Giustizia: il diritto (negato) di conoscere e di sapere, una questione che ci riguarda tutti di Valter Vecellio Notizie Radicali, 2 ottobre 2013 Negli ultimi giorni, nelle ultime ore, si può dire, abbiamo avuto una quantità di eventi che non hanno fatto “notizia”. E la “notizia”, appunto, è che non hanno fatto “notizia”. Non ha fatto “notizia” la consegna delle firme per i sei referendum promossi dal Comitato per la Giustizia Giusta che ha raggiunto l’obiettivo delle 500mila firme richieste. Non ha fatto notizia la notizia che i sei referendum promossi dal Comitato “Cambiamo Noi” invece questo obiettivo non l’ha raggiunto. E di materia, argomenti di riflessione, dibattito, confronto, “conoscenza”, ce ne sono tante da riempire dieci puntate di “Porta a porta”, “Ballarò”, “Servizio pubblico” e quant’altro. Non ha fatto “notizia” l’annuncio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di essere pronto a firmare un provvedimento di amnistia, e di aver già predisposto un messaggio alle Camere in tal senso. E tantomeno fa “notizia” che Marco Pannella, in sostegno a questo obiettivo e proposito del presidente, ha iniziato uno sciopero della fame e della sete. Tutto questo non fa “notizia”. Fa però notizia Beppe Grillo con la sua innocua protesta davanti a viale Mazzini. Da tempo Pannella ci ricorda un qualcosa che dovrebbe essere motivo di nostra riflessione e iniziativa politica. La riflessione e l’iniziativa politica partono dai dati - eloquenti e significativi - del “Centro d’ascolto radicale” che monitorizza e analizza le notizie fornite dai maggiori telegiornali, le seleziona e “organizza” per argomento, esponente politico, istituzionale e soggetto sociale. Nella classifica che il Centro d’ascolto ha elaborato analizzando gli ascolti consentiti di esponenti istituzionali e politici dal 1 gennaio 2012 al febbraio 2013 - ma non c’è motivo di dubitare che nei mesi seguenti la situazione sia mutata; sarà mutato l’ordine degli “attori”, ma il risultato generale non cambia - emerge che al vertice c’è Mario Monti; seguono Pierluigi Bersani, Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Maurizio Gasparri, Antonio Di Pietro, Matteo Renzi, Angelino Alfano. Per trovare il primo radicale, bisogna andare al 78esimo posto: Rita Bernardini; preceduta da, per esempio, un Maurizio Lupi, o un Roberto Formigoni. Ora si può sfidare chiunque a provare a citare una qualche iniziativa concreta di Lupi o Formigoni. Eppure loro in Tv ci sono sempre. Rita Bernardini, raramente. E non parliamo di Emma Bonino e Pannella. Nei programmi di approfondimento politico, siano essi “Porta a Porta” o “Ballarò”, Bonino e Pannella sono sistematicamente, scientificamente interdetti. Con scienza e coscienza, si può ben dire. Interdetti nonostante le authority e la magistratura abbiano condannato i responsabili di questa clamorosa interdizione, e stabilito che occorreva, con urgenza, porre rimedio al danno arrecato. Pannella continua a essere vietato, e con lui i radicali e le iniziative cui faticosamente cercano di dare corpo. Non è, evidentemente, una questione personale, è piuttosto una questione politica che riguarda e interessa tutti noi. O no? Giustizia: carcere e droghe, la svolta americana di Stefano Anastasia Il Manifesto, 2 ottobre 2013 Risalendo dagli abissi di Poggioreale, Napolitano ha anticipato i contenuti di un messaggio che intende rivolgere alle Camere, perché valutino la possibilità di approvare un provvedimento di amnistia-indulto per porre termine - almeno temporaneamente - al gravissimo sovraffollamento che affligge le nostre carceri e chi vi è costretto. Il messaggio viene dopo ripetute sollecitazioni del Capo dello Stato e i vani tentativi messi in opera dal precedente governo e da quello in carica che per ben due volte hanno tentato di ridurre il sovraffollamento attraverso il ricorso a decreti, consapevolmente limitati in origine e ulteriormente spuntati nel corso dell’esame parlamentare di conversione in legge. La popolazione detenuta non cresce più da tempo, ma non riesce a diminuire in maniera significativa. E allora il Presidente della Repubblica chiede che si faccia qualcosa subito, con gli strumenti che la Costituzione affida al Parlamento: un provvedimento di amnistia-indulto, per esempio. Non sappiamo se in questo Parlamento potrà esserci una maggioranza così ampia da poter corrispondere alla sollecitazione di Napolitano. Certo è che un nuovo provvedimento di amnistia-indulto, per quanto necessario e urgente, non sarebbe sufficiente a calmierare nel tempo la popolazione detenuta e a risolvere strutturalmente il sovraffollamento penitenziario. Prima o poi bisognerà fare i conti con i fattori di produzione dell’incarcerazione di massa in Italia, che sono sostanzialmente tre: l’abuso della custodia cautelare, le limitazioni alle alternative al carcere e la criminalizzazione dei migranti e dei consumatori di droghe. Se riuscissimo, talvolta, ad alzare lo sguardo oltre il cortile di casa, scopriremmo che il problema di come uscire dall’epoca dell’incarcerazione di massa non è un problema soltanto nostro. La crisi del dominio occidentale sulla globalizzazione neo-liberista ha portato con sé anche il fallimento del modello di controllo sociale fondato sul trasferimento di risorse materiali e simboliche dal sociale al penale. Il sovraffollamento ingovernabile in Italia corrisponde all’incapacità degli Stati Uniti di reggere politicamente, socialmente ed economicamente l’onda dell’incarcerazione di massa dopo la crisi del 2008. È da allora che la popolazione detenuta non cresce più (in Italia dal 2010). È dal 2009 che il sistema penitenziario statunitense è sotto processo per l’incapacità di garantire i diritti fondamentali dei detenuti. Quest’estate i primi segni di una svolta: l’amministrazione Obama sceglie di aggredire uno dei capisaldi dell’incarcerazione di massa, la war on drugs, attraverso misure di decriminalizzazione del piccolo spaccio di droghe. Nel suo discorso al Meeting annuale dell’American Bar Association, l’Attorney General dell’amministrazione Obama, Eric J. Holder, ha parlato di un circolo vizioso di povertà, criminalità e incarcerazione che colpisce troppi cittadini americani: troppe persone vanno in carcere troppe volte e troppo a lungo, e non per buone ragioni. Il risultato è quello che è: il record mondiale delle incarcerazioni e una dissipazione di risorse nel perseguimento di reati non violenti. Così, nello stesso giorno del suo discorso davanti all’ABA, Holder ha inviato nuove indicazioni ai procuratori federali, chiedendo loro di evitare di sottoporre alla rigida legislazione sulla droga gli arrestati che non siano autori di reati violenti e che non abbiano legami significativi con le organizzazioni criminali. Vedremo che ne uscirà. Certo è che, in Italia come negli Usa, se si vuole affrontare il problema dell’incarcerazione di massa bisogna passare attraverso la revisione della legislazione sulla droga. Giustizia: basta mala-politica, servono galere a cinque stelle dalla Commissione Giustizia del M5S Il Tempo, 2 ottobre 2013 La visita al carcere di Poggioreale del Presidente Napolitano ha fatto riemergere la presunta necessità di un’amnistia per risolvere l’annoso problema del sovraffollamento delle carceri nonostante il Parlamento, in luglio, abbia licenziato un provvedimento che Letta e il ministro Cancellieri avevano definito dirimente per risolvere l’emergenza. Infatti, manco a dirlo, dopo la conversione in legge del decreto “svuota carceri”, come ha evidenziato bene “Il Tempo” nella sua inchiesta, i detenuti sono più di 65.000 per una capienza regolamentare di 47.459 posti. Più di quanti ve n’erano a luglio. I deputati del MoVimento 5 Stelle sono entrati in Parlamento solo lo scorso marzo. Proprio per questo, abbiamo studiato e approfondito il problema per proporre soluzioni più efficaci e meno costose rispetto a quelle che il governo ci voleva vendere. Valutando quanto fatto dal commissario delegato all’emergenza carceri Ionta negli ultimi tre anni, sulla base di dati ufficiali del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (Dap), ci