante storico del Partito Radicale, che sottolinea come “l’adesione allo sciopero della fame dei detenuti e di molti direttori delle carceri italiane alla tre giorni di lotta nonviolenta voluta da Marco Pannella, sottolinea la necessità e l’urgenza di un’amnistia che consenta di far uscire il nostro stato dalla sua condizione di flagranza criminale e per la quale lo scorso 8 gennaio l’Europa ci ha condannati per trattamenti inumani e degradanti oltreché per l’eccessiva lentezza dei processi. Come hanno sottolineato anche il Ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri e quello della Difesa, Mauro - continua Candido - l’amnistia rappresenta l’unico modo per far cessare subito il sovraffollamento delle carceri e sarebbe propedeutico alla riforma della giustizia e alle depenalizzazioni che i Radicali propongono al Paese con i 12 referendum. Asti: via al progetto “coltivare la libertà”, ortaggi freschi dei detenuti per la mensa sociale www.atnews.it, 11 settembre 2013 Oggi ad Asti, alla mensa sociale del Comune di corso Genova sono arrivate le prime ceste di verdura prodotta nell’orto coltivato dai detenuti del carcere di Quarto. Arriva così a buon fine il progetto “Coltivare la Libertà” creato con un accordo tra la civica amministrazione e l’istituto penitenziario. Su oltre un ettaro di terreno un gruppo di detenuti, per l’esattezza otto, da qualche mese coltivano ogni genere di ortaggi che in parte sono posti in vendita in un supermercato della città ed in parte ceduti gratuitamente alla mensa comunale. Il sindaco Fabrizio Brignolo e l’assessore all’assistenza Piero Vercelli hanno detto: “È un progetto utile ai detenuti perché ha una valenza rieducativa ed utile al Comune ed ai cittadini bisognosi, che fruiscono della nostra mensa”. L’impegno dei detenuti che frequentano un apposito corso di specializzazione in agricoltura sarà ulteriormente ampliato con la creazione di un vigneto e la coltivazione di frumento. Busto Arsizio: un super-tribunale con un mini-carcere www.varesenews.it, 11 settembre 2013 La riforma Severino che ha accorpato i tribunali di Legnano e Rho (800 arresti l’anno) a Busto non ha previsto che il carcere di via per Cassano è già ben oltre la capienza massima. Il direttore: “Vicini ad una soluzione”. L’allarme è già scattato da tempo per la casa circondariale di Busto Arsizio, le sue strutture sono stipate di detenuti e della questione era stata investita anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che aveva anche multato l’Italia per le condizioni in cui erano costretti a vivere i detenuti di via per Cassano. Ora il problema rischia di esplodere con l’accorpamento delle sezioni staccate di Rho e Legnano a Busto Arsizio, un bacino d’utenza di 500 mila cittadini suddivisi in 42 comuni che orbitano nell’area dell’Alto Milanese con un tasso di arresti che è di circa 800 l’anno. La paura, esternata dal Procuratore di Busto Arsizio Gianluigi Fontana (a sin.) e dal direttore del carcere Orazio Sorrentini, è quella che l’attuale struttura carceraria che ospita già il doppio dei detenuti previsti non possa reggere l’urto degli arresti che dal 13 settembre di quest’anno - a norma di legge - dovrebbero essere rinchiusi nel carcere bustocco. La preoccupazione di Fontana e quella di Sorrentini è del tutto giustificata ed ecco che nei giorni scorsisi sono attivati entrambi per sensibilizzare il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il provveditore affinché, fino a quando non si troverà una soluzione per l’ampliamento del carcere di Busto Arsizio (attualmente nemmeno in discussione dalle parti del Ministreo di Grazia e Giustizia, ndr), gli arrestati che dal 13 settembre dovrebbero essere detenuti nel carcere bustocco vengano accolti in altre strutture. Dopo qualche giorno di apprensione per una risposta che sarebbe dovuta arrivare in tempi rapidi è notizia di oggi, mercoledì, che il provveditore ha dato seguito alla richiesta di Sorrentini e Fontana. È lo stesso direttore a dare la buona notizia: “Sono stato informato da una collega presso il dipartimento che il