Giustizia: sono loro il nostro prossimo… di Adriano Sofri La Repubblica, 4 ottobre 2013 Si può commuovere tutti i giorni, o c'è bisogno di una pausa, di una tregua - non so, una settimana, almeno un paio di giorni - fra una tragedia e l'altra? O commuoversi comunque quando la cifra dei morti è così esorbitante? Quando ci sono i bambini (le donne incinte ci sono sempre), e c'è ogni volta un dettaglio nuovo. Questa volta è il fuoco acceso dentro una carretta con 500 persone, come accendere un falò in un autobus all'ora di punta, con le porte che non si aprono. Riescono sempre a procurarsi un dettaglio nuovo, queste disgrazie. A Catania è in rianimazione il migrante eritreo scampato a tutto, anche alla spiaggia di Sampieri coi cadaveri allineati dei suoi compagni, e investito da un'auto. I dettagli di ieri saranno troppi per raccoglierli, i soccorritori pensano a soccorrere, magari piangendo, e i superstiti, una volta rifocillati e sbattuti in qualche Centro di Indifferenza ed Espulsione, non saranno più interessanti, coi confini spinati e i deserti e i mari che hanno attraversato, i cadaveri che hanno urtato, le preghiere che hanno pregato. Non avranno voglia di raccontarlo, e non troveranno chi abbia voglia di starli a sentire. Guarderanno l'Isola dei famosi, la sera, e capiranno tutto. Dunque si è quasi offesi, da una giornata simile: centinaia di morti, l'ennesima, più lunga fila di sacchi da monnezza, non si può pretendere che ci commuoviamo ogni giorno che Dio manda, perbacco, e all'indomani di un allegro rilancio del governo, che prima era di necessità e ora è d'amore e d'accordo. Che c'entra il governo con la strage della barcaccia? Niente, appunto. Niente e nessuno, c'entra. È stata una disgrazia. Cioè: il cinismo degli scafisti, l'imprudenza dei passeggeri, il panico di tutti. I superstiti non presentavano problemi molto gravi, ha detto un bravissimo medico, qualcuno aveva bevuto, con l'acqua salata, parecchia nafta. Non c'entra nessuno, accusare, inventarsi dei colpevoli, è un lusso da salotto. (I leghisti sanno di chi è la colpa: di due signore). Però il papa ha detto: è una vergogna. Allora bisogna che qualcuno si vergogni, o che ci vergogniamo tutti. Di che cosa? Di tutto: della guerra civile in Siria, del mattatoio somalo, della violenza nigeriana che ricaccia indietro i ghanesi. Ah, va bene, campa cavallo! Vediamo più da vicino, allora. Controllare meglio quel tratto di mare? Ci sono occhi meccanici cui non sfugge un branco di sardine. Chi se ne intende dice che il lavoro che fanno la nostra capitaneria, la marina militare, la guardia di finanza, e anche i mezzi mercantili e da diporto è ammirevole, che i radar non bastano a vedere tutto, soprattutto con imbarcazioni piccole e mare mosso e sotto costa. Bene: eppure qualcosa occorre fare. Perché ieri non eravamo solo commossi fino alle lacrime, ma anche esasperati e furiosi. Perché anche piangendo, si pensa. Si pensa che in Giordania, in Libano, in Turchia, in Iraq, ci sono oggi un paio di milioni di profughi siriani, e da noi ne sono arrivati due o tremila; cui vanno sottratti - 250, 300? - quelli di ieri. Si pensa che due giorni fa sono state pubblicate le nuove cifre sugli immigrati in Italia, e quattro su dieci si propongono di tornare a casa o andare altrove, e molti l'hanno già fatto. Si pensa che in Grecia, tanto più povera di noi, e tanto sorella nostra -"stessa faccia, stessa razza"- gli immigrati dall'Europa orientale e dall'Asia e dall'Africa entrano per terra e per mare in numero assai superiore ai nostri, e poi ci restano chiusi, in omaggio a Dublino, in balia dei nazisti di Alba Dorata. E poi, si pensa alle obiezioni di chi, anche in mezzo a tutti questi morti - "una marea di cadaveri", ha detto ieri un soccorritore, promuovendoli involontariamente a creature marine, quei viaggiatori che non sapevano nuotaretiene a restare, secondo lui, freddo e lucido. "Non possiamo mica accogliere tutti i fuggiaschi del mondo". No, infatti, non possiamo. Ma non stanno arrivando tutti i fuggiaschi del mondo. E ragionevole prevedere che ne arriveranno molti di più. Siccome ci si compiace a credere che l'alternativa sia fra buonismo e cattivismo, e chi non è né buonista né cattivista possa solo raccomandare l'anima e il corpo altrui a Dio, proverò a rispondere. Ammettiamo pure il caso più ottuso: che siate rigorosamente contrari all'immigrazione, che ve ne fottiate di tutte le avvertenze ("ma i nostri nonni, e il padre del papa Francesco, sono emigrati..."; e "gli immigrati oggi coprono il 10 per cento del Pil italiano", e così via). Bene. E ammettiamo ora che voi, i del tutto contrari, stiate bordeggiando sotto l'isola dei Conigli, e avvistiate una disgraziata che viene da Aleppo o da Samaria e che agita le braccia e annaspa: o la soccorrete, o no. Se non la soccorrete, siete davvero coerenti con la vostra convinzione, e il diavolo vi porti: l'avete meritato. Se la soccorrete, com'è infinitamente più probabile, non avrete affatto ripudiato la vostra convinzione, avrete saputo che c'era una cosa più importante. Che quando succede proprio a voi di imbattervi nella persona in pericolo, che da voi dipende la sua salvezza, le convinzioni politiche o demografiche si eclissano, e senza riflettere un momento lanciate il vostro salvagente o la vostra cima. (E non voglio ancora completare l'esempio, sicché succeda a voi di annaspare e agitare le braccia, venendo da Bergamo Alta, ed essere soccorso da una carretta di scafisti siriani). Questa non è la soluzione, ma è una gran parte della soluzione. La soluzione implica che in Siria finisca la guerra civile, che Dublino 2 non metta in croce la Grecia, che la Germania non si scandalizzi per l'arrivo di sbarcati a Scicli o a Riace, che l'Europa sia l'Europa. Cose grosse. Si possono affrontare, anche se sembrano così grosse. Ma intanto c'è la gran parte della soluzione, che consiste nel comportarsi seriamente, efficacemente, come si fa col disgraziato in cui vi siete imbattuti. Per esempio, quando in uno scampolo d'estate vi capita di fronte una di quelle barche di disperati, su una spiaggia siracusana o ragusana, o calabrese o pugliese, e fate una catena umana. Una catena umana - è gran parte della soluzione. Ma sarebbe ipocrita lasciarla al caso. Se il samaritano avesse saputo che tutti i giorni, sulla famosa strada, i briganti lasciavano tramortito un passeggero, avrebbe chiesto alla polizia di occuparsi dei briganti, e intanto avrebbe improvvisato con altri volontari il pronto soccorso a quell'angolo di strada. Tutti i migranti che si mettono in viaggio alla nostra volta, e pagano caro il biglietto per la morte o la vita, tutti, sono il nostro prossimo: che siamo buoni o cattivi, che vediamo di buon occhio o furibondo la questione dell'immigrazione. Per questo è così odiosa, oltre che criminale, la politica dei "respingimenti". Li respingi nei campi libici, a essere violati e bastonati e venduti. Li respingi "a casa loro", dove gliela faranno pagare con la tortura e la pelle. E soprattutto li respingi: agitano le braccia, annaspano, gridano aiuto proprio a te, e li respingi. Perché questo non avviene, non abbastanza? Dobbiamo dirlo chiaramente. Perché le autorità, essendo responsabili (ciò che per molte di loro vuol dire ciniche) preferiscono un migrante annegato a un clandestino vivo che si aggiri per l'Europa. Un anonimo morto a un rifugiato vivo. Lo preferiscono, davvero, magari non dicendoselo così chiaro: se no non lo farebbero. Pensano (infatti pensano): "Se questi disperati arrivassero tutti vivi, sempre più disperati sarebbero incoraggiati a venire". Bene: se pensano così, anche se non se lo dicono, stanno favorendo le stragi come quella di ieri, "magari non così grosse, non tanti in una volta". Ciascuno, autorità o persona comune, può liberamente decidere che cosa pensa dell'immigrazione e dei migranti in carne e ossa - il nostro prossimo. Ma bisogna che sappia che cosa sta decidendo, e ne segua le conseguenze fino alla banchina di Lampedusa con la fila dei fagotti da monnezza. Resta da lodare ancora Lampedusa: perché quegli annegati non sono di nessuno, né del paese da cui fuggono, né di quello in cui sognavano di arrivare. Sono del mare, e di Lampedusa. Giustizia: gli scafisti siamo noi… di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 4 ottobre 2013 Dopo questa strage, la più grave degli