Giustizia: le firme dei referendum ci sono, ma nel nuovo clima chi combatterà? Il Foglio, 5 ottobre 2013 Sono state depositate in Cassazione, qualche giorno fa, le 532 mila firme a sostegno dei sei referendum radicali sulla giustizia: due sulla responsabilità civile dei magistrati, uno per l’abolizione dell’ergastolo, uno sui magistrati fuori ruolo, uno contro l’abuso della custodia cautelare e uno per la separazione delle carriere. Altri sei quesiti, invece, non hanno raccolto il numero di firme necessario. Le elezioni sono più lontane, e i referendum potrebbero (condizionale d’obbligo) arrivare. Nel frattempo, però, il contesto è cambiato: l’abbandono della difesa intransigente, motivata dalla ghigliottina giudiziaria che per vent’anni ha inseguito Silvio Berlusconi e l’ha infine raggiunto, da parte del Pdl, la rottura sfiorata o consumata, le larghe intese rafforzate. La grande battaglia sulla giustizia rischia di passare in secondo piano, dopo la defenestrazione dell’Arcinemico e nel nuovo clima concordista. Sarebbe un errore e un peccato, se i referendum promossi da Marco Pannella e infine votati pubblicamente non solo dal Cav., ma anche dai “diversamente berlusconiani”, con molte lodi e dichiarazioni d’intenti, finissero dimenticati, sottovalutati e infine triturati nel clima di appeasement che rende la riforma della giustizia meno utile come materia di scontro. E però rimane l’urgenza sostanziale, quella di una riforma che bilanci quel potere con responsabilità altrettanto ampie. Qualcuno, nel Pdl variabile e nel Pd tiepido, anzi decisamente ignavo nella battaglia sulla giustizia giusta che pure dovrebbe nominalmente appartenergli, vorrà prendersi carico del compito? Come scriveva a fine estate Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, un potere forte e unito, la magistratura, non si lascerà mai riformare da un potere debole e diviso, la politica. Perché si possa arrivare alla riforma, il mandato popolare dev’essere inequivocabile. La consegna delle firme è un primo passo, dopo ci vuole la volontà di non affossare. Il Cav. aveva mostrato anche plasticamente il suo appoggio alla causa, seppure tardivamente, facendosi fotografare al momento della firma dei referendum accanto al vecchio leone Pannella. Ora dovrebbe tenere a mente il senso di quella che era stata presentata come una grande battaglia civile, “l’ultimo treno” da prendere per la riforma della giustizia, come scriveva Guido Vitiello su questo giornale, chiamandolo “l’unico salvacondotto che conti per l’Italia”. Giustizia: da Agrigento a Udine, le 40 galere costruite, inaugurate e mai utilizzate Maurizio Gallo Il Tempo, 5 ottobre 2013 Li hanno battezzati “carceri fantasma”. Costruiti, inaugurati e mai utilizzati. Aperti e sfruttati solo in parte. Dismessi. Demoliti. Sono tanti, da Nord a Sud. Rappresentano uno spreco di denaro pubblico e di spazio in un Paese dove la maggior parte dei penitenziari sono sovraffollati e i detenuti, insieme con gli agenti che li controllano, vivono in condizioni al limite della sopportabilità. La “regina” di questo cattivo esempio di amministrazione è la Puglia. Nel Barese c’è Minervino Murge, mai entrata in funzione e mai completata, e Casamassima, che è stata chiusa. A Monopoli, dove gli sfrattati avevano trovato un tetto nelle celle, la prigione è stata dismessa. Poi ci sono le case mandamentali (dove finiscono galeotti con pene brevi o in semilibertà) di Volturara Appula (45 posti previsti, incompiuta e mai utilizzata) e Castelnuovo di Dauna, arredato da 17 anni, mai aperto. Sempre nel Foggiano altri tre casi: Accadia (consegnato nel ‘93 e poi passato al Comune), Bovino (struttura da 120 posti chiusa da sempre) e Orsara. Per non parlare di Francavilla Fontana, usato per un pò e poi adibito a sede della polizia municipale, e Spinazzola, che aveva 40 detenuti, ne avrebbe potuti ospitare cento perché due sezioni erano inutilizzate e un paio di anni fa è stato chiuso. In Calabria non va meglio. Oltre a Mileto, ci sono Cropani, Squillace (ristrutturato e mai aperto) e le mandamentali soppresse di Arena, Soriano Calabro, Petilia Policastro e Cropalati, convertito in legnaia. Sempre calabrese è il supercare di Palmi, che però ha bisogno di una ristrutturazione perché fatiscente. In Sicilia è stato finalmente aperto il carcere di Gela (60 detenuti) ma a Villalba (Caltanissetta) c’è una prigione per 140 persone inaugurata vent’anni orsono che è costata 8 miliardi di lire e non ha mai dischiuso i battenti. Ad Agrigento i lavori di costruzione di un padiglione di quattro piani, che poteva accogliere 300 persone, sono fermi da un anno e mezzo perché l’azienda costruttrice è fallita: lo Stato non pagava. Saliamo in Campania. Gragnano è stato dismesso per un problema geologico. Dismissione anche per Frigento. Morcone, vicino Benevento, è pronto ma non apre. In Abruzzo il carcere di San Valentino è stato trasformato dal Comune in una struttura di accoglienza per turisti. Eccoci in Toscana, dove a Pescia il ministero ha soppresso la casa mandamentale. Il Barcaglione di Ancona, nelle Marche, di posti ne ha 180. Ma i detenuti sono 100 perché non è stato ancora “potenziato”. Salendo ancora di più arriviano a Udine, dove da anni è stata eliminata la sezione femminile. E a Gorizia, dove è inagibile un intero piano della prigione. A Pisa i lavori del nuovo padiglione in costruzione sono bloccati: la ditta è in amministrazione controllata. In Umbria il centro clinico di Capanne è inutilizzato e, a Terni, non c’è personale di polizia per attivare un padiglione da 300 posti pronto da aprile. A Pinerolo, in Piemonte, carcere chiuso da 16 anni. In Emilia Romagna gli esempi non mancano: nel Ferrarese c’è Codigoro, che è chiuso. Al Dozza di Bologna era stato espropriato un terreno vicino al penitenziario per costruire un centro sportivo a disposizione degli agenti della penitenziaria. L’area è stata recintata ed è stato fatto lo spogliatoio. Poi i lavori si sono fermati e ora lo spazio è diventato rifugio di sbandati e senzatetto. Il tutto è costato tre milioni e mezzo di euro. A Forlì sono state gettate le fondamenta per una prigione da 400 posti. L’opera doveva essere finita due anni fa, poi la ditta edile è fallita e nel sottosuolo sono stati trovati reperti archeologici. Quindi