provveditore ha preso in considerazione la nostra richiesta - ha dichiarato il direttore del carcere - gli arrestati delle nuove aree di competenza del Tribunale di Busto Arsizio andranno nelle strutture di Milano e Monza”. Naturalmente la decisione tampone dovrà essere ratificata anche da Roma ma, essendo una questione locale, basta al momento l’assenso del provveditore per fare in modo che non si crei una situazione che potrebbe avere riflessi nazionali e, nuovamente, internazionali. Come detto il carcere di Busto Arsizio è già balzato agli onori delle cronache per la sua situazione di sovraffollamento con la condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a risarcire alcuni detenuti che avevano presentato l’istanza a Strasburgo. Certamente la riforma Severino, calata dall’alto come una mannaia, sta creano non pochi problemi di attuazione a cascata su uno dei punti giustizia che funzionava meglio in Italia. Nelle settimane scorse abbiamo analizzato la situazione dal punto di vista della Procura della Repubblica, con la cronica mancanza di personale amministrativo e di magistrati, oltre che di spazi per la realizzazione di nuovi uffici a fronte di un ricarico di lavoro da oltre 10 mila fascicoli che creerà un vero e proprio ingorgo con il rischio che i magistrati non potranno fare altro che smaltire l’ordinaria amministrazione e i soli reati più gravi come l’omicidio e la violenza sessuale. Stesso dicasi per il tribunale che vedrà aumentare a dismisura il numero di procedimenti da giudicare con un inevitabile allungamento dei tempi di attesa per arrivare a sentenza. L’Aquila: Sulmona “radicale”, raccolta di firme su giustizia e carceri di Marco Sette www.abruzzoindependent.it, 11 settembre 2013 Bottino di 107 sottoscrizioni su temi dei referendum e diritti umani. Il lavoro della Pelino pro-Berlusconi nella Città di Ovidio. Un bottino di ben 107 firme sui quesiti in materia di giustizia e 101 sui restanti, riguardanti i diritti civili. È questo il risultato della giornata di raccolta firme svoltasi domenica a Sulmona su iniziativa del Pdl locale insieme a Liana Moca, coordinatrice provinciale dell’UAAR de L’Aquila, e dei radicali abruzzesi. Il capoluogo ovidiano è particolarmente sensibile a queste iniziative data la presenza di un penitenziario “caldo” come il carcere di via Lamaccio, che non solo in passato ha ospitato detenuti illustri (uno su tutti l’ex governatore Ottaviano Del Turco) ma è stato purtroppo anche teatro di alcuni suicidi. Complice il fatto che alcuni di questi referendum sono stati sottoscritti anche da Silvio Berlusconi su richiesta diretta di Marco Pannella, a Sulmona è scesa direttamente in campo Paola Pelino, che come noto è una delle più accese sostenitrici dell’ex premier. Ed è proprio alla senatrice del Pdl che Moca rivolge un ringraziamento “per la disponibilità mostrata con la propria presenza al tavolo di raccolta firme e per l’impegno profuso nell’organizzazione di questa giornata di mobilitazione”. Liana Moca ha poi sottolineato come sia “significativo che i cittadini abbiano sottoscritto in misura pressoché equivalente tanto i quesiti sulla Giustizia che quelli riguardanti i Diritti Civili, a testimonianza del fatto che permane un apprezzamento importante verso gli istituti di democrazia diretta che consentono ai cittadini di ‘conoscere per deliberarè, saltando o quantomeno limitando il filtro della politica che troppo spesso si è dimostrata incapace di interpretare le istanze della società”. In realtà, i pannelliani in queste settimane sono letteralmente scatenati: “Analogo riscontro - spiega ancora Moca - lo abbiamo avuto in occasione della raccolta firme sulla presentazione della proposta di legge di iniziativa popolare in materia di eutanasia sulla quale, sia noi dell’UAAR che gli amici radicali, non solo in Abruzzo, ci siamo spesi per 6 mesi”. Continua, dunque, la campagna di raccolta firme sui referendum dei Radicali che già durante il precedente fine settimana erano state sottoscritte a Sulmona, nonché a Penne, per iniziativa del coordinatore cittadino del Pdl