Spezzare la catena della violenza: il messaggio dei detenuti agli studenti Il Mattino di Padova, 28 ottobre 2013 Spezzare la catena della violenza, educare i ragazzi al rifiuto di qualsiasi comportamento aggressivo, non avere paura di mostrare la propria fragilità: sono questi i temi in discussione quando le persone detenute incontrano gli studenti e raccontano le loro storie. Storie violente, come quelle di un ragazzo entrato giovanissimo in una gang, di un altro emigrato a meno di diciotto anni dal suo paese e finito a scontare una pena che sta distruggendo anche la sua, di giovinezza. Storie che insegnano a vedere le tragiche conseguenze di ogni gesto violento, anche di quello che sembra più insignificante. Ragazzi che usano la violenza per farsi accettare dal gruppo Sono un detenuto del carcere di Padova, provengo dal Sud America, ho 43 anni e voglio dare la mia testimonianza della mia vita dentro alle gang. Avevo 12 anni, abitavo ancora in Sud America, e a causa della povertà e della mancanza di affetto, non avendo mio padre al mio fianco, è stato facile cadere nella delinquenza. Eravamo in gruppi di ragazzi di 12 o 13 anni, abbiamo iniziato con piccoli reati, quasi senza accorgerci che quei gesti erano accompagnati sempre dalla violenza, e che il gruppo ti faceva sentire invincibile. Quando mi sono trasferito a New York, nel 1995, sono finito in carcere e lì ho conosciuto quelle che erano vere gang organizzate. Essendo io un latino, sono arrivati a reclutarmi lì dentro, nelle ore d’aria. Loro erano del gruppo “Latin King”, persone tutte tatuate e con al collo un rosario, dentro per traffico di droga, traffico d’armi, omicidi, sequestri lampo, prostituzione, rapine, furti estorsioni. Per far parte della gang l’iniziazione consiste nel fatto che tu devi compiere un atto violento, che i capi ti indicano, e consacrano successivamente con un tatuaggio. La corona è il simbolo di appartenenza ai Latin King, la croce identifica chi ha commesso un omicidio, altri clan identificano l’omicidio con un tatuaggio che raffigura una lacrima. Quando poi mi sono trasferito in Italia, a Milano, ho cominciato ad interessarmi di tutti i gruppi sudamericani che si erano radicati nelle principali città italiane. Questi gruppi in Italia copiano i comportamenti dei gruppi americani, ma sono comunque tutti di provenienza sudamericana, figli di padri migranti che li hanno portati qui per consentirgli una vita migliore. Ma proprio per l’assenza dei genitori a causa degli impegni di lavoro, i ragazzi si ritrovano in bande, cominciano con la violenza per farsi accettare dal gruppo, e poco a poco si allontanano dai genitori, rifugiandosi nell’affetto che gli trasmette la gang. Poi passano ai vandalismi, ai piccoli furti, il micro spaccio di droga nelle discoteche latino - americane, gli scippi, la violenza tra gruppi rivali. Io ho avuto modo di incontrare in carcere alcuni ragazzi appartenenti a questi gruppi, li ho visti perdere tutta la loro arroganza e piangere per la paura di essere in galera. Parlando con loro mi accorgo che sono fragili, incolpano i loro genitori di averli trascurati, a volte abbandonati. Spesso si sono fatti usare dai capi, che approfittano del più giovane del gruppo e lo mandano a spacciare e a rubare, per potersi vestire lussuosamente, divertirsi in discoteca, girare con molto denaro in tasca. Il battesimo d’ingresso nel gruppo è un pestaggio che deve durare al massimo 15 secondi, dopo al ragazzo viene affidata una “commissione”, che consiste nel commettere uno scippo, una rapina o un furto per dimostrare la fedeltà al gruppo, e rispettare l’ordine del capo. Tutto comincia come un gioco per questi ragazzi, che ogni volta si macchiano di reati più gravi, che alla fine li portano in carcere oppure in ospedale o nei casi più gravi al cimitero, sono pochi i ragazzi che riescono a chiudere con la banda, e a nascondere sul loro corpo i tatuaggi e le cicatrici che gli ricordano il loro passato. La mia riflessione è che non bisogna trascurare e sottovalutare questi gruppi, perché sono terra fertile per l’organizzazione criminale che si può estendere ancora di più, le gang più pericolose sono la MS18, una gang messicana, il braccio armato dei cartelli del narcotraffico, e la Mara Salvatruca, M13, salvadoregni che sono arrivati anche in Spagna e Italia. Mio nipote abitava a Genova con sua madre e i suoi fratelli, e apparteneva alla gang dei “Vatos Loco”, io non lo sapevo, però sua madre si. Lei non considerava quel gruppo così pericoloso, lei diceva che si divertivano come qualsiasi altro giovane della sua età. E invece aveva diciassette anni quando lo hanno ammazzato. Ecco perché quando incontriamo i ragazzi delle scuole, cerchiamo di parlare con loro di quanto è importante avere il coraggio di non farsi condizionare dal gruppo, e di tirarsene fuori in fretta se si capisce che al suo interno ci sono comportamenti aggressivi e prepotenti. Victor M. Il buio dentro Sono nato in un paese dell’Albania, l’Albania colma di povertà e comunismo agli inizi degli anni 80. Si cresceva presto in quegli anni, ti ritrovavi uomo subito saltando l’età della giovinezza, ed io sentivo il peso della povertà sulle mie spalle, cosicché spinto dalle promesse della televisione italiana ho deciso di partire per l’Italia. In quel viaggio mi ha accompagnato la paura, la paura di non toccare terra perché i viaggi in gommone erano un terno al lotto, paura di non farcela una volta giunto sulla sponda ricca dell’Adriatico, paura di non poter saldare quel debito che la mia famiglia aveva fatto per pagarmi il viaggio, paura di non ripagare le loro fatiche. Ben presto capii che non sarebbe stato facile, vivevo in un paese del nord Italia cercando di fare ogni tipo di lavoro possibile, ma i soldi erano sempre pochi e il pensiero della mia famiglia in Albania mi struggeva l’anima. Pur di risparmiare decisi di andare a dormire in una specie di rifugio sotto un ponte e lavorare, così non pagando il posto letto dove mi ero sistemato avrei avuto più soldi da poter mandare alla mia famiglia. In quei posti però non dormiva solo chi voleva risparmiare di più, ma anche persone sbandate. Li guardavo e dicevo: loro sono lontani da me anni luce, ed io non avrei fatto mai la loro fine, era solo una questione di tempo e sarei scappato da quel postaccio, avrei lasciato la casetta di cartone ad altri, mi serviva solo un lavoro fisso con un salario solido. E invece mi sono ritrovato disoccupato, tutto è successo in un tempo brevissimo nel giro di un mese non avevo più nulla, tranne il debito accumulato dai miei parenti e quella gente intorno a me che rubava e si drogava. Una sera, preso dalla depressione, dal senso di fallimento, mi unii a loro e dopo un po’ feci la mia prima sniffata di cocaina fra una birra e quattro chiacchiere. La depressione cominciò a sparire quella notte, e non ricordo nient’altro perché mi risvegliai il giorno dopo frastornato. Verso sera incontrai uno di quelli della sniffata che mi disse che mi avrebbe aiutato e che passava a chiamarmi più tardi per farmi andare al lavoro con lui, non capii bene ma il pensiero di guadagnare mi fece battere il cuore forte. Il ragazzo passò dopo due ore a bordo di una macchina rubata e mi prese con sé. Andammo avanti per un mesetto la sera a fare il giro dei villini e la notte alcol e cocaina, i soldi si vedevano ed io potei affittarmi una casa tutta per me e mandare dei soldi a casa e sdebitarmi con la mia famiglia, ricordo quando mandai i primi soldi pensavo che i miei avrebbero fatto i salti di gioia ed invece rimasi deluso, mia madre mi disse che un ragazzo di neanche 18 anni non poteva avere fatto dei soldi in un tempo cosi breve, e che a loro interessava solo che il proprio figlio vivesse modestamente ed onestamente. Deluso da quelle parole pensai che i miei erano troppo anziani per capire come gira il mondo fuori dall’Albania e che avevano una mentalità troppo chiusa. Oramai io avevo deciso di fare la mia scalata verso il benessere nel modo più sbagliato, così da ladro diventai spacciatore, ma un giorno un maledetto giorno scoppia una rissa ed io uccido un ragazzo. Di quel ragazzo non so nulla, non mi ricordo il suo viso, non mi ricordo il perché l’ho ucciso io, io che fino a pochi mesi prima non avevo fumato neanche una sigaretta, io che la violenza l’avevo sempre subita. Il ragazzo che meno di un anno prima era partito a bordo di un gommone per dare una svolta alla sua vita ora era diventato un assassino, aveva tolto la vita ad un altro ragazzo. Entrato in carcere, vengo condannato a 29 anni di pena e all’inizio avevo una paura fottuta, la vita in carcere non è vita, come avrei fatto a sopravvivere per un periodo cosi lungo? Oggi ho 29 anni ed in un progetto che permette di incontrare gli studenti delle scuole vedo ragazzi che hanno dai 15 anni in su e mi ricordo di me, mi rispecchio in loro, confido in questo progetto penso che può fare aprire gli occhi, quegli occhi che io invece avevo chiuso alla loro età e che nessuno mi ha aperto, quegli occhi chiusi dall’alcol e dalla cocaina e dall’illusione di essere arrivato in alto nel ceto sociale. Ervis S. Giustizia: carceri sovraffollate non solo in Italia, 1/3 dei Paesi Ue ha questo problema www.cadoinpiedi.it, 28 ottobre 2013 Un terzo dei 47 Paesi membri aderenti al Consiglio d’Europa ha questo problema. Quello che cambia è il modo di affrontarlo. Le prigioni sovraffollate non sono un problema tutto italiano: anzi, riguarda un terzo dei 47 Paesi membri aderenti al Consiglio d’Europa, l’istituzione con sede a Bruxelles che promuove i diritti umani nel mondo. Quello che cambia è il modo di affrontarlo. Con 147 carcerati ammassati nello spazio che potrebbe contenerne 100, l’Italia si colloca al terzo posto tra gli Stati con condizioni di detenzione più disumane, dopo Serbia e Grecia. Un terzo dei 47 Paesi membri aderenti al Consiglio d’Europa ha prigioni sovraffollate. In Gran Bretagna l’emergenza sovraffollamento scattò nel 2007, quando la popolazione carceraria superò le 87 mila unità. L’allora premier Tony Blair, laburista, decise di operare su entrambi i fronti. L’esecutivo aveva già nel cassetto un piano per la creazione di 8 mila nuovi posti in carcere entro il 2012, ne aggiunse altri 1.500, e promise di realizzare i primi 500 entro il gennaio successivo. Contemporaneamente però varò come misura immediata uno sconto di pena di circa tre settimane per 25 mila carcerati condannati a quattro anni o meno di detenzione. Uno sconto decisamente inferiore ai tre anni dell’indulto italiano. Nel 2010 anche il governo del Canada decise di costruire nuove prigioni, dopo che la legge Truth in sentencing Act aveva cancellato gli sconti di pena per i condannati che avevano un periodo in custodia cautelare. Gli Stati Uniti sono il Paese con il più alto tasso di detenuti al mondo: 731 ogni 100 mila abitanti, contro la media europea di 154. La situazione più esplosiva è quella della California, dove il sovraffollamento ha raggiunto nel 2009 il 188%. Tanto che la Corte suprema ha imposto allo Stato di trovare un modo per svuotare le prigioni entro il 31 dicembre 2013: pur di non varare un’amnistia, il governatore ha provato a trovare fondi per pagare l’alloggio dei detenuti nelle prigioni private, ma con l’approssimarsi della scadenza l’amministrazione ha deciso di mandare a casa 9.600 carcerati con problemi di salute. Sul piano nazionale, il dipartimento di Giustizia ha creato programmi di assistenza per accompagnare i tossicodipendenti: il più famoso si chiama Hope (speranza) ed è stato lanciato alle Hawaii, per essere poi esteso ad Alaska, Nevada, Oregon e Arizona. E imitato persino nel severissimo Texas. Diversi Stati, dal Massachusetts alla California, passando per il New Mexico, hanno varato leggi di depenalizzazione del possesso di droghe. Così, Obama ha ottenuto per la prima volta in 40 anni un calo costante dei detenuti, scesi nel 2011 di circa 100 mila unità. In Francia il 30 agosto 2013 il ministro della Giustizia, Christiane Taubira, ha presentato una riforma penale che cancella