tutto fermo, in attesa di una nuova gara d’appalto. Giustizia: carcere Regina Coeli fatiscente, insalubre, inumano e sovraffollato… va chiuso Maurizio Gallo Il Tempo, 5 ottobre 2013 via della Lungara ci sono il doppio dei detenuti previsti. Fuori i turisti passeggiano allegri lungo le “pittoresche” strade di Trastevere. Ma “dentro”, in via della Lungara, è “un inferno per vivi”, come il segretario del Sappe Donato Capece definisce il carcere di Regina Coeli, uno dei più vetusti, malandati e antieconomici di tutta la Penisola. Un penitenziario che in un paese civile sarebbe già chiuso da tempo. Sorto dove c’era un convento seicentesco, il penitenziario giudiziale il 31 agosto ospitava 1052 detenuti. Gli agenti in servizio, che condividono lo squallido ambiente dei galeotti e assorbono la tensione causata dal sovraffollamento e dalle condizioni inumane della struttura, sono 481 sui 623 previsti. Non solo. Di notte ce ne sono al massimo 25 e non ce la fanno a tenere sotto controllo tutti gli otto reparti. La capienza prevista, invece, è di 580 persone, un pò più della metà di quelle presenti. Tanto è vero che ogni mese viene praticato il cosiddetto “sfollamento”, cioè una parte degli “ospiti” vengono trasferiti in altre strutture della regione. Ma si tratta di un palliativo, una misura-tampone che non risolve nulla. La situazione è insostenibile, anche se la posizione centrale della struttura è comoda i magistrati e per gli stessi agenti. La prigione di via della Lungara, inoltre, è una sorta di melting pot promiscuo. In molte delle sue sezioni convivono fianco a fianco detenuti con posizioni giuridiche diverse, imputati insieme con i condannati, e condannati a pene superiori ai vent’anni che non dovrebbero stare lì. Per non parlare delle etnie. Alcuni galeotti stranieri non parlano neanche la lingua madre ma un dialetto incomprensibile e, di conseguenza, per gli agenti della penitenziaria (che non hanno mai potuto usufruire neanche di un corso di inglese) è praticamente impossibile comunicare con loro. Il 30 giugno scorso gli stranieri comunitari ed extra erano 588. Quasi tutti costretti a restare dietro le sbarre più di venti ore su ventiquattro, fatta eccezione per le due d’aria, non di rado suddivise in “turni” da 30 minuti a testa, e le due di “socialità” al chiuso. E pensare che L’Europa ci imporrebbe di far trascorrere ai detenuti otto ore al giorno fuori dalla cella. Il penitenziario è così pieno che una cella di quattro metri quadrati è occupata da sei persone e nell’ex saletta ricreativa vivono ben dieci prigionieri. Il “carcere dei romani” è costato dieci milioni di euro di ristrutturazione in dieci anni ed è soggetto a interventi continui di ordinaria manutenzione che costano altrettanto ogni dodici mesi. Il risultato non è confortante. Anzi. A parte qualche eccezione, come la sezione “Nuovi giunti” (dove si aspetta il trasferimento nei reparti), la struttura è vecchia, cadente, insalubre e, come si dice oggi, estremamente “degradata”. Il direttore è a mezzo servizio e passa la maggior parte del tempo a Rebibbia. E, ricorda sempre il segretario del sindacato degli agenti di penitenziaria Capece, “il centro clinico ha due sale operatorie pagate anche quelle milioni di euro e mai utilizzate”. Uno spreco, uno sfacelo, una prigione inutile, se non dannosa. Ma, allora, perché non chiuderla definitivamente? L’idea era già venuta alla fine dell’Ottocento, poi fu raccolta ai primi del Novecento da Mussolini, che nel 1936 fece stanziare fondi per costruire una nuova struttura nella zona di Boccea. Quindi tornò in auge quando venne edificata Rebibbia, aperta negli Anni Settanta. Ma poi, di rinvio in rinvio, non se ne fece più niente. Sarebbe ora di riesumarla e costruire un nuovo carcere dove alla condanna non si aggiunga la pena di una detenzione che viola ogni giorno i più elementari diritti umani. Giustizia: Regina Coeli, una prigione che era considerata già vecchia a fine Ottocento di Alessandro Camiz (Assegnista di ricerca Dip. La Sapienza) Il Tempo, 5 ottobre 2013 La storia del carcere di Regina Coeli è un episodio curioso dell’urbanistica romana: fu costruito al posto del quartiere residenziale previsto dal Piano Regolatore del 1873, in una posizione “fuori porta”, che in pochi anni sarebbe divenuta centralissima. Il progetto del Morgini utilizzava un tipo di edilizia carceraria in uso all’inizio del secolo XIX, costringendolo però nel recinto del monastero seicentesco di Regina Coeli. Il carcere nasceva in una posizione sbagliata, fuori dalle previsioni del Piano, utilizzando un modello architettonico già desueto per l’epoca. La dimensione ristretta delle celle, l’assenza di servizi igienici, lo scarso spazio per l’ora d’aria, l’alta densità dei detenuti e la posizione centrale resero subito la struttura inadeguata. Evidentemente la nuova capitale dello Stato sabaudo aveva bisogno di strumenti di repressione e Regina Coeli ne divenne un simbolo. Quaranta anni dopo, alla fine degli Anni ‘20, il governatorato di Roma affidò a Marcello Piacentini l’incarico di progettare al posto del carcere, considerato inadeguato e disumano, un arioso quartiere delle Accademie. Il progetto, di cui esiste un grande plastico dentro Palazzo Corsini, prevedeva un asse urbano da Piazza della Chiesa nuova fino alla sommità del Gianicolo, e alcune demolizioni sull’altra sponda del Tevere, tra vicolo della Moretta e via Giulia. Quel progetto venne inserito nel Piano Regolatore di Roma del 1931. Come spesso avviene in Italia, le previsioni furono attuate solo in parte: avviato lo sventramento lungo via Giulia, la demolizione del carcere rimase disattesa fino all’inizio della guerra. Arriviamo pertanto al dopoguerra e al completo oblio del problema. Da allora sono state fatte alcune modifiche, l’aggiunta di servizi igienici, la modificazione di alcune celle. Ma, nonostante tutto, il carcere continua a ospitare detenuti. Ormai fatiscente, con alcuni bracci inagibili e chiusi, l’edificio - già ritenuto disumano da un regime che non brillava per il rispetto dei diritti umani - è sopravvissuto alla guerra, alla lunga egemonia democristiana, alle giunte rosse di Roma, al centro sinistra di Craxi, al pentapartito, a Rutelli, ai Giubilei, a Veltroni e infine ad Alemanno. In questi anni