ultimi anni, le principali autorità pubbliche, tranne rare eccezioni, stanno proponendo il peggio del repertorio sicuritario, anche se ancora una volta le vittime sono tutte, evidentemente, potenziali richiedenti asilo. Ma per qualcuno se non attentano alla sicurezza sono un pericolo per la sopravvivenza dei disoccupati. Ancora guerra tra poveri alimentata ad arte da chi vuole nascondere le vere responsabilità della crisi. Ma questa volta, forse, non potranno dire che "se la sono andata a cercare", come hanno fatto in passato. O dimenticarli subito, come al solito. Se la prendono solo con gli scafisti per nascondere le loro responsabilità, le responsabilità istituzionali, a partire da Napolitano, dagli organi periferici che "detengono per accogliere" e accolgono in centri informali di trattenimento. Responsabilità estese che vanno dalle istituzioni europee capaci solo di rinforzare le missioni antimmigrazione di Frontex ai tanti prefetti che ritengono che tra questi disperati alcuni, come gli egiziani, possano essere rimpatriati con un volo charter anche poche ore dopo l'ingresso nel territorio dello stato. Come se la corte Europea dei diritti dell'Uomo non avesse mai condannato l'Italia per i respingimenti in Libia, dei quali Maroni si vantava ancora pochi giorni fa, come se il Consiglio d'Europa non avesse continuato a criticare le politiche dell'Italia in materia di asilo e immigrazione. L'inasprimento dei controlli di frontiera ha già prodotto centinaia di morti, vogliono continuare ancora nella stessa direzione. Una gigantesca vigliaccata. Una pedagogia del cinismo collettivo. È partita per l'ennesima volta una straordinaria campagna di disinformazione che addita come responsabili di questa strage i soliti scafisti, o quei migranti che per farsi vedere avrebbero dato fuoco a una coperta. La responsabilità di questa immane tragedia non ricade sugli scafisti ma sui governanti europei che pensano solo alle misure di contrasto dell'immigrazione clandestina, l'unica che hanno reso possibile e che adesso pensano solo a rinforzare la missione Frontex. Come mai nessuno li ha visti prima? Come mai questo barcone non è stato segnalato dai radar? Potevano essere tutti salvi se non fossero stati costretti a rotte sempre più pericolose. In passato queste barche entravano in porto direttamente a Lampedusa o a Siracusa. Oggi scappano tutti, puntano verso i tratti della costa più idonei a fuggire, per non restare intrappolati nei centri di accoglienza/detenzione in Sicilia. Dai quali sono già fuggiti a centinaia, anche minori non accompagnati, alimentando un altro giro del racket. E l' Europa rimane cinicamente a guardare e invia "intervistatori" che pressano i migranti appena sbarcati per conoscere le tappe del loro viaggio, nell'improbabile ricerca delle reti criminali che li hanno gestiti. Di quelli che sono ancora in attesa della partenza, incarcerati o massacrati nei deserti della Libia o presi a fucilate dalla polizia egiziana non interessa niente a nessuno. Occorre promuovere da subito una campagna per il diritto di asilo europeo e sostituire le missioni Frontex per il contrasto dell'immigrazione clandestina, con missioni internazionali al solo scopo di salvataggio dei profughi in mare. Consentire visti di ingresso in Europa nei paesi di transito e sospendere il Regolamento Dublino 2. Gli stati dell'Unione Europea hanno il dovere di aprire corridoi umanitari dalla Siria, dall'Egitto e dalla Libia. Che i profughi possano partire per l'Europa con un visto di ingresso. Tutto il resto, compresa la caccia agli pseudo scafisti, cementa omertà e riproduce emarginazione sociale e clandestinità. Per qualcuno è meglio che muoiano o che fuggano dai centri di prima accoglienza rendendosi invisibili. Basta con le stragi conseguenza delle politiche di sbarramento della fortezza Europa. E basta con l'inutile pietismo delle visite ufficiali che lasciano immutate tutte le condizioni che hanno permesso queste tragedie, a partire dagli accordi bilaterali con paesi come Malta, Tunisia, Libia, Egitto, accordi stipulati e attuati al solo scopo di bloccare la cosiddetta immigrazione clandestina. Chi li mantiene in vigore non pianga una sola lacrima su questi morti. Giustizia: no al reato di clandestinità... di Luigi Manconi e Valentina Brinis L'Unità, 4 ottobre 2013 Molte le cause della tragedia di ieri. Ma, tra esse, non può essere ignorata certo quella che rimanda ai dispositivi della legge Bossi-Fini (2002): e proprio perché, su quei dispositivi, è possibile finalmente intervenire. Ci hanno provato i Radicali, ma - per responsabilità di quasi tutti - quel sacrosanto referendum non ha raggiunto il numero di firme necessarie. Ora è richiesta, come è ovvio, una forte decisione politica: ed essa non può essere rinviata se teniamo conto che quella normativa, così com’è, altro non fa che irrigidire, fino alla chiusura, il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo. E fatalmente finisce col considerare idonei all’accesso in Italia solo i migranti lavoratori, con molte eccezioni, e attraverso una procedura che si rivela sempre più dissuasiva e disincentivante. La normativa attuale ha apportato alcune modifiche alla precedente legge, la Turco-Napolitano (1998) concentrandosi sul controllo dell’ingresso e della permanenza regolare dei migranti in Italia. Ciò ha fatto sì che le persone in fuga verso il nostro Paese, se sprovviste del regolare visto necessario all’imbarco in aereo, dovessero trovare vie alternative e irregolari per poter raggiungere le coste italiane. Tutto ciò si inserisce in una politica europea che molto ha investito nella vigilanza sulle frontiere esterne, alimentando costantemente il fondo dell’Agenzia Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea), principale addetta a tale attività. L’esito di ciò è stato che in numerose circostanze i migranti rintracciati in mare venissero rimpatriati senza che prima fossero identificati, ascoltati e soprattutto, prima che gli fosse data la possibilità di presentare la domanda di asilo. Il ministro dell’Interno dell’ultimo governo Berlusconi, Roberto Maroni, ha sempre negato che si effettuassero simili pratiche e, quando messo alle strette, le attribuiva ai così detti accordi Italia-Libia. Ma ecco che il 23 febbraio del 2012 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato l’avvenuta violazione del divieto di tortura, di quello di espulsioni collettive e del diritto ad un ricorso effettivo. E con ciò ha accolto l’esposto di 24 migranti che nel 2009 erano stati riportati in Libia dopo essere stati intercettati in mare dalle forze di polizia italiane. Si è opportunamente parlato di sentenza storica in quanto ha dimostrato come, almeno in un caso, il respingimento collettivo fosse davvero avvenuto. Resta il fatto che gli essenziali connotati della «Turco-Napolitano» sono stati modificati dalla «Bossi-Fini» a danno dell’ingresso regolare degli stranieri, in particolare in materia di visti, permesso di soggiorno, carta di soggiorno e diritto di asilo. Per poter richiedere e ottenere la documentazione necessaria, i criteri sono diventati più selettivi, tanto da rendere difficoltosa la permanenza legale. Si pensi alla complicata richiesta dell’idoneità alloggiativa, alla frequente negazione del visto per non motivate ragioni di sicurezza e, in generale, al complesso iter burocratico per rinnovare i titoli di soggiorno. Ecco perché sono così numerose le persone diventate irregolari negli ultimi anni. Il governo Monti ha fatto qualcosa in questo senso, portando a un anno la durata del permesso di soggiorno per attesa occupazione. Un timido passo avanti, ma tantissimo ci sarebbe ancora da fare, perché la «Bossi-Fini» non solo ha enormemente complicato il quadro amministrativo, ma ha anche recepito, attraverso il pacchetto sicurezza del 2009, quel meccanismo di vera e propria criminalizzazione rappresentato dal reato di clandestinità e dall’aggravante per clandestinità (dichiarata successivamente incostituzionale). Il risultato è stato, tra l’altro, un ulteriore incremento della già ampia popolazione carceraria costituita da stranieri (nel maggio del 2013 erano oltre settecento i reclusi responsabili esclusivamente di non aver ottemperato all’ordine di espulsione). Volendo trarre una rapida conclusione, si può dire che la legislazione in materia di immigrazione, dal 