siamo accorti che questa supposta emergenza è stata provocata dalla stessa politica e dalla stessa burocrazia che la doveva risolvere. Infatti, ad oggi, i commissari che dovevano risolvere l’emergenza, hanno creato ben ZERO nuovi posti detenuto. Mentre il Dap, nello stesso periodo, nonostante fosse svuotato di competenze e di fondi, ha creato ben 2mila nuovi posti già consegnati. Ciò che stupisce, guardando ai fatti con gli occhi di cittadini comuni, è che il ministro Cancellieri è in possesso di un “Piano Carceri” già elaborato dal Dap, sostenuto dal M5S, che non prevede nuove carceri se non un istituto da 800 posti in Campania. La ratio di questo programma sta nel recupero funzionale di carceri mal utilizzate, recupero di sezioni chiuse, costruzioni di nuovi padiglioni e riallocazioni di cubature. Basta fare alcuni esempi: in provincia di Catania si potrebbe arrivare a una capienza regolamentare di 1.850 posti, contro i 744 attuali; a Roma a 2.800 posti contro i 1.979 attuali; a Milano fino a 4.000 posti contro i 2.478 attuali. Basterebbe, in parole povere, unificare le celle portandole a triple/quadruple con un allargamento delle stesse. Si prevede poi la modifica del sistema di vigilanza, rendendola dinamica, come già sperimentato positivamente in alcuni penitenziari, così da recuperare risorse del personale attualmente in sofferenza numerica. Il risultato porterebbe ad avere 69.120 posti disponibili, ovvero ben 22mila posti in più entro la fine del 2015 sancendo la fine dell’emergenza carceraria. Il costo? Circa 50mila euro a posto detenuto, mentre i 980 posti creati dal ministero delle Infrastrutture ci sono costati 235mila euro a nuovo posto detenuto. Ma non basta solo creare nuovi posti, è necessario prevenire e far sì che le carceri diventino luoghi di rieducazione e non di afflizione. Bisognerebbe dunque, rivedere quelle leggi che hanno contribuito a creare il sovraffollamento carcerario come la ex Cirielli, Bossi-Fini, Fini-Giovanardi nonché ridurre i tempi dei processi penali. Questo bisognerebbe fare, non svuotare le carceri con provvedimenti di clemenza che - ultimo esempio è l’indulto del 2006 - non hanno portato ad alcun risultato. L’amnistia pertanto non può essere una soluzione né temporanea né definitiva per rispettare la scadenza del 14 maggio 2014 e la politica dovrà finalmente prendersi le proprie responsabilità, evitando di speculare sulla pelle dei detenuti e dei loro familiari, realizzando le soluzioni di buon senso del Movimento 5 Stelle. Giustizia: suicidi e risse, così si muore in cella di Maurizio Gallo Il Tempo, 2 ottobre 2013 I dati segreti sulle violenze e gli atti di autolesionismo per il sovraffollamento L’anno scorso in 1300 hanno provato a togliersi la vita, ben 56 ci sono riusciti. Proteste, aggressioni, evasioni. Anche se non si può stabilire un rapporto diretto fra cause ed effetto, il sovraffollamento carcerario non aiuta certo a far diminuire la tensione dietro le sbarre. Anzi. I dati del Dap sono impressionanti. Nel 2012 le proteste collettive nei penitenziari italiani sono state quasi 280 mila. Il record spetta alla Lombardia, con 48.598 episodi. Poi viene la Sicilia (40.098) e, al terzo posto, c’è il Lazio con 22.796 casi. In Abruzzo siamo a 7.716 e in Molise a 482. Infine, ci sono quelle che vengono definite “proteste non collettive”, come lo sciopero della fame o della sete, che l’anno scorso ha coinvolto oltre ottomila detenuti, il rifiuto del vitto e delle terapie (1.657) e i danneggiamenti dei beni dell’Amministrazione (915). Ma non ci sono solo le proteste e le rivolte. Per quanto riguarda le evasioni e i mancati rientri, siamo a quota 202, otto nel Lazio e ben sessanta in Abruzzo (nessuno in Molise). Tra i duecento casi abbondanti, 52 rappresentano quelli di persone che non sono tornate in cella al termine di un permesso premio, 13 dal lavoro esterno, 27 dalla semilibertà. Le cifre più preoccupanti sono, però, quelle relative alle aggressioni, che sono divise in ferimenti (1.023) e in colluttazioni (4.651) per un totale di 5.674 in 12 mesi. La suddivisione geografica registra in pole position la Toscana, con 140 ferimenti, seguita da Campania (107), Lombardia (102) e Sicilia (100). Nel Lazio siamo a 74 ferimenti e 276 colluttazioni, in Abruzzo rispettivamente a 26 e 100 e in Molise 13 e 3. È indicativo andare a vedere le motivazioni delle proteste che si verificano all’interno delle mura carcerarie. La maggior parte (228.546 casi lo scorso anno) sono state inscenate a favore o contro misure o proposte legislative che coinvolgevano le condizioni dei penitenziari, come indulti, amnistie e disegni di legge vari. Un’altra parte, abbastanza consistente (40.150), ha avuto a che fare proprio con il sovraffollamento e le condizioni di vita “intramuraria”, come si dice in gergo, oppure a causa dell’incompatibilità con altri detenuti, la carenza di assistenza sanitaria o l’insoddisfazione per i servizi offerti, dall’acqua al cibo, dal riscaldamento alla pulizia dei locali. Solamente 42 sono state in relazione al tipo di rapporto instaurato con la magistratura di sorveglianza e appena 20 per reclamare contro il trattamento dei detenuti, come il mancato pagamento di “mercedi”, la difficoltà di accesso al lavoro o alla formazione. Gli strumenti per farsi ascoltare sono sempre gli stessi: concerti di pentole e stoviglie, materassi e lenzuola incendiati. Ma non sempre la protesta è di gruppo. Più spesso i reclusi, soprattutto quelli stranieri e molto giovani, rivolgono contro se stessi la rabbia che maturano in celle sovraffollate e sporche. E allora si tolgono la vita impiccandosi alle grate, inalando un’overdose di gas da una bomboletta o, se ne hanno la possibilità, tagliandosi le vene con una lametta. Nel 2012 i suicidi sono stati 56, i tentati 1308. E sembra che siano destinati a crescere. Giustizia: urla dal silenzio, la rivolta rimbomba sulle sbarre dei loculi Il Tempo, 2 ottobre 2013 Basta leggere la cronaca di tutti i giorni per rendersi conto che il fenomeno delle proteste, collettive o individuali, è endemico e ricorrente. Nel gennaio 2010, anno che si è aperto con quattro suicidi dietro le sbarre, i trecento detenuti di Sulmona hanno inscenato una protesta contro il sovraffollamento. Nell’arco dei mesi successivi è la volta di Padova, Vicenza, Milano (San Vittore) Genova e Novara. Lenzuola incendiate, pentole percosse e urla. Nella città veneta è cominciato tutto quando i detenuti hanno visto arrivare un camion carico di brande, segno inequivocabile dell’arrivo di nuovi “ospiti”. Le celle a Padova sono di circa otto metri quadrati e in ognuna nel 2010 c’erano almeno tre detenuti. Stesso discorso a Rebibbia, da dove è partita l’iniziativa con un “concerto” composto da posate e gamelle sbattute contro le inferriate. Nel 2011 tocca ad Ancona. Nel penitenziario di Montacuto una ventina di galeotti extracomunitari danno alle fiamme lenzuola, indumenti, suppellettili varie e si barricano nelle celle armati di lamette e fornelletti da campeggio. A cominciare è un maghrebino che, per sottolineare la sua innocenza, si è cucito le labbra con ago e filo. “Senza voler giustificare la rivolta - sottolinea un rappresentante del Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria - bisogna tenere presente che, a fronte di una capienza di 178 posti, qui ci sono 440 persone”. Sempre nel 2011 il copione si ripete a Parma, dove un agente resta intossicato dal fumo. Nel 2012 è il turno di Bolzano. Nel 2013 si parte dal Piazza Lanza di Catania (10 giugno), a seguire il Buoncammino di Cagliari (10 luglio), al Montorio di Verona (29 luglio), dove ci sono il doppio dei detenuti del previsto, di nuovo al Due Palazzi di Padova (17 agosto) a causa del suicidio di un marocchino che si è impiccato con i lacci delle scarpe che non avrebbe dovuto avere. Anche qui i posti sono pochi, 82, rispetto alla popolazione carceraria composta da 240 persone. Giustizia: il Garante Marroni “reclusi disperati, anche la sopravvivenza è a rischio” di Augusto Parboni Il Tempo, 2 ottobre 2013 Angiolo Marroni, garante per i detenuti del Lazio, ha le idee chiare