la norma simbolo degli anni di Nicolas Sarkozy che aveva introdotto pene minime per i recidivi colpevoli di reati puniti con almeno tre anni di reclusione, obbligando i giudici spesso ad aumentare le condanne. Il risultato è stato 4 mila anni di prigione in più comminati in un solo anno. Risultato, sovraffollamento delle carceri e ingolfamento della giustizia. Ma in Francia hanno cercato di porvi rimedio. Oltre alla cancellazione delle pene minime, la riforma proposta dai socialisti, al vaglio del parlamento, prevede un ricorso maggiore alle pene alternative: all’utilizzo del braccialetto elettronico, ai lavori socialmente utili o ai centri rieducativi. E infine per tutti un percorso di reinserimento graduale in società. Accompagnato da un sistema capillare di accompagnamento dei carcerati. Giustizia: il carcere tra umanizzazione e innovazione nelle politiche del governo di Evelina Cataldo www.termometropolitico.it, 28 ottobre 2013 Occorre affrontare il problema delle carceri con uno sguardo innovativo. Il nuovo governo ha deciso di servirsi di varie commissioni di esperti per riformulare azioni giuridiche e strutturali in materia penitenziaria. I nodi centrali passano per il sovraffollamento, vista l’incapacità di contenere corpi a sufficienza; tuttavia la rieducazione sancita dall’art. 27 c.3 Cost, senza l’abolizione di leggi criminogene - si veda la campagna 3leggi - lascerà i funzionari pedagogici e la magistratura di sorveglianza con la penna ingessata. A questo, si aggiunga una riforma del sistema penale processuale che dovrebbe agire con tempi e procedure diverse per fatti reato di diversa gravità: è erroneo porre su medesimi piani furto, rapina, e truffa milionaria ai danni dello stato, così come il Codice Rocco datato 1930 dovrebbe volgere verso un’ondata di depenalizzazione. I punti oscuri di cui pochi parlano riguardano l’organizzazione interna e delle risorse umane degli istituti di pena. Non ci si sofferma sulle risorse effettivamente disponibili per portare avanti la riabilitazione e il reinserimento sociale specie perché mancano protocolli PEA che rendono disorganico l’apporto professionale del personale tra gli istituti presenti in Italia. Il livello di risultato del lavoro potrebbe essere inserito e valutato rispetto agli obiettivi che la mission penitenziaria si propone: sicurezza e trattamento. L’istituto - che riesce a garantire sicurezza, ma nel contempo avvia diversi programmi di riabilitazione sul territorio, di concerto con gli uffici dell’esecuzione penale esterna - certamente avrà ben operato; se però le misure alternative non sono state avviate neanche per quel 30 per cento di condannati suscettibili di osservazione scientifica della personalità (e destinatari di un idoneo programma di trattamento, che la legge fissa in nove mesi) significa che qualche elemento sfugge. Altro argomento è l’istruzione. Lasciare un adulto che entra in carcere non sapendo leggere e scrivere significa lasciarlo in condizioni di analfabetismo: anche se lo si avvia al lavoro, ci si dovrebbe sforzare perché possa seguire le lezioni di alfabetizzazione, altrimenti quando uscirà, oltre a essere spaesato dopo la reclusione, non saprà nemmeno leggere un cartello stradale. Sulla scia del Brasile si potrebbe concedere una decurtazione di pena ex art.54 o.p valutando criticamente la volontà di reinserimento attraverso la lettura di libri, discussi con insegnanti ed educatori: sul tema sembra andare una proposta di legge di Sel. L’affettività è un altro grande tabù dell’amministrazione penitenziaria. Nei paesi nordici i reclusi di buona condotta e inseriti nei programmi di trattamento possono fruire di spartane casette di legno, dotate di telefono interno per qualsiasi evenienza, gli operatori della sicurezza mantengono una distanza di circa 15-20 metri: in questo modo la persona detenuta può trascorrere tempo con la propria famiglia o con coloro cui è legato sentimentalmente. Persino nei quaderni dell’istituto superiore degli studi penitenziari da poco è stato pubblicato un saggio che definisce dettagliatamente profilo giuridico e interventi in tema di affettività. Occorre poi nominare un garante nazionale dei diritti dei detenuti, a coordinamento di tutti quelli che agiscono secondo tale status per conto degli enti territoriali, rendendo omogeneo il ruolo ma permettendo anche che sia programmato secondo le necessità di ogni territorio. Si tratta di una figura indispensabile, capace di operare in sinergia con la magistratura di sorveglianza: si pensi al delicato tema del diritto alla salute in carcere, in cui medico e magistrato, per il diverso ruolo professionale, non sempre hanno linee operative comuni. Stesso dicasi del lavoro, elemento principale del trattamento, che sempre più dovrà diventare elemento “esterno” al penitenziario: più che la nomina di un commissario del lavoro (che difficilmente potrebbe coniugare particolarità regionali diverse e frammentate), sarebbe forse meglio puntare a un pieno riconoscimento dell’apporto della direzione generale dei detenuti e del trattamento contestuale alla direzione dell’esecuzione penale esterna mediante i contributi della cassa ammende che (richiamando i Provveditorati regionali a garantire programmi di lavoro fattibili sul territorio) potrebbero coinvolgere ogni membro istituzionale, anche esterno, durante la fase progettuale. Così si riporterebbe l’attenzione sul centro dell’amministrazione e sullo svolgimento di idee e progetti ai provveditorati sino alla concretezza nei vari istituti penitenziari. Un modo più trasparente perché il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria possa controllare l’uso dei vari capitoli di spesa. L’ideale sarebbe applicare tutti questi piccoli accorgimenti, inserendo anche l’amministrazione penitenziaria in quell’agenda digitale che tra un anno ci chiama a presentare un progetto ICT innovativo per poter informatizzare tutti i processi lavorativi interni, in un’ottica di fruibilità e condivisione da parte di tutti i soggetti coinvolti e, addirittura, promuovendo l’accesso ai servizi direttamente mediante lo strumento informatico anche ai familiari degli utenti, spesso inconsapevoli delle norme previste dal regolamento interno. Si comprende allora che discutere ancora di sovraffollamento porta a un impasse poco risolvibile se non si comincia da altri fronti, pensando a un eventuale “numero chiuso”, all’utilizzo del fantomatico braccialetto elettronico, a uno sviluppo informatizzato e condiviso dei processi lavorativi interni che non rimangano autoreferenziali ma possano essere condivisi con altri enti istituzionali e di diritto pubblico interessati alla sicurezza e alla riabilitazione dei condannati. Giustizia: il “problema carcere” esploderà di nuovo, ma amnistia e indulto sono necessari di Lucia Brischetto La Sicilia, 28 ottobre 2013 Amnistia o indulto serviranno a sfollare le carceri solo per poco, perché subito dopo il “problema carcere” esploderà di nuovo. Tuttavia, ogni sforzo va fatto per assicurare che le condizioni di vita intramuraria siano sempre compatibili con la dignità umana. Non si deve vivere 23 ore su 24 in una stanzetta di quattro metri per quattro in 7/8 persone con i letti a castello fino al tetto e fare un’ora di fila per accedere all’unico “bagno” disponibile. La finalità della pena è stata individuata come un bene da perseguire per il recupero della persona. L’obiettivo, pertanto, è quello di restituire il soggetto al proprio ambiente con un’acquisita capacità di autodeterminarsi ed agire nella società pluralistica secondo le regole della civile convivenza. Secondo gli operatori penitenziari, sarebbe bastato che già dal 1975 fossero state applicate le leggi sull’ordinamento penitenziario: la cosiddetta legge “Gozzini”, la legge Saraceni-Simeone e tutte le altre. Ora si deve riparare a trent’anni di disattenzione. Infatti, oggi, le carceri sono fatiscenti e degradate perché sono ad immagine e somiglianza dei politici, che hanno varato leggi di avanzatissima civiltà giuridica, ma non si sono mai preoccupati di verificare la loro applicazione. È infatti fallito quasi del tutto il progetto di risanamento dell’edilizia penitenziaria. Inoltre le leggi dell’ordinamento penitenziario avrebbero potuto sfollare le carceri se solo ci fosse stato un organico adeguato. Si pensi che in Italia c’è un carcere invisibile costituito da oltre 35mila persone che scontano pene in misura alternativa alla detenzione. La magistratura di sorveglianza e gli operatori addetti alla gestione delle misure alternative non possono assicurare la vigilanza sugli istituti di pena né seguire i soggetti che scontano la pena in misura alternativa alla detenzione. Se ai provvedimenti di clemenza non seguirà l’attuazione di tutte le leggi di “soccorso” all’istituzione penitenziaria, non avremo raggiunto lo scopo auspicato e le conseguenze saranno disastrose. Di fatto stiamo vivendo le conseguenze di uno Stato incapace di leggere le contraddizioni del sociale e di dare risposte appropriate al bisogno di legalità dei cittadini. Ma quale risultato utile si può raggiungere nella gestione del rapporto fra giustizia e reo se non esiste fiducia reciproca? Colui che è votato a delinquere e non crede nell’efficacia delle norme sarà portato ad escogitare qualche modalità per farla franca anche col braccialetto al piede. Se questi non ha dentro di sé quel preziosissimo patrimonio normativo che regola la pacifica convivenza, troverà persino il modo di clonare il braccialetto. Anzi, con molta probabilità molti abili clonatori di telefonini si stanno già attrezzando per ottenere il braccialetto clonato. Ci lascia perplessi il fatto che una società “culla della civiltà e del diritto” sia costretta a ricorrere al “ferro” per potere assicurare la certezza della pena e rassicurare i cittadini circa l’efficienza e l’efficacia della giustizia. Il terreno sul quale bisognerebbe lavorare è quello dell’investimento in termini di risorse umane. L’applicazione del braccialetto in corso di sperimentazione negli ospedali psichiatrici è da ritenersi fattibile perché rivolto ai soggetti disabili con difficoltà di orientamento, ma di fatto il “guinzaglio” si mette ai cani, agli uomini si mette la testa. L’uso del braccialetto a scopo terapeutico giustifica la lesione di dignità che si avverte nell’osservare un uomo “segnato” dalla malattia mentale. Nel soggetto sano, in grado di intendere e di volere, si dovrebbe lavorare per aiutarlo a scegliere la legalità e godersela. Inoltre, l’esoso costo giornaliero del mantenimento di un detenuto in carcere che grava sull’intera società, potrebbe essere meglio e più utilmente utilizzato per progetti di recupero. Giustizia: l’Anm contro l’amnistia e l’abolizione del reato di clandestinità di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2013 Giunta al 31esimo congresso, l’Associazione nazionale magistrati è costretta, di nuovo, a denunciare un clima “velenoso” legato a “singole vicende giudiziarie” (di Silvio Berlusconi, ndr) che hanno portato a proposte di leggi “punitive, che vogliono riformare non tanto la giustizia quanto i magistrati” mentre si assiste “ ad attacchi scomposti alle sentenze, che in altri Paesi provocherebbero uno scandalo”. Quanto all’accusa contro le toghe di “piegare la giustizia a scopi politici” non solo è “un oltraggio” ai magistrati, ma anche un “grave pericolo per il sistema democratico”. A parlare è il presidente Rodolfo Sabelli, apprezzato dalla platea delle toghe anche quando definisce amnistia e indulto dei provvedimenti “effimeri” se non vengono “contestualmente” approvate riforme che evitino a monte il sovraffollamento delle carceri, quando propone la cancellazione del reato di clandestinità, e la “correzione” di punti della legge Severino (concussione in testa) e quando chiede la modifica della depenalizzazione del falso in bilancio e l’introduzione del reato di auto riciclaggio. Davanti al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, silente ospite d’onore, Sabelli non le manda a dire, pur non