Antonio Baldacchini, e a Montesilvano e Popoli, con i radicali abruzzesi in prima fila insieme al sindaco di Montesilvano, Attilio Di Mattia. In occasione degli appuntamenti di Popoli e Montesilvano, oltre ai referendum radicali è stato possibile firmare anche quello sull’abrogazione parziale della legge Merlin che vede personalmente impegnato il primo cittadino della città adriatica da diverse settimane. I Radicali abruzzesi ricordano che è possibile sottoscrivere i referendum presso tutti i Comuni della regione. È una battaglia, innanzitutto, di civiltà. Pavia: agenti di Torre del Gallo, via alla protesta a oltranza La Provincia Pavese, 11 settembre 2013 Protestano gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Torre del Gallo, dopo l’assemblea di venerdì sera i sindacati Cgil Fp, Cisl Fns, Uilpa, Sappe, Sinappe e Sippe hanno dichiarato lo stato di agitazione a oltranza. “La pianta organica prevista per il solo padiglione vecchio della casa circondariale di Pavia dovrebbe essere di 283 agenti, attualmente sono in organico 244 ma di questi circa 30 sono distaccati presso altri sedi - scrivono i sindacati - quelli effettivamente in servizio sono dunque solo 210 che con grande sacrificio e spirito di abnegazione, prestano servizio presso l’istituto e continuano a garantirne la sicurezza, ma operando in continua emergenza ai livelli minimi di sicurezza”. Da anni in ogni sezione lavora un solo agente alla volta, in media un agente ogni 75 detenuti, la situazione è destinata a peggiorare con l’apertura il 15 del nuovo padiglione e l’arrivo di altri 300 detenuti. “Attraverso il piano di mobilità e l’assegnazione dei neo agenti non e stato previsto nessun incremento d’organico e una situazione già critica rischia di diventare drammatica, mettendo a rischio i diritti più elementari come i riposi settimanali e le ferie”. I lavoratori protestano anche per “il silenzio assordante del direttore dell’istituto pavese, il quale, nonostante le richieste d’incontro per discutere della nuova organizzazione del lavoro, ha evitato il confronto con le rappresentanze dei lavoratori”. Da martedì e finché non sarà assicurato l’organico necessario ad aprire il nuovo padiglione applicheranno come prima forma di protesta l’astensione dalla mensa obbligatoria di servizio. Bari: favori ai boss in carcere, chiuse le indagini su sei agenti di polizia penitenziaria www.baritoday.it, 11 settembre 2013 I poliziotti coinvolti nelle indagini, in servizio a Bari e Taranto, sono accusati di favoreggiamento. Due di loro sono stati arrestati a giugno scorso insieme a due pregiudicati. Avrebbero favorito pregiudicati e affiliati a clan detenuti in carcere, introducendo droga, sigarette e altri oggetti vietati dal regolamento penitenziario, ricevendo in cambio denaro e regali. È la pesante accusa formulata dalla Procura di Bari che ha chiuso le indagini a carico di sei agenti di polizia penitenziaria in servizio nel capoluogo pugliese e a Taranto. Secondo i pm, gli indagati avrebbero “fornito un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo a noti pregiudicati” detenuti. Due dei poliziotti coinvolti nelle indagini - Giuseppe Altamura soprannominato “Cartellino Rosso” e Francesco De Noia detto “Franchin la Guardia” - sono stati arrestati il 21 giugno scorso, insieme con i due pregiudicati Vincenzo Zonno (figlio del boss Cosimo) e Nurce Kafilai. I due agenti rispondono di favoreggiamento personale con l’aggravante di aver favorito una associazione mafiosa, corruzione, detenzione e cessione di droga, oltre ad alcuni episodi di lesioni, minacce, ingiurie, calunnie e abbandono del luogo di servizio. Altamura, scrivono gli inquirenti, “attraverso i rapporti privilegiati ed esclusivi” con alcuni detenuti “si assicurava forte considerazione, protezione e rispetto anche da parte degli altri reclusi, tanto da essere considerato uno di loro o comunque tifoso del clan Strisciuglio”. Nell’inchiesta sono coinvolti anche altri quattro poliziotti, fra cui tre agenti con qualifica di assistente capo e un ispettore di Polizia Penitenziaria, accusati