sono passati al governo della città e del Paese tutti i partiti della prima e della seconda Repubblica, ma nessuno si è mai posto il problema umano e urbanistico di Regina Coeli. Speriamo che oggi l’amministrazione comunale decida, una volta per tutte, di chiudere definitivamente il carcere. Una volta spostati i detenuti in una nuova struttura, sono possibili diverse soluzioni: dal restauro dell’edificio, alla sua demolizione parziale o totale. È necessario però un progetto che continui il processo formativo del tessuto urbano, interrotto dalla costruzione della prigione, un intervento in grado di continuare la città storica - senza imitarla - attraverso il linguaggio contemporaneo dell’architettura. Il laboratorio di Lettura e Progetto dell’Architettura (LPA) della Sapienza, diretto da Giuseppe Strappa, da alcuni anni ha avviato una ricerca sul progetto di trasformazione del carcere: nella sede di Valle Giulia della Facoltà di Architettura è aperta al pubblico una piccola mostra delle ipotesi progettuali elaborate nell’ambito del Dottorato di ricerca in Architettura e Costruzione. Giustizia: l Pd si mobilita sull’emergenza carceri “va rivisto il sistema di custodia cautelare” Il Piccolo, 5 ottobre 2013 “La politica deve assumersi la responsabilità di affrontare l’emergenza carceri realizzando una riforma complessiva del sistema della pena: amnistia e indulto sono solo misure tampone e non risolvono il problema”. Lo ha affermato ieri a Udine il deputato Danilo Leva, responsabile del Forum giustizia del Pd nazionale, intervenendo durante il convegno sul sistema carcerario italiano organizzato dal Pd nazionale e dal Pd Fvg al centro culturale Paolino d’Aquileia, alla presenza di operatori del settore e associazioni. “Un convegno - ha sottolineato il segretario regionale del Pd Fvg Renzo Travanut - con cui il Pd apre a Udine un percorso di proposte e ragionamenti che attraverserà tutto il Paese, per poi approdare in Parlamento”. Secondo Leva “lo Stato ha da tempo rinunciato a rieducare i condannati, mettendo in campo politiche fallimentari che fanno scontare all’ Italia un livello di arretratezza altissimo. Serve una riforma strutturale: dopo l’approvazione della legge di stabilità - ha spiegato il deputato del Pd - chiederemo al Parlamento di aprire una sessione straordinaria per risolvere il problema del sovraffollamento dei penitenziari italiani. Porteremo le nostre proposte: riformare il sistema della custodia cautelare, perché è assurdo che il 40 per cento dei detenuti sia in attesa di giudizio, e rivedere le misure alternative. Ci sono migliaia di immigrati clandestini e tossicodipendenti che dovrebbero stare altrove: bisogna intervenire sulla Bossi- Fini e sulla Fini-Giovanardi”. Per il sindaco di Udine Furio Honsell “serve una seria riforma del sistema carcerario italiano e bisogna individuare nuovi e forti strumenti di coesione sociale. Noi abbiamo istituito a Udine il Garante per i detenuti, ma bisogna fare di più”. Durante l’incontro sono intervenuti anche il responsabile carceri del Forum giustizia del Pd nazionale Sandro Favi e il responsabile del Forum giustizia del Pd Fvg Riccardo Cattarini, che ha si è soffermato sulla questione del Cie di Gradisca: “Non è un carcere, ma, se possibile, è peggio. Almeno in carcere sai quando uscirai, al Cie non sai nemmeno quello”. Leva (Pd): amnistia sarebbe solo provvedimento tampone “L’amnistia oggi, fuori da un contesto di riforme, potrebbe risolversi in un provvedimento tampone che lascerebbe inalterato il problema dal giorno dopo”. Lo ha detto Danilo Leva, responsabile del Forum Giustizia del Pd, parlando a Udine a un convegno sul sistema carcerario. L’esponente del Pd ha ricordato come “È successo così anche con altri provvedimenti di clemenza adottati in passato”. Secondo Leva, “servono interventi strutturali: la riforma della custodia cautelare in primo luogo, abolire la ex Cirielli, intervenire sulla Bossi-Fini e infine sulla Bossi-Giovanardi. Si tratta di quattro interventi - ha concluso - che potrebbero rappresentare quattro modi di intervenire in maniera strutturale sul tema delle carceri nel nostro Paese”. Giustizia: Sottosegretario Berretta; grazie a decreto in pochi mesi dimezzati ingressi Ansa, 5 ottobre 2013 Il numero di ingressi in carcere è in calo, passando da “una media di circa 1.000 a mese, dato registrato nei primi sei mesi del 2013, a meno di 500 da quando è entrato in vigore il decreto legge sull’esecuzione della pena”. Lo afferma il sottosegretario Giuseppe Berretta, sottolineando che “gli ultimi dati del Dap confermano le previsioni del ministero della Giustizia sul buon funzionamento e sull’utilità del decreto legge”. “Un provvedimento - osserva Berretta - che va nella giusta direzione per ridurre l’emergenza del sovraffollamento delle carceri italiane e che in questi primi tre mesi è riuscito a dimezzare la media delle persone entrate in carcere”. “Il numero di ingressi in carcere a partire dai primi di luglio, data di entrata in vigore del decreto - rivela il sottosegretario - è costantemente diminuito. Nel primo mese di applicazione, dai primi di luglio ai primi di agosto, sono entrate in carcere circa 300 persone in meno rispetto al mese precedente, un ulteriore decremento si è registrato tra agosto e settembre, e negli ultimi venti giorni la cifra si è abbattuta a soli 329 nuovi ingressi”. Secondo Berretta avere “incentivato la detenzione domiciliare e l’inserimento lavorativo al posto del carcere per chi commette reati che non minano la sicurezza della collettività, stanno dando i primi frutti”. “Nessuno - conclude il sottosegretario alla Giustizia - pensa che questo provvedimento possa risolvere definitivamente il grave problema del sovraffollamento carcerario, ma è un bel passo in avanti verso il rispetto della dignità dei detenuti”. Giustizia: in Commissione al Senato attesa stretta finale per Ddl su pene non carcerarie Asca, 5 ottobre 2013 La Commissione Giustizia continua ad avere in primo piano il seguito della discussione sul Ddl di delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni per la sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili. Il testo, già approvato dai deputati, è stato connesso con il Ddl 110 di “Delega al Governo per la riforma del sistema sanzionatorio” in modo da trattare in maniera più organica la materia della riduzione del ricorso al carcere Sono stati discussi, e in gran parte respinti, numerosi emendamenti. Il relatore di maggioranza ha proposto ulteriori ritocchi dell’articolato e ieri è scaduto il termine per la presentazione di sub-emendamenti. La Commissione Giustizia ha anche proseguito e concluso, in seduta congiunta con la Affari Costituzionali, l’iter referente del testo unificato dei 4 Ddl relativi a ineleggibilità e incompatibilità dei magistrati. Giustizia: Ugl; bene il Dpcm che autorizza assunzioni, ma numeri ancora insufficienti Agenparl, 5 ottobre 2013 “Esprimiamo soddisfazione per l’atteso Dpcm di autorizzazione dell’assunzione di 337 vice ispettori e 217 agenti, ma siamo costretti a ribadire che si tratta ancora di numeri insufficienti per far fronte al carico di lavoro di chi opera nelle carceri”. Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, aggiungendo che “sottolineiamo ancora, come facciamo da tempo, la necessità di un incontro urgente con il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, per portare all’attenzione del Guardasigilli i problemi del corpo di polizia penitenziaria. “Di fronte all’intenzione di aumentare in breve tempo di oltre 3.000 posti la capienza delle carceri, aprendone di nuove o creando padiglioni in aggiunta in quelle già esistenti, alcuni numeri parlano chiaro: la media nazionale del rapporto tra numero di agenti e di detenuti è di 0,49, ovvero due detenuti per un agente, e ci sono delle carceri che vedono scendere questa cifra fino a toccare lo 0,27, come nel caso Velletri, o addirittura lo 0,25 a Poggioreale. Per far funzionare le nuove strutture servirebbero, dunque, 1.500 agenti in più rispetto all’attuale pianta organica”. “A ciò - prosegue - si aggiunge che è completamente assente un progetto di ripianamento dell’organico esistente, visto che ogni anno vanno in pensione oltre 1000 unità (di cui il 60% per motivi di salute) e ne viene reintegrato, in base ai tagli operati nelle manovre finanziarie, solo il 50%. Senza contare che per l’effettiva entrata al lavoro dei vincitori del concorso, si dovrà attendere che abbiano terminato un corso che durerà 18 mesi per i vice ispettori, e 6 mesi per gli agenti. Una situazione che se non si modificherà ci vedrà costretti a scendere in piazza”. Intanto, dopo le visite a Poggioreale e a Velletri dell’ultimo periodo, lunedì 7 ottobre Moretti si recherà alla casa circondariale nuovo complesso di Rebibbia, a Roma, mentre martedì 8 ottobre sarà al carcere di Bellizzi Irpino, ad Avellino. Successivamente le visite proseguiranno in altre sedi al fine, spiega Moretti, di “verificare e conoscere concretamente le criticità che si presentano nei vari istituti”. Sicilia: vacante la carica di Garante dei detenuti, scaduto l’incarico di Salvo Fleres di Claudio Porcasi www.blogsicilia.it, 5 ottobre 2013 Da 20 giorni i detenuti siciliani non hanno più il loro Garante. È infatti scaduto l’incarico di Salvo Fleres, nominato sette anni fa, che ormai era divenuto il punto di riferimento della popolazione carceraria nell’Isola. Il presidente della Regione Siciliana, Rosario Crocetta, non ha ancora nominato scelto il successore di Fleres che, in realtà, potrebbe essere confermato e resta ad oggi l’unico candidato per questo ruolo. Il settennato di Fleres è scaduto il 3 agosto, dopo è scattata la proroga automatica di 45 giorni prevista dalla legge, terminata anche questa il 16 settembre. “Ho inviato una lettera formale al presidente Crocetta alcuni giorni prima della scadenza del mio incarico - dice Fleres - ho saputo che l’ha ricevuta, ma niente è successo da allora. Questa vacatio non è priva di ripercussioni. “In questo modo si rischia di vanificare una lavoro durato anni - sostiene Fleres - perché non ho più titolo per presentarmi alle udienze contro le amministrazioni penitenziarie scaturite da mie denunce sulle carenze del sistema carcerario siciliano”. Salvo Fleres ribadisce la sua disponibilità a ricoprire l’incarico per un altro mandato, dato che la legge lo consente. “Resta comunque grave, a prescindere da chi sarà scelto dal governatore, che da venti giorni la Sicilia non abbia un garante. Tutti i giorni ricevo decine di lettere e segnalazioni di detenuti e loro familiari. Io cerco di fare il possibile, ma adesso ho più poteri per intervenire. Capisco che il governatore, nell’ultimo periodo, abbia avuto cose molto importanti a cui pensare ma la popolazione carceraria siciliana ha bisogno del suo garante”. Catanzaro: detenuti rifiutano il vitto ministeriale per dire no al sovraffollamento www.catanzaroinforma.it, 5 ottobre 2013 Iniziativa di protesta al carcere di Catanzaro a sostegno dell’iniziativa del Partito Radicale. Riceviamo e pubblichiamo la lettera firmata da parte di Natale Ursino, rappresentante dei detenuti presso la Casa Circondariale di Catanzaro: “Con la presente, ed a nome di tutta la popolazione detenuta qui ristretta, desidero portarvi a conoscenza che in tutti i Reparti di Media Sicurezza (I, II, III e IV) dal 20.09.2013 fino al 26.09.2013 si è tenuta una iniziativa di protesta nonviolenta e pacifica per sostenere la battaglia intrapresa dal Partito Radicale rifiutando il vitto ministeriale (colazione, pranzo e cena) fornito dall’Amministrazione Penitenziaria astenendoci anche fino al 01/10/2013 dall’acquistare generi alimentari e di conforto presso il Sopravvitto interno per chiedere con forza al Parlamento di esercitare la funzione legislativa anche per risolvere la gravissima situazione di sovraffollamento in cui versano i nostri Istituti Penitenziari, ormai diventata ingestibile e non più tollerabile, mediante l’unico mezzo possibile qual è quello dell’Amnistia e dell’Indulto, provvedimenti previsti dalla nostra Costituzione, in quanto, le norme “svuota carceri”, “salva carceri” o come altro vogliamo chiamarle, che sono state fino ad ora approvate, non sono servite a nulla. Vi informo che il vitto ministeriale che è stato rifiutato lo abbiamo devoluto in beneficenza ai poveri della Caritas Diocesana ottenendo l’assenso al riguardo da parte della Direzione dell’Istituto nella persona del Direttore Dott.ssa Angela Paravati. Qui a Catanzaro la situazione è davvero allucinante