sui problemi del sovraffollamento. Quali i motivi del fenomeno del sovraffollamento? “Fino a poco tempo fa, prima che la crisi economica deflagrasse, la lotta alla criminalità e il diritto alla sicurezza erano tra le principali priorità che i cittadini indicavano. A fronte di tale domanda, soprattutto negli ultimi venti anni, l’unica risposta che il Parlamento ha saputo offrire su questi temi è sempre stata la stessa: più carcere e pene più severe, meno misure alternative e introduzione di nuovi reati, repressione penale di condotte come l’immigrazione, la prostituzione, la tossicodipendenza. Il fallimento di questa linea del rigore è sotto gli occhi: quasi il 40% dei detenuti è in attesa di un giudizio definitivo, il tasso di recidiva è elevatissimo, il numero dei crimini non diminuisce e le carceri sono sempre più sovraffollate”. Di chi sono le responsabilità? Sono politiche o amministrative? “In primis le responsabilità sono, ovviamente, di chi, in questi anni, ha avuto le maggiori cariche di governo del paese. A cosa serve la detenzione per i malati di mente, gli stranieri senza permesso di soggiorno? È palese, ma evidentemente impopolare, che per alcuni di questi malati, il carcere può fare ben poco anzi, può solo aggravare la malattia. Accanto alla politica, però, anche la Pubblica Amministrazione ha le sue colpe”. Quale effetto provoca nei detenuti e negli agenti penitenziari il sovraffollamento? “Il risultato ultimo è che, ormai da troppo tempo a questa parte, nel carcere non si vive, ma si tenta di sopravvivere. E, purtroppo, non è infrequente che i più deboli, non solo fra detenuti ma anche fra gli agenti di polizia penitenziaria, si ammalino o scelgano la soluzione estrema del suicidio. Basti un dato su tutti per riflettere: solo nel Lazio, dall’inizio del 2013 ad oggi si sono registrati ben 14 decessi. Di questi cinque suicidi, tre per malattia e cinque per cause da accertare. E al computo va aggiunta anche una donna che lavorava come infermiera a Rebibbia”. Quali sono le situazioni più drammatiche che ha potuto vedere nelle carceri? “Il dramma lo si vive nella quotidianità del carcere: è quello dei bambini da 0 a 3 anni reclusi con le loro madri a Rebibbia Femminile. È quello dei detenuti ultrasettantenni ancora in carcere, quello degli stranieri o dei senza fissa dimora che non hanno commesso reati gravi ma che restano comunque in cella perché non hanno un luogo dove scontare il resto della pena. Il dramma è quello degli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni di 12/16 ore per far fronte alle carenze di organico”. Quali soluzioni potrebbero risolvere il problema? “Personalmente non sono contrario all’amnistia e all’indulto, ma sono convinto che se il quadro legislativo di fondo resta inalterato, si tratterà solo di una misura tampone. Tempo qualche mese, e le carceri torneranno ad affollarsi di nuovo, come accaduto con l’indulto del 2006. La soluzione è prettamente politica e passa attraverso la decarcerizzazione del sistema, con un ampio ricorso a misure alternative. Secondo i dati in nostro possesso, commettono reati mentre sono in misura alternativa solo quattro detenuti su mille. Nei cinque anni successivi alla fine della misura alternativa, il tasso di recidiva di questa categoria si aggira attorno al 19% contro il 68% dei detenuti ordinari. Possiamo quindi affermare che la vera soluzione al problema della sicurezza non è quello di diminuire, ma di aumentare le pene alternative che, è bene ricordare, in Italia sono applicate in misura di circa sei volte inferiore alla media europea”. Carceri/ Letta: Pronti a ulteriori misure per affrontare problemi “Questione oggetto di un appassionato intervento di Napolitano” Roma, 2 ott. (TMNews) - Il Governo ha intenzione di varare “ulteriori misure per affrontare la questione carceraria, oggetto di un appassionato discorso del presidente Napolitano in visita al carcere di Poggioreale”. Lo ha annunciato il presidente del Consiglio Enrico Letta, nel suo intervento in aula al Senato. Giustizia: Comi (Pdl); interrogazione a Ue su tempi processi, Italia è fuori tempo massimo Ansa, 2 ottobre 2013 In Italia è necessario approvare al più presto una riforma della giustizia: siamo ormai “fuori tempo massimo”. È quanto ha affermato l’eurodeputata del Pdl Lara Comi in un’interrogazione presentata oggi alla Commissione europea sul tema della durata dei processi. “È assurdo voler fare giustizia sottoponendo i cittadini a una grave ingiustizia, quella di attendere lunghissimi anni prima di vedere conclusa la loro causa”, ha spiegato la Comi, sottolineando che la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha ricordato che “il 40% dei detenuti nelle carceri italiane sono in attesa di giudizio, un dato allarmante”. L’Italia è stata condannata “innumerevoli volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per l’eccessiva lunghezza dei processi: come ha anche affermato il capo dello Stato la riforma della giustizia in Italia è necessaria, siamo fuori tempo massimo”, ha concluso l’eurodeputata. Giustizia: Fontana (Ln); no ad amnistia detenuti stranieri scontino la pena nel loro Paese Agenparl, 2 ottobre 2013 Tre guardie della Polizia penitenziaria, in servizio nella casa circondariale di Montorio, nel veronese, sono state ricoverate ieri in ospedale. Due a seguito di un incendio appiccato da un detenuto nella sua cella, il terzo a causa di un malore probabilmente dovuto alle problematiche condizioni ambientali di una sezione del carcere. Lorenzo Fontana, eurodeputato e capogruppo della Lega Nord a Bruxelles, oggi ha scritto al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in virtù anche delle recenti dichiarazioni del Capo dello Stato sulla situazione drammatica di sovraffollamento delle carceri italiane, che poi si ripercuote, dice l’eurodeputato leghista, “anche sul personale che nei penitenziari ci lavora”. “Concordo sulla denuncia del Presidente Napolitano - premette Fontana - non mi trovo d’accordo invece sulle soluzioni. Napolitano ha esortato il Parlamento a un atto di clemenza, che sia indulto o amnistia, tuttavia il Presidente sbaglia - e lo dico con rispetto - per due motivi. Il primo di cultura giuridica e mi riferisco al principio della certezza della pena come deterrente cardine in uno Stato di diritto. Il secondo di ordine pratico”. Al riguardo l’esponente del Carroccio ricorda: “Fu fatto un indulto nel 2006 per gli stessi motivi, eppure dopo sette anni siamo al punto di prima. Mi chiedo e chiedo al Presidente Napolitano: svuotiamo le carceri ogni sette anni perché non riusciamo a trovare un rimedio strutturale al problema?”. Il rimedio Fontana ce l’ha: “Gli stranieri devono scontare la loro pena nel Paese di origine, come ho già avuto modo di prospettare a suo tempo con una risoluzione presentata al Parlamento europeo. In questo modo allevieremmo la pressione che grava sui detenuti italiani e sul personale penitenziario”. Giustizia: Sappe denuncia; mezzi fermi perché senza soldi e cliniche milionarie mai aperte La Sicilia, 2 ottobre 2013 “C’è il serio e fondato rischio che nelle prossime settimane la Polizia Penitenziaria non sia più in grado di assicurare il servizio istituzionale del trasporto dei detenuti (le cosiddette “traduzioni”) ristretti nella provincia di Catania, e cioè delle carceri di Bicocca, piazza Lanza, Giarre e Caltagirone”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe. “Abbiamo 32 mezzi in dotazione al Nucleo operativo provinciale traduzioni e piantonamenti di Catania fermi in attesa di riparazioni - spiaga Capece - che non possono essere eseguite perché mancano i soldi, tanto che è lo stesso Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a comunicarlo ufficialmente nelle note di risposta alle lettere delle Direzioni delle carceri che chiedono, appunto, fondi per le riparazioni. Sono centinaia in tutta Italia. Non solo: tanti mezzi hanno oltre 300, 400 e persino 500mila chilometri “sulle spalle” e persino procedure obbligatorie di sicurezza come i periodici collaudi non vengono osservata proprio perché non ci sono soldi. È una situazione catastrofica: questo deve fare seriamente riflettere sui gravi rischi che le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria quotidianamente affrontano nel trasportare i detenuti”. Capece ha inviato questa mattina una lettera di denuncia al Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ed alle autorità nazionali, regionali e cittadine. “Denuncio una volta di più le quotidiane difficoltà operative con cui si confrontano quotidianamente le unità di Polizia Penitenziaria in servizio nei Nuclei Traduzioni e Piantonamenti dei penitenziari: agenti che sono sotto organico a Catania di 80 unità, non retribuiti degnamente, impiegati in servizi quotidiani ben oltre le 9 ore di servizio, con mezzi di trasporto dei detenuti spessissimo inidonei a circolare per le strade del Paese, fermi nelle officine perché non ci sono soldi per ripararli o con centinaia di migliaia di chilometri già percorsi. E si pensi che la maggior parte dei 900 detenuti dei penitenziari catanesi sono di media e alta pericolosità, in prevalenza appartenenti alle ben note consorterie criminali etnee, e che nell’ultimo anno sono stati circa 9.000 i detenuti tradotti con un impiego complessivo di circa 16mila poliziotti”. Capece denuncia anche “costose contraddizioni della salute pubblica”. “Nel carcere di Perugia - riferisce il sindacalista - c’è un Centro clinico costato milioni di euro e mai entrato in funzione. Possibile che in Italia i soldi pubblici debbano essere così mal gestiti? Capece sottolinea inoltre come “dai dati sulle presenze in carcere emerge che il 70/80% dei circa 67 mila detenuti oggi in carcere ha problemi di salute, più o meno gravi. Il 38% versa in condizioni mediocri, il 37% in condizioni scadenti, il 4% ha problemi di salute gravi. Un detenuto su tre è tossicodipendente. Del 30% dei detenuti che si è sottoposto al test Hiv, il 4% è risultato positivo. Tutto questo va ad aggravare le già pesanti condizioni lavorative delle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, oggi sotto organico di ben 7mila unità”. “Eppure - prosegue - il Centro clinico del carcere di Perugia, costruito e costato milioni di euro, è chiuso e inutilizzato. Si tenga conto che i detenuti affetti da tossicodipendenza o malattie mentali, come ogni altro malato limitato nella propria libertà, sconta una doppia pena: quella imposta dalle sbarre del carcere e quella di dover affrontare la dipendenza dalle droghe o il disagio psichico in una condizione di disagio, spesso senza il sostegno della famiglia o di una persona amica. È possibile che a fronte di tutto questo si possono concepire e tollerare sprechi come quello del Centro clinico di Perugia?”. Giustizia: il Viminale condannato a risarcire le donne violentate da un agente di Polizia di Erika Dellacasa Corriere della Sera, 2 ottobre 2013 Sarà il Viminale a risarcire una delle donne che l’assistente capo di polizia Massimo Luigi Pigozzi violentò negli spogliatoi della questura di Genova nel 2005. Lo ha deciso la terza sezione penale della Cassazione confermando la condanna di Pigozzi a dodici anni di reclusione per violenza aggravata nei confronti di due prostitute e di una donna senza fissa dimora e a sei mesi per abbandono del posto di lavoro. La Cassazione ha accolto il ricorso di una delle donne che sollevava il problema della responsabilità del Viminale per l’incarico ricoperto da Pigozzi, a contatto con persone detenute, dopo che il poliziotto era già stato condannato per le violenze avvenute nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova. L’assistente capo era stato riconosciuto colpevole di aver divaricato le dita di una mano di uno dei No global fermati fino a che la pelle della mano si era lacerata, praticamente aperta in due (per fermare il sangue erano stati necessari venticinque punti di sutura, a vivo e senza alcuna anestesia), un atto di raccapricciante e gratuita violenza. Il ragazzo, Giuseppe Azzolina, ha riportato una invalidità permanente alla mano. Nonostante questo e la condanna a tre anni e due mesi di reclusione Massimo Luigi Pigozzi era tornato a svolgere le sue abituali mansioni nella questura di Genova. Nel 2005 due prostitute romene e una giovane donna che erano state fermate lo denunciarono per violenza sessuale: affermarono di essere state prelevate da Pigozzi dalla cella di sicurezza e portate negli spogliatoi dove avevano subito violenza. L’assistente capo è stato condannato in primo e secondo grado, la Cassazione ha confermato i dodici anni e mezzo di reclusione ma a differenza della sentenza d’appello che la escludeva ha affermato la responsabilità del ministero degli Interni. Questo perché c’è stata una colpa omissiva “in vigilando”, ha stabilito la Cassazione, accogliendo la tesi del legale di una delle donne che hanno subito lo stupro. Pigozzi non doveva essere messo a contatto con persone detenute. “È stato accertato - scrive la terza sezione - che i fatti si sono svolti all’interno di un ufficio di polizia e durante il servizio di vigilanza alle persone fermate, con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti la funzione pubblica di agente di polizia”. “Sussistendo quindi il rapporto di occasionalità necessari tra il fatto e le mansioni svolte - argomentano i magistrati - andava confermata la responsabilità civile dello Stato che, peraltro, nonostante il Pigozzi fosse già stato coinvolto in fatti di violenza contro soggetti in stato di fermo e condannato in primo grado, ha ritenuto adibirlo ancora una volta allo svolgimento di mansioni che prevedevano il contatto diretto con le persone arrestate o fermate”. Il Viminale dovrà quindi risarcire una delle vittime del poliziotto, questo perché soltanto una di esse si è costituita parte civile e ha presentato ricorso contro la sentenza di non responsabilità del Viminale emessa dalla Corte d’Appello. L’incarico di sorveglianza affidato a Pigozzi, ha scritto il legale della donna nel ricorso, “ha grandemente agevolato la condotta criminosa”. Pochi mesi fa, il 14 giugno, la Cassazione ha confermato nei confronti dell’assistente capo (sospeso dal servizio dal 2005) anche la condanna a tre anni e due mesi per i fatti di Bolzaneto. Con la sentenza di giugno la Suprema Corte ha chiuso l’ultimo dei grandi processi del G8 del 2001 a Genova, quello delle violenze nella caserma di Bolzaneto usata come primo centro di detenzione per i fermati: “Contro i manifestanti portati in caserma - hanno scritto i giudici - furono messe in atto violenze per dare sfogo all’impulso criminale”, e questo in un “clima di completo accantonamento dei principi cardine dello Stato di diritto”. Insieme a quella dell’irruzione e della “macelleria messicana” nella scuola Diaz una pagina nerissima per le nostre istituzioni. Sia il processo per la Diaz sia quello per Bolzaneto si sono conclusi con il riconoscimento di risarcimenti alle vittime, non ancora onorati da ministeri. Toscana: 4.200 detenuti per 3.000 posti, a Lucca situazione più critica per risse e aggressioni Ansa, 2 ottobre 2013 Più di 4.200 detenuti a fronte di tremila posti letto e quasi mille agenti di polizia penitenziaria in meno rispetto agli organici: è il quadro della situazione carceraria in Toscana disegnato da Donato Capece, segretario generale del Sappe. Il sindacato nei prossimi giorni sarà impegnato in una serie di iniziative nella regione compresa una visita nelle carceri di Lucca e Pisa ed un convegno sul ruolo sociale ed istituzionale del Corpo di polizia penitenziaria. “In Toscana le carceri scoppiano e costringono il personale di polizia penitenziaria a condizioni di lavoro stressanti e di estremo disagio. Nonostante queste gravi criticità, merita ricordare - ha sottolineato Capece - una volta di più che la polizia penitenziaria è un baluardo di legalità e sicurezza nel difficile contesto delle carceri e quindi a tutti i suoi appartenenti va il ringraziamento del Sappe per quanto quotidianamente fanno in un ambiente di lavoro assai critico e delicato”. Particolarmente critica, secondo il Sappe, la situazione a Lucca: “Risse, aggressioni, atti di autolesionismo sono purtroppo all’ordine del giorno. È un dato