pronunciando mai il nome di Berlusconi: “Il dibattito si è concentrato su pochi processi di alcuni personaggi politici” provocando un clima “avvelenato” che ha portato a “leggi ad personam, a una riforma della prescrizione incongrua e dannosa…”. Ed eccolo il passaggio che ha fatto infuriare la Lega: “Come dimostrano le stragi del mare di Scicli e Lampedusa, il reato di clandestinità è inutile e dannoso. Inutile perché una sanzione pecuniaria non è in grado di esercitare alcun effetto dissuasivo; dannoso, perché ingolfa gli uffici giudiziari, costringendo le Procure” a indagare “migliaia di immigrati. Dannoso, ancora, perché intralcia le indagini contro gli scafisti e gli altri responsabili del traffico di clandestini, trasformando questi ultimi da testimoni in coimputati”. Durante i saluti istituzionali, la ministra della Giustizia Anna Maria Cancellieri ha chiesto alle toghe, tiepide nei suoi confronti, di non arroccarsi su posizioni “corporative”. Applaudito a lungo, invece, il primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce: “I tempi sono maturi per una riforma organica della Giustizia, senza toccare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura”. Basta con “gli interventi frammentari, ideologici, dettati da una logica punitiva”. Inevitabile per Santacroce “l’assedio” dei giornalisti per il neo pronunciamento delle Sezioni Unite sui confini tra concussione e il nuovo reato di induzione indebita, che potrà avere ricadute sul processo Ruby di Milano, a carico di Berlusconi. Il presidente si chiama fuori con una battuta: “Non parlo in merito, altrimenti scoppia un nuovo caso Esposito”. Fa, però, un paio di precisazioni: “La Cassazione non ha dato e non poteva dare alcun giudizio sulla legge Severino” e la sentenza non ha una visione limitativa della concussione. Anzi, per Santacroce la decisione delle Sezioni Unite “rafforza il reato di concussione”. Forse si riferisce, ragionano fonti giudiziarie, a un passaggio del dispositivo della sentenza che potrebbe essere la chiave della sopravvivenza, o meno, nei fatti, della concussione. Secondo la Cassazione, l’induzione, e quindi la punibilità anche del soggetto “pressato”, c’è quando ha un margine per rifiutare le minacce del pubblico ufficiale e cede per il “perseguimento di un suo indebito vantaggio”. Ma se non ce l’ha, è “pura” concussione? E, dunque, la concussione potrà ancora essere largamente contestata? Solo le motivazioni, a gennaio, scioglieranno il rebus. Giustizia: carceri sovraffollate, ma l’Italia non rimpatria i detenuti stranieri di Thomas Mackinson www.ilfattoquotidiano.it, 28 ottobre 2013 Lo prevede la convenzione di Strasburgo del 1983 che il nostro Paese ha sottoscritto. Con l’attuazione di questa norma si risparmierebbero anche 500 milioni. Ma a distanza di 24 anni dalla ratifica nessuno incentiva questo strumento. In più, non ci sono accordi bilaterali con Marocco, Tunisia e Romania che sono in cima alla classifica delle presenze. Mentre ancora si parla di indulto e amnistia, l’Italia spende un miliardo all’anno per tenere nelle patrie galere detenuti stranieri che in buona parte potrebbero scontare la pena nei loro paesi d’origine. Il piano è pronto da decenni. Gli accordi per lo scambio ci sono, multi e bilaterali, stretti con quasi tutti i Paesi del mondo. Ma nessuno incentiva questo strumento per svuotare le carceri e i detenuti trasferiti, alla fine, sono così pochi che non vengono neppure conteggiati nelle statistiche sulla giustizia italiana. Percorrendo tutte le vie “ufficialissime” dei ministeri competenti - Interno, Giustizia ed Esteri - è materialmente impossibile avere un dato su quanti abbiano usufruito di questa possibilità e diritto, come prevede la convenzione di Strasburgo del 1983, che l’Italia ha ratificato e inserito nel proprio ordinamento dal 1989 e via via allargato con una serie di accordi bilaterali. Una beffa. Perché questa strada avrebbe potuto, almeno sulla carta, segnare la svolta sulla questione carceri prima che diventasse emergenza nazionale. Lo dicono i numeri. Nelle celle italiane, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), si contano oggi 22.770 detenuti stranieri, un terzo della popolazione carceraria. Tanti, troppi. E ci sarebbero motivi di mera convenienza, oltre che di civiltà, per incentivare a diminuirne il numero. Il costo medio per detenuto calcolato dalla Direzione bilancio del Dap è di 124,6 euro al giorno. Lo Stato, nel 2013, spenderà dunque 909 milioni di euro, quasi un miliardo l’anno. Ma quanto risparmierebbe se desse seguito agli accordi di rimpatrio? Per saperlo bisogna moltiplicare quel costo unitario per i 12.509 detenuti stranieri che scontano una condanna già definitiva, i soli sui quali può ricadere l’ipotesi di un trasferimento. Il costo reale del mancato rimpatrio, o se si vuole il conto del risparmio virtuale, arriva dunque a 568 milioni di euro l’anno, un milione e mezzo al giorno. Un bella cifra nel conto dello Stato che potrebbe essere destinata a costruire nuove strutture, ammodernare quelle esistenti, incentivare forme di rieducazione e reinserimento. Per contro, i detenuti italiani all’estero non superano le tremila unità. Una differenza che rende evidente quanto il saldo degli “scambi” sarebbe a favore dell’Italia (e degli italiani). “Non si possono fare deportazioni di massa”, ammoniscono gli esperti di procedura penale, mettendo in guardia da operazioni di macelleria detentiva. Ma a chi oppone a ogni ragionamento questioni di ordine etico-morale va ricordato che dal 2002 nessuno ha sbarrato la strada ai voli di Stato per il rimpatrio dei clandestini che la Bossi-Fini ha reso - almeno per le modalità operative - del tutto simili alla deportazione coatta, per di più espulsi non per aver commesso un reato penale ma amministrativo (l’ingresso in Italia senza permesso di soggiorno o contratto di lavoro a supporto del reddito). Idem per il reato di clandestinità introdotto nel 2009 col decreto sicurezza. Ci sono poi ragionevoli argomenti per ritenere che in quel terzo di popolazione carceraria composta da stranieri ci possa essere chi preferirebbe - vista anche la condizione dei penitenziari nostrani - ricongiungersi ai propri parenti e scontare la pena nel proprio Paese. Peccato che non succeda mai, salvo rarissimi casi. A 24 anni dalla convenzione di Strasburgo gli accordi sul trasferimento sono rimasti lettera morta, con buona pace del tempo e delle risorse che l’Italia ha dedicato per dibattiti parlamentari, mandati esplorativi di funzionari della giustizia, riunioni e servizi d’ambasciata da una capo all’altro del mondo. Il paradosso degli accordi all’italiana - Il paradosso è che incentivare lo scambio e la detenzione all’estero non sarebbe una politica di destra o di sinistra ma di buona amministrazione, per di più ancorata e supportata nella sua applicazione da convenzioni e accordi. Con alcune bizzarrie e illogicità di fondo, però. L’Italia, si è detto, ha aderito alla convenzione di Strasburgo dell’83 insieme a 60 Paesi (gli ultimi sono la Russia e il Messico nel 2007). Ha poi stretto accordi bilaterali con altri sette che erano rimasti fuori dalla convenzione. Ma - attenzione - non con quelli che più pesano sul conto delle carceri. Ricapitolandoli: nel 1998 abbiamo firmato un accordo con l’Avana quando i detenuti cubani sono una cinquantina e poco più, nel 1999 con Hong Kong a fronte di popolazione carceraria prossima allo zero, nel 1984 con Bangkok (ancora oggi si contano due soli detenuti thailandesi). Mancano all’appello, per contro, proprio i Paesi che per nazionalità affollano maggiormente le nostre celle: il Marocco, su tutti, visto che con 4.249 detenuti occupa il secondo posto nella classificazione delle presenze straniere (18,7%). La Romania che occupa il secondo con 3.674 detenuti (16,1%). La Tunisia, al terzo posto, con 2.774 (12,2%). Altri sono pronti da vent’anni, ma per l’inerzia del Parlamento restano lettera morta. Emblematico il caso del Brasile, dove l’accordo è firmato e manca solo il passaggio in aula (link pezzo Brasile). Siamo riusciti invece ad accordarci con l’Albania (2.787 detenuti, 12%). Quando è stato sottoscritto, nel 2002, nelle carceri italiane c’erano 2.700 detenuti albanesi, di cui 960 condannati in via definitiva. Trecento dovevano scontare una pena residuale superiore ai tre anni e sarebbero stati i primi a lasciare l’Italia per scontare la pena nelle patrie galere. Un modello che doveva essere, secondo il Guardasigilli di allora Roberto Castelli, esportato in Marocco, Algeria e Tunisia. Cosa mai avvenuta, a distanza di un decennio. Ma quanti albanesi sono stati poi trasferiti? Impossibile saperlo, come per tutti gli altri detenuti stranieri in Italia. Il mistero sui numeri: “Non abbiamo il sistema informatico” - I trasferimenti autorizzati sulla base di quegli accordi sono irrilevanti al punto che non vengono neppure monitorati a fini statistici. Sapere quanti siano è un’impresa impossibile. Le interrogazioni parlamentari sulla questione non hanno mai avuto risposta e anche per le fonti giornalistiche la strada porta dritto a un muro di gomma che fa rimbalzare da un ministero all’altro. Dovrebbe averli il ministero degli Interni ma non è così. “Sono numeri molto modesti a fronte di procedure complesse, per questo non sono sottoposti a monitoraggio statistico e vanno a finire nelle diciture “altro” degli annali giudiziari”, premettono imbarazzati i funzionari del Viminale. “Il detenuto fa domanda al direttore del carcere che la gira al magistrato di sorveglianza che fornisce il suo giudizio e lo trasmette al ministero. Dovrebbero però averli al ministero di Grazia e Giustizia che amministra le pene”. Ma si bussa lì senza maggior fortuna. Il direttore dell’ufficio Affari penali Antonietta Ciriaco fa sapere che il suo ministero non ha neppure il sistema informatico necessario a estrapolarli quei dati, che non si tratta di estradizioni, per cui “una volta che c’è l’accordo internazionale e una sentenza favorevole della Corte d’Appello al trasferimento, è materia del Dap”. Ma anche al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria cadono dalle nuove. “Noi abbiamo solo dati rispetto a detenzione e scarcerazione, questa storia di chi ha i dati sui trasferimenti va avanti da anni e alla fine le richieste arrivano sempre qui, ma noi non li abbiamo. Avete provato al ministero degli Interni?”