Giustizia: una riforma efficace, per correggere le troppe anomalie di Vladimiro Zagrebelsky (Giudice emerito Corte Europea Diritti dell’Uomo) La Stampa, 30 ottobre 2013 La promessa di una “riforma della giustizia”, lanciata da Matteo Renzi, accanto alla solita genericità che non dice cosa essa debba contenere, ha un aspetto di novità. La novità consiste nel fatto che, con l’esempio grave d’ingiustizia da cui Renzi ha preso le mosse, quello di Silvio Scaglia, investe la giustizia penale. Fino ad ora nell’area da cui Renzi parte, prevaleva la posizione che indicava la sola giustizia civile come bisognosa di una profonda riforma, mentre quella penale richiedeva solo del bricolage occasionale. Ora è evidente che i tempi lunghi - strutturalmente lunghi - della giustizia civile rappresentano un problema gravissimo per l’efficacia della protezione dei diritti e per l’economia nazionale. Piccoli aggiustamenti hanno dato piccoli risultati. Ma è soprattutto il settore penale che ha visto in campo un conservatorismo esasperato, che ha lasciato spazio solo a micro interventi legislativi dannosi per il sistema e utili solo a un’area di malaffare - incredibilmente vasta in Italia -composta di tanti personaggi in un modo o nell’altro potenti. La paura che aprendo una riflessione di fondo non si sapesse dove si andava a finire, ha portato alla paralisi propositiva o alla tendenza a correr dietro a piccoli inutili ritocchi lessicali nella procedura penale. Ingenuità lessicali È di ieri su questo giornale un’intervista al responsabile giustizia del Pd che pensa di correggere l’eccesso di custodia cautelare in carcere inserendo nel codice la paroletta “attuale” accanto all’indicazione del pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, che giustifica l’arresto in corso di processo. Santa ingenuità, verrebbe da dire. Non è problema che possa risolvere il legislatore con un’ulteriore modifica del codice di procedura, che è già chiaro e giustamente restrittivo. È alla magistratura che occorre rivolgere un forte richiamo, perché le norme siano applicate e non distorte, e alla Cassazione, perché svolga sempre rigorosamente il suo controllo. È fondamentale l’orientamento professionale dei magistrati, ma bisogna anche rimuovere uno dei motivi della distorsione, che consiste nei tempi lunghissimi dei processi, con il corredo di prescrizioni e inefficacia delle condanne. Potente è la tentazione della scorciatoia dell’arresto prima della condanna definitiva. Si propone allora - da parte dei “saggi” riformatori della Costituzione - una sconcertante operazione che vedrebbe la creazione di un nuovo organismo disciplinare, inventato per sovrapporlo a quelli già esistenti. Come se la “riforma” potesse iniziare - e concludersi - sul terreno della responsabilità disciplinare, invece che su quello della cultura professionale dei magistrati, della loro estrazione, formazione e destinazione al settore di attività cui sono adatti. Bricolage, anche questa volta, fuori bersaglio, anche se di livello costituzionale. Addio bocche della legge È invece ineludibile il tema difficile delle implicazioni sulle qualità professionali e sulla figura stessa del giudice, della tendenza incontrastabile all’aumento delle responsabilità dei giudici. La discrezionalità aumenta, altro che giudici impersonali bocche della legge! Aumenta perché i sistemi giuridici si complicano. L’aspirazione alla semplicità è comprensibile e in certi ambiti anche praticabile. Ma non sono evitabili gli spazi interpretativi che derivano dal sovrapporsi di norme nazionali e norme europee, norme ordinarie e norme costituzionali, oltre che dalla sempre maggior aspirazione a ottenere decisioni, non solo astrattamente legali, ma anche rispettose delle esigenze del caso concreto. Inoltre, come si sa, il legislatore ha rinunciato a disciplinare i temi “divisivi”, cioè i più difficili, lasciandoli in mano ai giudici, che non possono evitare di decidere i ricorsi. La figura professionale del giudice che decide in questo nuovo quadro di norme e di aspettative sociali è questione difficile in un ordinamento come il nostro, che è nel profondo ancora napoleonico. Ma con prudenza, senza immaginare rivoluzioni da un giorno all’altro, chi ci parla di “riforma della giustizia” dovrebbe prender atto che la “giustizia” è già cambiata e che occorre pensare alle conseguenze che ne derivano. Meccanismo perverso Il processo penale è disegnato apposta per incentivare ogni genere di espediente per allungarne i tempi. Il meccanismo della prescrizione dei reati è stato progressivamente modificato per farne strumento di strategie processuali dilatorie. La facilità con cui in Italia si ha accesso alle impugnazioni, in appello e in Cassazione, spinge a un loro uso distorto, al solo scopo di prender tempo. Se si guarda ai sistemi processuali che funzionano in Europa ci si accorge della anomalia italiana, fatta per impedire la conclusione dei processi e l’esecuzione delle sentenze. Senza una riforma delle regole di calcolo della prescrizione dei reati e senza una riforma del sistema delle impugnazioni non si esce dall’attuale stato di cose, che vede un’attività di magistrati e avvocati, tanto frenetica quanto improduttiva. Ma la riforma - che vuol dire anche riduzione - delle impugnazioni deve affrontare un problema specifico, anch’esso esclusivo del sistema italiano. La Cassazione italiana è investita di una valanga di ricorsi, in materia sia civile, che penale. Nessuna Corte suprema in Europa decide anche solo lontanamente il numero di ricorsi che la Cassazione italiana deve trattare. E nessuna Corte suprema in Europa ha un numero così grande di magistrati. È esperienza ormai acquisita che la Cassazione, così come è costretta a lavorare, non può garantire tempi rapidi e non può assicurare una costante alta qualità della sua giurisprudenza. Inoltre il numero elevato di magistrati che ruotano nella composizione dei collegi giudicanti, impedisce il mantenimento di orientamenti coerenti e costanti dei processi e l’esecuzione delle sentenze. Senza una riforma delle regole di calcolo della prescrizione dei reati e senza una riforma del sistema delle impugnazioni non si esce dall’attuale stato di cose, che vede un’attività di magistrati e avvocati, tanto frenetica quanto improduttiva. Ma la riforma - che vuol dire anche riduzione - delle impugnazioni deve affrontare un problema specifico, anch’esso esclusivo del sistema italiano. La Cassazione italiana è investita di una valanga di ricorsi, in materia sia civile, che penale. Nessuna Corte suprema in Europa decide anche solo lontanamente il numero di ricorsi che la Cassazione italiana deve trattare. E nessuna Corte suprema in Europa ha un numero così grande di magistrati. È esperienza ormai acquisita che la Cassazione, così come è costretta a lavorare, non può garantire tempi rapidi e non può assicurare una costante alta qualità della sua giurisprudenza. Inoltre il numero elevato di magistrati che rotano nella composizione dei collegi giudicanti, impedisce il mantenimento di orientamenti coerenti e costanti. I contrasti di giurisprudenza nella stessa Corte di Cassazione sono frequenti e incentivano i ricorsi, nella speranza di approfittare dell’orientamento favorevole, se la fortuna assiste. E comunque di guadagnar tempo: si ricorre in Cassazione anche contro sentenze di patteggiamento della pena, che l’imputato ha accettato o addirittura proposto! Se la Cassazione fosse messa in grado di svolgere il suo ruolo di definizione dell’interpretazione della legge, di meditata evoluzione quando ne viene il momento e di orientamento vincolante per gli altri giudici, come avviene in tutti i sistemi europei comparabili al nostro, una delle maggiori disfunzioni del sistema processuale sarebbe rimossa. Ma per farlo occorre ripensare la norma costituzionale che ammette sempre il ricorso per Cassazione contro tutte le sentenze, oltre che contro tutti i provvedimenti sulla libertà personale. Campo minato E questa una prospettiva minata, poiché è legata ad un’altra anomalia italiana: oltre 250.000 avvocati, di cui 40.000 abilitati a difendere in Cassazione. Caso unico in Europa; gli avvocati italiani, da soli, sono un quarto di tutti gli avvocati europei. In Francia ad esempio gli avvocati abilitati a difendere in Cassazione e in Consiglio di Stato sono 104. Nessuna incidenza sull’andamento dei processi in Italia? E, specificamente, sulla massa dei ricorsi in Cassazione? Non si può pensare, senza offendere la categoria, a una riforma che induca gli avvocati alla specializzazione? Basterebbe distinguere gli avvocati cassazionisti da tutti gli altri. Il numero si ridurrebbe naturalmente e la specializzazione crescerebbe; con essa diminuirebbero i ricorsi in Cassazione e aumenterebbe anche la qualità della sua giurisprudenza. In questo senso si è da tempo pronunciata la Corte europea dei diritti umani, preoccupata di salvare il ruolo essenziale delle Corti supreme nazionali, a difesa dello Stato di diritto. Per chi si propone di “riformare la giustizia”, pensando ai problemi reali e non a come sistemarsi nel puzzle della politica quotidiana, i temi sono numerosi e seri. Occorre guardare la realtà e le tendenze di fondo, con respiro adeguato. Giustizia: il carcere deve punire, oppure rieducare? troppe leggi, tanto caos di Bruno Ferraro (Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione) Libero, 30 ottobre 2013 Sempre più di frequente capita di dover prendere atto di atteggiamenti, tra lo sconcerto e l’incredulo, dell’opinione