di fatto che non vi è serenità lavorativa nella struttura, per cui chiediamo di avvicendare il direttore dell’istituto che evidentemente non ha nella sede lucchese stimoli professionali adeguati alle proprie aspettative”. Per questo il Sappe, interesserà direttamente il ministro della Giustizia Cancellieri ed i vertici dell’amministrazione penitenziaria. Abruzzo: in Consiglio Regionale slitta ancora la nomina del Garante dei detenuti Ansa, 2 ottobre 2013 Ancora un niente di fatto da parte del Consiglio Regionale abruzzese che, nemmeno nella seduta di ieri, ha nominato il Garante dei Detenuti istituito con legge regionale del 6 agosto 2011. L’ennesimo rinvio, ha destato la dura reazione dei radicali abruzzesi, che per il tramite di Alessio Di Carlo hanno giudicato “gravemente irresponsabile il comportamento del Consiglio, considerato che da oltre 25 anni la Convenzione dell’Onu contro la tortura impone di dotarsi di tale figura e che la stessa legge regionale di due anni e mezzo fa prevedeva che nel termine di 90 giorni si sarebbe dovuti giungere alla designazione effettiva”. “Oltre alla sistematica violazione delle leggi, comprese quelle che la stessa Regione si è data” ha aggiunto il neo segretario di Radicali Abruzzo “colpisce l’ipocrisia dimostrata dal fatto che nella stessa relazione accompagnatoria della legge istitutiva del Garante si parlava di una situazione di emergenza con 2300 detenuti e detenute a fronte di una capienza di 1600 posti distribuiti fra le 8 carceri”. “Ancora una volta” ha concluso Di Carlo “l’illegalità e l’ipocrisia trionfano nella gestione della cosa pubblica abruzzese”. Cremona: il carcere è in condizioni pietose… e tra poco ancor più sovraffollato di Daniele Rescaglio Il Giorno, 2 ottobre 2013 Protesta di due sindacati di polizia penitenziaria. Oltre 200 detenuti in più e altrettanti in arrivo. Mezzi scarsi, infiltrazioni d’acqua. Sicurezza, strutture carenti, mancanza di agenti di polizia penitenziaria e personale amministrativo. Altro che “isola felice”, il carcere di Cremona di Cà del Ferro vive una situazione tutt’altro che rosea, almeno stando al duro j’accuse di due sindacati del personale, il Sinappe e l’Ossap, alla vigilia dell’apertura del nuovo padiglione. Il carcere di Cremona è in uno stato di cronico sovraffollamento, tanto che già oggi sono ospitati circa 200 detenuti in più rispetto a quanto previsto e con il nuovo padiglione il numero aumenterà di altre 200 unità circa, arrivando a 600. Il nuovo padiglione dunque non alleggerirà la situazione, ma andrà ad appesantirla: “la tipologia di detenuti che ospiterà la nuova struttura penitenziaria sarà costituita da detenuti “comuni giudicabili”, in gran parte provenienti dalla Cc di Mantova e dalla Cc di Milano San Vittore, quindi ciò comporterà, sicuramente, un aggravio in termini di carico di lavoro per tutto il personale ivi in servizio, compreso il locale Nucleo traduzioni e piantonamenti” scrivono i sindacati. Oggi in servizio presso la struttura vi sono 200 agenti, di cui una ventina sono però distaccati presso altre amministrazioni. Con l’arrivo dei nuovi detenuti si presenterà anche il problema trasferimenti: su 4 mezzi in dotazione, denunciano i sindacati, solo due sono funzionanti, ma con all’attivo migliaia di chilometri. Senza parlare del fatto che attualmente la struttura fa letteralmente acqua: “filtra l’acqua piovana, che si dirama in diverse articolazioni, fino a raggiungere i quadri elettrici, mettendo a repentaglio continuamente la sicurezza del personale che quotidianamente vi opera, compresi gli stessi reclusi che a volte si trovano per molte ore al buio e con i letti bagnati dalle stesse infiltrazioni; nonostante le varie rassicurazioni da parte del provveditorato nulla o poco è stato ancora fatto”. Discorso che vale anche per la caserma della polizia penitenziaria: il secondo piano è inagibile da molto tempo. I sindacati dedicano anche un passaggio alla situazione dei detenuti: 4 tentativi di suicidio da gennaio, un suicidio e frequenti atti di autolesionismo sono indice di un disagio profondo, reso ancor più grave dalla mancanza di educatori. Reggio Calabria: programma formativo per i detenuti del carcere di Laureana di Borello Asca, 2 ottobre 2013 A poche ore dalla riapertura e dall’arrivo dei primi 20 detenuti, il “Luigi Daga” di Laureana di Borrello ha ospitato una riunione operativa finalizzata al varo di un programma di formazione professionale dei detenuti e per studiare idonee strategie di marketing in grado di inserire sul mercato i prodotti realizzati nel laboratorio di falegnameria e nelle serre della struttura. All’incontro, che ha confermato la sinergia tra l’Amministrazione penitenziaria, la Provincia di Reggio Calabria e tutti gli altri soggetti che si sono battuti per la difesa del carcere, hanno preso parte il provveditore regionale degli Istituti di pena Salvatore Acerra, il direttore del carcere Angela Marcello, il presidente della Provincia Giuseppe Raffa, l’assessore provinciale al Lavoro e alla Formazione Giovanni Arruzzolo, l’assessore all’Agricoltura Gaetano Rao, il consigliere Giuseppe Longo, la consigliera di parità Daniela De Blasio, il dirigente Stefano Catalano e il responsabile dei centri di formazione dell’Ente di via Foti, Fortunato Battaglia. Nel corso della riunione sono state analizzate diverse proposte che dovranno trovare posto in un progetto il cui fine ultimo è l’inserimento del detenuto nel contesto sociale una volta espiata la pena. La necessità di dotare il carcere di idonee attrezzature per far ripartire l’attività lavorativa è stata una delle preoccupazioni espresse da tutti i partecipanti al vertice. L’idea è quella di utilizzare al meglio le strutture già esistenti per renderle produttive: come i laboratori di falegnameria e ceramica e le serre, che occupano ben ottomila metri quadri di superficie. Genova: detenuto si taglia il braccio con una lametta per ottenere cambio di cella Tm News, 2 ottobre 2013 Nuovo caso di autolesionismo nel carcere genovese di Marassi. Per ottenere un cambio di cella un detenuto di nazionalità straniera si è procurato profonde ferite al braccio destro con una lametta da barba. Lo ha reso noto il segretario generale aggiunto del Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Roberto Martinelli. “Il detenuto - ha spiegato Martinelli - voleva cambiare cella e per farlo, nonostante l’agente del piano gli stesse spiegando come compilare l’apposita richiesta alla direzione, si lesionava il braccio destro con profonde ferite inferte dalla lametta da barba dicendo che avrebbe continuato fino a quando non l’avessero spostato”. Gli ultimi episodi di autolesionismo nel carcere genovese risalgono allo scorso 7 e 23 settembre. Tre giorni dopo, il 26 settembre, un detenuto aveva lanciato dell’olio bollente addosso agli agenti di polizia penitenziaria, ferendone 5. Padova: mafia pugliese dietro l’evasione dal permesso di un detenuto moldavo, 2 arresti Ansa, 2 ottobre 2013 La Polizia di Stato di Padova, in collaborazione con quella di Lecce, ha tratto in arresto due pregiudicati pugliesi, legati al clan Vitale della Scu, per aver pianificato e realizzato nel gennaio di quest’anno l’evasione dal carcere di Padova di un detenuto moldavo che stava scontando 20 anni di reclusione, quale autore di un omicidio avvenuto nel capoluogo euganeo nel 2004. L’evaso venne catturato tre mesi dopo in provincia di Lecce, dopo un rocambolesco inseguimento e trovato in possesso di un’arma clandestina col colpo in canna. Le successive indagini della Squadra Mobile di Padova hanno permesso di raccogliere elementi di responsabilità tali da consentire al pm euganeo Sergio Dini di ottenere dal gip Mariella Fino due misure cautelari, eseguite dagli investigatori euganei assieme ai colleghi della Squadra Mobile salentina. La Polizia di Stato di Padova, in collaborazione con quella di Lecce, ha tratto in arresto due pregiudicati pugliesi, legati al clan Vitale della Scu, per aver pianificato e realizzato nel gennaio di quest’anno l’evasione dal carcere di Padova di un detenuto moldavo che stava scontando 20 anni di