. E si ricomincia. Il saldo delle carceri: 20mila restano, 200 (forse) vanno Qualche barlume, alla fine, illumina almeno il passato. A margine di uno dei tanti trattati bilaterali il ministero degli Interni nel 2008 fornì, con parsimonia, qualche cifra: nel 2005 il trasferimento delle persone straniere condannate è stato pari a 216, 46 nel 2006, 111 nel 2007 e 87 nel 2008. Si presume che da allora le cose non siano cambiate e che a prendere la frontiera per la carcerazione all’estero siano grosso modo un centinaio di detenuti all’anno. Numeri che rendono bene l’idea di come siano stati tradotti nel nostro Paese la convenzione di Strasburgo e tutta la congerie di accordi bilaterali che negli ultimi vent’anni sono stati annunciati, sottoscritti e celebrati in pompa magna tra convegni, delegazioni e voti in Parlamento. Alla fine del giro tocca chiedersi anche se la resistenza a fornire dati sul trasferimento - insieme al disinteresse per tracciarli, recuperarli e renderli pubblici - sia del tutto casuale, il frutto accidentale della sovrapposizione di competenze e burocrazie, o se sotto ci sia altro. Il sospetto è che non vengano divulgati perché la loro stessa inconsistenza sarebbe fonte d’imbarazzo per le istituzioni italiane. Rivela come per vent’anni lo stesso ceto politico che alzava la voce sull’emergenza carceri non è stato capace di utilizzare lo strumento del rimpatrio per alleggerirle. Ancora oggi, del resto, sembra baloccarsi con fantomatici “piani carceri” per i quali non riesce a reperire le risorse e alla fine - messo con le spalle al muro dalla condizione ipertrofica delle celle - si affida all’unico “svuota carceri” che non comporta costi diretti: un atto di clemenza che consenta alla politica di non fare i conti con la propria storica inerzia. E poco importa se amnistia e indulto alimentano il senso di ingiustizia tra i cittadini incensurati. Sammarco (docente diritto): sì ai rimpatri detenuti, ma non deportazioni Anche gli esperti di diritto chiedono di incentivare questo strumento per alleggerire le carceri. Risponde Angelo Sammarco, professore di diritto dell’esecuzione della pena. “In teoria il trasferimento di detenuti all’estero come strumento per decongestionare le carceri può funzionare, se gestito attentamente, sulla base di accordi esistenti e di una chiara volontà del detenuto. Guai però a perorare la causa di deportazioni di massa”. Perché l’Italia sottoscrive accordi per lo scambio di detenuti che poi restano sulla carta? Perché non si punta di più su questo strumento anziché caldeggiare l’ennesimo indulto? Risponde Angelo Alessandro Sammarco, professore di diritto dell’esecuzione penale, presso l’Università di Salerno e coautore del trattato di procedura penale su “Esecuzione e rapporti con autorità giurisdizionali straniere”. Sa quanti detenuti stranieri vengono ammessi al rimpatrio per l’esecuzione della pena? Francamente no. Non credo che ci siano statistiche dettagliate per numeri che ritengo, comunque, molto modesti. Bisognerebbe verificare caso per caso se ci sono stati problemi che hanno interferito sull’esito positivo delle richieste. La sproporzione tra detenuti stranieri in Italia e detenuti italiani all’estero renderebbe molto “interessante” per noi incentivare lo scambio. I “riceventi” però dovrebbero sobbarcarsi il costo di pene comminate dal nostro Paese per un alto numero di soggetti. Perché allora sottoscriviamo tutti quegli accordi che restano sulla carta? Sembra una presa in giro. Il mistero di trattati che, guardando ai numeri, non producono nulla può dipendere da tanti fattori: il parlamento inerte, le procedure complicate. Perché nessuno si attiva mai, perché la stessa possibilità di scontare la pena all’estero non sempre viene prospettata al detenuto, magari non nella maniera corretta. Potrebbe essere agevolato assolutamente il diritto del detenuto a scegliersi il luogo della pena, dall’altro lato bisognerebbe rimuovere gli incagli e le farraginosità della burocrazia e trovare una volontà politica maggioritaria che condivide questa opzione. Quali problemi giuridici solleva il trasferimento nel paese d’origine? Intanto bisogna chiarire che il trasferimento avviene sempre per volontà del detenuto. E’ improprio e semplicistico definirli semplicemente “scambi” perché sono trasferimenti concordati. Questo è un punto centrale e delicatissimo. Ogni trattato non può prescindere da una procedura individuale. Non si possono spedire all’estero i detenuti solo perché c’è un accordo. Ma quindi l’accordo a cosa serve? A disciplinare la possibilità. Per questo non è immaginabile, e sarebbe palesemente incostituzionale, che uno Stato intraprenda la strada delle deportazioni di massa dei detenuti. Non è poi così automatico e scontato il riconoscimento e l’esecuzione di sentenze penali straniere, anche se sono stati firmati dei trattati tra Paesi. Se gli accordi prevedono la possibilità del trasferimento nella patria d’origine perché non vengono incentivati e poi praticati? Non saprei dire se questo strumento è abbastanza incentivato. Certo, ci vorrebbe una politica specifica di monitoraggio che mi pare non ci sia. Gli stessi dati diramati dal ministero sulla popolazione carceraria sono per forza di cose imprecisi perché potrebbero non tenere conto e in tempo reale del numero degli scarcerati e degli ammessi a misure alternative. E’ un terreno su cui non è facile lavorare. Perché è così difficile? Perché lo Stato non potrebbe comminare una pena e disinteressarsi della sua esecuzione, rimettendola nelle mani di un altro Paese, essendo la pena necessariamente e naturalmente correlata al locus commissi deliciti, e quindi alla sfera territoriale del Paese che con legge ne ha previsto l’applicazione in caso di commissione di un fatto costituente reato. Il trasferimento può essere un diritto, quando, nell’ambito di accordi internazionali, a chiederlo sia l’interessato; ma, in assenza della volontà dell’interessato o contro la volontà di questo, non possono essere concepiti, se non in casi eccezionali e nell’ambito di specifici e tassativi accordi internazionali, motivati da ragioni ultranazionali, trasferimenti automatici per l’esecuzione della pena all’estero relativa a reati commessi in Italia. Eppure la Bossi-Fini, più che mai contestata dopo la strage di Lampedusa, ha consentito i trasferimenti di massa nel paese d’origine. Quindi è vero che quando c’è una volontà politica si può fare. La Bossi-Fini prevede meccanismi di espatrio operativi molto rapidi per coloro che non sono in regola con il permesso di soggiorno. Si tratta quindi di una procedura amministrativa che non riguarda l’ipotesi di commissione di reati. Comunque, anche in questo caso, le espulsioni con accompagnamento coatto alla frontiera scaturiscono sempre da provvedimenti individuali, anche se nell’immaginario hanno assunto i tratti di trasferimenti collettivi. E quindi senza rimpatri, se non per i clandestini, le carceri resteranno piene fino all’ennesimo indulto? Purtroppo da quello che leggo pare questo l’orientamento. E’ la soluzione più facile. Non riuscendo ad amministrare la situazione, lo Stato estingue pena e reato per tutti, ma è un palliativo al sovraffollamento. Bisognerebbe esplorare altre strade, ma serve coraggio. Quali strade alternative? Certo, incentivare il trasferimento quando possibile, ma anche depenalizzare e razionalizzare il sistema sanzionatorio, creare pene alternative come i lavori di pubblica utilità che non graverebbero sul sistema carcerario e potrebbero servire ad attribuire vantaggi alla società. Un esempio? I condannati per fatti gravi commessi in violazione delle regole della circolazione stradale li metti a lavorare sulle autostrade. Non ha senso buttare la gente in carcere, magari a distanza di anni e anni dal reato commesso. Ci siamo dimenticati che la nostra pena, per la Costituzione, deve tendere necessariamente alla rieducazione, mentre, in pratica, l’unica forma di rieducazione oggi concepita è la detenzione che, come tutti sanno, non è di per sé rieducativa, costituendo, anzi, molto spesso, un fattore addirittura criminogeno: mi riferisco all’educazione al crimine favorita dalla frequentazione dell’ambiente carcerario, di cui abbiamo molti esempi anche cinematografici e letterari. Insomma, siamo proprio indietro. Giustizia: Vietti (Csm), amnistia e indulto non bastano per problema carcerario Tm News, 28 ottobre 2013 Amnistia e indulto da soli non bastano a risolvere il problema del sovraffollamento carcerario, ma possono essere utili per non incorrere nella procedura di infrazione europea. Lo ha spiegato il vicepresidente del Csm, Michele Vietti a SkyTg24. “Il capo dello Stato con il messaggio alle Camere ci ha ricordato che l’Europa ci ha messo in procedura di infrazione per le condizioni disumane dei detenuti - ha aggiunto Vietti. La costruzione di nuove carceri è una soluzione di lunga durata, nel breve bisognerebbe puntare in modo deciso sulle pene alternative alla detenzione, se ne parla tanto ma il legislatore deve avere il coraggio di affrontare questo tema una volta per tutte, non si può proporre il carcere per tutti o applicarlo solo a chi vive ai margini della società, ci sono pene che possono davvero ottenere il risultato della rieducazione de applicate fiori dal carcere dobbiamo puntare su quello”. Quanto ad amnistia e indulto il vicepresidente del Csm ha osservato che “anche nel messaggio del Presidente della Repubblica vengono alla fine, come considerazioni per l’ipotesi in cui altri interventi non riuscissero nei tempi che l’Europa ci ha dato, ma non risolvono da soli perchè rischiano di farci ritrovare di nuovo nelle condizioni di oggi, certo in un quadro di interventi complessivi possono avere un effetto deflattivo, ma spetta al Parlamento decidere e sappiamo quali sono oggi gli equilibri parlamentari e che serve un quorum molto elevato su questa materia”. Giustizia: Pd-Pdl; Berlusconi principale ostacolo a decisioni su amnistia e indulto La Presse, 28 ottobre 2013 Finocchiaro (Pd) - “Non si può parlare di amnistia e indulto senza che questo non vada a riguardare Berlusconi, in questo momento”. Lo ha detto Anna Finocchiaro, presidente della Commissione affari costituzionali, intervenendo al congresso dell’Anm, durante una tavola rotonda sul tema “Giustizia, politica e governo autonomo della magistratura”. Schifani (Pdl) - “Per fare una legge chiesta dal Capo dello Stato e che tocca i cittadini, per la sinistra Berlusconi diventa il problema”. Il presidente dei senatori del Pdl, Renato Schifani, torna sul tema dell’amnistia e sul dibattito politico seguito al messaggio alle Camere del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano sulle carceri. “La sinistra si è avvitata - sottolinea Schifani, intervenendo a un dibattito al Congresso nazionale dell’Anm - sul tema dei reati, se favoriscano o meno Berlusconi”. “Molti cittadini - osserva Schifani - potrebbero non usufruire di amnistia e indulto perchè i provvedimenti potrebbero avvantaggiare Berlusconi. Si sta ribaltando la situazione nei rapporti tra politica e giustizia”. Leva (Pd) - “Da lungo tempo il Pd invoca una riforma della Giustizia chiedendo al Pdl di guardare a questa necessità a prescindere dai problemi e dagli interessi di Berlusconi”. Lo dice Danilo Leva, presidente Forum Giustizia del Partito democratico. “Il sistema è ormai al collasso, la giustizia civile oltre a non dispensare più una giustizia giusta è diventato un elemento gravemente penalizzante ai fini della competitività del Paese -prosegue Leva-. Sul fronte penale siamo in una condizione disperata: ci troviamo addirittura sotto infrazione da parte dell’Unione Europea per la vicenda carceri”. “Il capo dello Stato con senso delle Istituzioni e responsabilità civile ha indicato nelle settimane scorse il percorso da seguire. Noi siamo dell’idea che siano fondamentali riforme a cominciare dalla riforma della custodia cautelare, l’eliminazione della ex Cirielli, l’abolizione della Bossi-Fini e della Fini- Giovanardi, come passaggi fondamentali per approdare a qualsiasi provvedimento di clemenza. E proponiamo da tempo una sessione parlamentare ad hoc. I punti su cui lavorare ci sono. Cosa vuol fare il Pdl? Continuare ad inseguire gli interessi di Berlusconi o pensare ai problemi del Paese?”, conclude Leva. Giustizia: Osapp; legge di Stabilità penalizza pesantemente Polizia penitenziaria La Presse, 28 ottobre 2013 “La legge di stabilità all’esame del Parlamento continua a presentare condizioni di assoluta penalizzazione per la polizia penitenziaria, visto che oltre al blocco degli organici e alla decurtazione delle retribuzioni per i funzionari del Corpo, questi ultimi oggetto da almeno 10 anni di una feroce sperequazione rispetto agli omologhi delle altre Forze di Polizia, nel 2014 sarebbero almeno 200 gli agenti penitenziari da assumere in meno del previsto ed in favore, invece, delle assunzioni nella polizia di Stato e nell’Arma dei Carabinieri”. È quanto si legge in una nota a firma di Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria). “È assai strano e rende l’idea di una manovra studiata con cura, per altre finalità - prosegue il leader dell’Osapp - il fatto che, ad ogni livello istituzionale e fino al Presidente della Repubblica, si dichiari prioritaria la soluzione dell’emergenza penitenziaria, tanto da immaginare l’uscita dal carcere di migliaia di detenuti attraverso provvedimenti quali l’Indulto o l’amnistia e non ci si preoccupi minimamente delle condizioni, al limite della sopravvivenza materiale oltre che lavorativa, delle donne e degli uomini della Polizia che le attuali carceri fanno comunque funzionare, con almeno 21mila detenuti in più di quelli ospitabili”. “Così