Giustizia: l’Italia, un Paese ostaggio dei rancori dov’è impossibile ragionare di Cesare Martinetti La Stampa, 24 ottobre 2013 Dall’emergenza carceri ai funerali di Priebke non c’è spazio per il dibattito ma solo per la rissa. Un’analisi sul declino della società italiana. Sarà mai possibile in questo nostro Paese aprire una discussione su un argomento - mettiamo, non a caso, l’emergenza carceri - e discutere del merito di quel problema e non aprire una rissa su un aspetto eventuale e marginale di quella questione? Per poi risolvere tutto nel nulla, dimenticarsi il fondo di quell’emergenza, naturalmente non risolverla e passare a una nuova emergenza purché si possa trasformare al più presto in rissa? No, non pare possibile. Abbiamo citato le carceri non a caso perché sono l’esempio più recente e più plastico di questo fenomeno tutto italiano. Il sistema penitenziario italiano è una vergogna, l’Italia rischia di subire l’onta di una condanna europea - ma la si potrebbe semplicemente definire una condanna “di civiltà” - per lo stato delle nostre carceri, un inferno dove esseri umani sono costretti a vivere in un metro e mezzo quadrato, in un supplizio inimmaginabile e feroce che si perpetua quotidianamente. Quanto se n’è parlato quando il Presidente della Repubblica ha messo il Parlamento e il sistema politico di fronte a una responsabilità come questa? Un giorno, due. Ma subito la rissa politica è diventata il retro pensiero per cercare di capire se in quel messaggio era nascosto come in un cilindro un salvacondotto per il pregiudicato Berlusconi Silvio. Legittime le polemiche politiche, ma i sessantamila esseri umani galeotti in uno spazio dove ce ne starebbero stretti 40 mila? Dimenticati. Ecco, questo è diventato il discorso pubblico italiano, che si tratti dei funerali di Priebke dove il grottesco ha superato l’indecente, o del comico Crozza e del suo passaggio alla Rai. Nessun serio dibattito sulla memoria in un caso, nessuna considerazione approfondita sul mercato televisivo nell’altro. Viviamo di flash emozionali, sia che si tratti del caso Shalabaieva, la moglie dell’oligarca-dissidente kazako, prelevata insieme con la figlia bambina dalla casa affittata a Roma e spedita nel giro di poche ore ad Alma-Ata su richiesta del regime petrolifero di Nazarbayev. Ricordate? A giugno sembrava diventato il caso diplomatico più imbarazzante per l’Italia. E ora? Infinite emergenze dettate dalla cronaca sono terminate senza che mai si sia arrivati nemmeno a sfiorare i problemi che pure avevano fatto emergere, che fossero i sassi lanciati dai viadotti sulle autostrade o l’aggressività mordace dei pitbull, ogni problema che compare nella nostra società finisce in una centrifuga emotiva che si alimenta di rancori, magari indefiniti, ma vivi, sempre partigiani. L’interesse generale - o nazionale - è un concetto sconosciuto. Il sospetto è generalizzato, ogni affare sa di mafia, ogni presa di posizione è sospetta di corruzione, c’è sempre un secondo fine o un “vero” motivo di un certo atto che si nasconde dietro quello ufficiale. Ne siamo tutti responsabili, inutile tentare di sottrarsi. È una specie di malattia, siamo diventati impermeabili a una discussione che regga lo spazio di qualche ora, siamo al tempo stesso spacciatori e consumatori di falene che non depositano la consapevolezza dei problemi e dunque non possono generare la ricerca di soluzioni. Non crediamo nemmeno più che sia possibile trovarle le soluzioni. Siamo delusi e disillusi. La politica è lo specchio di questo stato d’animo nazionale. Chi cerca compromessi (che poi costituiscono l’essenza della politica) viene accusato di inciuci con l’avversario, chi lavora intorno a soluzioni complesse per problemi che forse non sono mai stati così complessi viene deriso. I populismi, in Italia e nel resto dell’Europa, nascono anche da questa insofferenza figlia del nostro tempo. È un po’ banale e come al solito si rischia di apparire esterofili a dire che non dappertutto è così e che anche laddove