poiché, come saprete, a fronte di una capienza regolamentare di circa 350 posti sono ristretti in questo Istituto circa 600 persone in condizioni detentive che offendono ed oltraggiano la dignità umana e che sono ignobili per uno Stato di diritto come la Repubblica Italiana. Recentemente in questa Casa Circondariale sono state apposte alle finestre di tutti i Reparti di Media ed Alta Sicurezza delle fitte reti metalliche che impediscono di far penetrare all’interno delle nostre celle fatiscenti e sovraffollate luce ed aria naturale e che, contestualmente, arrecano gravi danni alla nostra vista. Una situazione che determina una sofferenza in più non prevista da nessuna Legge e che viene giustificata in nome dell’igiene poiché alcuni incivili compagni gettavano dalle loro finestre della spazzatura che finiva a terra costituendo ricettacolo e proliferazione per topi ed altri animali che poi invadevano anche l’Istituto ivi compreso i Reparti e le nostre camere. Purtroppo, ad oggi, nonostante l’apposizione di queste schermature metalliche la situazione è rimasta invariata perché continuano ad esserci tanti topi con i loro parassiti con grave pericolo per tutti noi, che viviamo qui già in condizioni precarie dal punto di vista igienico - sanitario, di prendere qualche brutta malattia ed infezione di cui i roditori sono portatori. Qualche giorno fa questi animali sono stati avvistati anche nella Cucina dell’Istituto ove viene preparato il vitto prima di essere distribuito ai detenuti per cui, molti di noi, non si sentono più nemmeno sicuri di poter mangiare quel poco che lo Stato ci passa. Tempo addietro, la situazione generale dell’Istituto, era stata oggetto - dietro nostre continue sollecitazioni all’amico Radicale Emilio Quintieri - di una Interrogazione Parlamentare rivolta ai Ministri della Giustizia e della Salute da parte dei Senatori della Repubblica Marco Perduca, Donatella Poretti, Salvo Fleres, Roberto Della Seta, Roberto Di Giovan Paolo e Francesco Ferrante. Quest’ultimo poi era venuto ad effettuare una Visita Ispettiva insieme a Quintieri ed ha avuto modo di constatare di persona il degrado, l’incuria e l’abbandono che regna in questa Casa Circondariale oltre alle condizioni detentive in cui siamo costretti a sopravvivere. Considerata la persistente inerzia dell’Amministrazione Penitenziaria ritengo sia necessario che intervenga l’Azienda Sanitaria territorialmente competente, affinché si proceda ad una seria disinfestazione per prevenire eventuali pericoli alla nostra salute in conseguenza della presenza di questi roditori e parassiti. Infine, vorrei segnalare, che pochi giorni dopo aver intrapreso l’iniziativa di protesta, inspiegabilmente la vita detentiva è tornata al vecchio rigoroso regime custodiale ordinario mentre, da qualche mese, si era finalmente passati al regime aperto, una specie di custodia attenuata che ci permetteva di rimanere “liberi” nei nostri rispettivi Reparti al mattino dalle 9 alle 11,30 e poi nel pomeriggio dalle 13,00 alle 15,30 e dalle 16,00 alle 17,30. Non riusciamo a comprendere il motivo di questo ritorno al passato specie in questo momento che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha proposto in tutti gli Istituti di Pena la cosiddetta “vigilanza dinamica” che prevede appunto il regime aperto per i detenuti che non sono classificati come pericolosi. Ci auguriamo che ciò non sia dovuto come ritorsione per le iniziative di protesta che abbiamo messo in atto e che, ci tengo a sottolineare, si sono svolte regolarmente senza creare alcun problema per l’ordine e la sicurezza dell’Istituto”. Venezia: due computer della Provincia donati ai detenuti del carcere Santa Maria Maggiore La Nuova Venezia, 5 ottobre 2013 Ieri il presidente della seconda Commissione (politiche di integrazione e sicurezza sociale, servizi alla persona) e consigliera provinciale Mariagrazia Madricardo insieme al presidente della sesta commissione (attività produttive) e consigliere Roberto Dal Cin hanno consegnato al carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia due computer in dismissione, ma pienamente attuali e funzionanti, come dono della Provincia e segno di vicinanza e collaborazione istituzionale utile al reinserimento dei detenuti. Ad accoglierli il responsabile dell’area giuridico-pedagogica Ferdinando Ciardiello, il comandante di reparto Lisa Brianese, la presidente dell’associazione Granello di Senape Maria Teresa Menotto, la vicepresidente Maria Voltolina e la responsabile del “progetto biblioteca” Liliana Baldrati. Il dono dei computer è stato deciso in seguito alla visita effettuata in carcere lo scorso marzo dalle commissioni provinciali seconda e sesta assieme agli assessori al Lavoro Paolino D’Anna e alle Attività produttive Lucio Gianni. Il carcere maschile di Santa Maria Maggiore ospita una media di 330-340 detenuti, mentre gli spazi sarebbero modulati per accoglierne 168. Pescara: protesta dei volontari di Greenpeace per gli attivisti detenuti in Russia Ansa, 5 ottobre 2013 I volontari di Greenpeace del Gruppo Locale di Pescara hanno srotolato uno striscione sul Ponte del Mare per chiedere la liberazione dei 28 attivisti e dei due giornalisti freelance, accusati del reato di pirateria dalle autorità russe; tra di loro c’è anche il napoletano Cristian D’Alessandro. I 30 uomini erano a bordo dell’Arctic Sunrise fino allo scorso 19 settembre, quando la Guardia Costiera russa ha abbordato illegalmente e sequestrato la nave rompighiaccio di Greenpeace in acque internazionali, in seguito a una protesta pacifica della nave contro le trivellazioni petrolifere della piattaforma di Gazprom. Tre i giorni di mobilitazione promossi da Greenpeace Italia, che vedono oggi proteste e manifestazioni di solidarietà in diverse città d’Italia e del mondo. “A causa dei cambiamenti climatici, i ghiacci artici si stanno sciogliendo rapidamente ma piuttosto che agire responsabilmente, le compagnie petrolifere sono pronte a rischiare nuove catastrofi, pur di accedere alle risorse artiche. La colpa degli attivisti è aver deciso di dire no a coloro che minacciano questo fragile ecosistema, per il bene del pianeta e di tutti noi” afferma Cristiana De Lia, responsabile campagna mare di Greenpeace Italia. L’accusa di ‘piraterià rivolta ai 28 