come dovremmo sospettare l’esistenza di un progetto per il completo smantellamento della Polizia Penitenziaria in favore di soggetti privati - indica ancora il sindacalista - dal fatto che senza personale del Corpo da destinarvi, continuino ad aprirsi nuovi padiglioni detentivi, come di recente quello da 350 posti in più in un carcere tra i più disastrati e pericolosi d’Europa quale quello di S. Maria Capua Vetere”. “In queste condizioni e con una Guardasigilli quale il già prefetto Anna Maria Cancellieri, completamente avulsa e priva d’interesse nei confronti della Forza di Polizia che da lei dipende direttamente come la Polizia Penitenziaria - conclude Beneduci - mentre il Governo vara iniziative in favore delle altre Forze di Polizia e non per il Corpo, resta da chiedersi se da noi, a parte le prossime dure proteste, non vogliano invece che ci si dimetta in massa per lasciare libero ad altri il ‘campo’ penitenziario”. Giustizia: caso Cucchi; pm si appella contro sentenza “tutti colpevoli da condannare” di Paolo Montalto Ansa, 28 ottobre 2013 La procura di Roma è sempre più convinta: Stefano Cucchi, il giovane morto quattro anni fa durante il ricovero in ospedale una settimana dopo il suo arresto per droga, è stato “pestato” nelle celle del tribunale di Roma e “abbandonato” da medici e infermieri che lo ebbero in cura nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini. Parte da questo una sorta di ‘attaccò alla sentenza con la quale il 5 giugno la Corte d’Assise ha condannato per omicidio colposo (e non per abbandono d’incapace) cinque dei sei medici imputati (un sesto, condannato per falso ideologico), mandando assolti con formule diverse tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria. Adesso, i pm Vincenzo Barba e Francesca Loy, hanno depositato il loro atto d’appello che si aggiunge a quello nei giorni scorsi proposto dalle parti civili, che però hanno appellato solo la sentenza assolutoria degli agenti, dopo essersi accordati con l’spedale per il risarcimento dei danni. In trentasei pagine, la procura contesta punto per punto la sentenza. Ecco che allora ritorna in primo piano la figura di Samura Yaya, detenuto gambiano che disse di aver visto e sentito il pestaggio ma ritenuto inattendibile dalla Corte con motivazioni che i pm definiscono “non condivisibili”. “Tutte le testimonianze raccolte - si legge nell’appello - confermano quanto riferito riguardo al comportamento degli agenti che in seguito alle insistenti richieste del Cucchi lo colpivano con una spinta e dei calci, in modo da farlo cadere a terra e procurargli le lesioni che ne hanno determinato il ricovero”. Così come si focalizza l’attenzione su quelli che sono stati definiti “i tentativi di far ricadere la responsabilità sui carabinieri”, con la certezza che nel corso del processo è stata offerta la possibilità di capire come tutto fosse un “tentativo di allargare la cerchia dei colpevoli, e difendere o escludere la responsabilità degli agenti”. Alla fine, resta la posizione di medici e infermieri, i primi condannati a pene definite “assai contenute” (nel massimo, a due anni), i secondo assolti. In sintesi, per i pm “c’è stato un controllo del tutto inadeguato e superficiale del paziente”, è stato “estremamente riduttivo” ascrivere l’attività dei medici “ad una condotta meramente colposa, alla stregua di un errore diagnostico”, ed è inspiegabile l’assoluzione degli infermieri sul presupposto “che non era nelle loro facoltà di sindacare le iniziative dei medici alle quali risultano essersi attenuti”, mentre a loro avviso si deve contestare agli stessi “di non aver fatto neppure quanto loro competeva per le mansioni effettivamente esercitate”. Toscana: Rossi; Presidente, svuotiamo le carceri. La Toscana lancia l’idea-modello di Sandro Bennucci La Nazione, 28 ottobre 2013 Rossi scrive a Napolitano: “Trasferiremo 300 detenuti in sei mesi” Gli istituti di pena regionali hanno una capienza massima di 3261carcerati ma registrano 4.168 presenze. “Ho sentito il dovere di rispondere al messaggio inviato alle Camere dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, scrivendo a lui e al ministro della giustizia, Annamaria Cancellieri: se la proposta che faccio verrà accolta, nel giro di 6 mesi saranno avviati a misure alternative (arresti domiciliare o affidamento in prova) almeno 300 tossicodipendenti detenuti in Toscana”. Preoccupato? No, Enrico Rossi è addirittura sconvolto dalle cifre che rimbalzano sul suo tavolo: gli istituti penitenziari di questa regione rischiano di esplodere. Hanno una capienza massima di 3.261carcerati ma in realtà, ormai da tempo, registrano 4.168 presenze. Sovraffollamento inumano, oltre che pericoloso. Capace di forti stati di disagio, con forme di violenza incontrollabili. Fino ai suicidi. Ci sono 907 detenuti in più, di cui almeno 300 potrebbero uscire beneficiando delle misure alternative. Infatti, ben 1.186 reclusi sono conseguenza della legge Giovanardi-Fini, che mette marijuana e hashish sullo stesso piano di cocaina ed eroina e reintroduce il limite di quantità, oltre il quale l’uso personale diventa spaccio. Rossi pensa che la revisione della Giovanardi-Fini abbia più efficacia di un provvedimento di amnistia o indulto. Ma c’è il rischio che passi molto tempo prima che la maggioranza parlamentare che sostiene il governo Letta, così divisa sui temi della giustizia, possa trovare un faticoso accordo. Da qui la “mano tesa” della Toscana: l’iniziativa che, portava avanti insieme agli uffici regionali del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e al Ministero potrebbe trasferire i detenuti tossicodipendenti in strutture di accoglienza più adeguate. Con la collaborazione della Regione. Presidente Rossi, lo sa che in Parlamento giacciono varie proposte “svuota carceri”? “Sì, ma a quanti pestaggi e a quanti suicidi dovremmo ancora assistere prima che si faccia qualcosa di veramente concreto? C’è un’emergenza alla quale bisogna porre rimedio in tempi brevissimi. Anche le Regioni devono avvertire il richiamo di Napolitano: la Toscana è pronta a fare la sua parte e a farsi carico di un esperimento che potrebbe poi essere esportato in tutt’Italia”. Ma a chi spetterebbe, praticamente, la decisione di avviare i detenuti tossicodipendenti alle misure alternative? “Il progetto dovrà essere costruito insieme al Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza. Ma naturalmente sarà il magistrato, in piena autonomia, valutare le condizioni giuridiche, caso per caso”. Considerata la scarsità di spazi (mancano anche residenze protette per anziani e disabili) dove pensa di ricavare 300 posti per persone che, comunque, dovranno essere sorvegliate? “Almeno 30-40 posti saranno disponibili, già da novembre, in strutture gestite da organizzazioni aderenti al coordinamento delle comunità di accoglienza. Gli altri saranno progressivamente a disposizione anche fra quelle che abbiamo usato per l’emergenza profughi del Nord Africa. La Regione Toscana è disponibile ad assumersi gran parte delle spese di questo progetto che stimiamo possano raggiungere i 4 milioni l’anno”. Ci sono molte emergenze in questo momento, compresa quella idrogeologica, che vede la Toscana periodicamente devastata da frane e alluvioni: perché lei mette in cima alla sua agenda il sovraffollamento delle carceri che è competenza dello Stato? “Per una questione di civiltà, oltre che di ordine pubblico. La Regione non può far finta di non vedere quello che succede a Sollicciano, a Livorno e in altri istituti di pena strapieni. Del resto, l’assistenza sanitaria è nostra. Noi interveniamo nelle carceri per fornire i materassi e il loro periodico rinnovo, oltre a un kit igienico per i detenuti. E a Firenze, alla Madonnina del Grappa fondata da don Facibeni, stiamo realizzando una casa famiglia per le mamme carcerate a Sollicciano, con l’obiettivo di ospitarle insieme ai loro bambini da zero a tre anni. Perché non è giusto che degli innocenti, così piccini, vivano da reclusi”. Quale segnale aspetta dal ministro Cancellieri? “Che dia il via libera a un accordo di programma Ministero-Regione Toscana. Entro qualche settimana si potrebbe fare il primo trasferimento di una trentina di detenuti. Penso che, nel giro di 6 mesi, 300 tossicodipendenti possano lasciare il carcere. Anche così si risponde allo spirito del messaggio di Napolitano”. Molise: Segretario generale Sindacato Polizia penitenziaria S.PP in sciopero fame Ansa, 28 ottobre 2013 Il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria S.PP. Aldo Di Giacomo è in sciopero della fame dall’11 ottobre per sensibilizzare il mondo della politica sul grave problema della giustizia e del sovraffollamento carcerario, dall’inizio dell’anno sono morti nelle carceri Italiane 90 detenuti e si sono suicidati 7 poliziotti penitenziari; dati che da soli rendono l’idea del dramma che vivono le carceri del nostro paese; la colpa di tutto questo è senz’altro della politica la quale è storicamente incapace di risolvere il problema delle carceri e più in generale della giustizia in Italia. Si dovrebbero affrontare le cause del sovraffollamento con una riforma organica della giustizia e non gli effetti del fenomeno attraverso la storica soluzione dell’indulto e amnistia. A sostenerlo è Aldo di Giacomo, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria S.PP: “Dal 1970 ad oggi 15 tra amnistie ed indulti ed il risultato è stato che dopo ogni atto di clemenza è sempre aumentata la popolazione detenuta ed oggi siamo al massimo storico ed il nostro sistema giustizia e da terzo mondo da anni con oltre nove milioni di processi pendenti e centottantamila prescrizioni l’anno”. Continua Di Giacomo “evidentemente servono riforme strutturale prima fra tutte una serie di depenalizzazione per porre rimedio alla situazione catastrofica della giustizia”. Intanto, Di Giacomo ieri ha tenuto una conferenza stampa alla Camera dei Deputati alla quale erano presenti: Antonio Di Pietro, il capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Dott. Luigi Pagano, On Franco Vazio commissione giustizia ed altri esponenti del mondo della politica. Di Giacomo ha trovato assoluta condivisione d’idee e l’impegno ad attuare un’ampia depenalizzazione e riforme strutturali e non amnistie e indulti. Di Giacomo, inoltre, ha evidenziato come le condizioni di lavoro in continua emergenza mettono seriamente in discussione l’aspetto professionale e personale dei lavoratori, costretti a far fronte con strumenti insufficienti alla sicurezza e alla disattesa risocializzazione dei detenuti garantita dal dettato costituzionale, non considerando la disattenzione della politica che ha portato al blocco degli stipendi, degli assegni di funzione ed agli avanzamenti di grado con un danno economico di oltre 200euro al mese per ogni poliziotto. Questo imperativo, fare riforme strutturali prima fra tutte le depenalizzazioni, deve far riflettere sulle responsabilità di ogni uno. Pertanto continuerò questa mia battaglia sino a quando non si risolverà il problema.” Il segretario generale darà vita nei prossimi giorni a nuovi incontri con l’obiettivo di sensibilizzare il mondo della politica sul mondo carcerario e sulla grave situazione della giustizia. Liguria: Sappe; tra Regioni con percentuale più alta di detenuti tossicodipendenti Agi, 28 ottobre 2013 La Liguria si conferma tra le Regioni d’Italia con la percentuale più alta di detenuti tossicodipendenti: sono il 29% dei circa 1.800 presenti. La media nazionale si attesta infatti al 22%. “Una criticità significativa, che accentua le condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari e le condizioni stesse di vita dei detenuti”, commenta Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE. “Più di 520 sono i tossicodipendenti in cella. La percentuale varia da carcere a carcere: a Chiavari, Marassi, Savona e La Spezia un detenuto su tre ha problemi di droga, con percentuali che si attestano dal 38% di Chiavari al 31% di La Spezia. Ad Imperia è tossicodipendenti un detenuto su quattro (percentuale del 