pubblica di fronte a provvedimenti adottati dalla magistratura, in particolare da quella requirente (cioè la pubblica accusa). Il fatto è che lo scenario normativo ha subito profondi cambiamenti rispetto a quando era in vigore il cosiddetto Codice Rocco (anno 1988 compreso): sono cresciute di numero le misure a disposizione del giudice; l’alternativa non è più solo tra libertà (cd. piede libero) e carcere (cd. restrizione); le misure possono essere solo richieste dall’organo accusatorio (il pm), poiché a concederle è un giudice terzo e neutrale (il giudice delle indagini preliminari) che, al termine dell’indagine, è chiamato a valutare anche l’opportunità o meno di un rinvio a giudizio. Detto delle differenze, però, il problema è ben lungi da una soluzione appagante. Quanti, ad esempio, hanno approvato la concessione degli arresti domiciliari, dopo sole 24 ore, al marocchino arrestato il 14.1.2013 per tentato stupro in danno di una donna gravida? Oppure la morte in carcere di un settantottenne paralizzato (3.5.2013)? Oppure ancora l’arresto di un novantatreenne (8 maggio successivo)? Quanti hanno preso sul serio la notizia di vittime “sottratte alla furia dell’aggressore”, nel caso di un novantaquattrenne colpevole di aver sparato e ridotto in fin di vita la badante e la figlia di quest’ultima (14.1.2013)? E che dire della sentenza della Corte Costituzionale che nel luglio 2013 ha dichiarato illegittima la detenzione in carcere, senza valutare la congruità di una misura non detentiva, per i colpevoli di uno stupro di gruppo? Come pure delle analoghe decisioni della Corte di Cassazione nel 2012 per i responsabili di altri gravi reati come il traffico di stupefacenti, l’omicidio, i delitti a sfondo sessuale e quelli in materia di immigrazione? Si registra poi lo sconcerto di quanti proprio non riescono a mandare giù l’incriminazione per omicidio di soggetti che sparano al rapinatore da cui sono stati affrontati armi in pugno, dovendosi valutare se e in che misura possa parlarsi di legittima difesa. Le Procure se la cavano, in questi casi, con l’espressione che l’indagine è “un atto dovuto”, ma è facile immaginare i sentimenti di rabbia e di delusione da parte delle persone interessate e dell’opinione pubblica. Potrei continuare con il rosario degli episodi sconcertanti, ma non è necessario. È opportuno, invece, ricordare che è da anni in corso il dibattito circa il mantenimento della pena in carcere, che sarebbe secondo alcuni inutilmente afflittiva o repressiva ma del tutto inadeguata a realizzare l’obiettivo della “rieducazione” del condannato affermato a chiare note da una norma della nostra Carta Costituzionale. Meno repressione e più rieducazione sembra essere il principio ispiratore della società moderna. In tal modo si lascia però priva di appaganti risposte la domanda di tutela della collettività e si introduce una nota di incertezza in un campo dominato dal fattore soggettivo. Provo a semplificare con degli interrogativi. Siamo proprio sicuri che ladri, truffatori e rapinatori siano rieducabili? Siamo proprio convinti che la rieducazione debba sembra prevalere sulla repressione? Siamo proprio certi che procedendo a piede libero si mandano segnali di legalità e di deterrenza a commettere reati? Siamo proprio sicuri che la schizofrenia delle misure cautelari (dentro, fuori, ancora dentro e ancora fuori...) aiuti a farsi un’idea della saggezza dei giudici anziché della stravaganza delle risposte al crimine? Ci pensi il legislatore quando muta continuamente i presupposti per l’adozione delle misure cautelari. Ci pensino però anche i giudici quando adottano provvedimenti in tema di libertà personale. Giustizia: Costituzione e carcere, quei left-libertarian a corrente alternata di Alessandro Antonelli Gli Altri, 30 ottobre 2013 I frequentatori di social lo avranno notato di sicuro. Gira in rete un mini quiz che indicizza su un grafico, come risultato finale, la propria appartenenza ad una precisa area politica di riferimento. Funziona più o meno come i test di orientamento all’università: hai già deciso a quale facoltà ti iscriverai, pertanto le risposte che tendi a fornire sono tutte viziate da un esito che si vuole predeterminato. Per una evidente stortura statistica che seleziona la mia personale cerchia di amicizie virtuali, ho assistito così a un florilegio di pallini che collocavano gli utenti-militanti nel quadrante in basso a sinistra, là dove si incontrano la parola left e quella libertarian. Fin qui tutto bene, se non fosse che molti dei medesimi left-libertarian sono gli stessi che nel dibattito di questi giorni su amnistia, indulto e carcere si sono abbandonati sovente a pulsioni reazionarie. C’è da giurare che molti di essi fossero anche in piazza qualche giorno fa, a difendere la Costituzione “via maestra” dai rapaci attacchi di chi la vuole stravolgere, stropicciare o - udite udite - riformare. A difendere la Costituzione, sì, ma non tutta tutta. Non certo l’articolo 27 che recita così: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Non certo l’articolo 13, laddove si prevedono limiti della carcerazione preventiva e si punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Non certo l’articolo 2 sui diritti inviolabili dell’uomo. Persino il custode massimo della Carta, Giorgio Napolitano - meritevole di ben altre critiche e invece sempre protetto da indulgenza plenaria - è stato preso a bersaglio nell’unica sortita vagamente “progressista” del suo settennato-bis, quando ha invitato il Parlamento ad un atto di clemenza per porre fine all’indegna condizione dei detenuti nelle celle. Anche qui facendo semplicemente cenno ad un’altra previsione costituzionale dimenticata dagli agit-prop della “società civile”: l’articolo 79 che disciplina la formulazione delle leggi riguardanti amnistia e indulto. Ed eccolo, il retro pensiero sul salvacondotto per Berlusconi (retro pensiero purtroppo facile), ad allarmare i tardo girotondini innamorati delle toghe, o i rivoluzionari che alle scorse elezioni si erano affidati al leader supremo Antonio Ingroia. Insomma, siamo sempre lì. Di fronte a certi tabù - fra cui spicca quello di un malinteso inno alla legalità - il militante di sinistra, in piena sintonia con una pavida classe dirigente, tira il freno a mano. Poi magari ti compra anche la maglietta made in jail lodando l’impegno dei detenuti di Rebibbia, per carità, ma quando si tratta di arrivare all’audacia di un pensiero (dis)organico sulle contraddizioni dello stato di diritto (?) innalza le barriere etiche del non possumus. Non c’è niente da fare: chi di fronte al dramma delle patrie galere derubrica la questione a problema minore o propone di costruirne di nuove per alleggerire un collettivo senso di colpa, preme comunque il piede sul pedale della punizione. La funzione riabilitativa della pena - intesa nella duplice accezione del riscatto del reo e della tutela sociale - neppure sfiora la mente dei fan di Beccaria. Si dice punizione, ma è un eufemismo. Talvolta la parola giusta sarebbe vendetta, soprattutto quando il nemico in gabbia è un soggetto ideologicamente contrapposto alla propria storia di integra militanza. Viva la Costituzione, viva la sinistra in perenne “travaglio”. Giustizia: intervista a Luigi Manconi “La riforma garantista che manca all’Italia” di Nanni Riccobono Gli Altri, 30 ottobre 2013 C’è un motivo “molto semplice”, sostiene Luigi Manconi, per cui l’Italia s’attarda sulla via di una seria riforma della giustizia, che metta fine soprattutto all’intollerabile situazione del sistema penale e delle carceri: si chiama assenza di garantismo. A 360 gradi: nella società, nei partiti e della classe politica in generale. Eppure una volta la sinistra era garantista… No, questo non è storicamente esatto. Il fondamento del garantismo sono i diritti individuali della persona e la sinistra nasce invece investendo le sue energie e le sue risorse nella difesa delle garanzie sociali e dei diritti collettivi. Si trattava in qualche modo di una necessità, perché le masse subalterne erano prive di difese rispetto ai bisogni più elementari. Ma di fatto ciò ha creato una cultura poco attenta ai diritti individuali. Però c’è stata una stagione garantista della sinistra... La sinistra comincia a diventare garantista alla fine degli anni Sessanta per il contributo di figure meno ortodosse, penso a Umberto Terracini per il Pci, a Riccardo Lombardi per il Psi. E subisce sia l’influenza dei movimenti collettivi studenteschi della fine degli anni Sessanta che delle torsioni autoritarie che il sistema legislativo e quello autoritario adottano nei confronti dell’insorgenza sociale. Forte è stata la spinta in questo senso del Partito radicale e di alcune componenti socialiste e liberali che immettono nella cultura politica della sinistra elementi di garantismo. Eppure i costituenti avevano concepito il comma 4 dell’articolo 13: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”... Ma erano i costituenti tra i quali si intrecciavano molte culture, non la sinistra. Comunque io non parlo di questo ma di quelle che sono le culture politiche e se vogliamo, il senso comune. Non a caso negli anni Settanta i diritti individuali vennero sottovalutati e addirittura guardati con diffidenza e sospetto a sinistra, perché erano diritti propri della borghesia, che “se li poteva permettere” perché aveva la pancia piena. Basta pensare all’atteggiamento del Pci nei confronti del divorzio, faticò non poco per comprendere il carattere popolare di quella