di favoreggiamento. Palermo: detenuto aggredisce tre agenti di polizia penitenziaria La Sicilia, 11 settembre 2013 Un detenuto ha aggredito tre agenti della polizia penitenziaria all’interno del carcere palermitano dell’Ucciardone. L’ennesima aggressione in un penitenziario siciliano, ai danni del personale di vigilanza, si è verificata ieri mattina. Il detenuto ha colpito tre poliziotti tra cui uno sovrintendente, causando ferite tali da richiedere il trasporto in ospedale. A rendere nota l’aggressione tra i padiglioni del vetusto carcere borbonico è stata la Fns Sicilia, la federazione Cisl che rappresenta vigili del fuoco, polizia penitenziaria e corpo forestale. Il sindacato ha sottolineato la “drammatica situazione” che si è venuta a creare ieri all’Ucciardone. Per Domenico Ballotta, segretario generale della Fns Sicilia, “il fatto era nell’aria” perché “le condizioni in cui versano le strutture carcerarie dell’Isola sono ormai insopportabili sotto il profilo igienico-sanitario e quotidianamente si registrano aggressioni al personale, risse, suicidi, atti d’autolesionismo e quest’ultimo episodio che ancora una volta denota che il nostro sistema rasenta caratteristiche d’inciviltà”. Pertanto “la Fns Sicilia si riserva - ha proseguito Ballotta - di mettere in atto qualsiasi iniziativa affinché il personale dei penitenziari siciliani possa lavorare con la serenità che il delicato compito richiede”. Ma non è soltanto la Fns Cisl Sicilia che lancia l’appello perché si adottino provvedimenti adeguati per rendere sicure le carceri siciliane. A più riprese la Cgil e la Uil-penitenziari hanno fatto sentire, forte, la voce dei rispettivi organi sindacali alla luce delle aggressioni che si sono verificate, dall’inizio dell’anno, negli istituti di pena siciliani. Il sovraffollamento sarebbe alla base di alcune delle violente manifestazioni ascritte ai detenuti. L’organico insufficiente, infatti, rischia di far precipitare la situazione in alcuni istituti. Cagliari: il 22 settembre il Papa, in visita alla città, incontra anche i detenuti Asca, 11 settembre 2013 Una giornata piena di impegni insieme ai poveri, i detenuti, i lavoratori e i giovani sardi. È il programma di papa Francesco per domenica 22 settembre giorno della visita a Cagliari. Il pontefice partirà dall’aeroporto di Roma Ciampino alle 7:30 per arrivare verso le 8:15 all’aeroporto Mario Mameli di Cagliari Elmas. Subito dopo il papa incontra alcuni lavoratori in Largo Carlo Felice di Cagliari, dove è previsto un suo discorso. Alle 9:45 la tabella di marcia prevede il saluto delle Autorità nel Piazzale antistante il Santuario di Nostra Signora di Bonaria di Cagliari e il saluto dei malati nella Basilica di Nostra Signora di Bonaria. Alle 10:30 Francesco celebrerà la messa nel Piazzale antistante il Santuario di Nostra Signora di Bonaria di Cagliari per poi recitare l’Angelus. Alle ore 13 è invece previsto un pranzo con i Vescovi della Sardegna nel Pontificio Seminario Regionale. Nel pomeriggio verso le 15 il papa incontra i poveri e i detenuti nella Cattedrale di Cagliari, dove è previsto un suo discorso. Subito dopo il pontefice incontra il mondo della cultura nell’Aula Magna della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna a Cagliari. Alle 17 è atteso l’incontro con i giovani al termine dell’evento “Getta le tue reti” in Largo Carlo Felice. Anche qui il pontefice terrà un discorso. La partenza del pontefice è prevista alle 18:30 dall’aeroporto Mario Mameli di Cagliari Elmas per l’aeroporto di Roma Ciampino. Alle 19:30 papa Francesco farà ritorno in Vaticano. Verona: due iniziative per i detenuti promosse dall’Associazione MicroCosmo Onlus Ristretti Orizzonti, 11 settembre 2013 XIX Film Festival della Lessinia e carcere Possiamo ormai spegnere le prime tre candeline per questo progetto che ha preso vita tre anni fa e che di anno in anno cresce un po’ di più. L’associazione MicroCosmo collabora con il Film Festival della Lessinia coordinando una Giuria Speciale dei detenuti dal carcere di Verona, curando in carcere le proiezioni di tutti