il populismo sta raccogliendo consensi, c’è un discorso pubblico che resiste, un’idea di realtà e di problemi condivisa. In questi giorni il giornalista francese Philippe Ridet, corrispondente di Le Monde a Roma dal 2008, ha pubblicato il suo libro di osservazioni sulla vita italiana. All’inizio vi si legge una citazione che colpisce. Al momento di prendere possesso della nuova sede, sulla sua scrivania ha trovato un biglietto del suo predecessore che diceva così: “Dopo cinque anni lascio un paese nello stesso stato in cui l’ho trovato”. Ecco. Giustizia: sì all’amnistia, ma subito dopo le riforme… di Valter Vecellio www.lindro.it, 24 ottobre 2013 “Lanciamo un messaggio forte: meno pena e più riconciliazione sociale”. Don Virgilio Balducchi, 63 anni, ispettore capo dei cappellani carcerari, apre con queste parole il convegno nazionale dei cappellani carcerari a Sacrofano vicino Roma. Per l’occasione si sono riuniti 150 cappellani (sui 230 totali), di un pò tutte le carceri italiane. L’occasione per fare il punto sui problemi e prospettive del pianeta carcere. I sacerdoti che operano nelle carceri conoscono bene il grido che si alza da dietro le sbarre: “Nel dibattito parliamo anche di indulto e amnistia, misure a mio a giudizio necessarie. Se vogliamo fare le cose serie, va attuato tutto quello che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha detto nel suo messaggio alle Camere: approvino fino in fondo tutte le prospettive che ha indicato il Colle compresa la riforma strutturale dell’amministrazione della giustizia”. Balducchi ha un’esperienza consolidata sul campo: per oltre vent’anni cappellano del carcere di Bergamo; dal 2012 è responsabile dei sacerdoti che lavorano ogni giorno nei penitenziari italiani, con quasi 65mila detenuti stipati nelle 205 carceri italiane, la cui capienza massima è di 47.615 posti. L’emergenza, dice, “rende difficilissimo, per tutti gli operatori, rispondere ai bisogni, anche i più elementari, dei detenuti. In molti istituti, ad esempio, è impossibile per il cappellano conoscere tutte le persone ospitate, non c’è il tempo materiale, sono troppi. Figuriamoci quando si tratta di organizzare attività di gruppo o intraprendere un percorso spirituale. Come dicevo, è un problema che riguarda tutti gli attori in campo. Basta leggere i pronunciamenti delle associazioni di volontariato o della polizia carceraria: si fatica a distinguerli, i toni sono identici, il problema è sentito trasversalmente in maniera drammatica”. Favorevole a un provvedimento di amnistia, don Balducchi non si nasconde che può essere solo il primo passo, e che è necessaria una radicale inversione: “Quando si tratta di legiferare, l’approccio del ceto politico è semplicisti: giocando sulla paura dell’opinione pubblica, si forniscono risposte securitarie a problemi complessi che non sono necessariamente legati all’illegalità. Il cosiddetto reato di clandestinità è un esempio in questo senso. Leggi come la Fini-Giovanardi sulla droga, ma anche molte altre, andrebbero modificate: hanno incancrenito il codice penale e fatto aumentare il numero dei detenuti”. Non è il solo. Giovanni Palombarini, magistrato da sempre impegnato in delicate e importanti inchieste, ed esponente di punta di Magistratura Democratica fa un discorso complementare a quello di don Balducchi: “Perché sono necessari l’amnistia e l’indulto? Sembra un pò strano dover fare riferimento ai pochi metri quadrati di una cella per potere valutare la natura del trattamento riservato a un detenuto e il rispetto dei principi costituzionali, ma nel nostro Paese, ormai da anni, siamo ridotti così. La capienza delle carceri è di circa 45.000 ‘posti lettò, i detenuti sono circa 65.000. Il ricorso ai letti a castello è inevitabile; come inevitabili sono le condanne che per questa situazione vengono inflitte all’Italia in Europa. Proprio dagli organismi europei, e dalla Corte costituzionale italiana, arrivano continue sollecitazioni a provvedere, a porre rimedio a una situazione disumana”. In