battaglia. Una parte del gruppo dirigente del Pci e una parte del ceto intellettuale guardavano al divorzio quasi fosse un capriccio borghese. Dopo di che il ventennio berlusconiano sembra aver spento ogni scintilla garantista a sinistra... No, voglio insistere sulla definizione della giusta traiettoria, altrimenti non si capisce niente. E cioè: la cultura della sinistra non nasce affatto garantista e questa bandiera viene portata avanti, negli anni Ottanta, da indipendenti come Stefano Rodotà più che venire assunta nella cultura e nel corpo del partito. Poi c’è il ventennio berlusconiano in cui la mancanza di cultura garantista si irrigidisce. Ma la situazione non è peggiorata per questo. La scarsa attenzione ai diritti individuali era già una realtà. Ora com’è la situazione? Un mese fa lei ha presentato il disegno di legge sulla tortura. Che fine farà? Nel momento attuale gli ostacoli maggiori li vedo nel centrodestra più che nel centrosinistra. Oggi le resistenze all’approvazione di quel disegno di legge vengono più da quella parte. C’è un residuo di moderatismo consumato, perché si pensa che le forze dell’ordine debbano essere sottratte ad un controllo dell’opinione pubblica e della magistratura. È una concezione obsoleta del ruolo degli apparati dello Stato. Non è che dal Pd vengano segnali di una consapevolezza dell’urgenza che si approvi un testo sulla tortura, nonostante sia l’Europa a chiedercelo… Sì, è così. Ma al contempo la commissione giustizia del Senato ha approvato la calendarizzazione, c’è già un relatore dei diversi disegni di legge sulla tortura e questo è stato voluto dall’intero gruppo democratico della commissione con il forte appoggio del capogruppo Zanda. Ora la partita che si apre è un’altra. C’è una tendenza, che considero sbagliata, a non intendere il reato di tortura come un reato proprio. Reato proprio significa reato imputabile a pubblici ufficiali e a coloro che esercitano pubbliche funzioni. Il mio disegno di legge prevede questo e lo considero molto importante perché abbiamo il dovere di circoscrivere quella fattispecie perché solo così è particolarmente efficace. Ma sono ragionevolmente sicuro che non passerà anche perché a sinistra pensano che non sia così e che la tortura deve essere un reato per tutti, non solo per le forze dell’ordine. Faccio il caso di Franco Mastrogiovanni, un insegnante elementare di 58 anni che una mattina d’estate di tre anni fa, in provincia di Salerno, viene fermato dai vigili e costretto in un letto d’ospedale. Dove lo legano mani e piedi senza motivo. E dove viene tenuto per 82 ore senza essere neppure idratato. La natura del reato è molto più difficile da definire perché si trovava là in seguito ad una azione legale, cioè il fermo. Parliamo anche di carceri, che per le condizioni in cui vivono i detenuti avvicinano l’argomento alla tortura. Se ne è parlato molto negli ultimi tempi, anche qui l’Europa ci sanziona, la ministra della giustizia è intervenuta con misure tampone escludendo però indulto e amnistia. Lei invece è d’accordo con questi provvedimenti ed ha fatto una ulteriore proposta molto innovativa... Certo che penso siano necessari amnistia e indulto, ho presentato un disegno di legge su questo. Attualmente questo fronte è ultra minoritario nonostante da cinque anni vengano esibiti i risultati della ricerca che stiamo facendo sugli esiti dell’indulto del 2006. È dimostrato che tra i beneficiari dell’indulto la recidiva è esattamente la metà della recidiva tra coloro che hanno scontato regolarmente la loro pena. Clamoroso. Amnistia e indulto, previsti dalla Costituzione, sono provvedimenti eccezionali, ma la situazione è eccezionale. Non si può neanche ragionare su come riformare il sistema carcerario se l’emergenza è quotidiana. L’altro disegno di legge che ho presentato è sul numero chiuso. Questa idea è passata dal venir considerata scandalosa, utopistica ed indecente al vaglio dei tribunali di sorveglianza di Venezia e Milano. L’idea è che se tu devi entrare in carcere ma il tuo ingresso non è previsto dal “numero chiuso”, vai su una lista d’attesa e sconti intanto la pena ai domiciliari. È naturale che ci vuole ragionevolezza, che soggetti socialmente pericolosi devono essere esclusi da quest’opportunità e così via ma si tratterebbe di un provvedimento ragionevole ed efficace. Giustizia: indulto e amnistia, non si scherza con chi soffre dietro le sbarre di Giuseppe Anzani Toscana Oggi, 30 ottobre 2013 Attenti a parlare d’indulto, attenti a parlare di amnistia: ci sono mani serrate su sbarre di ferro, orecchie tese, sguardi trepidanti, nervi allo spasimo. Non si scherza con la speranza. E smettiamo, una volta, di far dell’argomento un’occasione di accademia, teorizzando in astratto sul senso e il non senso e (storico, giuridico, sociale) e le utilità e le sconvenienze e i pro e i contro che si leggono sui manuali. Non è di una girandola di parole che abbiamo bisogno, alle prese con una situazione di allarme rosso e di emergenza in cui il nostro sistema punitivo ha scavalcato di gran misura la soglia della crudeltà, e il suo carattere disumano e torturante sta scritto e stampato in nero dentro le sentenze della Corte europea dei diritti umani. Questa inciviltà, di cui si parla da anni, e che è cresciuta negli anni, deve cessare. Non fra chissà quando, ma subito, più presto che si può. E quelli che scuotono la testa in anticipo dicendo che “tanto non serve a niente” non possono far finta di non sapere che l’Europa ci sta aspettando al varco, a scadenza di pochi mesi, per la valanga di ricorsi che chiedono la condanna dell’Italia (scontata, imminente) e che frattanto sul piano morale e civile agli occhi del mondo il nostro Paese appare barbaro tra i più barbari, applicando trattamenti umilianti e disumani. L’indulto è qualcosa che scorcia la pena, in una misura fissata. Visto cos’è la pena in concreto che si soffre nei gironi infernali delle carceri nostre, scorciarla è oggi semplicemente una equazione aritmetica di giustizia, non di indulgenza. L’amnistia invece spazza via il reato, e dunque neppure lo punisce; ma è ovvio che l’amnistia non si applica a ogni genere di reato, dipende giustamente da che cosa si decide di separare dal resto. Vi sono reati “minori” per i quali il carcere è reazione sproporzionata, e per i quali in futuro si dovrebbe pensare “de plano” a pene alternative. Alcuni dicono che le leggi di clemenza sono troppo frequenti. In realtà, l’ultimo indulto risale a sette anni fa, l’ultima amnistia a 21 anni fa. Qualcuno mette l’enfasi sul fatto che l’indulgenza, applicata a chi ha violato la legge penale, è diseducativa, perché non si saprebbe come spiegare alle giovani generazioni il senso della “legalità” se poi non si è coerenti nella punizione. Forse bisognerà spiegare agli educatori delle giovani generazioni che questo tipo di punizione da cui alcuni vogliono allontanare l’indulgenza è esso stesso il massimo della illegalità, tanto che il giudice europeo dei diritti umani l’ha bollato come tortura. Una legge di clemenza è necessaria e urgente per allentare il cappio. Poi bisogna progettare il futuro “ordinario”, ricondotto nell’alveo del progetto costituzionale. Il carcere non è l’unica pena, anzi la Costituzione non lo menziona neppure, e dice che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Vanno dunque favorite le pene alternative. Ma non perché sono meno dolorose, meno afflittive. Non è il “far male” lo scopo della pena, non è dare dolore, sofferenza, angoscia, vergogna, disperazione. La Costituzione ha scelto come scopo della pena “la rieducazione del condannato”. Se riuscissimo a capire come si rovescia il da farsi, per raggiungere questo scopo, e quale miglior risultato è l’emenda e il suo vantaggio sociale, rispetto alla costruzione di nuove carceri (ancora per la segregazione degli uomini-scarto), cesseremmo la follia di amministrare un inutile e indegno dolore. Certo, rieducare è difficile. Occorre più cuore che sferza. Una misurata indulgenza, chiudendo la stagione della passata disumanità, sarebbe un segnale di speranza e di impegno civile. Giustizia: Cassazione, niente carcere duro per i boss mafiosi gravemente malati www.sentenze-cassazione.com, 30 ottobre 2013 Suprema Corte di Cassazione Prima Sezione Penale. Sentenza n. 43890/13 No al “carcere duro” per i boss affetti da gravissime malattie è questo ciò che emerge dalla decisione della Cassazione che ha affrontato il tema in occasione del ricorso presentato da un 81enne, detenuto nel carcere di Novara e ritenuto essere un boss di ‘ndrangheta. L’uomo, “per gravi motivi di salute” aveva chiesto di modificare la misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari ma il tribunale della libertà di Reggio Calabria incaricato di decidere la richiesta, lo scorso 20 marzo, negava la suddetta modifica poiché, a parere dei giudici calabresi, le patologie di cui era affetto, sebbene fossero gravi, potevano comunque essere curate in carcere. Questa decisione ha portato la vicenda dentro le aule di Piazza Cavour dove gli ermellini hanno affermato il principio per cui “il diritto alla salute del detenuto è prevalente anche sulle esigenze di sicurezza”. Secondo i giudici del Palazzaccio “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e ciò vale anche quando riguarda esponenti di spicco della criminalità. Per il supremo collegio il ricorrente presenta “un quadro patologico serio caratterizzato da patologie cardiache, artrosiche, discali e neurologiche” che lo hanno portato anche alla