i film iscritti al Concorso Internazionale. La rassegna giunta alla XIX edizione si snoda in Lessinia, a Bosco Chiesanuova, nell’arco di una decina di giorni, fra proiezioni di film, cortometraggi, film d’animazione, concerti, incontri tematici, con una libreria del festival sui temi della montagna e un’osteria di assaggio dei prodotti tipici. In questo contesto per la prima volta lo staff operativo del Festival ha potuto avvalersi del supporto di cinque persone intervenute grazie all’Ufficio Esecuzione Penale Esterna per un impegno risarcitorio nei confronti della collettività. Questo evento segna un passaggio significativo nell’obiettivo di sensibilizzare la comunità locale rispetto al sostegno e al reinserimento di persone in esecuzione penale. Anche il direttore del carcere veronese ha promosso la partecipazione allo staff da parte di sette detenuti con l’art. 21: complessivamente 12 persone dal circuito penale hanno goduto dell’iniziativa culturale che si svolge ad una quarantina di chilometri a nord della città in zona montana. Il direttore del carcere Mariagrazia Bregoli ha colto anche l’occasione per far conoscere alcuni prodotti da forno preparati dai detenuti e alcuni dolci curati dalla sezione femminile per la serata conclusiva delle premiazioni avvenuta il 31 agosto 2013. Erano presenti, oltre alla nutrita platea e alla stampa, numerosi registi di vari paesi che hanno assistito alla comunicazione del film premiato dai detenuti attraverso una videoregistrazione tenuta in carcere nella quale i componenti della Giuria hanno spiegato le motivazioni alla scelta. Il premio speciale preparato con materiale d’uso in carcere è stato consegnato da un marocchino ora in libertà. Il film Histórias que só exsistem quando lembradas (Storie che esistono solo se ricordate), girato da Julia Murat, una giovane regista brasiliana, ha riscosso l’interesse della giuria con le seguenti motivazioni: “Tempo senza tempo, dimensione sospesa: persone prigioniere di un sogno immobile dove il dolore assopisce nella ripetitività, nel ritmico moto perpetuo. L’inaspettato rompe lo schema e riapre al sorriso, alle emozioni, alla vita che in sé accoglie naturalmente anche la morte. Nel carcere viviamo un tempo chiuso, un sospeso, ma sotto qualche forma si presenta l’occasione per sferzare l’immobilità dell’animo, per non arrenderci ad un destino ‘automatico’. Julia Murat nel suo film parla anche di noi, ci invita a riprendere la linea del viaggio, il binario del tempo dell’esperienza, oltre la vuota ripetizione di gesti e di parole, accogliendo e aprendoci all’incontro con gli altri, anche donando qualcosa di noi in uno scambio che ci traduce tutti da individui in comunità. “ Cresce con l’esperienza della Giuria l’attenzione al carcere, apportando di anno in anno uno spazio in più di visibilità e di partecipazione. Quello della giuria è uno dei momenti previsti nel più ampio progetto “La montagna dentro” nel quale è inserita come fulcro attorno al quale si sviluppano altre opportunità. Grazie ad un libro ‘incontrato’ nella libreria del festival, “In su e in sé”, Giuseppe Saglio, psichiatra coordinatore di un centro di salute mentale di Vercelli nonché appassionato di antropologia del territorio e della montagna, invitato a venire in carcere per questo progetto, ha aperto a riflessioni intime e profonde sulla natura umana smuovendo ad ulteriori approfondimenti che spaziano dalla simbologia della montagna al tema abbinato al festival in quest’ultima edizione riguardante il fiume. I detenuti hanno anche incontrato i registi del film da loro premiato nella scorsa edizione: Fulvio Mariani e Mario Casella proiettando il film Vite tra i vulcani ad una platea ampia di detenuti e di studenti intervenuti dalle scuole del territorio, con un dialogo intenso ed un appassionante scambio di esperienze. Nei prossimi mesi seguiranno altre programmazioni di eventi nell’ambito dello stesso progetto. Contemporaneamente, come costante nelle progettualità di MicroCosmo, proseguono la scrittura autobiografica, il recupero delle memorie e gli