un’ottica davvero riformatrice, aggiunge Palombarini, bisognerebbe pensare a tante cose, che sommariamente elenca: “Una nuova definizione dell’intero ventaglio delle pene, lasciando al carcere il carattere di misura di estrema necessità per i reati più gravi; alla depenalizzazione delle ipotesi di detenzione di stupefacenti e all’abrogazione del reato di clandestinità; all’abrogazione di quelle norme che impediscono ad ampie categorie di detenuti di ottenere i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario; a una più sobria regolamentazione della custodia preventiva nella forma carceraria”. Mentre dice queste cose Palombarini scuote la testa dubbioso: “Nella stagione politica che attraversiamo difficilmente una simile ottica avrà fortuna”. Nel frattempo c’è chi, come Felice Nava, responsabile della sanità penitenziaria di Padova si arma di pazienza e comincia a fare dei conti. Perché la cattiva amministrazione della giustizia e il suo riflesso più appariscente (la situazione delle carceri) non è solo una questione di umanità, ma anche di economia. Per esempio portare i tossicodipendenti fuori dal carcere, in comunità o nei servizi per le dipendenze, comporta risolvere in parte il problema del sovraffollamento carcerario; ma dall’altro significa anche risparmiare oltre la metà della spesa attuale. Le argomentazioni di Nava si basano su fatti “solidi”: cita un recente studio del NIDA, l’ente statunitense che si occupa di dipendenze, che dimostra come ogni dollaro speso nelle strutture riabilitative esterne al carcere sia capace di diminuire di ben 14 volte la spesa legata ai reati connessi con i problemi di alcool e tossicodipendenza. Rapportato al caso italiano, spiega Nava, se ogni detenuto in carcere costa circa 200 euro al giorno (stime del DAP), la cifra si dimezza (80-100 euro) se a ospitarlo è una comunità. “L’Italia è uno tra i Paesi al mondo che ha la percentuale più alta di consumatori di sostanze in carcere: attualmente circa il 30 per cento dei 66mila detenuti sono consumatori di sostanze stupefacenti, percentuale che raggiunge il 50 per cento tra i 27mila detenuti in attesa di giudizio”. Portando queste persone fuori dai penitenziari, si risolverebbe buona parte del problema legato al sovraffollamento, e si risparmierebbe. “Ma per potenziare le misure alternative va rivisto a fondo l’impianto normativo e garantire maggiori risorse ai servizi e al territorio”. Giustizia: le proposte dell’Idv contro il sovraffollamento delle carceri di Giorgio Velardi www.termometropolitico.it, 24 ottobre 2013 “Cercare soluzioni condivise ma no ad amnistia e indulto”. No ad amnistia e indulto (considerati una “sconfitta dello Stato”), depenalizzazione dei piccoli reati, estensione dei benefici per buona condotta più la vendita di numerosi beni confiscati alla mafia il cui ricavato potrà essere utilizzato per la costruzione di ulteriori strutture e l’assunzione di nuova forza lavoro. Sono queste le proposte che, in riferimento al sovraffollamento carcerario che attanaglia il nostro Paese (oltre 20mila persone in più rispetto la capienza regolamentare), l’Italia dei valori ha esposto mercoledì pomeriggio nel corso di una conferenza stampa convocata a Montecitorio. Un incontro, ha sottolineato il presidente del partito, Antonio Di Pietro, voluto per “rendere omaggio all’altra metà della disperazione carceraria”, cioè “gli agenti di polizia penitenziaria che quotidianamente assistono i detenuti”. Per Di Pietro, il tema riguardante l’amnistia e l’indulto “è usato e abusato in un momento sbagliato. Sono convinto che non sia giusto strumentalizzare la preoccupazione del Capo dello Stato - ha argomentato l’ex pm - rispetto ad un problema grande come quello del sovraffollamento dei nostri istituti di pena e non credo affatto a chi dice che si tratti di un voto di scambio con Berlusconi”. Fra le varie proposte messe sul tavolo, Di Pietro ha parlato di “un intervento chiaro sulla riforma della carcerazione preventiva” e della “possibilità di una