reclusione, quale autore di un omicidio avvenuto nel capoluogo euganeo nel 2004. L’evaso venne catturato tre mesi dopo in provincia di Lecce, dopo un rocambolesco inseguimento e trovato in possesso di un’arma clandestina col colpo in canna. Le successive indagini della Squadra Mobile di Padova hanno permesso di raccogliere elementi di responsabilità tali da consentire al pm euganeo Sergio Dini di ottenere dal gip Mariella Fino due misure cautelari, eseguite dagli investigatori euganei assieme ai colleghi della Squadra Mobile salentina. Pescara: assolto ex medico carcere, era accusato di aver scritto falsi certificati per 3 detenuti Il Centro, 2 ottobre 2013 Era stato arrestato ai domiciliari il 22 aprile 2005 e per quaranta giorni era rimasto rinchiuso nella sua casa con l’accusa di aver falsificato certificati medici restituendo la libertà, sosteneva l’accusa, a tre detenuti grazie ai suoi certificati. Sono trascorsi sei anni dalla richiesta di processo che il pm Gennaro Varone fece per il medico Vincenzo Felice Giuliani all’epoca dirigente dell’area sanitaria del carcere di San Donato da 15 anni: il dottore pescarese è stato assolto - alcuni reati sono stati dichiarati prescritti - dal collegio presieduto da Carmelo De Santis che ha azzerato l’inchiesta per falso, truffa e corruzione ritenendo estranee anche le altre otto persone implicate nel fascicolo tra cui tre guardie carcerarie, un infermiere e quattro ex detenuti. “Ho sempre effettuato le visite, riscontrato le patologie e stilato le diagnosi”, aveva detto il medico al giudice per le indagini preliminari Luca De Ninis durante l’interrogatorio sostenendo anche che i tre agenti di polizia penitenziaria coinvolti, ai quali aveva rilasciato certificati medici considerati sospetti, erano suoi pazienti di cui conosceva perfettamente le condizioni. L’inchiesta era partita da un semplice certificato medico con il quale Giuliani aveva stabilito, come sostenne il pm, un’incompatibilità temporanea con il carcere, di 3-4 mesi, di un detenuto, rimesso in libertà dal gip e mai tornato in cella. Ma il collegio presieduto da De Santis e composto dai giudici a latere Gianluca Falco e Sergio Casarella, ha scagionato il medico difeso dall’avvocato Anna Maria Petrei Castelli, così come ha assolto gli ex detenuti Achille ed Ersilia Spinelli, difesi dall’avvocato Luca Sarodi per cui è caduta l’accusa di falso. Assolto anche Mario Spinelli assistito da Alfredo Forcillo. Nell’inchiesta l’infermiere del carcere era accusato di aver contraffatto il registro delle prescrizioni mediche dell’infermeria del carcere per evitare la detenzione a una rom, mentre un agente della polizia penitenziaria doveva rispondere ancora di falso e truffa perché, in due circostanze, avrebbe beneficiato dei certificati medici di Giuliani. Il tempo trascorso ha dichiarato prescritti alcuni reati facendo uscire dal fascicolo anche gli agenti e l’infermiere - alcuni reati sono stati prescritti e per altri c’è l’assoluzione. Gli ex imputati sono stati assistiti dagli avvocati Fabio Corradini, Paolo Marino, Marcello Cordoma, Alfredo Testa e Vittorio Supino. Imperia: rissa tra detenuti albanesi e macedoni in carcere, un ferito e quindici denunciati di Maurizio Vezzaro La Stampa, 2 ottobre 2013 Quindici persone denunciate per rissa aggravata. È quanto è scaturito dall’indagine condotta dal pubblico ministero Lorenzo Fornace sull’episodio accaduto lunedì mattina in carcere a Imperia e segnalato da Roberto Martinelli, segretario regionale del sindacato di polizia penitenziaria Sappe. Stando alla ricostruzione fatta dalla polizia penitenziaria si sarebbero affrontati due gruppi di detenuti, da una parte macedoni, dall’altra albanesi. Banalissimi i motivi del contendere: un tavolino conteso per la partita a carte. Per sedare la rissa è dovuta intervenire una squadra di una ventina di agenti. C’è voluta molta fatica per riportare la calma nella zona dei passeggi. Un macedone, malmenato da un recluso albanese esperto di arti marziali è dovuto ricorrere alle cure dei medici del pronto soccorso che gli hanno dovuto cucire la parte inferiore dell’occhio con sei punti di sutura. “Cos’altro dovrà accadere o dovrà subire il personale perché ci si decida ad intervenire concretamente sulle criticità di Imperia?”, si chiede Martinelli che punta l’indice contro l’indifferenza dei vertici. La carenze d’organico all’interno del carcere di Imperia sono ormai note: sono in servizio 57 poliziotti (cifra ipotetica perché non tiene conto di ferie, mutua, permessi, trasferte, traduzioni)., ma ne servirebbero 78, come da pianta organica. Aggiunge Martinelli: “In più proprio recentemente 3 colleghi sono stati trasferiti a domanda in altre sedi ma il reparto non è stato compensato, pur se vi è stata recentissimamente l’immissione in ruolo di centinaia di neo agenti. Il carcere è senza direttore titolare, retto provvisoriamente da quello di Sanremo, ed è perennemente sovraffollato, anche per effetto della soppressione della procura di Sanremo che vede tutti gli arrestati - da Ventimiglia a Cervo - confluire nel penitenziario imperiese. E il sovraffollamento determina indubbiamente ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate oltre ogni limite, tensione ed eventi critici come la rissa di lunedì ma soprattutto genera stress e determina pericolo costante per chi in quelle sezioni deve lavorare rappresentando lo Stato come i nostri agenti di polizia penitenziaria, ammirevoli a gestire i molti eventi critici con senso del dovere, abnegazione e professionalità”. Palermo: il Dap sfratta l’ex direttrice del Pagliarelli ma lei non vuole lasciare l’abitazione La Repubblica, 2 ottobre 2013 Guerra di ricorsi dopo la condanna di Laura Brancato, che punta a dirigere ancora il carcere. Nel 2009, nel pieno di una bufera giudiziaria, fu sospesa dall’incarico di direttrice del carcere di Pagliarelli. Nel 2012, è stata anche condannata a 10 mesi per peculato (pena sospesa), perché avrebbe utilizzato un telefono del penitenziario per scopi privati. Ma Laura Brancato non ha alcuna intenzione di lasciare l’elegante appartamento che spetta al direttore del carcere. Ad agosto, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria le anche inviato un ultimatum dai toni perentori: quell’appartamento spetta al direttore e solo al direttore. Ma neanche lo sfratto inviato direttamente da Roma ha turbato l’ormai ex direttrice Laura Brancato, che ha deciso di aprire un vero e proprio contenzioso con la sua amministrazione. E qualche successo è anche arrivato. A gennaio, ad esempio, il Dap l’aveva destinata a dirigere la Casa Circondariale di Gela. Ma lei ha fatto ricorso, sostenendo che l’istituto non fosse adeguato alla sua qualifica dirigenziale. E alla fine, il Consiglio di giustizia amministrativa le ha dato ragione. Il 2 luglio, Laura Brancato è tornata al Pagliarelli, non come direttore, ma comunque come dirigente: quel giorno, in assenza del direttore facente funzioni Francesca Vazzana (in ferie), prese lei in mano l’istituto penitenziario più importante della Sicilia. Ma solo per un giorno. Poi si mise in ferie. Sembra che ritornerà a metà ottobre. Intanto, in pieno agosto, inizia il braccio di ferro sull’appartamento che spetta al direttore. Ed è un susseguirsi di note fra Roma e Palermo, fra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il provveditorato regionale e la casa circondariale di Pagliarelli. Qualche giorno fa, la direzione del personale del Dap ha anche chiesto lumi al provveditorato regionale sulle funzioni assegnate alla dirigente penitenziaria Laura Brancato. È rimasto solo il peculato. Dopo l’avvio dell’inchiesta, Laura Brancato aveva offerto di pagare le telefonate fatte con il figlio all’estero. “Neanche 200 euro, una cifra irrisoria”, dice il suo legale, l’avvocato Vincenzo Lo Re. “La Cassazione - sottolinea - ha ormai introdotto il concetto del danno di lieve entità”. Ma i giudici della quarta sezione del Tribunale hanno ritenuto che le telefonate furono comunque tante, protratte per circa due anni. E gli atti sono stati anche trasferiti alla Procura della Corte dei Conti. Il