approfondimenti tematici attivati dagli incontri e nelle esperienze in corso. “L’in-canto” nel cortile di un carcere, un incontro estivo di tè al sapore di poesia Settimana febbrile quella d’inizio luglio alla sezione femminile del carcere di Verona, ma non si tratta solo di temperatura esterna, amplificata nell’attività di preparazione di un nuovo inedito evento. Percorrendo il corridoio della sezione femminile, nell’area destinata alle attività comuni, passando per l’aula scolastica si accede ad una porta a vetri che dà su una specie di cubo in cemento cui manca solo il soffitto. Questo spazio grigio, mai utilizzato, riflettente la calura estiva, senza ombra alcuna - impossibile resistervi in questi giorni - all’improvviso si accende di vita. Cominciano ad inserirvisi dei lunghi teli bianchi tesi tra il cemento e il cielo, a riempirsi di aria e a svuotarsi, a fluttuare al movimento del vento, delle bianche vele, un gazebo improvvisato; e poi dei tavolini sotto, delle sedie, e tovaglie, piattini tazze da tè e pasticcini preparati dalle detenute. Intorno e in mezzo, delle piante verdi. Muovendo lo sguardo intorno, alle pareti cementate, degli scorci di mediterraneo, paesaggi dipinti dalle donne detenute, come finestre sull’estate. Anche le vecchie lenzuola sono rinate a nuova vita, ora come tende ora come dipinti. Dalle finestre della cucina sovrastante, profumo di dolce, aromi di casa. Arriva un carrello, di quelli in uso al porta vitto, e sopra: torte, teiere, vassoi, sospinto da una esperta cameriera in livrea, di quelle professionali, da catering, collettino nero su veste bianca. Pian piano si accomodano ai tavoli invitate di ‘dentro’ e invitati di ‘fuori’. Sembra tutto naturale ma qualcuno invece si è preparato con impegno e ora affronta un’altra piccola prova: leggere ad alta voce poesie in pubblico. Sì, sembra banale, semplice. Ma non è così. Grande impegno negli incontri di preparazione. La cura della pronuncia, la lettura significativa, gestire l’emozione, mantenere un ritmo, il volume e il tono di voce…. un entusiasmante laboratorio per accompagnare i presenti oltre il grigio, oltre il caldo insopportabile, oltre le mura di cinta e, soprattutto, oltre i pesanti pensieri, le difficoltà, le preoccupazioni. Insieme a costruire uno spazio liberato, così come affermava Giorgio Gaber, ricordato da Sandra: “la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”. Niente di più attuale in queste due ore di poesia. Sedute sparse tra i diversi tavoli, mescolate agli invitati esterni e alle partecipanti detenute, intonavano le voci per un canto unico. A volte in liriche solitarie, a volte in letture corali. Si sono alternate le poesie in una scaletta pensata e costruita sullo scandire di momenti dal pomeriggio alla notte. Ogni tanto affiora infatti una specie di cartolina, tratta da “Ventiquattro ore per sempre” di Odisseas Elitis; a segnare lo scorrere del tempo. Tra una cartolina e l’altra si inseriscono le voci, nuove visioni, altre immagini. E un poeta pensieroso, da “Esca per nessuno!”, ogni tanto dice la sua, sulla poesia e sui poeti. Tutto è iniziato con “Poesia” di Riccardo Cocciante, la famosa canzone che tutti ricordano con Patty Pravo. Sarà la stessa canzone, recitata e poi cantata, a concludere l’incontro. Fra le tante poesie, anche qualche testo di canzone: per ricordare Arisa, venuta un’estate fa ad incontrare e a cantare per i detenuti, non poteva mancare il bellissimo testo de “Il tempo che verrà” così sentito quando dice: “ pensando al mio passato e a quello che ho sbagliato io mi riprendo questa vita e le occasioni che mi dà… se mai farò un bilancio di questo lungo viaggio quello che spero è di aver donato un po’ di me”. E ancora, tra le canzoni, di Ivano Fossati “La costruzione di un amore”. Gli invitati hanno contribuito con altre proposte, ed è stato un ritmo incessante, pacato e di grande ascolto, un susseguirsi di proposte, tra le quali tre liriche di una giovane donna detenuta. Scrive Antonella: “..vecchio diario…scalfisco la tua pagina con la cura di uno scultore. La memoria. Questa