25%) mentre più contenute le presenze nei penitenziari di Sanremo (13%) e Pontedecimo (10%)”. E il detenuto tossicodipendente, nonostante gli sforzi di Polizia penitenziaria ed operatori vari, vive il carcere con molto disagio proprio in relazione alla sua dipendenza e spesso è protagonista di eventi critici. Per questo il SAPPE, da tempo, chiede una soluzione alternativa alla detenzione in carcere per i tossicodipendenti, per trovare percorsi alternativi e avviarli verso un percorso di guarigione al di fuori del carcere dove la vita è insostenibile”. Martinelli sostiene che “le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria è per questo d’accordo con chi sostiene che “la tossicodipendenza è una malattia prevenibile, curabile e guaribile e dovrebbe quindi trovare soluzioni fuori dal carcere. I detenuti i tossicodipendenti non possono essere considerati dei criminali solo per il fatto di usare sostanza stupefacenti e il carcere non è luogo di cura e riabilitazione della tossicodipendenza. Bisognerebbe allora individuare nuove procedure che possano evitare addirittura l’entrata in carcere delle persone tossicodipendenti che commettono reati in relazione con la loro malattia”. Sardegna: Pili (Misto); nell’Isola nuovo sbarco mafiosi, no a chiusura carcere Iglesias L’Unione Sarda, 28 ottobre 2013 Nuova denuncia del deputato sardo Mauro Pili (Misto): a Oristano arrivati in gran segreto pericolosi boss mafiosi. “C’è il boss dei due mondi, il capo clan che ordinò la strage di San Valentino, il capo cosca dei trapanesi, il capomafia di Brancaccio, il boss di Mergellina, figlio del Padrino Orlando, sino al grande pentito di mafia che conosceva tutti i segreti della camera della morte. Sono giunti in gran segreto in un volo charter che qualche giorno fa denunciai come nuovo sbarco di mafiosi”. “In realtà - attacca Pili - non si trattava solo di affiliati di mafia e camorra ma di una vera e propria invasione di boss e capimafia senza precedenti, orchestrata in totale silenzio, decisa nelle segrete stanze di un ministero e di un governo che trasforma impunemente una casa circondariale in un vero e proprio concentrato di mafia. Il piano dissennato, fuori da qualsiasi logica, di spostare in Sardegna gran parte dei mafiosi va avanti nel silenzio più totale. Una concentrazione folle contro tutte le norme e in contrasto con la gestione tecnica di questo tipo di detenuti che, secondo i massimi esperti, non vanno concentrati ma dispersi. Per la Sardegna le infiltrazioni mafiose sono ora più che mai un pericolo gravissimo, di cui nessuno parla”. “Il governo e il ministero - prosegue il parlamentare ex Pdl - stanno alzando il tiro, giorno dopo giorno, facendo salire in maniera vertiginosa il livello dei mafiosi che vengono inviati in Sardegna senza badare a spese e soprattutto senza curarsi minimamente di un pericolo infiltrazioni che le stesse relazioni tecniche dell’alta sicurezza segnalano come un vero e proprio rischio per via di tutto il concentrato di familiari e adepti che si riversa intorno alle strutture carcerarie per colloqui e contatti. “ una situazione di una gravità inaudita se si considera che si sta trasformando un carcere come quello di Massama, nato come casa circondariale, in un vero carcere per mafiosi”. Intanto in un’interrogazione al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri Mauro Pili ha chiesto la revoca del provvedimento di chiusura del carcere di Iglesias “per evidenti incongruenze gestionali, organizzative ed economiche”. Secondo il parlamentare, la decisione arrecherebbe un “danno economico” e avrà gravi ripercussioni sul personale in servizio e sulle loro famiglie. “Dopo la chiusura dell’Alcoa e di tante realtà”, sottolinea Pili, “ciò darebbe luogo a una vera e propria desertificazione dell’intera zona. Inoltre, dopo la paventata chiusura dei tribunali di Iglesias e Carbonia verrebbe a mancare ulteriormente la presenza dello Stato”. Sardegna: Pes (Pd); il ministro faccia chiarezza sull’arrivo detenuti 41-bis a Oristano La Nuova Sardegna, 28 ottobre 2013 Il trasferimento dei primi detenuti ad alta sorveglianza nella casa circondariale di Massama finisce in Parlamento con un’interrogazione presentata dalla deputata Caterina Pes. La parlamentare del Pd ha chiesto al ministro Anna Maria Cancellieri se corrisponda al vero che è previsto nei prossimi giorni l’arrivo di altri detenuti non solo ad alta sorveglianza, ma sottoposti anche al regime del 41 bis. “Nei giorni scorsi sono sbarcati a Cagliari 132 detenuti tra camorristi, mafiosi, trafficanti internazionali di droga, diretti a Oristano, Nuoro e Tempio - ha scritto nell’interrogazione Caterina Pes, 42 sono stati trasferiti nel nuovo carcere di Massama. Sappiamo che questi devono essere sottoposti a strettissime e specifiche misure di sorveglianza, quindi sotto massima sicurezza, e devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente nelle aree insulari come prevede un’apposita legge”. Proprio a causa della loro pericolosità questi detenuti richiedono quindi un notevole spiegamento di forze, strutture adeguate, sorveglianza costante, che si differenzia da quella ordinaria cui sono sottoposti i detenuti cosiddetti comuni. È evidente che diventa indispensabile avere un adeguato numero di agenti di polizia penitenziaria, ma anche di altre categorie fondamentali come quella degli educatori. Caterina Pes ha ricordato come il sindacato di polizia dell’Ugl abbia già avanzato un’urgente richiesta di adeguamento delle misure assistenziali e strutturali oltre al potenziamento dell’organico. “L’imminente arrivo di altri detenuti a Massama - ha scritto Caterina Pes nell’interrogazione - creerà certamente forte motivo di preoccupazione fra gli abitanti per la possibilità di eventuali rischi d’infiltrazione del sistema mafia nel territorio della Sardegna. Ancora indenne da questo fenomeno - ha osservato la parlamentare - ma non per questo, inviolabile dall’insediamento della criminalità organizzata che, invece, potrebbe costituire una minaccia permanente alla convivenza civile e un ostacolo enorme al progresso dell’isola. Forti timori si hanno anche per il turismo penitenziario che potrebbe svilupparsi a causa del trasferimento di personaggi di spicco delle cosche mafiose”. Caterina Pes chiede poi al ministro se ritenga opportuno chiarire se i detenuti trasferiti o in procinto di essere trasferiti in Sardegna rientrino nel disposto del 41 bis o in regime di sorveglianza speciale. E ancora, se non ritenga opportuno valutare ulteriori iniziative per evitare una dislocazione massiccia in Sardegna di questi detenuti, la cui presenza ha comportato effetti negativi per l’immagine dell’ isola che si basa, in assenza di altre risorse primarie, sulla dimensione turistica. Venezia: a Mestre “una cella in piazza” e alla Fenice concerto per aiutare i detenuti La Nuova Venezia, 28 ottobre 2013 La Camera penale veneziana ha fatto ricostruire in Piazzetta Coin di Mestre un ambiente carcerario per discutere di sovraffollamento e dignità della persona. Una cella: non in prigione, ma in piazzetta Coin. Una cella di dimensioni reali quella costruita oggi in centro a Mestre su un’iniziativa della Camera penale veneziana, che riunisce gli avvocati lagunari, per informare quali siano le incredibili condizioni di vita dei detenuti nelle carceri italiani. Un modo per far conoscere a tutti come si sta in celle dove il sovraffollamento è ormai una regola, non permettono di perseguire concretamente l’obiettivo della rieducazione del condannato, né garantendo il rispetto dei suoi diritti e della sua dignità personale. Attualmente sono circa 67 mila i detenuti, ma i posti disponibili sono 47 mila (a Santa Maria Maggiore sono poco meno di 300 e i posti disponibili sono meno di 160). Dal 200 ad oggi sono ben 700 le persone che hanno deciso di togliersi la vita in carcere. L’Italia, negli ultimi anni, è stata condannata dalla Corte europea di Strasburgo per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, proprio quello che vieta la tortura, le pene e i trattamenti inumani o degradanti. Le Camere penali italiane si sono subito schierate a favore dell’intervento dei presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che con un messaggio al Parlamento ha messo in rilievo tutto questo, sostenendo la necessità di un intervento urgente, così come da tempo ci chiede l’Europa. I penalisti veneziani sono anch’essi d’accordo della necessità che prima possibile vengano approvati amnistia e indulto, in attesa di riforme strutturali, che naturalmente toccano ai politici. Alla Fenice un concerto per aiutare i detenuti In carcere manca tutto: carta igienica, sapone, dentifricio, fogli e penne per scrivere lettere a casa. Così, le cooperative sociali Il Cerchio e Rio Terà dei Pensieri e i volontari de Il granello di Senape hanno organizzato per lunedì 28, alle 20, un Concerto di beneficenza alla Fenice, grazie alla piena collaborazione della fondazione lirica e dell’Orchestra Filarmonica del teatro. In programma musiche di Ciajkovskij, Saint-Saëns, Vivaldi, Albéniz, De Falla, Piazzolla, dirette da Omer Meir Wellber, con Jacob Reuven al mandolino. Biglietti a 25-15 euro, acquistabili nelle filiali della banca popolare di Vicenza e nella rete Hellovenezia o la sera stessa del concerto: tolte le spese vive, tutto il ricavato andrà nell’”acquisto di prodotti di prima necessità per le ristrette e i ristretti degli istituti penali di Venezia”. “L’anno scorso, con il concerto gospel al Goldoni”, ricorda Gianni Trevisan, della Coop il Cerchio, “sono stati raccolti 3 mila euro, che abbiamo speso per comprare una lavatrice per Santa Maria Maggiore, 500 dentifrici e spazzolini, altrettante risme di carta A3 e penne per le lettere di ristretti e ristrette”. Oggi il carcere maschile ha 300 detenuti, su una capienza di 170 persone, 240 “tollerabili”: quest’estate erano 370. Solo pochissimi riescono a lavorare nei laboratori, mentre il carcere femminile della Giudecca è un fiore all’occhiello in Italia, con 77 detenute, la metà delle quali impiegate nella lavanderia industriale che lavora per Hilton e Cipriani, nella sartoria con negozio a castello, nell’Orto de le Maravegie, con vendita di erbe aromatiche e laboratorio cosmetico. Lunedì - negli impianti di Sacca San Biagio - ci sarà una giornata di scambio di esperienze tra volontari italiani, di Romania, Norvegia, Gran Bretagna, Austria, Spagna, Malta, Slovenia, Grecia. “Abbiamo presentato al ministero progetti per sviluppare l’occupazione anche tra i maschi”, conclude Trevisan, “uno per la pulizia dei forti di Sant’Andrea e Lido e la realizzazione di un tracciato per bici, con punti di ristoro gestiti dai ristretti. Un progetto per assemblare bici in carcere, riciclando biciclette usate e rivenderle a poco prezzo. Poi corsi per panificatori e pasticceri, rivolti anche ai lavoratori in cassa integrazione”. Roma: Garante Marroni; a Regina Coeli progetto tutela salute detenuti stranieri Ansa, 28 ottobre 2013 Garantire la tutela del diritto alla salute dei detenuti stranieri reclusi a Regina Coeli, attraverso il potenziamento e lo sviluppo di politiche di mediazione sociale, linguistica e dialogo interculturale, promuovendo la messa a sistema di un servizio sperimentale di integrazione socio-sanitaria e di mediazione interculturale. Sono questi gli obiettivi del progetto pilota Me.D.I.A.Re. (Mediazione per i Diritti di Integrazione e di salute Agiti a favore dei detenuti stranieri di Regina Coeli) - fortemente voluta dal Garante dei detenuti del Lazio - presentato al Fondo Europeo per l’Integrazione di Cittadini di Paesi Terzi. “Nel Lazio - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - la presenza di reclusi stranieri è intorno al 37%, con punte di oltre il 60% a Regina Coeli. Nello storico carcere romano, la situazione degli stranieri presenta elevate criticità legate all’emarginazione che raggiunge picchi allarmanti nell’ambito della tutela della salute. L’assenza di un servizio di mediazione interculturale nell’ambito della medicina generale e