2002 a oggi, si è irrigidita e inasprita, producendo come effetto principale l’estensione delle aree di irregolarità e di marginalità. L’intero impianto normativo in materia di immigrazione deve essere radicalmente modificato, a partire da due atti essenziali: a) abrogazione del reato di clandestinità, che ha assimilato - secondo un’ispirazione che rimanda a una concezione giuridica precedente lo stato di diritto - la categoria dei migranti a quella di una «classe pericolosa», da perseguire non per i reati commessi ma per la sua stessa condizione esistenziale (non per ciò che si fa, ma per ciò che si è); b) introduzione del visto di ingresso per ricerca di occupazione, al fine di favorire l’incontro tra offerta e domanda nel nostro Paese, contribuendo a regolarizzare una quota notevole degli ingressi e dei soggiorni non regolari. In altre parole, se questa strage di cui i morti di oggi sono appena un episodio non ci induce a modificare radicalmente una normativa che, quei morti, contribuisce a perpetuare, il nostro cordoglio rischia di risultare un vuoto rito. Giustizia: Uil-Pa Penitenziari; sì indulto e amnistia, unica soluzione per carceri www.grnet.it, 4 ottobre 2013 L'organizzazione sidacale della Polizia Penitenziaria Uil-Pa, nei lavori preparatori della Direzione Nazionale, diffonde una nota nella quale Eugenio Sarno, segretario generale, afferma che "la riunione del nostro Organo Direttivo cade in un momento davvero particolare, sia per le note vicende politiche che per l’ennesimo appello formulato dal Presidente Napolitano sull’urgenza di fornire risposte concrete alle criticità che oberano il sistema penitenziario italiano". "Ovviamente il dibattito e le vicende politiche legate alla sopravvivenza del Governo - prosegue Sarno - ci hanno visto spettatori molto più che interessati, ed è con soddisfazione ed apprezzamento che abbiamo registrato la rinnovata fiducia ottenuta dal Parlamento da parte del Pres. Letta. Ciò consentirà, auspichiamo, un confronto serrato sulle soluzioni possibili alle note ed ataviche difficoltà che investono il sistema carcere in Italia, richiamate recentemente anche dal Pres. Napolitano con l’ennesimo invito a trovare degne soluzioni". "Per quanto ci riguarda - rimarca il leader della Uil-Pa Penitenziari - continuiamo a credere che un provvedimento di amnistia ed indulto rappresenti l’unica soluzione che consenta al sistema di recuperare immediatamente legalità ed efficienza e rispondere, in tal modo, alle indicazioni che ci pervengono dall’Europa. Voglio credere che la politica, con il proprio carico di responsabilità, comprenda la necessità di un dibattito empirico e pragmatico che porti a soluzioni concrete; ancor più in presenza dell’annunciato messaggio specifico alle Camere da parte del Capo dello Stato. L’amnistia e l’indulto, attualmente, sono la soluzione tecnica e immediata , come anche lo stesso Ministro Cancellieri ed il Pres. Napolitano ammettono, che potrebbe consentirci di evitare nuove ed ulteriori sanzioni comminate dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. La fiducia al Governo Letta, tra l’altro, consente alle rappresentanze sindacali delle Forze di Polizia di proseguire il confronto sulle esigenze del personale del Comparto Sicurezza, già avviato da qualche mese con il Ministro della Funzione Pubblica D’Alia". "Ovviamente non rinunceremo al confronto costruttivo con l’Amministrazione Penitenziaria pur in una dialettica franca, e se del caso, critica. La presenza dei massimi vertici dipartimentali sarà di sicuro stimolo per affrontare questioni importanti ancora sul tappeto. Dalle modalità di esecuzione della sorveglianza dinamica, alla necessità di rivedere le piante organiche, alla definizione di un nuovo Accordo Quadro Nazionale, alla discussione sulla mobilità, alla copertura dei posti per la dirigenza penitenziaria. Noi - conclude Sarno - abbiamo condiviso gli orientamenti e le scelte del Pres. Tamburino e dato atto ai vertici del Dap di aver segnato una svolta ma, per citare Tommaso Moro, se si dicono cose giuste ma si fanno cose sbagliate non si può chiedere la fiducia degli altri. Su questo occorre essere molto franchi e diretti". Bologna: l'Ausl denuncia; alla Dozza due casi di scabbia e carcere di nuovo sovraffollato La Repubblica, 4 ottobre 2013 L'ispezione dell'Ausl dello scorso 13 giugno alla Dozza non rileva solo il problema del sovraffollamento. Il carcere ospita il doppio dei detenuti previsti, "con problemi evidenti di vivibilità, privacy e di natura igienico-sanitaria, dovuti anche all'utilizzo del bagno in cella come deposito degli alimenti", si legge nel rapporto firmato da Fausto Francia. Si è "ulteriormente aggravata " la presenza di muffe, dovute all'umidità ed è "urgente intervenire". Rilevate anche presenza di blatte e di guano nei passaggi scoperti. Nell'analisi statistica, si parla di due casi di tubercolosi e altrettanti di scabbia e Vito Totire del circolo Chico Mendes chiede di saperne di più, oltre a proporre di demolire tutta la struttura. La Spezia: Osapp; detenuto marocchino nella notte tenta il suicidio, salvato da agenti Ansa, 4 ottobre 2013 Un giovane detenuto di nazionalità marocchina questa mattina verso le due ha tentato il suicidio nel carcere di La Spezia. Il giovane, in una cella al primo piano della seconda sezione, si è legato intorno al collo un lenzuolo che aveva annodato all'inferriata della finestra, posta ad un'altezza di 2,5 metri. Il detenuto è stato salvato grazie al pronto intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Dopo la visita medica, il ragazzo ha iniziato a sbattere violentemente la testa contro il muro e gli agenti hanno tentato di farlo desistere ma sono stati aggrediti a pugni dal detenuto. "Alla fine siamo sempre noi poliziotti penitenziari a rimetterci e a essere aggrediti da coloro a cui salviamo la vita - commenta Leo Beneduci, segretario generale dell'Osapp, l'organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria - non è certo piacevole. Quello che i ministri della giustizia, compresa la attuale responsabile del dicastero, Anna Maria Cancellieri, non comprendono è che qualsiasi riforma per la riorganizzazione/umanizzazione delle carceri passa necessariamente per la polizia penitenziaria". Cosenza: Corbelli (Diritti Civili); detenuto incontrerà il figlio e la compagna ai domiciliari Giornale di Calabria, 4 ottobre 2013 Un bambino nato tre mesi fa può essere portato dalla sua mamma S.I., agli arresti domiciliari, in un centro della provincia di Cosenza, a incontrare il papà detenuto, nel carcere di Castrovillari. È quanto hanno stabilito i giudici del Tribunale di Catanzaro accogliendo l'istanza presentata dal legale della donna e l'appello rivolto in tal senso dal leader del movimento Diritti civili, Franco Corbelli. In una nota, Corbelli esprime "grande soddisfazione per il felice sito di questa nuova, ennesima battaglia civile e di giustizia". "Il leader di Diritti Civili che sta, da quasi un anno, aiutando questa ragazza - riporta ancora la nota - subito dopo ferragosto aveva denunciato questa vicenda che aveva definito "un nuovo, grave caso del dramma delle carceri". Al giovane detenuto calabrese era infatti stato consentito (dal giudice) di poter vedere, per pochi minuti, il figlioletto, nato da pochi giorni, ma non la giovanissima moglie (e mamma del piccolo), che è agli arresti domiciliari e che era stata costretta a restare fuori dalla cella". "Era accaduto questo, due mesi fa. Da qui - sostiene Corbelli - il mio appello ai giudici di Catanzaro che ringrazio per averlo accolto, dimostrando in questo modo ancora una volta tutta la loro sensibilità, umanità e senso di giustizia". Cagliari: mamma al sesto mese di gravidanza può lasciare il carcere di Buoncammino Agenparl, 4 ottobre 2013 "Ha lasciato Buoncammino per raggiungere i quattro figli a Roma, Lela Radulovic, 30 anni, che, dopo due aborti spontanei e due nascite con malformazioni congenite, è al sesto mese di gravidanza. Un atto umanitario del Magistrato di Sorveglianza di Cagliari considerata la situazione. Sono tuttavia ancora dietro le sbarre altre due madri incinte". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", richiamando l'attenzione sull'assurda situazione venutasi a creare nella Casa Circondariale di Cagliari. "Continuano a convivere in una cella - sottolinea - Zagorka Nikolic, 40 anni, 12 figli, al terzo mese di gravidanza e Monica Jovanovic, 28 anni, cinque figli, anche lei da sei mesi in stato interessante. Entrambe con minacce d'aborto in una sezione femminile dove è del tutto assente uno spazio d'aria adeguato a persone in buono stato di salute figuriamoci per una donna incinta. Per far scontare la pena detentiva a madri detenute è necessario che gli Istituti Penitenziari rispondano a requisiti di igiene e salubrità e garantiscano adeguati pasti. A Buoncammino si riscontra una grande disponibilità e sensibilità delle Agenti di Polizia Penitenziaria e dei Medici, ma il resto è assente. Ecco perché rivolgiamo un nuovo appello ai Magistrati affinché venga trovata un'alternativa alla detenzione in Istituto". "è urgente in Sardegna risolvere un problema, quello delle detenute madri incinte o spesso con bimbi al seguito che non possono stare in carcere - conclude la presidente di SdR - è una questione intollerabile per una società civile". Siena: detenuti della Ranza realizzano spazi per incontro con i figli Ansa, 4 ottobre 2013 Le due nuove stanze sono il frutto di un progetto finanziato dal Comune e dall'Arciconfraternita Misericordia di Siena. Abbracci colorati: è questo il nome dei nuovi spazi realizzati all'interno della casa di reclusione di San Gimignano e destinati ai colloqui dei detenuti con i figli e i familiari. A realizzarli in modo spontaneo e volontario, rendendoli a misura di bambino con murales, arredi e giochi, sono stati tre detenuti di origine cinese in espiazione di pena con sentenza definitiva nello stesso carcere. Le due nuove stanze sono il frutto di un progetto finanziato dal Comune di San Gimignano e dall'Arciconfraternita Misericordia di Siena e mira a rinsaldare i rapporti familiari tra padre detenuto e figli come presupposto fondamentale per un favorevole reinserimento sociale. Salerno: accusato di furti in carcere, agente di Polizia penitenziaria resta ai domiciliari La Città di Salerno, 4 ottobre 2013 Resta agli arresti domiciliari l'agente penitenziario accusato di peculato per aver sottratto denaro a tre detenuti. Il giudice delle indagini preliminari Donatella Mancini ha respinto la richiesta di Giancarlo Picariello di tornare in libertà, ritenendo che la sospensione dal servizio, su cui il 44enne di Montoro aveva fatto leva nell'istanza, non basti a escludere la possibilità di reiterazione del reato. Il provvedimento di sospensione potrebbe infatti essere revocato, rendendo così inefficace, secondo la valutazione del giudice qualsiasi misura cautelare meno afflittiva dei domiciliari. Adesso la guardia carceraria spera nel Tribunale del Riesame, a cui il suo difensore, l'avvocato Michele Sarno, ha già presentato istanza per la revoca della misura impugnando l'ordinanza cautelare. All'agente penitenziario sono addebitati due episodi avvenuti nel carcere di Fuorni, dove sarebbe riuscito a impossessarsi di un totale di poco superiore ai mille euro. Secondo le risultanze dell'indagine avrebbe approfittato del suo ruolo di incaricato alla registrazione dei depositi per mettere in cassaforte solamente parte degli averi consegnati dagli arrestati, annotando sui documenti cifre inferiori a quelle davvero depositate. Le segnalazioni dei detenuti hanno fatto scattare le indagini, coordinate dal sostituito procuratore Giancarlo Russo e condotte dagli agenti della penitenziaria in veste di polizia giudiziaria. Si è giunti così all'individuazione di Picariello, che nell'interrogatorio di garanzia davanti al giudice Mancini ha però respinto tutte le accuse, negando di essere lui il responsabile degli ammanchi. Secondo gli inquirenti si sarebbe impossessato, nell'estate 2012, di novecento euro dell'imprenditore cilentano Emanuele Zangari (finito in manette nell'inchiesta "Due Torri" sugli appalti truccati) e, nel corso di quest'anno, di alcune centinaia di euro appartenenti a due romeni arrestati per rapina. L'inchiesta è partita dalla segnalazione di Zangari, che aveva formulato una richiesta di acquisti in carcere per 130 euro e si era visto rispondere che in cassa non c'era la capienza necessaria, nonostante sapesse di aver depositato, all'ingresso a Fuorni, la somma di mille euro. Di qui le indagini e, una settimana fa, l'ordinanza che ha disposto gli arresti domiciliari. Trapani: nozze al carcere San Giuliano tra due detenuti, lui 28 anni e lei 21 di Luigi Todaro www.gds.it, 4 ottobre 2013 La loro storia d'amore è nata tra le sbarre ed è culminata in matrimonio. Fiori d'arancio alle carceri di Trapani. A convolare a nozze Luigi Visalli, 28 anni, di Termini Imerese e Alessandra Fumia, 21 anni, di Ragusa, entrambi detenuti presso la casa circondariale di San Giuliano. Il fatidico "Sì" lo hanno pronunciato, martedì, davanti agli ufficiali di Stato civile del Comune di Erice -, Giuseppa Giacalone e Michele Scandariato e dell'assessore Angelo Catalano delegato dal sindaco Giacomo Tranchida a celebrare la funzione. Una cerimonia - con tanto di rinfresco e torta nuziale - alla presenza del direttore delle carceri Renato Persico; del comandante della polizia penitenziaria Giuseppe Romano e di Antonino Vella, capo area educativa dell'istituto. A fare da testimoni i compagni e le compagne di cella. Frosinone: dal carcere alla Serie C, l'avventura dei "Bisonti", liberi per un'ora di rugby di Marco Mensurati La Repubblica, 4 ottobre 2013 Gli allenamenti, da due anni a questa parte, sono intensi e quotidiani ma, per forza di cose, non durano più di sessanta minuti. E però, a loro, ai detenuti dell'ala di "alta sicurezza" del carcere di Frosinone, quell'ora d'aria trasformata in seduta di allenamento, è stata più che sufficiente per fare tutto: fondo, potenziamento, tecnica, tattica. E farlo anche bene, tanto che dopo un paio d'anni di scatti e di lividi, di mischie nel fango e placcaggi feroci, si sono accorti di essere arrivati ad un livello sufficientemente alto da pensare di fare sul serio. E così adesso faranno sul serio. Da oggi non saranno più "la squadra dei detenuti" come venivano sbrigativamente chiamati dagli avversari alla vigilia delle partite amichevoli (spesso vinte a volte anche stravinte), ma "i Bisonti". E soprattutto non faranno più partitelle simboliche, ma parteciperanno regolarmente alla serie C del campionato italiano di Rugby. Il nome se lo sono scelti loro qualche tempo fa, prendendo l'ispirazione a prestito dal soprannome del loro pilone, uno dei punti di forza della squadra, uno che ha la caratteristica, decisamente utile in mischia, di non retrocedere nemmeno di un millimetro, per nessun motivo. Puoi spingere quanto ti pare ma lui resta lì, curvo, immobile. Un po'come loro. Nulla li ha fermati nella realizzazione del loro progetto, nemmeno la burocrazia. In Italia è praticamente impossibile anche solo voler aprire una pizzeria, figurarsi iscrivere a un campionato "ufficiale" di rugby una squadra di detenuti. Il primo problema è stato quello delle trasferte. E, a dire la verità, è stato anche quello meno complicato da risolvere. È stato sufficiente chiedere alle altre squadre del girone la disponibilità a giocare tutte le gare nella tana dei Bisonti - vale a dire fuori casa - per ottenere rapidamente il cento per cento delle risposte affermative, anche se il campo del carcere è un vecchio campo di calcio al quale sono state sostituite le porte e cambiate le righe (si vedono ancora, in parte, quelle dell'area di rigore). Il secondo è stato un po'più complesso: ottenere i permessi per far entrare ogni settimana tutti quegli "esterni" dentro un carcere ad alta sicurezza. Qui è stato un po'più farraginoso, ma alla fine una soluzione è stata trovata: settimanalmente la società si prenderà la briga di inoltrare al magistrato di sorveglianza la lista-gara e il magistrato dovrebbe emetterei permessi senza problemi. All'inizio ci sarà qualche intoppo ma poi la cosa dovrebbe diventare quasi automatica. Della cosa se ne occuperà una dei protagonisti di questa storia, Germana De Angelis, del "Gruppo Idee", un'associazione promuove progetti dentro alle carceri del Lazio: "I giocatori - dice entusiasta alla vigilia della presentazione del progetto, domani nelle stanze del Coni - ci hanno sorpreso per l'interpretazione dei valori di questo sport: rispetto delle regole, dell'avversario, dell'arbitro, sono diventati parte del loro modo di intendere