traccia furtiva effimera mi insegna lentamente ma in modo sicuro il gusto dell’immortalità”. E ancora: “Come l’acqua nel profondo trovo il cambiamento. Adesso…come l’acqua sono confinata ma perché come l’acqua devo essere salvata”. Sorseggiando un tè sotto quelle tende fatte di lenzuolo, il sapore del tempo, così intenso, come tutte le esperienze belle è scivolato via, con la leggerezza dei momenti in cui si sta bene, e quando è ora di andare via, di uscire da quello spazio, da quella dimensione, per tornare in cella, qualcosa rimane per sempre: il piacere della partecipazione, della condivisione, un ricordo di pace, sui quali si costruisce un sentire di appartenenza; anche se può sembrare inconsistente, impalpabile, struttura invece la propria identità e offre rifugio nei momenti più tristi. E la poesia vivifica il dettaglio e lo rende universale, acuisce la sensibilità nel cogliere con commozione l’universo in sé. Ecco dunque cosa è stato il tè al sapore di poesia: un incanto nel’canto’, insieme. Nella tirannia dell’ognun per sé così dilagante di questi tempi, una vera piccola, piccolissima, commovente rivoluzione. Da un’idea di Mariagrazia Bregoli, direttore del carcere di Verona, che promuove e sostiene la partecipazione attiva delle persone detenute e le iniziative che creano esperienza comune con persone dal/verso il territorio, con l’instancabile staff dell’associazione MicroCosmo Onlus che ne ha curato la progettazione e la realizzazione è nato “l’in-canto” nel cortile di un carcere alla sezione femminile. Immigrazione: Manconi; il Cie di Gradisca d’Isonzo tra i peggiori d’Italia di Luigi Murciano Il Piccolo, 11 settembre 2013 Il presidente della Commissione diritti umani del Senato Manconi in visita all’ex Polonio. Pressing sul governo per la chiusura. “Il Cie di Gradisca, in queste condizioni, va chiuso. Se sinora il problema non è stato affrontato e governato è anche per una gravissima sottovalutazione da parte delle autorità statuali”. Non ha badato troppo ai giri di parole il parlamentare Pd Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato. Manconi e alcuni membri della commissione ieri hanno visitato la struttura di Gradisca accompagnati dal prefetto e dal questore di Gorizia, dai parlamentari Serena Pellegrino e Francesco Russo, dall’assessore provinciale Ilaria Cecot, e infine da delegati di varie associazioni e movimenti, tra cui Tenda per la pace, Asg e A buon diritto. “Oggi al Cie di Gradisca ci sono 44 persone che vivono in gabbia peggio dei carcerati. È illegale, qualcosa di indegno per un Paese civile. Non dimentichiamoci che una persona è tuttora in coma per avere cercato di sfuggire ad una situazione inumana. Un fatto che deve interrogarci e che da solo dovrebbe aprire una crisi istituzionale su questi temi” ha affermato Manconi, sostenendo che “i Cie sono in generale strumenti gravemente deficitari per la tutela dei diritti umani, inefficaci rispetto il raggiungimento dei loro obiettivi, e inutilmente dispendiosi. E quello di Gradisca - ha dichiarato Manconi, che ha successivamente incontrato la giunta comunale della cittadina isontina - è in condizioni più critiche di altri che ho visitato”. Secondo il senatore Pd la Commissione “deve discutere l’intero sistema dei Cie, che va riformato. Intendo sostenere una mozione per far chiudere il Cie di Gradisca. Sostengo e condivido la richiesta elaborata dal governatore della Regione Serracchiani e dal sindaco Tommasini”. Manconi ha invece esortato a fare “un distinguo tra Cie e Cara” nel dibattito attorno all’ex caserma Polonio. “La prossimità è un grave limite ed un errore, ma la struttura per richiedenti asilo presenta problematiche che, seppure impattino sulla cittadina di Gradisca, sono risolvibili. Apprezzo l’atteggiamento del sindaco e dei suoi concittadini che mai hanno dato vita a sterili invettive dimostrando grande civiltà e senso di responsabilità”. Il tutto mentre a pochi chilometri di distanza il ministro della Difesa, Mario Mauro (Pdl) sul tema tagliava corto: “Non sono qui per parlare del Cie”. Soddisfatto il commento