specialistica (tossicodipendenze, malattie croniche e infettive) e nella valutazione dello stato di salute dei nuovi ingressi, la mancata conoscenza della lingua italiana, costituiscono un forte impedimento alle regolari attività di assistenza sanitaria e all’attuazione della Carta dei Servizi prevista dalla Legge 230/99. Per questo abbiamo incoraggiato un lavoro molto innovativo che coinvolge importanti istituzioni pubbliche e autorevoli realtà del mondo dell’immigrazione, del carcere e della sanità; un’esperienza che ci auguriamo potrà essere estesa a tutti gli Istituti Penitenziari”. Alle criticità evidenziate dal Garante, il progetto Me.D.I.A.Re. risponde proponendo un approccio multidisciplinare attraverso una collaborazione in Rete fra servizi pubblici ed esperienze del settore dell’immigrazione, del carcere e della sanità in cui la Coop Sociale Auxilium è il soggetto capofila, ma un ruolo strategico è giocato dalla Asl RmA, dal carcere di Regina Coeli e dal Forum Nazionale per il diritto alla salute in carcere. Il progetto intende garantire il reale accesso ai Livelli Essenziali di Assistenza a un target vulnerabile come i detenuti stranieri e per questo ha implementato una Rete territoriale strutturata che coinvolge, oltre al Garante dei detenuti, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Lazio, la Comunità di Sant’Egidio, l’Università La Sapienza di Roma e l’Associazione di mediatori interculturali Medea. Pistoia: sovraffollamento carceri, organizzato un convegno per individuare soluzioni Il Tirreno, 28 ottobre 2013 “Sono circa 64.700 i detenuti nelle carceri italiane, rispetto ad una capienza pari a 47mila: di questi, 22.770 sono stranieri, a conferma che il problema del sovraffollamento non può e non deve essere separato dalla gestione dell’immigrazione”. Così Tazio Bianchi, direttore della Casa circondariale di Pistoia, intervenendo al convegno “Criminalità, sicurezza, prevenzione”, organizzato alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia dall’Associazione nazionale sociologi, dipartimenti regionali di Liguria e Toscana. “Il quadro di riferimento a livello locale - ha aggiunto - non muta, rispetto al dato nazionale, se pensiamo che sono ristretti attualmente presso la casa circondariale di Pistoia 119 detenuti, su una capienza effettiva di 64. Anche qui, molti sono stranieri”. Nel corso del convegno, condotto dal sociologo pistoiese Giuliano Bruni, dirigente nazionale dell’Ans, si è parlato anche di pene alternative, e in questo senso a Pistoia ci sono esperienze significative “anche grazie alla collaborazione importante - ha detto ancora Tazio Bianchi - con Comune, Provincia e tutte le forze dell’ordine”. “La soluzione, secondo noi sociologi - ha aggiunto il presidente nazionale dell’Ans, Pietro Zocconali - non è quella di mettere tutti in carcere. Il carcere dovrebbe essere come un ospedale, dove si entra malati e si esce guariti. Ma oggi non avviene così”. Tempio Pausania: polo universitario nel carcere di Nuchis, corsi per 16 detenuti di Sebastiano Depperu La Nuova Sardegna, 28 ottobre 2013 “È una grandissima soddisfazione, anche per questo anno, dare il via all’anno scolastico per le scuole medie all’interno della nostra struttura - è stato il commento della direttrice del “Pittalis”, Carla Ciavarella - di questo dobbiamo ringraziare la dirigente dell’Armando Diaz di Olbia. Grazie a lei, diamo un sapore e un collegamento col reale. Con questa forte collaborazione e con tanto entusiasmo della preside e dei suo colleghi docenti creiamo un ponte tra il dentro e il fuori. Ma questa, e ci tengo a rimarcarlo, è solo una delle tante manifestazioni che ci saranno: il carcere è una realtà che cresce e produce”. Infatti, oltre ai corsi scolastici, la casa circondariale di Nuchis offre a tutti i suoi detenuti la possibilità di frequentare diversi altri corsi. In sette stanno seguendo, per esempio, le lezioni poesia, in quattordici quelle di scrittura creativa. E in 26, a breve, affronteranno il corso per creare i presepi per Natale. Il carcere “Pittalis” di Nuchis si avvia a diventare un importante polo scolastico carcerario. Molti dei detenuti, infatti, stanno frequentando dei corsi che li porterà al conseguimento della licenza media o, addirittura, della laurea: alcuni l’hanno già conseguita lo scorso anno. Ma la struttura è anche polo universitario. Si svolgono, in loco, lezioni di giurisprudenza o scienze politiche. Sono in 16 i detenuti che aspirano ad una laurea. Altri 10 di loro, invece, frequentano i corsi dell’Università della Terza Età. Insomma, dei 180 ospiti della casa circondariale, in 48 sono tornati sui banchi di scuola per continuare un percorso scolastico lasciato a metà. Giovedì pomeriggio, c’è stata l’inaugurazione dell’anno scolastico per la scuola media. Sono in 12 ad affrontare il percorso che li porterà al primo traguardo previsto dall’istruzione italiana. In una decina, nel giugno scorso, hanno ottenuto già la licenza media. Vecchi e nuovi alunni si sono salutati per scambiarsi opinioni e incoraggiarsi. Mario (nome di fantasia), giovane napoletano, dice : “Mi sono trovato bene lo scorso anno e sono stato contento di aver conseguito la licenza media. Purtroppo, ho fatto diversi sbagli. Ero una testa calda, nu capo monello, come si dice nel mio dialetto. Età ed errori ti fanno maturare”. Il carcere di Nuchis è una sede staccata della “Diaz” di Olbia e, dunque, non poteva mancare la dirigente scolastica Fiorella Ricciardi: “È per noi consuetudine,- i primi giorni di scuola, offrire un concerto tenuto dai nostri professori di strumento del corso musicale. Neanche qui, potevamo mancare”. Il programma era per tre strumenti e ha spaziato da Gershwin a Piazzolla, da Ortis a Tito Puente. Finale a sorpresa con “La leggenda del pianista sull’oceano” di Ennio Morricone. In poche parole: un viaggio musicale dal nord al sud America. Alla tromba c’era la docente Laura Cocco; al piano, Alessio Ferreri; e al violino, Cristina Serra. Nella sala ricreativa dove si è tenuto il concerto si respirava aria di festa, di tranquillità. Non sembrava di stare all’interno di un carcere dove le accuse dei suoi ospiti sono pesanti. Torino: “Spes@Labor”, progetto all’Istituto Penale per Minorenni “Ferrante Aporti” di Antonietta Nembri Vita, 28 ottobre 2013 Il progetto della Cooperativa le Soleil è realizzato nell’ambito di un bando di UniCredit Foundation. “Spes@Labor” prevede un corso di formazione e un laboratorio per produrre cioccolato dedicato a 16 giovani detenuti. Non poteva avere un nome più azzeccato “Spes@Labor”, ovvero speranza e lavoro, il progetto realizzato dalla cooperativa sociale le Soleil che viene inaugurato martedì 29 ottobre all’l’Istituto Penale per Minorenni “Ferrante Aporti” di Torino. Perché guarda proprio con speranza a un futuro migliore attraverso il lavoro l’iniziativa è realizzata nell’ambito del Bando UniCredit Carta E-Strategie di coesione sociale per i giovani” promosso da UniCredit Foundation con un finanziamento di 60.000 euro. Obiettivo del progetto “Spes@Labor”, infatti, è il reinserimento di giovani detenuti all’interno del tessuto sociale, attraverso interventi di inclusione lavorativa e professionale, diffondendo tra i partecipanti la consapevolezza del carattere rieducativo della detenzione creando al contempo una possibilità di riscatto e reinserimento nella società. Tra le attività previste dal progetto un corso di formazione propedeutica all’avviamento professionale. All’interno dell’Istituto Penale per Minorenni “Ferrante Aporti” sarà allestito anche un laboratorio con i macchinari per la produzione, l’imballaggio, lo stoccaggio e il trasporto del cioccolato. Otto, fra i 16 ragazzi partecipanti al corso di formazione, avranno infine la possibilità di accedere a una borsa lavoro che darà loro la possibilità di svolgere una professione attinente a quella esercitata durante l’apprendistato in laboratorio. Per la formazione e le borse lavoro la cooperativa le Soleil si appoggia alla “Comunità Murialdo Piemonte”, che ha già lavorato in questo campo nella struttura penitenziaria Per l’inaugurazione del progetto è in programma un incontro che vedrà la partecipazione di Serenella Pesarin, Dg del Dipartimento Giustizia Minorile; Antonio Pappalardo, del Centro Giustizia Minorile; Gabriella Picco, direttore dell’I.P.M. “Ferrante Aporti”; Elide Tisi, vice sindaco di Torino; Maurizio Carrara, presidente di UniCredit Foundation; Giovanni Forestiero, responsabile di Territorio Nord Ovest di UniCredit; D. Danilo Magni, direttore Opera Torinese del Murialdo e, infine, Nadyr Duroux, capofila del progetto “Spes@Labor” della Cooperativa Sociale le Soleil. Ferrara: bomba carta contro carcere dove sono detenuti gli anarchici della Fai Il Fatto Quotidiano L'ordigno è stato lanciato in un parcheggio interno di fronte all'ingresso. In quell'area si trovano le celle di Alfredo Cospito e Nicola Gai, accusati di aver partecipato alla gambizzazione di Roberto Adinolfi, manager di Ansaldo Nucleare, avvenuta a Genova nel 2012. I due saranno davanti ai giudici il 30 ottobre. Una bomba carta è stata lanciata la scorsa notte, intorno alla 3, in un piazzale del carcere di Ferrara. Alcune persone a bordo di un’auto hanno gettato l’ordigno che - superato il muro di cinta esterno - è piombato all’interno del parcheggio antistante l’ingresso, dove il personale di servizio parcheggia le proprie vetture. Sull’episodio indagano i carabinieri. Di fronte a quest’area si trovano le celle in cui sono detenuti Alfredo Cospito e Nicola Gai, anarchici accusati di aver gambizzato il 7 maggio 2012 a Genova l’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi. I due - componenti della cellula “Olga” della Federazione anarchica informale/Fronte rivoluzionario internazionale - dopo una permanenza nel carcere di Genova Marassi sono stati trasferiti, prima nel penitenziario di Alessandria e poi in quello di Ferrara. Cospito e Gai sono attesi davanti al gip di Genova, per il rito abbreviato, il prossimo 30 ottobre. Per quel giorno è in programma anche un presidio di anarchici davanti al palazzo di giustizia di Genova che si annuncia “blindato”. Cospito e Gai verranno trasferiti la stessa mattina dal carcere di Ferrara. I due, che hanno chiesto tramite i loro difensori che l’udienza sia pubblica, leggeranno in aula un comunicato politico. La pista terrorista è confermata anche dal Sappe, uno dei sindacati più rappresentativi della polizia penitenziaria. E stato “molto probabilmente come un atto intimidatorio di matrice terroristica” sostengono Donato Capece, segretario generale del Sappe, e Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del sindacato. L’ordigno, raccontano, ha creato “un piccolo cratere, senza fortunatamente arrecare danni a persone ed a cose”. “È chiaro - concludono i due esponenti del Sappe - che le istituzioni, compreso quella penitenziaria, non si faranno intimidire da simili gesti”. Bolzano: la Uil-Pa Penitenziari denuncia “abusi di potere” all’interno del carcere di Susanna Petrone Alto Adige, 28 ottobre 2013 La Direttrice del carcere, Maria Rita Nuzzaci, e il suo Comandante di reparto, Angelo Frattacci, sono finiti nel mirino dei sindacalisti: la prima viene accusata di abuso di potere, mentre il secondo avrebbe “usato metodi autoritari” nei confronti degli agenti della polizia penitenziaria di Bolzano: lo dice il segretario generale Uil penitenziario Eugenio Sarno, che ieri mattina ha visitato la struttura di via Dante, per poi presentare un esposto in Procura. “Questa è la quarta visita che la Uil effettua in cinque anni - dice Sarno, all’uscita dalla casa circondariale.. Abbiamo documentato lo stato di degrado in cui versa la struttura, così come i luoghi di lavoro degli agenti. Confermiamo il nostro giudizio: Bolzano è tra i peggiori carceri d’Italia. E non parlo solo delle condizioni strutturali. Secondo la delibera della commissione arbitraria regionale, il comportamento della direttrice del carcere è antisindacale”. Il segretario è un fiume in piena. E aggiunge: “Contestiamo la gestione