depressione. Accogliendo il ricorso la Cassazione ha ricordato che il nostro “ordinamento penitenziario” prevede che le pene non possano “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che devono tendere alla rieducazione del condannato”, attenendosi sempre al principio che “quello alla salute è diritto fondamentale dell’individuo” e, inoltre, “è nel rispetto di un siffatto quadro normativo che il legislatore, pur nel contesto nazionale di fenomeni diffusi e radicati di criminalità organizzata di estremo allarme socio-economico, fenomeni sconosciuti ai maggiori Paesi occidentali, ha articolato una disciplina della carcerazione preventiva attraverso la quale equilibrare le esigenze di giustizia, quelle di tutela sociale con i diritti individuali riconosciuti dalla Costituzione”. La Cassazione evidenzia poi che “è fatto divieto di disporre o mantenere la medesima custodia carceraria in costanza di persona affetta da malattia particolarmente grave tale da rendere le sue condizioni di salute incompatibili con lo stato detentivo ovvero non adeguatamente curabili” e, inoltre fa presente che il ricorrente è “persona ultra 80enne affetto da un complesso patologico di sicuro rilievo, di forte incidenza individuale, sicuramente debilitante di essenziali funzioni vitali: l’apparato cardiovascolare, quello articolare deputato alla deambulazione, quella neurologica incidente direttamente sulla percepibilità della funzione emendativa della pena e quella, infine, psicologica, essenziale per la condizione stessa della vivibilità quotidiana”. La Cassazione critica l’operato del TDL reggino poiché “nonostante siffatte oggettive premesse ha limitato la sua pur meticolosa disamina alla sola circostanza della compatibilità della detenzione carceraria interinale con lo stato di salute, per poi pervenire, all’esito di un faticosissimo iter procedimentale scandito da perizie e consulenze, ad un giudizio di compatibilità ad avviso del collegio soltanto parziale e non esaustivo”. Sulla base di queste considerazioni, Piazza Cavour ha concluso disponendo un nuovo esame davanti al Tribunale della libertà di Reggio Calabria visto che “appare sottovalutato il dato essenziale dell’età del detenuto, ultra ottuagenario, e del pari sottovalutata appare la diagnosticata depressione, l’una e l’altra, nel quadro patologico accertato, complesso e grave, direttamente incidenti sulla normale tollerabilità dello stato detentivo e verosimilmente cagione di una sofferenza aggiuntiva intollerabile per il nostro sistema costituzionale” ricordando al giudice del successivo grado di giudizio che “la valutazione di compatibilità detentiva deve essere particolarmente rigorosa quanto alla sussistenza di una situazione di pericolosità e quanto alla sofferenza ulteriore che in un anziano può provocare lo stato di detenzione”. Friuli: Fsn-Cisl; emergenza carceri, sovraffollate e con il 20% organici in meno Ansa, 30 ottobre 2013 La Fns Cisl Fvg lancia l’allarme emergenza carceri e specificamente sulla situazione di chi opera all’interno delle case circondariali. Lo fa al termine di una serie di incontri con lavoratori delle carcere. “Siamo di fronte a problemi che vanno risolti - spiega il segretario di categoria, Delfio Martin. Occorre dare dignità a chi svolge in modo ottimo un servizio tutt’altro che facile nelle carceri, non è solo il detenuto ad aver bisogno di sostegno ma anche chi lavora e deve sopperire a enormi criticità”. Tra i problemi maggiori c’è la carenza strutturale di organici: delle 604 unità previste per la polizia penitenziaria che segue le case circondariali di Tolmezzo, Pordenone, Gorizia, Trieste e Udine, gli effettivi risultano 495, vale a dire quasi il 20% in meno. Un quadro che diventa “allarmante” per la Cisl considerando “che le sedi carcerarie del Fvg soffrono di sovraffollamento tra i livelli più alti d’Italia, sforando del 30% i limiti di capienza”. La politica e la Regione, sollecita Martin, “devono prendersi carico di queste problematiche, anche a livello locale, per tornare ad essere competitivi. Noi come federazione faremo la nostra parte”. Cosenza: detenuto morì in cella, medici rinviati a giudizio per omicidio colposo di Luigi Palamara www.mnews.it, 30 ottobre 2013 Trascurato, abbandonato, morto per mancanza di cure adeguate. Come a Stefano Cucchi e tanti altri, anche ad Aldo Tavola, 60 anni, cetrarese, la reclusione è stata fatale. E come nella triste e assurda vicenda del giovane geometra romano, anche in questo caso i Sanitari rischiano di pagare. In sei, tra appartenenti al Servizio Sanitario Penitenziario di Castrovillari ed all’Azienda Ospedaliera di Cosenza, sono stati rinviati a giudizio dal Gup del Tribunale di Cosenza Dott. Livio Cristofano. Gli imputati che dovranno affrontare il processo sono : Francesco Montilli, 44 anni di Francavilla Marittima; Furio Stancati, 58 di Cosenza; Angela Gallo, 54 di Cosenza; Domenico Scornaienchi, 65 di Cosenza; Carmen Gaudiano, 43 di Cosenza ed Antonio Grossi, 59 di Paola. Solo per uno, Ermanno Pisani, 51 di Cosenza, è stato disposto il non luogo a procedere. Tutti sono accusati dal Pubblico Ministero della Procura di Cosenza Dott. Salvatore Di Maio, di omicidio colposo “perché in cooperazione tra loro, nelle rispettive qualità di Medici in servizio presso l’Area Sanitaria del Carcere di Castrovillari e l’Azienda Ospedaliera di Cosenza, cagionarono la morte del paziente intervenuta per shock emorragico da anemizzazione acuta conseguente a sanguinamento massivo di ulcera perforata. Un ulcera sviluppatasi in un soggetto portatore di ulcere gastriche antrali da stress, gastrite acuta ad impronta emorragica, stenosi pilorica, neuropatia degli arti inferiori, iperplasia prostatica benigna, cistite da catetere e stasi acusa pluriviscerale”. Montilli era il Direttore Sanitario dell’Istituto Penitenziario del Pollino che seguiva il detenuto Tavola mentre, tutti gli altri, sono Medici che all’epoca dei fatti prestavano servizio nel Reparto di Neurologia dell’Ospedale dell’Annunziata di Cosenza. Il processo è stato fissato dinanzi al Tribunale di Cosenza, Sezione Penale in composizione Monocratica per il prossimo 6 febbraio 2014. Agli atti, oltre alla denuncia dei congiunti del detenuto, un Esposto sottoscritto dal radicale Emilio Quintieri ed una Interrogazione Parlamentare ai Ministri della Giustizia e della Salute presentata dalla Delegazione Radicale alla Camera dei Deputati (Prima firmataria On.le Rita Bernardini) vi sono gli esiti degli accertamenti necroscopici disposti dalla Procura della Repubblica di Cosenza ed eseguiti dai Medici Legali Berardo Cavalcanti e Vannio Vercillo ai quali ha partecipato anche il Medico Legale Francesca Pepe, nominato dalla famiglia Tavola che è rappresentata e difesa dagli Avvocati Marco Bianco ed Alessandro Gaeta del Foro di Paola. Il cetrarese, arrestato il 21 gennaio 2012 per spaccio di sostanze stupefacenti, è spirato il 26 giugno 2012 nel primo pomeriggio in una camera di sicurezza posta al quinto piano dell’Ospedale Annunziata di Cosenza dopo essere stato ristretto dapprima presso la Casa Circondariale di Paola e poi presso quella di Castrovillari dove le sue condizioni si sono misteriosamente aggravate tanto che non riusciva nemmeno più a deambulare finendo sulla sedia a rotelle. Nonostante un quadro sanitario allarmante e le diverse richieste fatte sia dal detenuto che dai suoi familiari non gli venne data la possibilità di essere sottoposto a visite specialistiche al fin di intervenire adeguatamente con le cure appropriate. Ci volle lo svenimento e la perdita dei sensi in cella del Tavola per farlo trasportare in Ospedale ove i Sanitari rilevarono non meglio definiti problemi neurologici, escludendo categoricamente che lo stesso fosse in pericolo di vita. Difatti, quando spirò, non erano chiare le cause della morte che, solo in seguito, vennero a galla con l’ispezione cadaverica esterna ed interna disposta dall’Autorità Giudiziaria sulla salma che venne subito sottoposta a sequestro. Aldo Tavola fu l’ottantunesima persona detenuta delle 154 passate a miglior vita nel 2012 all’interno delle disumane e sovraffollate Carceri italiane, 60 delle quali per suicidio. Avevamo posto al Governo delle specifiche domande sulla morte di Aldo Tavola con gli atti di Sindacato Ispettivo Parlamentare indirizzati ai Ministri della Giustizia e della Salute Paola Severino e Renato Balduzzi - dichiara il Radicale Emilio Quintieri - ma, a seguito della conclusione anticipata della legislatura, non avemmo alcuna risposta. Più precisamente, i Deputati Radicali Rita Bernardini, Matteo Mecacci, Elisabetta Zamparutti, Maria Antonietta Farina Coscioni, Marco Beltrandi e Maurizio Turco, chiedevano quali iniziative intendevano intraprendere i Ministri, negli ambiti di rispettiva competenza, per fare piena luce su questo decesso, in particolare, chiarendo : “quale sia stata l’esatta dinamica del decesso e le cause del decesso di Aldo Tavola; se e come sia stata prestata l’assistenza medica al detenuto durante la sua permanenza in carcere anche con riferimento all’opportunità e alla tempestività del ricovero; quali siano le condizioni umane e sociali della Casa Circondariale di Castrovillari e se, all’interno della stessa, sia garantita l’assistenza sanitaria ai detenuti; in particolare se non si ritenga di assumere sollecite, mirate ed efficaci iniziative, per quanto di competenza, anche a seguito di immediate verifiche ispettive in loco, volte a garantire il rispetto della Costituzione, della Legge e dei