attivisti di Greenpeace e ai due giornalisti freelance, ritenuta ingiustificata da diversi esperti di diritto internazionale, potrebbe costare loro 15 anni di prigione. Dal 24 settembre gli attivisti sono trattenuti in strutture di detenzione preventiva intorno alla città di Murmansk. Greenpeace chiede al governo italiano di sostenere l’azione del governo olandese presso il Tribunale Internazionale previsto dalla Convenzione ONU sul diritto del mare. Per chiedere la liberazione dei 30 detenuti in Russia si stanno mobilitando Premi Nobel, Ong come Amnesty International e Human Rights Watch e artisti. Milano: “Vivawood”, giochi e arredi in legno dalla Falegnameria del carcere di Bollate Ristretti Orizzonti, 5 ottobre 2013 Nella Falegnameria del Carcere di Bollate, gestita da Estia, cooperativa che persegue l’incentivazione dell’autonomia economica e professionale di persone temporaneamente detenute, nasce un nuovo brand di giochi, giocattoli, arredi, oggetti e complementi, tutti in legno dedicati esclusivamente al mondo dell’infanzia. I prodotti Vivawood saranno disegnati dai Toy Designers della Toy Designer List, istituita e promossa da Assogiocattoli, in sinergia con il Corso di Alta Formazione Design del Giocattolo, il coaching di Adam Schillito, le competenze del Polidesign, il sostegno di ADI - Associazione Disegno Industriale. Vivawood avrà inoltre la certificazione dell’Istituto Italiano Sicurezza dei Giocattoli. Partecipano inoltre alla filiera di creazione, il Forum Design for Toys e la Design Library. Si viene così a definire una piattaforma collaborativa che riunisce competenze molteplici, in grado di garantire ai prodotti Vivawood, oltre a un’evidente valenza sociale, qualità, professionalità ed efficienza. Vivawood, realizzato da falegnami detenuti “professionisti” in collaborazione con i più promettenti giovani Designers del Politecnico, rinnoverà il mondo dei bambini, che potranno così essere “liberi di esprimersi” a favore di quel processo - oggi più urgente che mai - di inclusione e restituzione sociale. I prototipi, realizzati sui progetti vincitori del primo Contest per Toy Designers, saranno presentati a novembre, in occasione della Fiera “G come Giocare”, promossa da Assogiocattoli. Torino: a meta oltre le sbarre, con “La Drola” squadra di rugby dei detenuti di Massimiliano Castellani Avvenire, 5 ottobre 2013 "Più vi sono libri sul nostro scaffale, meno uomini mettiamo in prigione", scrive Josif Brodskij. Ma forse anche se mettiamo più palloni in campo sarà più facile rieducare il maggior numero di detenuti. La magia di una palla ovale, ha ridato entusiasmo a decine di reclusi del carcere torinese de le Vallette dove tre anni fa si è costituita “La Drola”. È il "quindici" dei detenuti che partecipa al campionato di Serie C regionale. Sono i “ragazzi dentro” selezionati da Walter Rista, giocatore fine anni 60 e fondatore della onlus “Ovale oltre le sbarre”. Una formazione composta per metà da nordafricani, rumeni, polacchi e colombiani. Un terzo dei giocatori è di cittadinanza italiana, ma tra loro il vero “straniero” è don Andrea Bonsignori, direttore della Scuola del Cottolengo che ne La Drola ("in piemontese vuol dire roba scadente, ma è anche l’acronimo del grido di allarme “al ladro!”, spiegano) fino allo scorso anno rivestiva il duplice ruolo di giocatore e di vice dell’allenatore Stefano Rista, figlio di Walter. Una squadra a gestione familiare, completamente autarchica, dal lavaggio delle maglie alla gestione del campo di gioco dove le partite si disputano al sabato, ovviamente a “porte chiuse” e tutte in casa. "L’unica uscita di alcuni nostri giocatori è stato per l’evento in città “Sport per tutti”. Ogni passante poteva cimentarsi nel placcaggio e nell’andare in meta guidati dagli stessi atleti de La Drola, in permesso speciale per le vie di Torino", racconta don Andrea, entusiasta dei risultati ottenuti dall’attività sportiva svolta in carcere. "Per i detenuti che terminano il percorso riabilitativo si tentano vie integrative come l’inserimento in società di rugby o l’acquisizione del patentino di allenatore. Alcuni di loro, da quest’anno sono in affidamento al Cottolengo in qualità di tecnici dei ragazzi della nostra squadra, la Giuco ’97 che è gemellata con i professionisti del Viadana". La palla ovale rende meno dura la detenzione e gli psicologi del carcere concordano che "grazie al rugby i detenuti sono molto più tranquilli e disciplinati". Dopo il progetto pilota di Torino, la “rugby-terapia” funziona anche più a sud, nella Casa circondariale di Frosinone. Due anni di allenamenti e partite interne e ora la formazione di “alta sicurezza” (molti scontano pene fino a trent’anni) del penitenziario laziale domani debutterà nel campionato di Serie C. Da un’idea del responsabile Asi (Associazioni sociali e sportive italiane) Luigi Ciavardini e del presidente del “Gruppo Idee” Zarina Chiarenza sono nati i Bisonti Rugby. Presidente di questa squadra di iniziati allo "sport per gentiluomini" è una gentil donna, Germana De Angelis di “Gruppo Idee”. "Il nome Bisonti è una provocazione, perché si tratta di un animale che è cacciato da tanti e sul quali mangiano in troppi – spiega Luigi Ciavardini –. Per i detenuti sentirsi “Bisonti” in campo, è un modo per dire a se stessi e alla società fuori che è giunto il momento di non venire più considerati carne da macello. Lo sport e, soprattutto, una disciplina come il rugby che insegna il rispetto delle regole e dell’avversario, può essere un’alternativa valida per rimettersi in gioco". Nella rosa della squadra ci sono 40 giocatori guidati dall’argentino Alessandro Villanol inviato in “missione” dalla Fir (Federazione italiana rugby). Una formazione italianissima, "solo due gli stranieri e alcuni di loro, come il capitano Orobor che arriva dall’Africa, hanno avuto esperienze rugbystiche fuori di qui", dice Ciavardini. La sperimentazione sta dando grandi risultati sul piano comportamentale e, così, l’Asi del presidente Claudio Barbaro sta per raddoppiare con un progetto di squadra di rugby femminile a Roma, nel carcere di Rebibbia. "In questo caso si tratta del tentativo di spezzare le grandi differenze in seno al carcere e portare le donne attraverso lo sport a sentirsi alla pari degli uomini", puntulizza