operativa e amministrativa. Abbiamo dato mandato al nostro legale e presentato denuncia al giudice del lavoro. Inoltre, abbiamo presentato un esposto in Procura, affinché verifichi se ci sono gli estremi per aprire un’inchiesta per abuso di potere. Ci atteniamo a una delibera che ha intimato la direttrice di rivedere alcune disposizioni. Ma non ha mosso un dito. Per quanto riguarda la gestione operativa - prosegue Sarno -, chiederemo al provveditore regionale di rendere noti gli esiti di un’ispezione a carico del comandante del reparto per atteggiamenti autoritari. Se vi sono responsabilità da parte sua, emergeranno. Alcuni agenti hanno espressamente fatto cenno ad atteggiamenti autoritari e in qualche caso potrebbero sconfinare in reati penali”. I sindacalisti, infine, snocciolano alcuni dati: sono 116 i detenuti: 33 imputati, 7 appellanti, 4 ricorrenti e 66 con sentenza in giudicata e 4 posizione giuridica mista. Complessivamente il nucleo traduzioni piantonamenti ha effettuato 340 servizi di traduzione (spostamenti dal carcere al tribunale, per esempio). “Secondo la legge - spiega il sindacalista - a Bolzano sono assegnati 75 agenti. Ma bisogna toglierne 7 del nucleo traduzioni e 16 distaccati in altre sedi. Il contingente è di 52 unità. Se togliamo anche gli agenti che lavorano in amministrazione, allora i sorveglianti non superano le 30 unità. La situazione, infine, diventa drammatica se pensiamo ai turni notturni: ci sono solo tre agenti” Taranto: Progetto Fuorigioco; terminate lezioni, cominciano allenamenti detenuti di Giulio De Stratis www.tuttosporttaranto.com, 28 ottobre 2013 Il progetto di rieducazione dei detenuti “fuori…gioco!” fondato sull’ insegnamento dei valori e delle regole dello sport, in corso presso l’istituto penitenziario di Taranto prosegue senza soste. Vivissima la soddisfazione della direttrice della Casa Circondariale Dott.ssa Stefania Baldassari, del Comandante della Polizia Penitenziaria Dott. Giovanni Lamarca, della dott.ssa Sonia Fiorentino e dei responsabili del progetto dott. Giulio Destratis e dott.ssa Loredana Mastrorilli per i risultati ottenuti. L’ attenzione prestata dai detenuti nel corso degli incontri e la loro partecipazione attraverso domande continue poste ai diversi relatori, è stata davvero straordinaria. I diciotto detenuti-corsisti hanno avuto modo di apprendere interessanti contenuti da esperti del mondo del calcio che hanno illustrato aspetti riguardanti la disciplina e la regolamentazione del settore sportivo, senza trascurare i risvolti civili e penali che possono riguardare lo svolgimento di attività sportiva. Si sono succeduti tra i docenti DiLeo (Presidente Arbitri Taranto), Tisci (Presidente Figc Puglia), i dottori Petrocelli, Settembrini e Lonoce, gli avvocati Vinci, Nevoli, Carrieri e Destratis, la psicologa Mastrorilli, i giornalisti Mazza e Foschini. Menzione a parte merita la presenza tra i relatori di due magistrati, il dott. Martino Rosati e il dott. Maurizio Carbone, che è stata particolarmente significativa. I detenuti hanno infatti dialogato, confrontandosi e anche scherzando, con chi è stato chiamato magari a giudicarli e a comminare loro la giusta pena. In tal modo i reclusi hanno potuto constatare che il magistrato non è solo l’arbitro della loro libertà, ma un uomo attento alla loro situazione anche dopo l’applicazione della legge. Ora inizia la fase sul campo. I detenuti saranno impegnati in sedute di allenamento in vista dell’incontro di calcio di beneficienza che si terrà allo Stadio Jacovone di Taranto il giorno Sabato 16 Novembre alle ore 15. Il quadrangolare prevede che ad incontrarsi saranno le selezioni di Magistrati, Polizia Penitenziaria, Avvocati e Detenuti. E, come avvenuto per la presentazione con la presenza di Gianni Rivera, si vocifera che anche in occasione dell’incontro allo Iacovone, interverrà un testimonial di spicco del calcio italiano. Bari: i detenuti-attori della Compagnia della Fortezza in scena al Kismet OperA La Repubblica, 28 ottobre 2013 “Quello che per altri è teatro per noi, per questi spiriti liberi, è vita negata”. Così Armando Punzo presenta Hamlice - Saggio sulla fine di una civiltà, e soprattutto la compagnia da lui diretta: la Fortezza, nutrito gruppo di attori che sono in realtà detenuti nel carcere di Volterra. Lo spettacolo arriva a Bari - per il gruppo un ritorno in città, dopo otto anni - per l’apertura della stagione del Kismet OperA, che coincide anche con la chiusura del festival I luoghi della legalità. È l’incontro tra Amleto e Alice nel paese delle meraviglie, quello che andrà in scena oggi e domani alle 21 sul palcoscenico di strada San Giorgio Martire (info 080.579.76.67; teatrokismet.org): un incontro possibile tra il principe di Danimarca, prigioniero della propria mente e dei suoi fantasmi, e la bambina di Lewis Carroll alle prese con l’ingresso in un mondo alla rovescia che è in fin dei conti l’età adulta, con tutti gli ostacoli e i nemici che comporta. I 45 detenuti attori della Fortezza saranno tutti a Bari, e tra di loro c’è Aniello Arena, protagonista del film Reality di Matteo Garrone che gli è valso il Gran prix a Cannes e il Nastro d’argento. Dialogheranno con il pubblico stasera dopo la prima, raccontando cosa significa fare teatro dietro le sbarre, insieme con il regista Armando Punzo, la direttrice artistica del Kismet Teresa Ludovico, Marco Solimano (responsabile Arci nazionale per le carceri), Andrea Borghini dell’Università di Pisa, Piero Rossi (garante dei diritti dei detenuti per la Puglia) e Nicola Viesti. “C’è un laghetto poco lontano da qui, nelle giornate luminose calme e senza vento riflette con infinita meraviglia la natura che si affaccia sulle sue rive, un’immagine doppia, appena velata, lontana da quella reale”. La metafora utilizzata da Punzo spiega perfettamente la quotidianità asfittica di una cella e quell’esilio volontario che lui ha scelto 25 anni fa, cominciando a lavorare con i detenuti. Ora l’obiettivo è di dar vita al primo teatro stabile in un carcere, nel frattempo la storia della Fortezza è su carta fotografica: prima dello spettacolo, alle 20, sarà inaugurata la mostra di Stefano Vaja “15 anni di fotografie alla compagnia della Fortezza”. Teatro Kismet OperA, Bari Oggi e domani alle 21 Info 080.579.76.67 e www.teatrokismet.org. Russia: migliaia di manifestanti, chiedono liberazione dei detenuti politici Reuters, 28 ottobre 2013 Dagli arrestati per le manifestazioni dello scorso anno alle Pussy Riot, da Greenpeace a Khodorkhovsky tutto fa brodo per alcune migliaia di manifestanti che hanno sfilato per le vie di Mosca chiedendo la liberazione dei detenuti politici. Una manifestazione autorizzata dalle autorità, organizzata dal comitato “6 maggio” che ricorda la grande manifestazione anti-Putin dello scorso anno in seguito alla quale duecento oppositori furono arrestati. “Putin adesso ha paura che i leader europei non vengano ai suoi corrotti giochi olimpici invernali. Gli atleti verranno, ma i leader politici forse no. E quindi è adesso il miglior momento per mettere pressione perché liberi i detenuti politici”, dice Bors Nemtsov, uno dei leader dell’opposizione. 4.500 manifestanti secondo la polizia, 6.000 secondo gli organizzatori. Per loro le ragioni della protesta sono persino ovvie: “Non puoi startene a casa quando regna l’illegalità, quando l’autorità non ha limiti, quando gli innocenti sono dietro alle sbarre e i colpevoli sono giudici”, dice un manifestante. Il 6 maggio 2012, poco prima dell’insediamento di Vladimir Putin per il nuovo mandato presidenziale, si tenne a Mosca una manifestazione di dimensioni storiche, al termine della quale furono decine i fermati. Ventisette di questi sono ancora in detenzione. Stati Uniti: Obama revochi segreto di Stato sulle rendition e gli interrogatori segreti Agi, 28 ottobre 2013 Nel pieno della bufera per l’Nsagate, per Barack Obama si profila una nuova grana per gli interrogatori segreti. I difensori di cinque detenuti di Guantánamo, accusati di concorso negli attentati dell’11 settembre 2001, hanno inviato al presidente americano una lettera per chiedergli di revocare il segreto di Stato sulle rendition e gli interrogatori segreti. Si tratterebbe in pratica di far luce sul programma Rdi della Cia, autorizzato 12 anni fa da George W. Bush e contenente le direttive per le rendition, cioè le catture clandestine all’estero, la detenzione e l’interrogatorio degli individui sospettati di legami con Al-Qaeda. Si tratta delle regole che permettono tra l’altro l’assoggettamento dei prigionieri a “tecniche rafforzate” al limite della tortura per ricavarne informazioni. Per esempio alla privazione del sonno, all’esposizione a temperature estreme, oppure al cosiddetto waterboarding, l’annegamento simulato. “Le restrizioni per motivi di segretezza attualmente esistenti a proposito del programma Rdi, scrivono gli avvocati richiedenti, nel complesso 14 tra civili e militari, “servono unicamente ad agevolare l’ulteriore occultamento dei crimini di guerra perpetrati da agenti del nostro governo”. L’iniziativa, presentata davanti alla Corte Speciale competente a giudicare i detenuti di Guantánamo, punta a ottenere informazioni tali da poter essere invocate come circostanze attenuanti a favore dei rispettivi assistiti: tra i quali c’è anche Khalid Sheikh Mohammed, reo confesso di aver pianificato gli attacchi alle Torri Gemelle del World Trade Center di New York e alla sede del Pentagono presso Washington, che in solo mese di detenzione nella base della Marina Usa a Cuba fu sottoposto al waterboarding ben 183 volte. Se il presidente Usa accogliesse la richiesta, probabilmente ai cinque accusati potrebbe essere risparmiata, in caso di condanna, la pena capitale. Lo stesso Obama ha ripetutamente bollato le “tecniche” esposte nel programma Rdi alla stregua di vera e propria “tortura”. Negli ambienti militari è stato però obiettato che la secretazione ha lo scopo di tutelare la sicurezza nazionale. “Mantenere riservato il programma”, è la contro-replica contenuta nella lettera dei legali, “molto semplicemente sopprime le prove, sopprime la verità e in definitiva sopprime qualunque giustizia degna di tale nome”. Alla Casa Bianca una portavoce si è limitata a confermare che il messaggio è stato regolarmente recapitato, ma senza sbilanciarsi su che cosa deciderà di fare il presidente. Ha tuttavia ricordato come questi abbia “messo in chiaro che il programma Rdi è incompatibile con i nostri valori come Nazione”. Medioriente: da Israele sì a liberazione 26 palestinesi La Presse, 28 ottobre 2013 Israele ha acconsentito oggi al rilascio di 26 prigionieri palestinesi come previsto dall'accordo mediato degli Stati Uniti che ha portato ad agosto alla ripresa dei colloqui di pace. Il sì al secondo gruppo di liberazioni è arrivato dal Consiglio dei ministri. Parallelamente, però, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha in programma l'approvazione della costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania per placare i più radicali che si oppongono ai rilasci. Molti dei detenuti che saranno liberati sono coinvolti nelle uccisioni di israeliani; di loro, 21 saranno liberati in Cisgiordania e gli altri cinque a Gaza. Gli accordi per il rilancio dei colloqui di pace prevedono che in totale dovranno essere rilasciati 104 prigionieri palestinesi in quattro round, nel corso di nove mesi. Il rilascio di questo gruppo di 26 detenuti avverrà almeno 48 ore dopo che i loro nomi saranno resi pubblici, in modo da permettere ai familiari delle vittime israeliane di presentare un eventuale ricorso in tribunale contro la liberazione, cosa che in questi casi avviene raramente. Il Consiglio dei ministri israeliano fa sapere che tutti i prigionieri hanno scontato oltre 19 anni di carcere e i loro reati erano precedenti all'inizio dei colloqui di pace israelo-palestinesi del 1993. Israele insiste nel sottolineare che qualsiasi prigioniero venga sorpreso a riprendere attività ostili sarà arrestato e rimesso in prigione per scontare il resto della pena.