Regolamenti.” Pertanto, solleciterò nuovamente la presentazione di una Interrogazione ai Ministri della Giustizia e della Salute Anna Maria Cancellieri e Beatrice Lorenzin perché rispondano in Parlamento in merito alle precise domande già formulate ai loro predecessori sulla misteriosa morte di Aldo Tavola tenendo anche conto dell’esito della vicenda dal punto di vista giudiziario. Bisogna fare chiarezza - conclude Emilio Quintieri - perché sono tanti quelli che entrano sani in Carcere per uscirne cadaveri o comunque più morti che vivi. E coloro che sbagliano debbono pagare ed essere rimossi dai loro incarichi per evitare che altri debbano cessare di vivere in condizioni orribili così come è morto il povero Tavola. Chiederò infine a Patrizio Gonnella, Presidente Nazionale di Antigone Onlus, Associazione per i Diritti e le Garanzie nel Sistema Penale, di costituirsi parte civile con i propri legali e di affiancare i difensori della famiglia Tavola nel processo”. Modena: detenuto tenta il suicidio in carcere: salvato dalle guardie www.modenaonline.info, 30 ottobre 2013 Emergenza dietro le sbarre, dove disagio e sovraffollamento non trovano soluzione. Tre agenti della polizia penitenziaria riceveranno un encomio. Un detenuto del carcere Sant’Anna di Modena deve la vita agli agenti della polizia penitenziaria. Solo il loro intervento ha impedito all’uomo di suicidarsi dopo aver legato un cappio rudimentale alle sbarre della finestra della sua cella. L’episodio è accaduto nei giorni scorsi e denuncia ancora una volta la situazione di profondo disagio che si vive all’interno dei penitenziari. Gli uomini del comandante Mauro Pellegrino - l’agente di vigilanza e due colleghi - riceveranno un encomio per il loro coraggio e per il loro tempestivo intervento. Mantova: Casa Circondariale sarà Istituto riservato a pedofili e stupratori La Gazzetta di Mantova, 30 ottobre 2013 Gli altri detenuti li chiamano “infami”, traditori dell’etica carceraria. Per gli agenti di polizia penitenziaria sono “protetti”, gente che va tutelata dalla violenza dei reclusi comuni, dalle intimidazioni e dagli atti di intolleranza che colpiscono anche collaboratori di giustizia e detenuti appartenenti alle forze dell’ordine. Sono stupratori, pedofili, molestatori, torturatori di donne e bambini. Quelli che assistenti sociali, psicologi ed educatori del carcere chiamano sex offender, autori di reati sessuali. È la tipologia di detenuto a cui potrebbe essere dedicata in un futuro relativamente prossimo la casa circondariale di Mantova. Questo se andrà in porto il progetto di riorganizzazione del sistema carcerario lombardo, su cui il Prap, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, sta lavorando da mesi. Cosa significherà per l’istituto di via Poma ospitare, non più detenuti per reati minori in buona parte provenienti dal territorio provinciale, ma persone che devono scontare pene più lunghe per reati odiosi come gli abusi sessuali e gli atti di violenza nei confronti di bambini e altri soggetti deboli? Non è facile immaginare un assetto così diverso per la casa circondariale di via Poma. Come istituto per “protetti” o centro di detenzione specializzato nella rieducazione dei sex offender, è destinata a diventare un istituto pilota, dove sperimentare una nuova concezione di pena giudiziaria e altrettanto nuove metodiche di trattamento e di recupero? Questo cambio di rotta del carcere di Mantova andrà davvero in porto? O finirà come la vicenda della chiusura della sezione femminile di via Poma, annunciata più di un anno fa e poi mai realizzata? Le intenzioni del Provveditorato di Milano sembrano serie. Dopo la circolare inviata ai primi di ottobre alla direzione della casa circondariale di via Poma e, per conoscenza, ad altri soggetti interessati, si sono susseguiti incontri e riunioni con tutti gli operatori del carcere. A partire dagli agenti di polizia penitenziaria che, dopo anni di difficoltà e di affanno dovuti ai tagli di personale e al sovraffollamento carcerario vedono con interesse la novità annunciata. "I detenuti di questo tipo hanno bisogno di trattamento specialistico più che di sorveglianza - spiega un agente che lavora nel sindacato - e poi se le indiscrezioni saranno confermate i detenuti in questo istituto dovrebbero diminuire. Oggi abbiamo dalle 170 alle 180 presenze (in passato si era arrivati fino a 230, contro una capienza di 119 unità e un massimo tollerabile di 180) e la soglia dovrebbe abbassarsi sui 130 detenuti, una capienza ottimale". A cui i circa ottanta agenti di polizia penitenziaria di via Poma riuscirebbero a fornire un servizio di vigilanza e assistenza più curati e professionali. E per il detenuto il trattamento sarebbe molto diverso dalle carceri comuni dove il sex offender vive nel ghetto della sezione protetti e passa non più di due ore al giorno fuori dai pochi metri quadrati della sua cella. Che risponde in pieno ai motivi per cui la Corte Europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per trattamenti inumani nei confronti dei detenuti. Brescia: Commissione Carceri Regione; ok nuovo carcere alla Caserma Papa di Natalia Danesi Brescia Oggi, 30 ottobre 2013 La commissione del Pirellone in visita al penitenziario cittadino. Fanetti: “Soluzione celere da trovare con il territorio” Castellano: “Canton Mombello inadatto, va chiuso” Assistenza medica interna: confronto con l’Asl. Incredibile a dirsi, la tensione dentro a Canton Mombello si è un po’allentata. Lo hanno constatato ieri i consiglieri della nuova commissione Carceri della Regione presieduta dal bresciano Fabio Fanetti (Civica Maroni), che hanno toccato con mano le condizioni in cui vivono i detenuti nel carcere cittadino, accompagnati dalla direttrice Francesca Gioieni (tra i bresciani presenti i consiglieri Michele Busi del Patto Civico Ambrosoli e Gianni Girelli del Pd oltre all’assessore Simona Bordonali). Condizioni che rimangono “non degne di un paese civile”, ha precisato la vicepresidente Lucia Castellano (Patto civico Ambrosoli) e che tuttavia lo sforzo della direzione e degli operatori hanno reso un po’ migliori. Castellano, che fa parte della commissione di studio del ministero in tema di interventi in materia penitenziaria, ha osservato con favore l’introduzione dell’apertura durante il giorno delle stanze di detenzione, la stanza per i colloqui senza bancone divisorio, la nursery, l’introduzione del concetto di vigilanza dinamica. Una situazione insomma, compatibilmente con la piaga del sovraffollamento, di “coesione con la polizia penitenziaria” e un clima tutto sommato, rispetto alle attese, di “distensione”. Il carcere di Canton Mombello ospita attualmente tra i 455 e i 460 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 208 persone. “In loco tutto quello che si poteva fare è stato fatto - ha commentato la vicepresidente -. Ma stiamo parlando di un luogo che non viene ristrutturato dal 1914, la cui struttura è rigida e consente di fare ben poco”. Spicchi che contengono 250 persone al passeggio, assenza di un’area verde e via dicendo. “Semplicemente - ha aggiunto Castellano - non è un carcere che può continuare ad esistere”. Perciò “ben venga l’ipotesi della caserma Papa purché si chiuda questa situazione”. A maggior ragione, è unanime da parte dei consiglieri il plauso a chi opera dentro il penitenziario cittadino: “Ho avuto occasione di confrontarmi con Stefano Carugo, che mi ha preceduto - ha spiegato il presidente -. La situazione è migliorata rispetto ad un anno fa. Certo, bisogna trovare una soluzione al problema del sovraffollamento, che sia celere, economica, e condivisa con il territorio”. Fanetti ha confermato di avere incontrato qualche giorno fa il ministro Cancellieri che ha a cuore il destino del nostro carcere: “L’idea di utilizzare le ex caserme, genericamente, è intelligente - ha proseguito riferendosi all’ipotesi Papa -. Certo, bisogna fare il calcolo dei costi di adeguamento e dei costi di gestione e capire se è anche conveniente”. In occasione della trasferta bresciana, i consiglieri hanno ricevuto anche la sollecitazione da parte del direttore generale dell’Asl Carmelo Scarcella rispetto alla necessità di prevedere una continuità assistenziale medica all’interno del carcere, magari prevedendo - è stato spiegato all’uscita - una sorta di ambulatorio come quello del medico di base. “Ne parleremo in commissione - ha assicurato Fanetti -. Naturalmente, ogni progetto va valutato con concretezza per capire se può o meno essere inserito nel sistema sanitario lombardo”. “Da analizzare” secondo il presidente anche l’idea, avanzata dall’assessore bresciano Viviana Beccalossi, di offrire alle Regioni che lo desiderano una delega sulle politiche carcerarie. L’Aquila: il carcere di Avezzano apre le porte alla formazione professionale Ansa, 30 ottobre 2013 Una decina di reclusi avranno qualifica di addetti alla cucina. Il Carcere “San Nicola” di Avezzano aperto alla formazione professionale per dare ai detenuti una possibilità in più di reinserimento nella società al termine della pena. L’opportunità è offerta da un patto di solidarietà sociale tra Istituzioni e scuole. Comune, Casa circondariale, Centro Territoriale di Formazione Permanente n. 2 di Avezzano e Istituto professionale alberghiero dell’Aquila, in linea con le leggi dello Stato mirate a favorire la ‘carcerazione attiva’, hanno siglato un protocollo d’intesa che apre le porte della formazione nel campo dell’enogastronomia ai detenuti. Nell’aula dedicata alla scuola, all’interno del