Barbaro. Uomini duri della palla ovale stanno per scendere in campo anche nella Casa circondariale di Monza. Allenati da Alessandro Geddo e Francesco Motta, i detenuti del Grande Brianza Rugby, "squadra composta per metà da italiani e l’altra metà da stranieri", oggi affronterà una formazione di Vecchie Glorie per quella che è la loro prima partita ufficiale. Mentre nel carcere minorile Beccaria di Milano il rugby viene praticato da anni dai giovani detenuti. Il Grande Brianza è nato dopo una disfatta degli Aironi nell’Heineken Cup (82 a 0 allo stadio Brianteo di Monza contro il Clermont), alla quale i detenuti avevano partecipato in qualità di stampatori delle locandine del match. I vicini di casa del Rugby Monza e quelli del Velate, quella sera stessa promisero che avrebbero lanciato la palla ovale al di là delle mura del carcere. Promessa mantenuta. Dopo mesi di mischie mete e schemi, provati e riprovati, negli allenamenti settimanali per veri uomini duri (sessione di 100 flessioni e 200 addominali) ora il Grande Brianza ha scoperto che il sacrificio e la passione per la palla ovale è una metafora della futura libertà. Immigrazione: i “morti ammazzati” e il negazionismo dei nostri tempi di Marco Rovelli Il Manifesto, 5 ottobre 2013 Una barca a fuoco in mezzo al mare, un mare pavimentato di morti che vengono a galla. Il tremendo è qui, ora. Un’immagine che si fatica persino a dire apocalittica, ché di fronte ad essa si può solo fare silenzio. Tutto il resto è schiuma, parole balbettate per articolare lo sgomento. Ma il silenzio è una virtù non praticata, in questo tempo, che è il tempo del troppo pieno. Siamo incapaci di fermarci di fronte a quei corpi dilaniati dal fuoco e dall’acqua, incapaci di ascoltarli. Non è il tempo del rispetto, questo, né della vergogna (e su questo mi trovo per una volta concorde con le parole di un prete di alto rango). Se fossimo capaci di silenzio, rispetto e vergogna, sapremmo che quel massacro che ci affiora oggi davanti agli occhi è un massacro costante, continuo, cadenzato, che fa del Mediterraneo il cimitero più popolato del nostro mondo. Ma preferiamo non vedere, negare. Sì, siamo negazionisti: sui nostri mari c’è una “tempesta devastante” (una shoah, appunto) e noi fingiamo - con gli occhi, con il cuore - che nulla accada. Quei pescatori che non si fermano mentre ci sono uomini che affogano non sono mostri. Lo fanno perché rischiano di vedersi sequestrata la barca per colpa di una legge assassina. Si limitano a obbedire alla legge. Non sono mostri, sono come noi: sanno, e fingono di non sapere, perché la legge li ha ridotti a pensare solo alla propria salvezza. Poi ci sono quelli di noi (e uso “noi” per designare i cittadini italiani, per quanto non senta con molti di loro alcuna comunanza) che rivendicano con orgoglio la propria ferocia. In rete, ad esempio, all’apparire della notizia, sono subito cominciati a fioccare parole come neve che cade dal cielo già marcita. Gente che non riesce a far spazio all’umano, mai - che non sa, con ogni evidenza, conoscersi in quanto umana. Gente che si scaglia, ad esempio, contro il buonismo dell’Italia: ma quale buonismo? Fingono di non vedere che abbiamo la legge più repressiva ed escludente, quella legge firmata da quei due trapassati della politica che sono Bossi e Fini? Entrare regolarmente in Italia è un’impresa improba, più che altrove in Europa. I tribunali sono affollati di processi per il reato di clandestinità. Il sistema repressivo fondato sui Cie non funziona, è solo una spesa enorme senza risultati. L’accoglienza nei confronti dei rifugiati è inesistente. Del resto per i migranti eritrei, che erano una parte cospicua del barcone dei cinquecento, l’Italia è solo un paese di transito: è a nord che vogliono andare, l’Italia a chi fugge dall’oppressione e dalla guerra non offre niente. Quello che lascia basiti, a leggere il profluvio di parole gonfie di odio talvolta insaputo, è il grado di ignoranza così diffuso rispetto alla realtà, e l’arroganza con cui questa ignoranza viene proferita. C’è una vera e propria sindrome allucinatoria e persecutoria di molti italiani, che fantastica carte di identità subito per tutti, la possibilità per gli immigrati di non lavorare, la libertà di girare indisturbati per loro, di avere case e lavoro immediatamente. Deliri costruiti su fantasie patologiche, che però formano il materiale del giudizio di molti elettori. (del resto a legittimarle c’è la barbara demenza di un Langone, per dire, che sul Foglio scrive contro gli “invasori”). Maun appunto va fatto pure al presidente: stroncare il traffico, dice. Quello è il rimedio, signor presidente? Davvero la responsabilità è solo degli scafisti? Davvero non la sfiora l’idea che se rendi illegale la possibilità di muoversi da un paese all’altro, per ciò stesso sei tu a produrre gli scafisti? Davvero non le viene in mente che si tratta ripensare dalle fondamenta le politiche migratorie? Davvero un governo appena decente può pensare di non rimettere mano alla Bossi-Fini (cosa che non ha fatto del resto il governo Prodi) e farsi promotore in Europa di un’altra modalità di gestione dei flussi migratori? Rivedere le leggi, ecco che cosa dovremmo fare se sapessimo fare silenzio. Ma non succederà. Domani, sarà semplicemente un altro giorno. Immigrazione: all’Italia il Premio Nobel dell’ipocrisia di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 5 ottobre 2013 Per quello che è successo a Lampedusa non ci sono aggettivi. Male cose che si sentono in queste ore fanno venire la nausea. Non parlo della Lega, che come sempre merita solo silenzio. Parlo di quell’onda di untuosità, ipocrisia e smemoratezza che ci sta sommergendo. Come se l’Italia, l’Europa e l’Occidente volessero passare una mano di calce su una realtà di cui sono responsabili, ma che non ammetterebbero mai, perché in tal caso non potrebbero che auto-accusarsi. Che significa proporre Lampedusa per il Premio Nobel per la pace, come Alfano sulla scia di Berlusconi? Con tutta l’ammirazione che possiamo provare per i singoli cittadini che si tuffano in mare per salvare i migranti, come è avvenuto tante volte in questi anni, in Sicilia o in Puglia, è evidente che la proposta di Alfano mira a una bella auto-assoluzione dell’Italia