il gioco. È stato bellissimo vederli impegnarsi per vincere una partita, dimenticando tutto quello che di pesante hanno alle spalle". Già, quello che hanno alle spalle. Storie a volte molto dure, come quella di Orobor, il capitano, un ragazzo africano arrivato in Italia dalla Grecia e inciampato - e di tutto quello che si può sapere - in qualche casino di troppo. "Siamo una squadra, adesso. I singoli e le loro storie, almeno in questo contesto non hanno alcuna importanza", dicono. E allora parlando di Orobor si deve solo dire che all'ala è una furia. Pescara: "Filatelia nelle carceri", così Poste Italiane supera le sbarre di San Donato www.ilcorrieredabruzzo.it, 4 ottobre 2013 A Pescara la prima tappa nazionale del progetto formativo-culturale rivolto ai detenuti. La Filatelia come strumento per superare le sbarre del carcere e favorire la rieducazione e il reinserimento sociale dei detenuti della Casa Circondariale di "San Donato" a Pescara. Questo il tema della conferenza stampa che si è svolta oggi, giovedì 3 ottobre, presso il penitenziario di Pescara, nel corso della quale è stato presentato il progetto formativo-culturale "Filatelia nelle carceri", promosso e sviluppato da Poste Italiane in collaborazione con i Ministeri della Giustizia e dello Sviluppo Economico, la Federazione fra le Società Filateliche Italiane e l'Unione Stampa Filatelica Italiana. Ad illustrare il progetto, il direttore dell'Istituto Penitenziario Franco Pettinelli e la responsabile perla Filatelia di Poste Italiane Marisa Giannini. Presenti, tra gli altri, il vice prefetto della Provincia di Pescara Maria Di Cesare, il provveditore regionale per l'Amministrazione Penitenziaria Bruna Brunetti e l'assessore al Lavoro del Comune di Pescara Marcello Antonelli. L'iniziativa, che prende spunto proprio dall'interesse manifestato da un gruppo di reclusi del arcere di Bollate i quali, nel 2010, hanno dato vita autonomamente ad un circolo filatelico interno alla casa circondariale milanese, prende dunque il via anche all'interno dell'Istituto di pena di Pescara, prima tappa nazionale, attraverso lo svolgimento di corsi didattici/formativi finalizzati ad avvicinare i detenuti al mondo della filatelia e al collezionismo. Gli "speciali" studenti, oltre ad approfondire le tematiche classiche legate all'universo dei francobolli, potranno sviluppare abilità trasversali, quali l'osservazione e la collaborazione, apprendere nuove conoscenze e ottenere un aiuto nella socializzazione. Un progetto formativo di più ampio respiro dunque che, approfittando delle sostanziali caratteristiche di multidisciplinarità e interdipendenza tipiche della filatelia, consentirà ai partecipanti di sondare una varietà di aree di interesse collegate al francobollo come la storia, la geografia, l'arte, le Istituzioni, le diversità culturali, le tradizioni, i popoli, gli eventi celebrativi legati a personalità o avvenimenti storici che hanno segnato in modo rilevante la storia nazionale e internazionale. Espressione della società e della cultura di un paese, simbolo per eccellenza del collezionismo, al francobollo e alla sua peculiarità viene dunque affidato un ruolo decisivo e ad alta valenza formativa: stimolare la curiosità e il desiderio di sottrarsi alla monotonia della vita carceraria, proporre spinte motivazionali per approfondire argomenti e tematiche di forte impatto culturale e soprattutto contribuire al processo di riabilitazione e reinserimento nella società dei detenuti, elementi fondanti e obiettivi dello stesso sistema carcerario italiano. Durante la conferenza, Marisa Giannini, Responsabile Nazionale per la Filatelia di Poste italiane, ha espresso grande soddisfazione per il diffuso gradimento del progetto. Così il direttore dell'Istituto Penitenziario pescarese, Franco Pettinelli. Al termine della presentazione, Franco Pettinelli ha accompagnato gli intervenuti in visita agli ambienti dedicati alle attività didattiche, con i quali ha assistito alla lezione di filatelia svolta da Marisa Giannini agli studenti che hanno aderito al corso. Salerno: stasera all'Icatt in scena compagnia teatrale composta da detenuti e agenti La Città di Salerno, 4 ottobre 2013 Stasera alle 19 presso L'Istituto di custodia attenuata (Icatt), diretto da Rita Romano, si alzerà il sipario sullo spettacolo teatrale "Dai fiori non nasce nulla, dal fango nascono i diamanti" messo in scena dalla compagnia teatrale "Le canne pensanti" composta da detenuti e agenti dell'Icatt. Grazie ai progetti di reinserimento che vedono nell'attività teatrale uno strumento di socializzazione ed interazione, questa sera andrà in scena la prima con 15 attori tra detenuti e guardie penitenziarie che da giugno si sono impegnati nelle prove, nella costruzione delle scenografie e degli abiti. Il testo teatrale è stato scritto e diretto da Massimo Balsamo, 40enne, ospite della struttura, estrapolato dalle canzoni di Fabrizio De Andrè. "Grazie alla direttrice che da tempo sostiene il progetto teatrale, è stato possibile capire e far capire che l'interazione tra poliziotti e detenuti approda al ruolo di rieducazione - spiega Michele Ferrarese, guardia giurata ed attore - L'obiettivo è quello di offrire speranza che un futuro diverso è possibile anche per chi ha sbagliato". Ferrara: Quaderni del Teatro Carcere "i detenuti raccontano" www.telestense.it, 4 ottobre 2013 Un laboratorio teatrale, diretto da Horacio Czertok, la presentazione del primo volume dei Quaderni del Teatro carcere, il giornale Astrolabio, della Casa circondariale di Ferrara, edito dai detenuti. tutto questo viene presentato alla città sabato pomeriggio a partire dalle 15.30 alla libreria IBS, nell'ambito degli eventi collaterali al Festival di Internazionale. Un tour in Emilia Romagna nelle città sede di carcere per presentare il progetto che racconta | Due anni di Teatro Carcere in Emilia-Romagna. 2011-2012. Sabato 5 ottobre il tour farà tappa alla libreria IBS di Ferrara, per presentare il primo volume di quaderni di teatro-carcere, diretto a Ferrara da Horacio Czertok. Sono quaderni di appunti, di lavoro, di informazione, di elaborazione: per fissare immagini e pensieri, raccogliere materiali, aprire finestre su attività e risultati normalmente poco visibili, condividere e stimolare riflessioni. Il volume che inaugura la serie annuale dei Quaderni ha per titolo Mappe ristrette e disegna la geografia di un paesaggio assai diversificato che si snoda da Parma a Forlì, passando per Reggio Emilia, Modena, Castelfranco Emilia, Bologna, Ferrara, dove le esperienze teatrali in carcere riflettono competenze, metodologie e approcci artistici che spaziano dal teatro d'attore a quello di figura, dalla musica alla video arte, dal teatro partecipativo alla performance. Il volume comprende scritti di Patrizio Bianchi, Paolo Billi, Carla Brezzo, Desi Bruno, Gherardo Colombo, Marco Dallari, Marco De Marinis, Piergiorgio Giacchè, Elisabetta Laganà, Giulia Innocenti Malini, Maria Longo, Francesco Maisto, Alessandro Margara, Massimo Marino, Vito Martiello, Armando Punzo, Piergiorgio Reggio, Armando Reho, Giuliano Scabia. Brescia: domenica si conclude il 39° torneo di volley femminile nel carcere di Verziano Ristretti Orizzonti, 4 ottobre 2013 Nella Casa Reclusione di Verziano sono in svolgimento diverse attività sportive inserite nel "Progetto" dell'Uisp, realizzato in collaborazione con l'Associazione "Carcere e Territorio", col patrocinio del Comune di Brescia (Assessorato allo Sport e Presidenza del Consiglio) e sostenuto dalla Fondazione Asm Brescia: per i detenuti il corso di scacchi con il docente Diego Tonoli e per le detenute l'attività in palestra il lunedì e giovedì pomeriggio. Sabato scorso si è disputata la quarta giornata del 39° torneo di volley femminile sul campo in erba tra detenute e gruppi esterni e che terminerà domenica prossima 6 ottobre con la disputa del quadrangolare finale con inizio alle ore 9.30 e termine alle ore 11.30 con le premiazioni, il rinfresco e con la presenza dei familiari delle detenute, delle autorità istituzionali e penitenziarie. Le squadre partecipanti di volley che stanno condividendo con le detenute l'edizione 2013 sono: Uisp Brescia, SGS Pallavolo Castel Mella, G.S. "Senza Pretese" Gavardo, Istituto Superiore "Lorenzo Gigli" Rovato, Associazione Promozione Sociale "Tutte in Rete". Terminato il torneo di volley , sabato 12 ottobre inizierà il 29°Campionato di calcio a 7 giocatori "Memorial Giancarlo Zappa", con la partecipazione di 10 squadre, tre di detenuti e 7 compagini esterne, e con l'importante novità che le gare saranno arbitrate dagli stessi detenuti che hanno partecipato al corso per arbitri di calcio svoltosi nei mesi scorsi a Verziano. Libia: 6mila persone nei campi di concentramento; stupri, torture e tanti bimbi soli di Gilda Maussier Il Manifesto, 4 ottobre 2013 Ganfuda, Majer, Misurata, Abu Salim, al-Zawiya... L'elenco dei campi di concentramento di migranti in Libia - li chiamano centri di detenzione o strutture d'accoglienza per conferire un'inesistente dignità agli accordi politici stipulati dal 2008 ad oggi tra i governi libici e quelli italiani e di altri paesi europei - si allunga di mese in mese. Sono solo 17 i luoghi di trattenimento formali, ma l'elenco delle carceri dove senza accuse né processi sono reclusi migliaia di migranti, uomini, donne e bambini provenienti soprattutto dal Corno d'Africa (Somalia, Eritrea e Etiopia) e immessi nella tratta lungo la Libia, sembra infinito. In questi campi gestiti da miliziani - la Croce rossa ne ha visitati solo una sessantina - si stima ci siano fino a 6 mila persone. Ma è solo un dato indicativo. Ammassati in condizioni subumane, sottoposti a ogni genere di vessazioni, stupri e torture, per la sola colpa di avere la pelle nera in un paese diventato ormai "un enorme supermercato di armi, dove regna la confusione e la legge del più forte", non hanno diritti né voce, cancellati dal mondo come polvere sotto il tappeto. C'è solo un modo di ascoltare le testimonianze di questi "condannati all'inferno libico": il telefono cellulare che spesso riescono a portare con sé. È in questo modo che la onlus In-Migrazione ha raccolto centinaia di testimonianze in un dossier presentato nei giorni scorsi dal titolo "0021, trappola libica", dal prefisso internazionale digitato migliaia di volte per entrare in contatto con i cellulari libici nascosti nei centri di detenzione. "La situazione è molto drammatica, in carcere ti danno un pane al giorno, solo un pane, poi c'è la tortura...ti picchiano in ogni modo possibile... se provi a scappare, se fai qualsiasi cosa ti picchiamo con il bastone. Le donne vengono stuprate e mandate via", racconta Tesfu (ma i nomi sono di fantasia). E Salih: "Ci sono donne incinte, bambini, minori. Ce n'è uno anche qui nella nostra stanza, si chiama Mahamed. So che solo tra gli eritrei ce ne sono cinque o sei di 14 o 15 anni. Stanno con noi, vivono con noi. Questi sono da soli, non sono accompagnati, mentre ce ne sono altri piccoli con la famiglia. Ci sono famiglie e i loro figli in una stanza, ci sono bambini di 5/7 anni, ci sono sette bambini eritrei che conosciamo di tre famiglie... e altri 3-4 di altre famiglie". Nel maggio scorso, testimonia Amnesty International, nel "centro di trattenimento" di Sabha si trovavano 1300 persone: "La prigione è risultata priva di un servizio di fognatura funzionante e i corridoi erano pieni di immondizia. Circa 80 detenuti presumibilmente affetti da scabbia erano sottoposti a "trattamento" in un cortile, sotto al sole, in condizioni di disidratazione". I delegati di Amnesty hanno documentato "numerosi casi di detenuti, uomini e donne, sottoposti a brutali pestaggi con cavi elettrici e tubi dell'acqua. In almeno due "centri di trattenimento", è stato riferito dell'uso di munizioni letali per sedare le rivolte. Un uomo che era stato raggiunto da un proiettile a un piede è stato legato a un letto e poi colpito col calcio di un fucile: per quattro mesi non ha potuto camminare". "Razzismo e rastrellamenti hanno subito una recrudescenza nel settembre 2012 dopo l'attacco al consolato Usa di Benghazi e nel febbraio del 2013 in occasione del secondo anno della "rivoluzione"", spiega Simone Andreotti, presidente di In Migrazione Onlus. "Evitare queste morti non è impossibile - spiega Andreotti. Sarebbe sufficiente permettere a queste persone di ottenere un lasciapassare nelle ambasciate e nei consolati europei nei paesi di transito, per poter fare richiesta d'asilo in Europa. Una scelta che salverebbe tante vite, spezzerebbe gli interessi del traffico di esseri umani e permetterebbe di smarcarsi definitivamente dai ricatti di paesi che trasformano l'apertura o la chiusura delle frontiere in un'arma di pressione internazionale". Russia: caso Greenpeace; anche un italiano incriminato per pirateria, rischia 15 anni di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 4 ottobre 2013 Tutti accusati di pirateria, come i somali che intercettano le navi nel Corno d'Africa e sequestrano gli equipaggi. Come i saraceni che assalivano le città sulla costa o i corsari che abbordavano i galeoni carichi d'oro di ritorno dalle Americhe. Il comitato investigativo russo ha deciso che i trenta attivisti di Greenpeace arrestati il 18 settembre debbano essere processati in base all'articolo 227 del codice penale che prevede una condanna minima a 10 anni di carcere e massima a 15. Non conta che l'organizzazione ambientalista sia nota da anni per le sue battaglie o che i militanti arrestati stessero protestando contro la trivellazione del fondo marino da parte di Gazprom in una delle zone più delicate del pianeta. Non conta il fatto che lo stesso presidente russo Vladimir Putin abbia detto nei giorni scorsi che "non si trattava di pirati", anche se avevano infranto la legge internazionale. I trenta, compreso l'italiano Cristian D'Alessandro, originario di Napoli, rimarranno nel carcere preventivo di Murmansk in attesa di processo. La decisione ha naturalmente innescato immediate reazioni internazionali, compresa quella del nostro ministro degli Esteri. Emma Bonino spera che "l'inchiesta chiarisca i fatti e consenta la rapida conclusione della vicenda, tenendo conto della natura pacifica della protesta". Una immediata scarcerazione di tutti i protagonisti della vicenda e il rilascio della nave usata da Greenpeace per avvicinarsi alla piattaforma era già stata chiesta dal governo olandese, visto che il rompighiaccio è registrato in quel paese. Ieri, poi, l'ambasciatore italiano a Mosca Ragaglini ha riunito tutti i colleghi dei paesi interessati. Ma per ora è ben difficile che le cose possano muoversi rapidamente nel senso sperato. Il problema è che la Russia sembra voler dare un segnale forte in vista di importanti scadenze future. Innanzitutto nell'Artico, che Mosca considera di enorme importanza strategica, sia per motivi militari che energetici: nel sottosuolo è contenuto quasi un quarto delle riserve mondiali inesplorate di gas e petrolio. Tutti i paesi del Grande Nord rivendicano fette dell'Artico e hanno intenzione di effettuare nuove ricerche e trivellazioni. La Russia, in più, afferma anche che lo stesso Polo Nord le appartiene. Così Putin ha appena confermato che aumenterà la presenza nell'area, pure con la riapertura di una vecchia base militare sovietica abbandonata nelle isole Novosibirskiye da poco visitata da una squadra navale guidata dall'ammiraglia della flotta del Nord. A chi gli parlava dell'ipotesi di creare per l'Artico una zona di rispetto sotto controllo internazionale, il presidente russo ha risposto seccamente: "L'Artico è una parte inalienabile della Russia. Lo è stato per secoli e lo sarà per il futuro". Poi c'è la questione delle Olimpiadi invernali in programma a Sochi dove potrebbero esserci proteste del movimento gay per la legislazione russa che limita qualsiasi accenno all'omosessualità in presenza di minori (può scattare l'accusa di propaganda, con fermo ed espulsione degli stranieri). Si ritiene quindi che le autorità abbiano voluto colpire immediatamente con estrema durezza il primo tentativo di "attaccare" la Russia. Alcuni giornali moscoviti ripresi dall'Ansa sostengono che poi, quando il polverone su Greenpeace si sarà calmato e il segnale sarà arrivato a destinazione, le accuse potranno anche essere derubricate. Gli avvocati dell'organizzazione ambientalista, che hanno già presentato ricorso, lo sperano. Anche perché in Russia le statistiche ci dicono che le richieste dell'accusa nel 99 per cento dei casi sono accolte dai giudici. Arresto fotografo viola legge media Anche il consiglio per i diritti umani presso il Cremlino ha duramente criticato l'arresto e l'accusa di pirateria nei confronti