carcere, una decina di reclusi potranno acquisire la qualifica di addetto alla cucina. L’accordo consente di avviare la selezione dei partecipanti in ambito locale, oppure regionale o nazionale attraverso il provveditorato del Ministero della Giustizia. La scuola apre i battenti a novembre. Il percorso di formazione professionale per i detenuti (novembre 2013-Maggio 2014) prevede 16 ore di lezioni settimanali di teoria e pratica con esame di idoneità finale. Cosenza: ingiustamente detenuto, ora attende indennizzo per poter curare figlio Ansa, 30 ottobre 2013 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, in una nota, denuncia “il dramma di un uomo calabrese, arrestato ingiustamente, tenuto in carcere e assolto alla fine del processo per non aver commesso il fatto, caduto in uno stato depressivo per questa vicenda della ingiusta detenzione per la quale ha chiesto allo stato il risarcimento”. “Quest’uomo - afferma Corbelli - si trova oggi ad affrontare un altro grave problema, un “dramma nel dramma”: ha un figlio di 13 anni, disabile, che dovrebbe essere sottoposto a controlli periodici ogni tre mesi presso un importante Policlinico di Roma, terapie e cure che purtroppo per gravi problemi economici da 18 mesi non può più fare. Quest’uomo chiede che dopo aver subito l’ingiusta detenzione, che gli ha rovinato la vita, lo Stato voglia adesso riparare in qualche modo riconoscendo il risarcimento previsto dalla legge in questi casi. Purtroppo sono passati alcuni anni e non si sa che fine abbia fatto la richiesta di risarcimento di quest’uomo”. Corbelli chiede che il “competente Ministero riconosca subito i diritti ad un giusto risarcimento di questo innocente ingiustamente arrestato e tenuto per diverso tempo in carcere, prima di essere assolto alla fine del processo. Risarcimento che serve a quest’uomo per poter curare il figlio disabile, che vive su una sedia a rotelle. Si chiede solo allo Stato un atto di giustizia e umanità”. Bologna: il Giudice; dateci una nuova sede, o rifate da capo il carcere minorile di Sabrina Camonchia La Repubblica, 30 ottobre 2013 “Aiutatemi ad avere un carcere modello, talmente modello da non essere considerato neppure tale. Se il Pratello deve essere un luogo di ascolto e di rinascita per un giovane che ha sbagliato, questo non può succedere in un luogo fatiscente e con un organico sottodimensionato”. Giuseppe Spadaro, dal 16 settembre presidente del Tribunale dei minorenni, ha un suo libro dei sogni, anzi un lungo cahiers de doléances che arriva dritto al cuore del problema. “Non si può amministrare la giustizia minorile in spazi come quello del Pratello - spiega a giornalista e autorità, presentando il nuovo spettacolo del Teatro del Pratello, che da 15 anni di attività spalanca le porte del minorile al resto della città: qui sarebbero necessari lavori di ristrutturazione pesanti o meglio ancora servirebbe una nuova sede”. Un posto in mente ce l’ha: il complesso dei Bastardini di via D’Azeglio, di proprietà della Provincia che l’ha messo in vendita nonostante le aste continuino ad andare deserte. Le sue parole si incrociano con un tempismo perfetto a quelle pronunciate ieri mattina dal ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, in città per fare il punto con il sindaco Merola proprio sulla situazione carceraria bolognese. E coincidenza vuole che proprio oggi sia il teatro a raccontare le carceri, alla Dozza e al Pratello. La compagnia Teatro del Pratello con il suo regista Paolo Billi ha il grandissimo merito di spalancare, per due settimane all’anno, le porte dell’istituto minorile. Da quindici anni il regista lavora al Pratello: mesi di laboratori e incontri coi giovani detenuti, soprattutto stranieri, che poi prendono corpo in spettacoli teatrali visti, in una manciata di repliche, da quasi duemila persone ogni volta, per metà coetanei degli attori in scena. “Vengono tantissimi studenti delle superiori - dice il regista - e la cosa che li stupisce di più è quella di incontrare ragazzi che sono proprio come loro”. Un lavoro faticoso, sempre pronto a ricominciare da capo per il via vai dei detenuti. Non vi sono certezze, poche quelle economiche, comunque garantite da Provincia, Comune, Regione e Fondazione del Monte. Per assistere allo spettacolo occorre prenotare con anticipo, da quest’oggi (info 051 455830), l’ingresso è subordinato al permesso dell’autorità giudiziaria. Quest’anno 12 ragazzi hanno lavorato attorno all’opera di Igor Strawinskij, “L’Histoire du soldat”, che sarà rappresentata dal 29 novembre al 14 dicembre. Quest’oggi, invece, si potrà vedere un’altra costola del lavoro di Paolo Billi, che fa entrare il pubblico dentro un’altra realtà di detenzione, questa volta alla Dozza. Con il sostegno della Regione, il coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna ha allestito per il terzo anno la stagione “Stanze di teatro in carcere” che propone cinque spettacoli fino al 16 novembre. Tre vanno in scena dentro case circondariali (comincia oggi Bologna con “La verità salvata da una menzogna “ di Billi, poi Ferrara e Reggio Emilia), due fanno uscire i detenuti (Modena e Forlì). “Il lavoro teatrale - chiude Spadaro - è formidabile, ma qui ormai non si tratta più solo di produrre spettacoli. Occorre rendersi conto del degrado degli spazi dentro i quali ci muoviamo”. Brindisi: detenuti a lavoro nella P.A., domani si firma il protocollo d’intesa www.brundisium.net, 30 ottobre 2013 Comunicato stampa amministrazione provinciale di Brindisi. Presso l’Amministrazione Provinciale di Brindisi, domani mattina, giovedì 31 ottobre, alle ore 11.30, è indetta una conferenza stampa nella quale verrà illustrata la convenzione redatta tra le Politiche Sociali, Pubblica Istruzione e Politiche Giovanili della Provincia di Brindisi e la Direzione della Casa Circondariale del capoluogo che permetterà ad alcuni detenuti di poter svolgere attività di volontariato, a titolo gratuito, presso Amministrazioni Pubbliche e del privato sociale nell’ambito di progetti di pubblica utilità in favore della collettività. Atto che sarà firmato nel corso dell’incontro con i rappresentanti della stampa. Alla presenza del Sub Commissario Prefettizio Vicario, dottor Pietro Massone e della Direttrice della Casa Circondariale di Brindisi, dottoressa Anna Maria Dello Preite, verrà firmata la convenzione che permetterà, attraverso le possibilità offerte dalla recente Legge nr. 94 del 09.08.2013, di poter ampliare le opportunità dell’applicazione delle misure alternative alla detenzione. La stessa convenzione avrà una durata di due anni. Si tratta di pene “alternative” come possono essere l’obbligo di “lavori socialmente utili” o di altre forme attenuate di limitazione della libertà ispirate alla funzione rieducativa sottolineata dalla Carta Costituzionale e dai principi del nostro Stato. L’Amministrazione Provinciale di Brindisi ha ritenuto di accedere a questa richiesta della Direzione della Casa Circondariale di Brindisi proprio al fine di dare concreta attuazione ad importanti principi costituzionali. Torino: laboratorio di cioccolato per i giovani detenuti del Ferrante Aporti Adnkronos, 30 ottobre 2013 Un laboratorio con i macchinari per la produzione, l’imballaggio, lo stoccaggio e il trasporto del cioccolato è stato presentato oggi presso l’Istituto penale per minorenni Ferrante Aporti di Torino. L’iniziativa rientra nel progetto Spes@Labor, realizzato dalla Cooperativa Sociale Le Soleil, insieme a Spes e a Comunità Murialdo, nell’ambito del “Bando UniCredit Carta E - Strategie di coesione sociale per i giovani” promosso da UniCredit Foundation, volto al reinserimento di giovani detenuti all’interno del tessuto sociale, attraverso interventi di inclusione lavorativa e professionale. “La detenzione, soprattutto se minorile - ha osservato Gabriella Picco, direttore del ‘Ferrante Aporti’ - ha un obbligo, fornire opportunità di crescita e maturazione del ragazzo, partendo dalle motivazioni che lo hanno condotto in un istituto penale, guidandolo, attraverso l’analisi di sé e del suo contesto esistenziale, verso un percorso ri-educativo che contempli anche gli aspetti formativi e lavorativi. La formazione e l’avvicinamento al mondo del lavoro, nonché concrete opportunità di inserimento nel mondo del lavoro stesso, sono i presupposti per aiutare i giovani a ridefinire in modo positivo i loro percorsi di vita. Questi sono stati i presupposti sui quali é stato ideato e realizzato il progetto del laboratorio di produzione di cioccolato che a soli pochi mesi dal suo avvio, registra già un ottimo successo”. Il progetto, a cui partecipano 16 giovani detenuti è tra i 7 vincitori del bando ‘Strategie di coesione sociale per i giovani’ che UniCredit Foundation ha lanciato per sostenere progetti di inclusione nel mondo del lavoro di giovani che vivono in condizioni di difficoltà. Attraverso l’iniziativa “Your Choice, Your Project”, i dipendenti di UniCredit sono stati invitati a votare il proprio progetto preferito, partecipando in tal modo alla definizione delle strategie filantropiche del Gruppo. Il finanziamento è stato reso possibile grazie ai fondi raccolti con UniCredit Card Classic E, la carta di credito che, senza alcun costo aggiuntivo per il titolare, destina il 2 per mille di ogni spesa effettuata a iniziative e progetti di solidarietà. Otto, fra i 16 ragazzi che partecipano al corso, avranno la possibilità di accedere a una borsa lavoro per svolgere una professione attinente a quella esercitata durante l’apprendistato in