e, indirettamente, dei suoi brillanti governi. Si dice che alcuni pescherecci abbiano ignorato l’incendio che ha preceduto l’affondamento del battello. E perché? Perché una norma del Testo unico sull’immigrazione prevede il sequestro delle barche che soccorrono i migranti, in quanto si renderebbero responsabili del “favoreggiamento” dell’immigrazione clandestina. Una norma ignobile, disumana, che espone i pescatori al rischio di perdere imbarcazione e lavoro (e che va a eterna vergogna di chi l’ha concepita). Ora, chi sono i responsabili? I pescatori o chi ha inventato le norme sui respingimenti, cioè Bossi, Fini e i loro consiglieri? Per fortuna, Fini è scomparso nel nulla e Bossi giù di lì. Ma con che faccia quelli del Pdl blaterano di premi Nobel e vergogna, dopo che hanno varato loro, anni fa, la Bossi-Fini? Ma non sono i soli a dar priva di amnesia. Quello di Lampedusa è il terzo caso di naufragio con strage di massa nel Mediterraneo. Il primo avvenne a fine dicembre 1996, quando una carretta maltese si scontrò con la nave Yohan, da cui stava trasbordando dei migranti, e colò a picco portando con sé quasi trecento esseri umani. Ci vollero anni perché la verità, raccontata all’inizio solo da questo giornale, emergesse. L’anno dopo, la Kater i Rades affondò con un’ottantina di persone, perché entrata in collisione con la corvetta italiana Sibilla, che stava procedendo a una manovra di dissuasione, cioè stava impedendo alla nave albanese di proseguire verso l’Italia con il suo carico di profughi. I due capitani, quello albanese e il comandante italiano, furono condannati a pochi anni di prigione. Ma nessuno si è mai sognato di chiamare in causa chi aveva organizzato l’operazione “Bandiere bianche “, che aveva lo scopo di tener lontano gli albanesi dai nostri “sacri confini”, per usare una nota espressione di Beppe Grillo. E chi c’era al governo allora, se non Romano Prodi e un buon numero di esponenti dell’attuale Pd? Ed eccoci all’ecatombe dell’altro ieri. Qualcuno ci spiegherà prima o poi come è possibile che un barcone con centinaia di persone a bordo traversi il Canale di Sicilia, e arrivi fino a poche centinaia di metri da Lampedusa, in una zona di mare sorvegliata da radar, satelliti e battelli militari di ogni tipo, senza che nessuno, tranne uno o due barche da diporto, se ne accorga. Con tutta la paranoia pubblica e ufficiale che circonda la sorveglianza dei nostri confini, il fatto è inspiegabile. E temiamo che resterà tale. Ma la questione essenziale è che, finché migranti e profughi saranno costretti alle ventura in mare, questi naufragi si ripeteranno. Ma non perché non funziona Frontex, ma esattamente perché c’è Frontex. Questa bella trovata della burocrazia europea non ha il compito di proteggere i migranti, ma, esattamente, di tenerli lontani - e cioè di rafforzare la clandestinità a cui i migranti sono costretti e che ne ha portato 20.000 ad annegare nel Canale di Sicilia e nel resto del Mediterraneo. È un circuito infernale. Leggi come la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini hanno sempre avuto lo scopo di impedire l’accesso legale dei migranti in Europa, con i respingimenti, le norme draconiane sul favoreggiamento e i Cpt o Cie. Chi ha di fronte a sé la prospettiva della morte in guerra o per fame non può che tentare la via del mare. È vero che scafisti e canaglie d’ogni genere li traghettano a pagamento verso l’Europa. Ma smettiamo di considerare responsabili solo loro. Il gangsterismo americano degli anni Venti fu un effetto del proibizionismo e non viceversa. Se vogliamo che queste stragi finiscano permettiamo ai profughi e migrati di trovare una possibilità da noi. Facciamoli entrare legalmente. Non sono milioni, come blaterano i paranoici e i leghisti. Sono centinaia di migliaia di esseri che ci chiamano. E noi, i civili europei, siamo cinquecento milioni di sordi. Florida: Nessuno Tocchi Caino; salvato dal boia l’italo-americano Anthony Farina Ansa, 5 ottobre 2013 Una Corte federale d’appello degli Stati Uniti ha annullato per “inadeguata assistenza legale” la condanna a morte di Anthony Farina americano di 29 anni di origini italiane giudicato in Florida per una rapina a un fast food che lo vide protagonista assieme al fratello, il quale sparò e uccise un dipendente. A rendere noto l’annullamento è Nessuno Tocchi Caino che insieme a diverse organizzazioni - tra cui la Comunità di Sant’Egidio - aveva promosso una campagna per salvare il detenuto. Nel novembre scorso, inoltre, il governo italiano aveva riconosciuto a Farina la cittadinanza italiana, essendo la sua famiglia originaria di Santo Stefano di Camastra (Messina). Cina: liberata attivista Ni Yulan, resa paralitica dalle percosse ricevute dalla polizia Agi, 5 ottobre 2013 Le autorità cinesi hanno liberato la famosa attivista cinese Ni Yulan, resa paralitica nel 2002 dalle brutali percosse della polizia: Ni, che ha 52 anni, era in carcere da 2 anni e sei mesi perché accusata di “incitare le rivolte”. La notizia della sua liberazione è stata data dalla Ong Chinese Human Rights Defenders assieme al marito Dong Jiqin, Ni era stata arrestata nell’aprile 2011 dopo esser stata sfrattata dalla casa e aver aiutato altre vittime di espropri e demolizioni forzate, per cui la coppia era stata accusata di incitare alla violenza e alla sedizione. Nell’aprile, i due erano stati condannati rispettivamente a 30 e 24 mesi di carcere. Secondo la Ong, Ni è stata liberata sabato dal centro di detenzione di Xicheng. Amici e attivisti della famosa avvocatessa hanno fatto circolare una fotografia di Ni che esce dal carcere, in cui si vede la donna con indosso una felpa e sulla sua abituale sedia a rotelle, accompagnata da due donne non identificate, apparentemente in buono stato di salute seppur molto magra. La coppia è molto nota per l’impegno a favore delle vittime degli sfratti causati dalla speculazione immobiliare, ma anche per aver difeso in varie occasioni i membri del gruppo Falun Gong, che è proibito in Cina. L’arresto di Ni e suo marito avvenne durante la dura campagna delle autorità comuniste contro la dissidenza, nella prima metà del 2011, nel timore che il gigante asiatico venisse contagiato dalle proteste delle concomitanti primavere arabe nei Paesi del bacino del Mediterraneo.