del fotografo freelance russo Denis Siniakov, detenuto insieme ai 29 attivisti di Greenpeace coinvolti nel blitz di protesta contro una piattaforma petrolifera di Gazprom nell'Artico. Una detenzione, la sua, definita "una diretta violazione della legge russa sui mass media, che protegge il diritto dei giornalisti, inclusi i freelance, quando esercitano il loro dovere professionale". Il Consiglio presidenziale per i diritti umani ricorda che Siniakov era a bordo del rompighiaccio di Greenpeace Artic Sunrise su incarico della testata Lenta.ru e che non ha preso parte direttamente al tentativo di scalare la piattaforma. Il suo arresto è visto quindi come "un tentativo di far pressione sui mass media". Una ferma condanna è già stata espressa dall'Unione dei giornalisti russi, da alcuni autorevoli media russi e dall'ong Reporter senza frontiere. Romania: solo ora, dopo 23 anni. si iniziano a perseguire i "boia" di Ceausescu di Mihaela Iordache www.balcanicaucaso.org, 4 ottobre 2013 Furono più di mezzo milione i prigionieri politici durante il regime di Ceausescu. Molti di loro morirono in carcere. Solo ora si iniziano a perseguire i colpevoli. Ma non è inesorabilmente troppo tardi? A 23 anni dal crollo del regime comunista in Romania si torna a parlare, ricordare e discutere dei crimini commessi nelle prigioni comuniste, nei "lager" di lavoro forzato per la "rieducazione" dei nemici del popolo: tutti coloro i quali la pensavano diversamente, che osavano credere nelle libertà e nei diritti fondamentali dell'uomo e che spesso hanno pagato con la vita questi loro ideali. Quando la memoria collettiva sembrava non dare più segni d'attenzione nei confronti degli orrori avvenuti durante il regime, ci ha pensato l'Istituto per l'indagine dei Crimini del Comunismo e per la memoria dell'Esilio Romeno (IICCMER) a rinfrescare la memoria dei romeni, annunciando di aver identificato "numerosi fatti con possibili conseguenze di natura penale commessi da 35 impiegati della Direzione Generale dei Penitenziari che hanno ricoperto diverse cariche tra il 1950 e il 1964". I boia: si tratta di chi ha avuto ruoli di comando all'interno del sistema penitenziario, attualmente di un'età compresa tra gli 81 e i 99 anni, e che a seguito dei loro atroci atteggiamenti avrebbero causato il decesso di molti detenuti. Il 30 luglio scorso l'IICCMER ha notificato un dossier circa l'attività del tenente colonnello Alexandru Visinescu, comandante del carcere di Râmnicu Sarat tra il 1956 e il 1963. è del 3 settembre poi la notizia che nei suoi confronti è stata avviata un'inchiesta e che è accusato di genocidio e di aver sottoposto i detenuti politici a torture e violenze, privandoli di cibo, assistenza medica e medicinali. Lo stesso Istituto ha poi sollecitato che si avvii a breve un'inchiesta anche a carico del colonnello Ion Ficior, ex vice-comandante della Colonia di Lavoro di Periprava (delta del Danubio). Tra le accuse indirizzate al colonnello Ficior (85 anni) - ora in pensione e rispettato amministratore di un condominio in un quartiere di Bucarest - anche quella di genocidio. I due, come molti altri conniventi al vecchio regime, sono rimasti dei privilegiati anche dopo il suo crollo. In un paese dove lo stipendio medio è di circa 175 euro al mese, le loro pensioni superano i 1.200 euro al mese. "Visinescu e Ficior sono i primi tra 35 ex comandanti comunisti che IICCMER ha individuato sino ad ora", ha dichiarato la portavoce dell'istituto Adriana Niculescu "tutti loro erano ex dipendenti del sistema penitenziario". E a chi contestava il fatto che ormai si arriva tardi e che anche la maggior parte delle vittime sta morendo (delle vittime di crimini tra gli anni '50 e '60 ve ne erano ancora in vita 40.000 nel 1989 e solo 3500 attualmente) la Niculescu ha ribadito che non "è mai troppo tardi", e che si tratta di una questione di principio, attraverso la quale deve guarire un'intera società. Disattenzione Tutto questo è stato possibile ovviamente grazie alla "disattenzione" di tutti i governi che si sono succeduti da allora. Certo, la coppia Ceausescu è stata fucilata, ma il vecchio apparato è rimasto nei gangli dello stato e molti ex membri della Securitate hanno continuato a fare carriera passando in modo disinvolto dal Patto di Varsavia all'Alleanza atlantica. La memoria collettiva in Romania è particolarmente corta. Poco si parla del passato regime, poco si parla dei giorni della rivoluzione, per nulla chiariti nella loro dinamica. è facilmente comprensibile il perché di questa mancata volontà politica: in questi ultimi 23 anni, nei partiti democratici romeni, ci sono riciclati in modo camaleontico vecchi esponenti comunisti. E una mano lava l'altra. I servizi e la stampa La struttura che più rappresenta la continuità con il passato regime è quella dei servizi segreti. Che in Romania non si toccano. Nell'epoca Ceausescu le reti di informatori partivano dai bambini delle scuole. Molti degli informatori di allora sono ora prosperi uomini di affari, oppure occupano alti livelli nelle istituzioni o sono giornalisti. Spesso accade di avere l'impressione che fazioni degli attuali servizi si contrappongano tra loro proprio utilizzando la stampa. E per i giornalisti risulta sempre più difficile fare il proprio lavoro, costretti a seguire i giochi dei loro padroni, ampiamente ancorati alla politica. No, la libertà di espressione non è scomparsa in Romania. Piuttosto si è trasformata in una strana libertà che spesso, omissione su omissione, s'avvicina alla censura e all'autocensura. Certo, si può dire di tutto, ma non contro tutti: molto meglio contro i nemici dei propri padroni. Si sono ridotti a questo quei giornalisti entusiasti degli anni '90, per i quali l'informazione corretta era il principale criterio da seguire nel proprio mestiere... Scheletri nell'armadio Tornando agli "scheletri nell'armadio" che stanno riemergendo in queste settimane a Periprava solo ora (ma perché proprio ora?) è stata scoperta una fosse comune dove sarebbero stati sepolti alcuni dei detenuti politici deceduti nella colonia di lavoro forzato."Ci sono alcuni scheletri e abbiamo tutti gli indizi per pensare appartengano a ex detenuti della Colonia di Lavoro di Periprava", ha dichiarato Andrei Muraru, presidente dell'IICCMER. "L'istituto ha identificato oltre 50 sopravvissuti della colonia penale e ha già raccolto 21 testimonianze. La maggior parte dei decessi ha riguardato detenuti tra i 50 e i 59 anni. Difficilmente regge quindi la dichiarazione di Ion Ficior che, negando qualsiasi coinvolgimento, afferma che i detenuti in questione sarebbero morti di vecchiaia", ha dichiarato Muraru alla stampa rumena. Anch'io detenuto Un noto attore romeno, Mitica Popescu, ha dichiarato a Gandul.info che anche lui venne condannato a tre anni di prigione per il "semplice" motivo di non aver denunciato alcuni suoi amici che durante una festa avevano manifestato il desiderio di fuggire in America, nel lontano 1958. Popescu ha dichiarato di essere sopravvissuto solo perché giovane e in buona salute. E ricorda la fame micidiale: "Mangiavi meglio durante il sonno". I detenuti politici, se sopravvivevano al carcere, una volta fuori dalla prigione non avevano molte "opportunità". Continuava la pressione psicologica e fisica e venivano del tutto marginalizzati. Risarcimenti Intanto il governo ha deciso che chi viene condannato in via definitiva per crimini commessi tra il 1945 e il 1989 dovrà risarcire le vittime, rinunciando per un periodo massimo di 5 anni al 25-70% della propria pensione. "In ogni caso questo provvedimento non rappresenta alcun risarcimento morale nei nostri confronti" ha dichiarato a SETimes Octav Bjoza, presidente dell'associazione degli ex detenuti politici "ma ha piuttosto un ruolo educativo per le giovani generazioni che iniziano a sentir parlare di ciò che è stato tenuto nascosto loro per molto tempo". Ai microfoni di Radio France International (RFI), sezione romena, lo storico Marius Oprea dell'Istituto per l'indagine dei Crimini del Comunismo ha affermato che riterrebbe più corretta l'eliminazione delle pensioni speciali a chi apparteneva al sistema oppressivo piuttosto che una loro semplice diminuzione pro-tempore. Nel periodo del regime comunista si stima siano stati 600mila i romeni incarcerati per motivi politici. Pochi di loro sono ormai ancora in vita. è