sulla visita ispettiva di ieri da parte di Serena Pellegrino: “Manconi ha rilevato esattamente quanto avevo denunciato un mese fa: tutela dei diritti civili e principi umanitari non stanno di casa al Cie di Gradisca. La struttura così com’è va chiusa, a tutela delle persone trattenute e di tutti coloro che per ragioni di lavoro varcano i cancelli dei centri. L’intero sistema va ripensato”. Repubblica Dominicana: detenuto italiano inizia sciopero della fame www.italiachiamaitalia.it, 11 settembre 2013 Malato, ha bisogno di cure e medicine. L’appello di Italia Chiama Italia all’Ambasciata d’Italia e al Comites di Santo Domingo. Un italiano di 61 anni, detenuto nel carcere di Najayo, a San Cristobal, località alle porte della capitale della Repubblica Dominicana, ha deciso di iniziare uno sciopero della fame come “unica forma di protesta nei confronti dell’ambasciata italiana di Santo Domingo”, la quale non garantirebbe al nostro connazionale “sufficiente assistenza medica e i prodotti di prima necessità”. A denunciarlo, tramite una lettera inviata alla nostra redazione - e, in copia, anche all’ambasciata d’Italia e al presidente del Comites di Santo Domingo, Ermanno Filosa - è un amico del connazionale detenuto. A trovarsi dietro le sbarre è Ambrogio Semeghini, il quale sta molto male: secondo quanto racconta chi lo ha potuto visitare di recente, sta perdendo la cornea dell’occhio destro a causa di una grave malattia, oltre a soffrire di crisi respiratorie. Per evitare che le proprie condizioni di salute peggiorino, Ambrogio ha bisogno di cure e di medicine, che tuttavia non arrivano o arrivano in maniera sporadica e insufficiente. A dire la verità, l’ambasciata italiana di Santo Domingo ha dimostrato interesse verso le condizioni di salute dell’italiano, chiedendo alle autorità del carcere quali fossero le sue reali condizioni di salute. Non sappiamo, tuttavia, al momento, quali siano state le decisioni della nostra sede diplomatica per quanto riguarda il caso Semeghini. Chi di recente ha visitato Ambrogio in prigione afferma che sta molto male e che uno sciopero della fame non farebbe altro che peggiorare la situazione. Italia Chiama Italia, attraverso le proprie pagine, insieme al Maie Rd - il Movimento Associativo Italiani all’Estero, presente anche nella Repubblica Dominicana, rivolge un appello all’ambasciata d’Italia e al Comites di Santo Domingo: fate qualcosa. Non abbandonate Ambrogio al proprio destino. Si sarà anche macchiato di colpe tali da meritare la prigione, ma la galera non può essere una condanna a morte. Stati Uniti: in Oklahoma eseguita condanna a morte per omicidio, è quarta del 2013 La Presse, 11 settembre 2013 Le autorità dello Stato americano dell’Oklahoma hanno eseguito la pena di morte nei confronti di Anthony Rozelle Banks, condannato per l’uccisione di una cittadina coreana di 25 anni nel 1979. Il 61enne Banks ha ricevuto un’iniezione letale nel carcere statale di McAlester. Si tratta del quarto detenuto giustiziato dall’inizio dell’anno in Oklahoma. Quando fu condannato a morte, Banks stava già scontando l’ergastolo per il suo coinvolgimento nell’omicidio di un negoziante a Tulsa nel 1978 durante una rapina a mano armata. Israele: ex spia Mossad si uccise in carcere, governo risarcirà famiglia La Presse, 11 settembre 2013 Israele pagherà 4 milioni di shekel (846mila euro) alla famiglia di Ben Zygier, cittadino israelo-australiano che si suicidò in carcere dopo aver lavorato per l’agenzia dell’intelligence Mossad. Lo ha annunciato il ministero della Giustizia israeliano. Zygier fu arrestato dalle autorità dello Stato ebraico nel 2010 e si impiccò alcuni mesi dopo nella sua cella in un carcere di massima sicurezza, dove era detenuto segretamente. I media australiani hanno sostenuto successivamente che l’uomo fosse una spia israeliana arrestata per accuse relative alla sicurezza. Il risarcimento, ha fatto sapere il ministero in una nota, è conseguenza di negoziati durante i quali i familiari di Zygier hanno accusato le autorità israeliane di “negligenza” nella gestione del caso.