caso Brancato è finito di recente in un’interrogazione del movimento Cinquestelle al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. L’ex direttore prepara la controffensiva. Intanto, al Pagliarelli il clima resta teso, per l’incertezza sulla gestione dell’istituto. Chi sarà il vero direttore? Catania: Osapp; il Procuratore Capo Salvi incontra il Sindacato della Polizia penitenziaria www.imgpress.it, 2 ottobre 2013 “In data odierna il Procuratore Capo della Repubblica di Catania - Pres. Giovanni Salvi - ha incontrato il Segretario Generale Aggiunto dell’Osapp - Domenico Nicotra - unitamente ad altri Dirigenti Sindacali”. A renderlo noto è lo stesso Segretario Generale Aggiunto Osapp che afferma come ancora una volta la sensibilità mostrata dal Presidente Giovanni Salvi ha permesso agli operatori di Polizia Penitenziaria di poter meglio affrontare i loro delicati compiti istituzionali. “Infatti, continua Nicotra, è di ieri la notizia che finalmente il reparto detenuti dell’ospedale Cannizzaro di Catania è operativo e ciò consentirà di poter assicurare in sicurezza e contemporaneamente più ricoveri di detenuti”. “Rispetto invece alla questioni discendenti dalla soppressione di molte sezioni distaccate dei Tribunali ed assorbite dalla sede del Tribunale di Catania di via Crispi, il presidente Salvi ha assicurato tutto il suo personale interessamento per meglio organizzare la macchina della giustizia etnea al fine di rendere più lineare e sicuro il delicato compito delle traduzioni di detenuti innanzi alle AA.GG. di via Crispi”. “Con soddisfazione, conclude Nicotra, ancora una volta il Procuratore Capo della Repubblica di Catania ha raccolto l’allarme lanciato dall’Osapp e di questo tutta la Polizia Penitenziaria catanese ne è grata”. Lanciano (Ch): sei murales per i detenuti, un progetto sostenuto dal Rotary Club Il Centro, 2 ottobre 2013 C’è un modo sano, giusto e indolore per “evadere” dal carcere di massima sicurezza di contrada Villa Stanazzo, alle porte di Lanciano. É quello di affidarsi alle immagini, ai colori e alla vita che ispirano i murales realizzati da diversi artisti per l’iniziativa Graffiti, alla sua seconda edizione. Si tratta di veri e propri squarci di speranza che spezzano il grigiore interno ed esterno dei muri di uno dei luoghi “più tristi e difficili del mondo”, come ha definito il carcere la stessa direttrice della Casa circondariale di Lanciano, Maria Lucia Avvantaggiato. “Ma il carcere” spiega ancora Avvantaggiato “è anche parte e prodotto della comunità che come tale lo deve riconoscere, accogliere e sostenere. Anche un luogo brutto può essere reso molto bello”. Il progetto Graffiti - l’arte per tracciare la rotta dei sogni, è stato ideato dalla Casa circondariale di Lanciano con il Rotary club che ha sostenuto le spese per realizzare le opere. Sono 6 i murales (realizzati quest’anno dagli artisti Nicola Di Totto, Andrea Ranieri, Francesco Giorgino, Emiliano Marone, Fabrizio Galtieri, Davide Di Fonzo, Natalia D’Avena e Matteo Di Berardino) che vanno ad aggiungersi agli 8 già disegnati nel 2012. Tema di quest’anno è il sogno, un mezzo che può racchiudere desideri e speranze di chi sta vivendo in una condizione di estrema privazione della libertà. I murales, realizzati mediante la tecnica della spray art, parlano a chi è dentro il carcere con la potenza narrativa tipica delle immagini e dei colori che non hanno bisogno di parole, né di spiegazioni o didascalie, ma che sanno trasportare altrove in luoghi, tempi e circostanze migliori. Il sogno quindi serve a proteggere la speranza, l’ottimismo, la positività. Sabato scorso, nella Casa circondariale di Lanciano è andata in scena la manifestazione di presentazione del progetto alla presenza di studenti, insegnanti, educatori, psicologi e professionisti dell’arte. Presente anche il sindaco di Lanciano, Mario Pupillo che ha auspicato, nella prossima stagione teatrale cittadina, l’inserimento di una compagnia teatrale di un istituto penitenziario. Ad assistere alla spiegazione delle opere anche alcuni ospiti del carcere. “I sogni aiutano” ha detto un detenuto “ma sarebbe meglio responsabilizzare chi è dentro il carcere. Io non posso aprire nemmeno la maniglia di una porta, perché c’è chi lo fa per me. Non mi preparo da mangiare, né lavo le mie lenzuola. Sarebbe bello ed educativo potermi conquistare le piccole cose come la televisione, e il carcere servirebbe davvero a qualcosa”. Immigrazione: Lauri (Sel); Cie di Gradisca d’Isonzo è motivo di vergogna per l’Italia Ansa, 2 ottobre 2013 “Il Cie di Gradisca d’Isonzo è da molti riconosciuto come il peggiore fra quelli presenti in Italia. La maggior parte di coloro che sono trattenuti in quel luogo, e sottoposti a condizioni ben più dure e degradanti di quelle degli stessi carceri, lo sono per diretta conseguenza dell’introduzione del reato di clandestinità”. Lo ha dichiarato Giulio Lauri, capogruppo consiliare di Sel in Consiglio regionale in occasione della discussione della mozione sul Cie. “I Cie vanno chiusi, tutti - ma proseguito - ma se c’è uno da cui bisogna cominciare, così come ha chiesto anche la Presidente Serracchiani, è quello di Gradisca. Nel frattempo la Regione, in quanto soggetto responsabile della salute di tutte le persone che si trovano sul suo territorio, ha il potere e il dovere di intervenire concretamente tutelare la salute dei trattenuti, cosa che oggi non avviene appieno come dimostra anche il consumo massiccio di psicofarmaci. In particolare pongo l’accento su tre aspetti: mettere in atto misure di costante monitoraggio e tutela dei diritti sanitari dei trattenuti; farsi carico dell’adeguamento architettonico delle strutture e garantire il libero e rapido accesso dei consiglieri regionali - ha concluso - all’interno del centro”. India: il caso dei due marò, Bonino salomonica, si scatena l’innocentista Terzi di Matteo Miavaldi Il Manifesto, 2 ottobre 2013 Le dichiarazioni salomoniche del ministro degli Esteri Emma Bonino circa la vicenda dei due marò in India hanno riaperto le polemiche che hanno caratterizzato il caso Enrica Lexie sin dal 15 febbraio 2012, quando nelle acque del Kerala morivano Ajesh Binki e Valentine Jelastine, due pescatori probabilmente scambiati per pirati dai fucilieri del Nucleo militare di protezione a bordo della petroliera italiana. Bonino, sulla sua pagina Facebook, riferendosi alle accuse di omicidio mosse contro Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, lunedì a spiegato che “Non è accertata la colpevolezza, e non è accertata l’innocenza. I processi servono a questo”, di fatto fugando ogni dubbio circa la fiducia riposta nella giustizia indiana, ora che le indagini della polizia federale sembrano giunte al termine e il processo in India potrebbe finalmente aprirsi. La dichiarazione ha scatenato l’indignazione del fronte innocentista, con l’ex ministro Giulio Terzi sugli scudi a ribadire su Twitter l’adesione completa alla versione di Latorre e Girone, che da sempre si proclamano innocenti e che da oltre 600 giorni sono bloccati in India. Analizzando il dipanarsi della vicenda in questo anno e mezzo ci sono alcuni elementi poco chiari che aprono scenari preoccupanti per le nostre istituzioni e per almeno quattro dei sei marò all’epoca dei fatti a bordo dell’Enrica Lexie. La petroliera, fermata dalla guardia costiera indiana, attracca al porto di Kochi il 15 febbraio; seguono quattro giorni di trattative informali tra le autorità indiane e quelle italiane che si concludono con l’arresto di Latorre e Girone il 19 febbraio. Perché proprio loro due, i sottufficiali più alti in grado a bordo? Oggi questa domanda appare particolarmente legittima, considerando due episodi che in un anno e mezzo hanno stravolto la strategia difensiva dell’Italia. Il primo: la pubblicazione su Repubblica, alla fine del marzo scorso, del rapporto redatto dall’ammiraglio Piroli, dove si indica testualmente che gli esami balistici condotti dalla scientifica indiana sostengono che i due fucili compatibili coi proiettili rinvenuti nei corpi delle vittime non sarebbero contrassegnati con le matricole di Latorre e