solo nel 2006 (a 16 anni dalla caduta del comunismo), sotto la presidenza di Traian Basescu, che è arrivata una condanna istituzionale ufficiale dei crimini commessi durante il comunismo. Svizzera: pubblicato rapporto Comitato Prevenzione Tortura sulle carceri cantonali www.admin.ch, 4 ottobre 2013 Rapporto sul carcere cantonale di Sciaffusa Oggi la Commissione nazionale per la prevenzione della tortura (Cnpt) pubblica un rapporto sulla visita del 16-17 aprile 2013 nel carcere cantonale di Sciaffusa, rilevando in linea di massima condizioni corrette e una gestione professionale dell'istituto. È per contro stata giudicata insufficiente l'infrastruttura obsoleta, che impone restrizioni anche inammissibili alla libertà di movimento dei detenuti e non consente di applicare adeguatamente i differenti regimi di detenzione. La Commissione ritiene particolarmente difficili le condizioni delle persone detenute in base al diritto sugli stranieri e delle detenute di sesso femminile. La Commissione ritiene che l'infrastruttura obsoleta e la ristrettezza della struttura rendano particolarmente difficile l'adempimento del mandato legale, restringendo inoltre la libertà di movimento dei detenuti. Ecco perché ha raccomandato al Consiglio di Stato del Canton Sciaffusa di portare avanti il progetto per una nuova costruzione del centro di sicurezza. La Commissione ha in particolare giudicato inammissibile rinchiudere un detenuto per otto mesi in una cella di poco meno di 7m2; ha quindi esortato le autorità di servirsi di tale cella soltanto per brevi soggiorni e nel frattempo ha potuto prendere atto con soddisfazione che la sua raccomandazione è stata seguita. La Commissione giudica troppo restrittivo il regime di detenzione del carcere cantonale di Sciaffusa: in linea di massima, i detenuti di tutte le categorie trascorrono nelle loro celle ventitre ore di fila, con un'ora d'aria al giorno. Il carcere offre soltanto dieci posti di lavoro e il locale per il tempo libero è a disposizione dei detenuti per sole due ore il sabato. Soprattutto per i detenuti amministrativi secondo il diritto degli stranieri, la cui detenzione non ha carattere penale, queste forti restrizioni sono inammissibili e contrarie a quanto stabilito dal Tribunale federale nella sua giurisprudenza. La Commissione ha pertanto suggerito alle autorità di ridurre i lunghi tempi di reclusione, offrendo una gamma adeguata alla situazione di possibilità di svago e di occupazione, e di valutare l'opportunità di creare per i detenuti amministrativi un reparto separato, dove applicare un regime di detenzione meno severo. La Commissione si è detta sorpresa del fatto che le detenute di sesso femminile non sono separate fisicamente dai detenuti maschi. Nel corso di un colloquio con una detenuta è emerso che - a causa del principio della separazione dei detenuti in carcere preventivo da quelli condannati - essa deve trascorrere tutto il giorno da sola nella sua cella, senza la possibilità né di lavorare né di avere contatti sociali. La Commissione ritiene che l'infrastruttura esistente non si presti ad accogliere detenute donne, raccomandando pertanto di trasferirle fuori Cantone se la detenzione supera la durata di una settimana. Rapporto sugli istituti per il carcere preventivo di Sion e Martigny La Commissione nazionale per la prevenzione della tortura (Cnpt) ha pubblicato in data odierna un rapporto sulla sua visita agli istituti per il carcere preventivo di Sion e Martigny, tenutasi dal 27 al 29 novembre 2012. La Commissione ha rilevato una situazione fondamentalmente corretta e procedure regolate. Ha però ritenuto troppo restrittivo il regime di carcere preventivo applicato per analogia anche a persone che scontano una pena o che si trovano in carcerazione amministrativa e si è mostrata piuttosto preoccupata quanto alla mancanza di personale in entrambe le carceri. La commissione ha ritenuto troppo restrittivo il regime di detenzione nelle carceri preventive di Sion e Martigny. Fatta eccezione per una passeggiata di un'ora, i detenuti di tutte le categorie passano di regola 23 ore al giorno nella propria cella. Mentre a Sion i detenuti dispongono almeno di una scarna offerta occupazionale, a Martigny non hanno accesso a offerte occupazionali o sportive. La Commissione ha ritenuto particolarmente problematica la commistione dei diversi regimi di detenzione, in particolare per il fatto che le restrittive condizioni di detenzione in materia di libertà di movimento e contatto con il mondo esterno valgono anche per i detenuti che scontano una pena o sono in carcerazione amministrativa prevista dal diritto in materia di stranieri. Sono soprattutto i diritti di quest'ultima categoria di persone, la cui detenzione non assume carattere penale, ad essere limitati in modo inammissibile. La Commissione ha pertanto esortato la direzione ad ampliare in entrambi gli istituti l'offerta occupazionale e sportiva così da ridurre il tempo di reclusione. La Commissione ha criticato le attuali modalità di carcerazione amministrativa prevista dal diritto in materia di stranieri nell'istituto di Martigny, che secondo la commissione sono contrarie a tutti i requisiti legali e alla giurisprudenza del Tribunale federale. La Commissione l'ha ritenuto inaccettabile e ha invitato le autorità e la direzione dell'istituto a vagliare urgentemente la creazione di una sezione a sé stante o di rilocare le persone detenute secondo il diritto in materia di stranieri in un luogo adatto a garantire un regime di detenzione più libero. Nel corso della visita, la Commissione ha costatato che il personale del carcere è insufficiente rispetto ad altri istituti. Data una proporzione di 1:4 tra personale e detenuti, le condizioni di lavoro per il personale sono considerate difficili. Ciò ha inoltre conseguenze negative per i detenuti, dal momento che il personale disponibile non è sufficiente a concedere più opportunità di movimento ai detenuti. La riorganizzazione prevista dovrà tener conto in particolar modo di tale situazione. Mali: presidente Keita ordina scarcerazione detenuti tuareg in applicazione piano di pace Nova, 4 ottobre 2013 Il presidente maliano, Ibrahim Keita, ha ordinato la scarcerazione dei ribelli tuareg detenuti nelle carceri di Bamako, in applicazione agli accordi di pace siglati in Burkina Faso con il Movimento di liberazione nazionale dell'Azawad. Lo ha annunciato l'emittente televisiva "al Jazeera". Nel contempo il capo dello stato maliano, vincitore delle elezioni che si sono svolte lo scorso luglio, ha deciso di sciogliere il consiglio militare dell'esercito composto dagli ufficiali golpisti che hanno preso il potere lo scorso aprile, nel pieno della crisi con i tuareg. La decisione è stata presa dopo la protesta portata avanti nei giorni scorsi da alcuni ufficiali golpisti che hanno aperto il fuoco lunedì scorso nel villaggio di Kati, vicino Bamako, rivendicando l'ottenimento di una serie di promozioni che sostengono fossero state promesse dalle autorità maliane. El Salvador: al via progetti per il miglioramento delle carceri, stanziati 72 milioni $ Il Velino, 4 ottobre 2013 L'assemblea legislativa di El Salvador, con 70 voti a favore su 84 totali, ha ratificato un prestito di 72 milioni di dollari, che il governo ha ottenuto dal Banco Centroamericano de integracion economica (Bcie). I fondi serviranno per un programma di miglioramento carcerario e per l'acquisizione di un sistema di sorveglianza dei detenuti mediante braccialetti elettronici. Il governo del paese latino americano sarà coinvolto con un ulteriore investimento di nove milioni di dollari. Il Bcie aveva firmato la concessione del credito al paese latino americano il 24 aprile scorso. Per El Salvador la sigla era stata apposta dal ministro della Giustizia, David Munguia Payès. Il finanziamento, in particolare, sarà destinato alla costruzione e all'ampliamento delle recinzioni dei penitenziari e per imprese agricole legate alle strutture detentive. Nel progetto saranno coinvolte le carceri a Izalco, Santa Ana, Sonsonate, Zacatecoluca e Morazan. Sul versante dei braccialetti elettronici, invece, ne saranno acquisiti duemila da destinare a un programma di riabilitazione dei detenuti. Questi ultimi, in diversi casi - tra cui motivi di salute o buona condotta, infatti, potranno lasciare le prigioni a patto di indossarne uno.