laboratorio. I prodotti realizzati dai giovani detenuti con la denominazione FluoSchock saranno commercializzati nei punti vendita Spes. “UniCredit Foundation - ha sottolineato il presidente Maurizio Carrara - si è data come obiettivo strategico quello di contribuire alla creazione e al potenziamento di reti di assistenza e sostegno ai giovani in situazioni di disagio. In particolare, con questo progetto ci siamo rivolti a coloro che hanno vissuto situazioni di marginalizzazione sociale e che, in una fase come quella attuale, caratterizzata da una generalizzata difficoltà economica e da mancanza di rifermenti sociali, rischiano più di altri di vivere fenomeni di esclusione. Attraverso il nostro contributo abbiamo voluto concorrere alla costruzione di nuovi modelli virtuosi, che possano essere ripresi anche da altre realtà, perché riteniamo che l’integrazione sociale di giovani in difficoltà attraverso percorsi di formazione e avviamento al mondo del lavoro possa essere una buona base di partenza per lo sviluppo delle nostre comunità”. UniCredit Foundation è la fondazione d’impresa costituita nel 2003 al fine di contribuire allo sviluppo della solidarietà e della filantropia nelle comunità e nei territori in cui opera, prioritariamente nelle aree geografiche in cui è presente UniCredit (20 Paesi, tra Europa e centro Asia). Attraverso il trasferimento di risorse economiche e di competenze gestionali tipiche dell’impresa, UniCredit Foundation sostiene progetti significativi per impatto sociale e innovazione, realizzati da organizzazioni non profit locali. Lucca: fine estate piena di tensione tra i detenuti, parla il direttore Ruello Toscana Oggi, 30 ottobre 2013 Il problema del sovraffollamento delle carceri riguarda anche quello di Lucca, sebbene non nella misura emersa dai media locali. Insomma il carcere cittadino si trova in una situazione decisamente migliore, lo sostiene Francesco Ruello, direttore del Carcere S. Giorgio, che specifica: “su una capienza di 113 posti e una presenza tollerata di 140 persone, attualmente il carcere ne ospita 160-170. La situazione migliore si deve ad alcuni interventi a livello amministrativo e normativo, come la legge “svuota carceri”, che hanno rallentato gli ingressi”. Il direttore del carcere afferma anche “che attualmente non ci sono proteste per il sovraffollamento”, tuttavia “gli agenti penitenziari non hanno vita facile”. In particolare “poche settimane fa, alla fine dell’estate” - ci informa Ruello, “c’è stato un periodo turbolento, caratterizzato da eventi scollegati fra loro, ma che hanno creato un clima di particolare tensione come autolesione, danneggiamento della cella, litigio con un compagno di cella. A causa della differente provenienza etnica o di problemi psichiatrici le relazioni “scoppiano”, nonostante il lavoro di prevenzione svolto costantemente dagli operatori del carcere”. Allargando lo sguardo alla realtà italiana in generale, tutti sappiamo come intervenire sul piano normativo significhi incidere sia sul piano economico sia su quello sociale, in ogni campo e quindi anche nel mondo delle carceri. E lo sentiamo dire davvero da molti anni. Forse, grazie anche al recente pronunciamento autorevole del Presidente della Repubblica in tema di materia carceraria, qualcosa si smuoverà. Nella politica, vedremo. Certamente nel Terzo settore. “Rafforzare la via delle pene alternative significa poter arrivare a un risparmio di oltre un miliardo di Euro l’anno, cui si aggiunge l’abbattimento della recidiva di oltre sessanta punti”, spiega Edoardo Patriarca, presidente del Centro nazionale per il volontariato che, come noto, ha sede a Lucca. “Oggi un detenuto costa circa 150 Euro al giorno. In comunità, se introdotto in percorsi alternativi di recupero, il costo scende a 50 Euro. Un risparmio di 36.500 Euro l’anno per ciascun detenuto”, prosegue Patriarca. “Ebbene, istituzionalizzando le pene alternative, con il coinvolgimento di trentamila detenuti, attualmente reclusi, si arriverebbe a risparmiare oltre un miliardo”. In questo contesto, si abbatterebbe anche la recidiva. “In assenza di misure alternative, il tasso di recidiva nel primo triennio è dell’80%, ma quando si adottano misure alternative la percentuale scende al 20%. L’obiettivo che ci poniamo - spiega il presidente del Cnv - è di mettere a sistema proposte, saperi ed esperienze”. Cnv, Seac e Conferenza nazionale volontariato e giustizia, insieme alle associazioni e alle organizzazioni non profit che operano nel settore carcere, hanno avviato un percorso comune per arrivare alla redazione di una proposta di legge. “È quindi necessario ribadire il principio del finalismo rieducativo della pena, che noi interpretiamo come un concetto di “relazione”. È in questa direzione che si muovono le comunità di accoglienza e tutti quei volontari che operano dentro e fuori dalle carceri. Perché rieducare significa appunto rispettare i valori fondamentali della vita sociale”, aggiunge Patriarca. Del resto i dati fotografano una situazione apparentemente contraddittoria: se da una parte si certifica la diminuzione progressiva di reati dal dopoguerra ad oggi, dall’altra ci troviamo di fronte all’aumento fuori misura dei detenuti all’interno degli istituti penitenziari. “Un incremento dovuto anche agli effetti di norme come la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e la ex Cirielli. Leggi che “producono” carcere senza rispondere ai reali bisogni”. Edoardo Patriarca, che è anche deputato del Partito Democratico, si prende una responsabilità non da poco con queste dichiarazioni. Siamo certi che, considerando la sua sensibilità, non mancherà di aggiornare in merito. Il percorso tra associazioni ed enti del Terzo Settore è già partito mesi addietro, prima ancora dell’ultimo intervento di Napolitano, e ora a Firenze è in programma un ulteriore incontro per la stesura della proposta di legge. Cagliari: Sdr; 10mila euro spesi per ogni viaggio di un detenuto malato Asca, 30 ottobre 2013 “Non meno di 10 mila euro saranno spesi dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per consentire a un detenuto del carcere di Buoncammino di presenziare ad ogni processo nei diversi tribunali della Penisola. E’ la conseguenza del mancato trasferimento di R.A. in una struttura detentiva della Liguria, in cui era precedentemente ristretto, e di considerare in diversi casi come yo-yo i cittadini privati della libertà”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme (Sdr) con riferimento alla drammatica vicenda di un cittadino nepalese, apolide, trasferito a Cagliari nonostante i familiari vivano in Liguria. “R.A. - precisa Caligaris - è affetto da una rara forma di talassemia che riduce a tal punto la quantità di emoglobina nel sangue da imporre l’uso di una carrozzina non potendo reggersi sulle proprie gambe. Il detenuto inoltre è celiaco ed è affetto dalla sindrome di Asperger malattie che ne condizionano i comportamenti sociali. Per poter raggiungere il Tribunale di Imperia - spiega Caligaris - dovrà quindi essere accompagnato con un’ambulanza medicalizzata, insieme a medici e infermieri, oltre che scortato da quattro agenti della polizia penitenziaria. Il viaggio dovrà avvenire in nave e comporterà un dispendio di persone e denaro che sono incomprensibili”. “E’ assurdo che, in un periodo in cui i cittadini subiscono tagli alle politiche sociali in nome degli indispensabili risparmi e devono rinunciare a servizi importanti per la famiglia, il dipartimento - conclude l’ex consigliera regionale socialista - non provveda ad avvicinare detenuti come R.A. in strutture sanitarie penitenziarie, prossime al luogo in cui devono subire i processi e farli quindi permanere nella Penisola anziché in un’isola e nel caso specifico al centro clinico di Buoncammino peraltro sempre sovraffollato. Solo cosi, e applicando la territorializzazione della pena, si possono ridurre i disagi dei detenuti, dei loro familiari e almeno parzialmente i costi della giustizia”. Ravenna: lavori di pubblica utilità, stradelli al mare puliti grazie ai detenuti www.romagnanoi.it, 30 ottobre 2013 In tre hanno tenuto in ordine il passaggio retrodunale di Marina di Ravenna. Il progetto del Comune: “Esperienze come questa danno effetti positivi". “Giustizia riparativa ma anche umanizzazione e soluzione all’emergenza del sovraffollamento delle carceri nel nostro paese”. E’ il commento dell’assessora ai servizi sociali Giovanna Piaia sui risultati prodotti dalle attività di pubblica utilità realizzate l’estate scorsa da tre persone, un detenuto e due giovani in affidamento ai servizi di Asp, così come previsto dal progetto “Strade e stradelli facendo”. Dal 28 giugno al 30 agosto i tre volontari hanno dedicato 19 giornate, dalle 8 alle 12, alla pulizia degli stradelli retrodunali di Marina di Ravenna lungo viale delle Nazioni, raccogliendo 842,80 chilogrammi fra vetro e lattine e 330 chilogrammi di rifiuti indifferenziati. Questa esperienza è stata al centro di una conferenza stampa che si è svolta stamani in municipio alla presenza dell’assessora Giovanna Piaia, della direttrice della Casa Circondariale di Ravenna, Carmela De Lorenzo, dell’operatore per la mediazione al lavoro, integrazione e promozione sociale di Asp, Gabriele Grassi che ha coordinato le attività. Il progetto è stato realizzato da Comune, Asp, con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna e la collaborazione della Guardia costiera, Carabinieri di Marina di Ravenna, di Hera Ravenna, della cooperativa La pieve, del consiglio territoriale del mare, della pro loco e della cooperativa spiagge di Ravenna. “Esperienze di giustizia riparativa come questa - ha aggiunto l’assessora Piaia - comportano effetti positivi sia al detenuto, che recupera dignità attraverso il suo inserimento nella società, che alla collettività che può così utilizzare aree pubbliche rese in condizioni di migliore fruibilità e decoro”. Successivamente sono intervenuti la direttrice della Casa Circondariale di Ravenna, Carmela De Lorenzo, che ha parlato della situazione del carcere di Ravenna nel contesto nazionale e Gabriele Grassi in qualità di coordinatore dell’esperienza di lavoro dei tre volontari coinvolti nel progetto. Israele: liberati 26 detenuti palestinesi, una folla accoglie gli scarcerati www.rainews24.it, 30 ottobre 2013 La liberazione nel quadro dei negoziati di pace patrocinati dagli Stati Uniti. Il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas, ha accolto a Ramallah 20 dei detenuti liberati, e ha affermato che i palestinesi non firmeranno alcun accordo di pace “finche ci sarà un solo prigioniero dietro le sbarre”. Un’operazione scattata questa notte, che ha portato alla liberazione di 26 prigionieri palestinesi. Una liberazione legata alla ripresa dei negoziati di pace Israelo-palestinesi, lo scorso luglio, e che ha portato ad agosto alla scarcerazione di un primo gruppo di palestinesi. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, si è infatti impegnato a rimettere in libertà 104 prigionieri palestinesi, imprigionati prima degli accordi di Oslo del 1993. Circa 300 palestinesi si sono raccolti al valico di Erez, nella Striscia di Gaza al confine con Israele, per accogliere i detenuti che sono stati rilasciati dalle carceri dello Stato ebraico. Molti alzavano bandiere e cartelli con scritte come "Non dimenticheremo mai i nostri eroi", mentre veniva diffusa musica festosa. Cinque prigionieri sono stati rilasciati nella Striscia, mentre altri 21 in Cisgiordania, dove sono stati accolti dal presidente palestinese Mahmoud Abbas. La scarcerazione è la prima di quattro previste per dare spinta ai negoziati di pace, in cui in tutto Israele libererà 104 palestinesi che scontano lunghe pene. "Oggi è il giorno della gioia per la famiglia e per la tutta la Palestina", ha dichiarato Tayser Shubair, il cui fratello Hazem era in carcere in Israele dal 1994 per la morte di un israeliano. Il destino dei carcerati è una questione profondamente sentita nella società palestinese, in cui dopo decenni di conflitto con Israele molte famiglie hanno almeno un parente in cella. Il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas, ha accolto a Ramallah 20 dei 26 rilasciati, e ha affermato che non ci sarà alcun trattato di pace “finché ci sarà un solo prigioniero dietro le sbarre” delle carceri israeliane. Dei 26 ex detenuti, 5 sono stati rilasciati a Gaza, e uno a Gerusalemme est. Contemporaneamente alla notizia della liberazione, la radio militare israeliana ha annunciato la costruzione di 1500 alloggi nel quartiere di coloni Ramat Shlomo a Gerusalemme est. Secondo la radio, la decisione sarebbe stata appoggiata dal primo ministro israeliano, e dal ministro dell’Interno Saar. Una mossa attesa che arriva non a caso lo stesso giorno della notizia delle scarcerazioni. Un modo per accontentare anche gli ebrei radicali. Iran: “Io, dimenticata in cella perché sono bahai”, minoranze religiose discriminate di Monica Perosino La Stampa, 30 ottobre 2013 “Taraneh fiore mio, avevi 13 anni quando fui costretta ad abbandonarti”. Fariba Kamalabadi, ha 51 anni, occhi scuri e melanconici, tre figli adolescenti e una condanna a vent’anni. Dopo cinque anni di comunicazioni censurate e colloqui sorvegliati, una preziosa, unica lettera alla figlia è riuscita a sfuggire ai controlli, affidata a una compagna di carcere liberata. “Taraneh fiore mio, alle sei del mattino eri pronta col grembiule per andare a scuola. Gli agenti fecero irruzione in casa nostra e mi portarono via con loro”. Fariba Kamalabadi dovrà stare nel carcere di massima sicurezza di Teheran fino al 2028 per spionaggio, vilipendio alla religione e propaganda contro la Repubblica islamica dell’Iran. In una parola: deve stare in carcere perché è bahai. Lei, con gli altri sei membri del gruppo Yaran (“Amici”), sono stati rinchiusi, senza un solo giorno di permesso, perché la loro religione richiama l’uguaglianza dei sessi, la compatibilità tra scienza e religione, e la relatività della verità (compresa la verità religiosa). Soprattutto, la fede bahai prevede la scissione tra Stato e Chiesa. Che nella Repubblica islamica è già una contraddizione in termini. I bahai - se dichiarano la propria fede religiosa - sono ostracizzati: non possono studiare, lavorare per lo Stato e né dove sia previsto il contatto con il pubblico, dagli ospedali ai ristoranti. Sono impuri. Nonostante le aperture del nuovo presidente iraniano Rohani nei confronti delle minoranze i cambiamenti sembrano ancora da venire. Solo qualche giorno fa il relatore per i diritti umani in Iran diceva all’Onu che “la situazione dei diritti umani nella Repubblica islamica dell’Iran continua a creare serie preoccupazioni e non dà segni di miglioramento - ha spiegato Ahmed Shaheed. Continuano le discriminazione contro le donne e le minoranze etniche, e non si attenuano i limiti imposti alla libertà di espressione e associazione”. Non solo: “Le minoranze religiose, come i bahai, i cristiani, i musulmani sunniti sono sempre più soggette a varie forme di discriminazione legale, come nell’impiego e nell’educazione, e sono spesso sottoposte a detenzioni, torture e maltrattamenti arbitrari”. Scrive ancora Fariba Kamalabadi: “33 anni fa, a seguito della rivoluzione culturale, fui privata dell’accesso all’università a causa della mia appartenenza religiosa. Da quell’anno tutti i giovani bahai sono stati privati di questo loro diritto. Quest’anno, con l’avvento del nuovo governo e nuovo clima politico con promesse allettanti sui diritti per tutti i cittadini, noi speravamo che tu potessi continuare a studiare in patria”. Non è stato così, la figlia di Fariba, come tante altre iraniane, per studiare ha solo una strada: abbandonare il Paese. Come Darya, 21 anni, “scappata” in Italia - dove c’è una forte comunità bahai - per poter frequentare l’università. “In Iran ti lasciano vivere, e ti deve bastare. Se vuoi studiare non puoi. Ti fanno fare il test d’ingresso all’università, ma devi dichiarare la tua religione. Se sei bahai sei fuori. In Iran i giovani non possono decidere di essere quello che vogliono essere”. Darya è venuta in Italia con Fatemeh, la sua migliore amica, musulmana: “Non ho paura, anche se dovrei - dice. Sto solo studiando all’estero con un’amica. Penso che le differenze religiose non contino e che la vita, per i giovani dell’Iran, dovrebbe essere più facile”. Peru: ex presidente Fujimori, tribunale respinge richiesta arresti domiciliari Ansa, 30 ottobre 2013 L’ex presidente sconta pena di 25 anni per abusi diritti umani. Un magistrato della capitale peruviana ha deciso oggi di non concedere ad Alberto Fujimori la possibilità di scontare la sua pena a 25 anni di carcere agli arresti domiciliari, sostenendo che la richiesta dell’ex presidente del Perù è “carente di ogni fondamento giuridico”. Gli avvocati di Fujimori avevano motivato la loro richiesta in base all’età dell’ex presidente (75 anni) e ai suoi problemi di salute e per il fatto che egli non rappresenta alcun pericolo per la società. Il giudice Segundo Morales l’ha però respinta, sottolineando che “concedere i domiciliari per motivi umanitari dopo una condanna passata in giudicato sarebbe possibile solo se si trattasse di un delitto di poca gravità”. Nel caso di Fujimori, ha aggiunto, “si tratta invece di delitti per i quali è stato condannato da sentenza giudiziarie di tribunali nazionali, ratificate da tribunali internazionali”, per “gravi violazioni dei diritti umani per le quali non risultano applicabili misure come l’amnistia, la prescrizione o l’indulto”. Fujimori, presidente dal 1990 al 2000, è stato condannato nel 2009 a 25 anni di carcere per omicidio colposo, lesioni gravi e sequestro aggravato, ma ha ricevuto anche due sentenze per fatti di corruzione, già scontate, ed è attualmente sotto processo per peculato, delitto per il quale potrebbe essere condannato ad altri 10 anni di carcere. Svizzera: revocato il divieto delle uscite per i detenuti non pericolosi www.tio.ch, 30 ottobre 2013 Le uscite erano state vietate a metà settembre dopo l’uccisione della socioterapeuta Adeline. Saranno invece private di questa possibilità circa 130 persone condannate per reati violenti. I detenuti considerati non pericolosi posti sotto la responsabilità del cantone di Ginevra potranno beneficiare nuovamente delle uscite, vietate a metà settembre dopo l’uccisione della socioterapeuta Adeline. Saranno invece private di questa possibilità circa 130 persone condannate per reati violenti. Questa categoria di carcerati dovrà aspettare la pubblicazione, prevista l’anno prossimo, del rapporto definitivo steso dall’ex consigliere di Stato Bernard Ziegler sulle responsabilità nel dramma di Adeline per conoscere le modalità delle eventuali uscite accompagnate, indica oggi il Dicastero ginevrino della sicurezza. Fra i detenuti che non potranno uscire figurano i delinquenti attualmente ospitati dal centro di reinserimento La Pâquerette, dove lavorava Adeline e dov’era stato sistemato lo stupratore plurirecidivo Fabrice A. che l’avrebbe uccisa.