Girone, bensì con quelle di altri due fucilieri, Renato Voglino e Massimiliano Andronico. A questo dettaglio dobbiamo aggiungere l’improvvisa reticenza italiana a collaborare con gli inquirenti indiani ora che per completare le indagini mancano solo le deposizioni dei quattro marò attualmente in Italia. Alla richiesta di presentarsi per l’interrogatorio in India - al pari degli altri testimoni civili, dal capitano della Lexie a tutto il resto dell’equipaggio - le autorità italiane sono state irremovibili nel negare la presenza fisica degli altri quattro marò, avanzando opzioni alternative di interrogatorio in teleconferenza, via email o ospitando gli inquirenti indiani sul suolo italiano: tutte opzioni giudicate non percorribili dall’India, che ha cercato di far valere un documento firmato dall’Italia in cui Romasi impegnava davanti alla Corte suprema nel rendere disponibili i testimoni per ulteriori indagini. Un documento che ora, secondo il sottosegretario Staffan De Mistura, è superato poiché dal momento della firma “è passata molta acqua sotto i ponti”. Una giustificazione piuttosto fumosa - in controtendenza con la precisione e professionalità di De Mistura nel gestire l’intero caso - che l’India non ha intenzione di accogliere, decisa a voler sentire i marò in territorio indiano. Segno che la deposizione dei quattro fucilieri è ritenuta fondamentale per impedire che il destino di Latorre e Girone, parafrasando la stampa indiana, “possa essere messo a repentaglio” dalla mancata collaborazione tra le parti. Chiarire i punti controversi circa l’arresto di Latorre e Girone e le matricole dei fucili incriminati sgombererebbe il campo dal sospetto che la ricostruzione fino ad ora riconosciuta dalle autorità italiane serbi invece qualche drastico aggiustamento. Ungheria: sanzioni e carcere per i clochard, nuova legge proibisce di dormire per strada Ansa, 2 ottobre 2013 Il Parlamento ungherese ha approvato una legge che proibisce agli homeless di dormire per strada. Chi verrà sorpreso sdraiato in luoghi pubblici sarà condannato ai servizi sociali o a pagare una multa mentre rischiano il carcere i senzatetto che si costruiscono una baracca. Centinaia di senzatetto hanno protestato ieri davanti al Parlamento con cartelli “Siamo poveri, non criminali” e anche in Aula deputati verdi e di sinistra hanno manifestato contro la legge, che è passata grazie ai voti della maggioranza guidata dal premier Orbàn. L’esecutivo di destra nell’ultimo anno ha moltiplicato i rifugi per clochard. Ma l’associazione “La città appartiene a tutti” lamenta: ci sono 6 mila posti letto mentre i senzatetto sono 10 mila. Libia: l’Onu denuncia; dilagano le torture nelle carceri in mano a milizie filo governative Aki, 2 ottobre 2013 È aumentata la pratica della tortura nei centri di detenzione gestiti dalle milizie emerse durante la Rivoluzione del 2011 contro il regime di Muammar Gheddafi. È quanto si legge in un rapporto del’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite, nel quale si chiede alle autorità di Tripoli di mettere tutte le strutture sotto il pieno controllo dello Stato. “Il documento indica che le torture sono diffuse e solitamente avvengono immediatamente dopo l’arresto e nei primi giorni di interrogatorio per ottenere confessioni o altre informazioni”, ha detto la portavoce dell’Alto Commissariato Onu Ravina Shamdasani. “In alcuni casi alcuni membri delle milizie armate le ammettono e tentano di giustificare gli abusi fisici sui detenuti”, ha aggiunto. Gli autori del rapporto Onu hanno visitato 30 centri di detenzione in due anni. Si stima che circa ottomila persone siano ancora detenute in strutture controllate da milizie armate. “La stragrande maggioranza dei circa ottomila detenuti in relazione alla rivoluzione non hanno avuto un processo”, ha spiegato Shamdasani. Nel rapporto vengono poi indicati 27 casi di decessi in carcere dalla fine del 2011, di cui 11 nel 2013. “Chiediamo un’azione rapida per trasferire i detenuti in mano alle milizie armate sotto l’effettivo controllo dello stato e di riprendere gli sforzi per costruire un sistema di giustizia penale”, ha proseguito Shamdasani. Stati Uniti: ordinata liberazione detenuto dopo 40 anni di isolamento, è malato terminale www.julienews.it, 2 ottobre 2013 Herman Wallace, attivista delle Black Panther, sarà libero. Dopo 40 anni di detenzione in isolamento l’uomo, condannato all’ergastolo per l’omicidio di una guardia carceraria, è stato liberato in quanto il suo processo non era legittimo: nella giuria non c’erano donne. Herman era in galera per rapina nel carcere “Angola”, situato in Florida, quando venne accusato dell’omicidio di una guarduia carceraria bianca insieme ad altri due attivisti di colore. Non c’erano prove testimoniali, ma si sa che i detenuti hanno sempre torto, per principio, in tutti gli ordinamenti, rispetto ai loro secondini, e quindi vennero condannati tutti e tre all’ergastolo dopo un rapido processo. Da allora i tre sono stati in isolamento: tutta la giornata chiusi in cella, con solo un’ora di aria al giorno. Nel 2001 Robert King, uno dei tre, venne liberato; oggi tocca a Wallace, mentre resta in carcere Albert Woodfox. Da notare che, nonostante Herman Wallace sia malato terminale per un tumore al fegato (che già nelle migliori condizioni e con le migliori cure è letale per oltre il 90% dei malati perché dà rapidamente metastasi), la Procura ha fatto ricorso contro la liberazione dell’uomo. Medio Oriente: Società dei Prigionieri; l’Anp deve compiere più sforzi per detenuti InfoPal, 2 ottobre 2013 “L’importante traguardo raggiunto dall’Autorità palestinese (Anp) all’Onu, deve essere impiegato a favore della causa dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane”. Lo ha affermato un attivista palestinese impegnato nella difesa dei diritti dei detenuti. In un comunicato stampa diramato lunedì 30 settembre, Qaddoura Fares, presidente della Società dei Prigionieri palestinesi, ha ribadito la necessità di “considerare il riconoscimento attribuito all’Anp, come membro osservatore all’Onu, come un importante punto di partenza, in quanto ci ha fornito un’arma efficace da utilizzare proprio ora”. Nel suo comunicato, diramato in occasione del 20° anniversario della fondazione della Società dei prigionieri, Fares ha sottolineato che “fino a questo momento, il successo all’Onu non è stato impiegato come si deve. Nonostante siamo pienamente consapevoli delle difficoltà che la questione palestinese sta affrontando, e della situazione regionale intorno a noi, riteniamo inopportuno che tale risultato rimanga inutilizzato”. Ha quindi ribadito che “il movimento dei prigionieri sta attraversando un momento delicato che richiede da tutti i segmenti della società palestinese, i partiti e le fazioni in particolare, di garantire tutti requisiti atti a preservare le conquiste e le potenzialità del movimento”. Fares ha quindi esortato a raggiungere l’unità nazionale e sviluppare una chiara strategia nazionale. Ha proseguito: “Gli stessi detenuti, che affrontano direttamente l’occupazione, devono ricostruire il loro sistema di valori e costanti, in mode da consentire a tutti i prigionieri basarsi su di esso”. L’attivista ha quindi sottolineato la necessità di “estendere la base di solidarietà popolare con i prigionieri e ampliare gli strumenti di pressione, soprattutto per quanto riguarda la resistenza pratica e nonviolenta, che contribuirebbe in modo significativo a sostenere i detenuti palestinesi”. Ha spiegato che i prigionieri sono sottoposti a delle pressioni senza precedenti, a causa delle politiche dell’occupazione israeliana, messe in atto nei loro confronti. Ha quindi esortato a “rafforzare i legami e la cooperazione con i fratelli nei Paesi arabi e islamici e con gli amici in tutto il mondo, al fine di ottenere il sostegno arabo-islamico alle nostre cause, soprattutto quella dei detenuti”. Fares ha infine rivelato che le recenti mobilitazioni, sia a livello locale che mondiale, a favore della causa dei detenuti “hanno contribuito a formare un’opinione pubblica mondiale solidale con i prigionieri palestinesi”.