detenzione alternativa al carcere per ciò che riguarda il possesso di droghe leggere”. A questo proposito, ha concluso il presidente dell’Idv, “c’è bisogno di andare oltre le false “larghe intese”, ricostruendo delle alleanze costruttive all’insegna di un programma condiviso”. Ovvio il riferimento al Partito democratico, diviso al suo interno tra favorevoli e contrari all’intervento di cui ha parlato nel suo recente messaggio alle Camere il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. “In un Paese civile non è tollerabile che la polizia penitenziaria sia sotto organico di oltre cinquemila unità e che non abbia i mezzi per poter operare, tanto da mettere in discussione la partecipazione alle udienze”, ha rincarato la dose il segretario nazionale dell’Idv, Ignazio Messina, che ha ricordato come “la proporzione di due agenti penitenziari ogni trenta detenuti è oggi smentita dalla presenza di un solo agente per sessanta detenuti”. Sul capitolo che riguarda la spesso citata mancanza di fondi, Messina ha affermato: “Depositati presso il Fondo unico giustizia (Fug), a disposizione del ministero dell’Interno e di quello di Grazia e Giustizia, ci sono 800 milioni di titoli di Stato confiscati alla mafia che possono essere immediatamente venduti. Il ricavato può servire da una parte per nuove assunzioni di personale e dall’altra per la costruzione di nuove strutture”. Per Messina, la soluzione è “la depenalizzazione di quei reati che non hanno grande impatto sociale, come il piccolo spaccio”, più “la modifica della legge Bossi-Fini” e “l’estensione dei benefici della buona condotta”. Era presente all’incontro anche il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria S.PP., Aldo Di Giacomo (da tredici giorni in sciopero della fame), il quale ha detto che “il sovraffollamento non è nient’altro che la parte terminale di una giustizia malata viste le 178mila prescrizioni e i 9 milioni e mezzo di processi penali l’anno”. Per Di Giacomo servono “riforme strutturali” che aiuterebbero il lavoro degli agenti penitenziari, alla luce del fatto che “dal 2000 ad oggi si sono suicidati 110 poliziotti, 7 solo dall’inizio del 2013”. In più “i contratti sono bloccati e prendiamo 30 euro in meno rispetto a tre anni fa”. Sul fronte delle “nuove carceri”, infine, il vicecapo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), Luigi Pagano, ha affermato che dopo l’apertura di nuovi istituti a Sassari, Oristano e Tempio Pausania, a breve saranno disponibili anche un nuovo padiglione da 200 posti a Voghera, più altri due a Pavia (300) e Cremona (200), in modo da riportare San Vittore ad ospitare “solo” mille detenuti. Pagano ha poi rivelato che, sempre nei prossimi mesi, verranno inaugurate nuove strutture anche a Cagliari e Piacenza, mentre le gare in corso porteranno alla creazione di un totale di 4.500 posti in più per fare fronte all’emergenza. Giustizia: il Papa, il carcere e i “pesci grossi” di Marco Politi Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2013 “Facile punire i deboli, mentre i pesci grossi se la cavano”. Se ne esce così, con candore, papa Francesco e non sa (o forse sa benissimo) che in Italia c’è un pesce grosso, grossissimo che - in barba alle condanne e a una legge che ne esige “l’immediata” decadenza dal Parlamento - continua a galleggiare alla grande e fa pure la voce grossa, nonostante che ci siano suoi reati e comportamenti colpevoli accertati senza ombra di dubbio e persino da sentenza di terzo grado. Papa Francesco, che è umano, ma non caduto dal pero, come si dice in campagna, parlava ieri ai cappellani delle carceri e mentre li incoraggiava a tenere duro su un fronte così difficile - dove si tratta di portare quotidianamente il segno della “vicinanza di Cristo a fratelli che hanno bisogno di speranza” -ha dato voce a una riflessione generale, che i poveracci conoscono da tempo: “È facile punire i deboli, ma i pesci grossi nuotano liberamente nelle acque”. In Italia, dove dai tempi descritti dal Manzoni nei Promessi Sposi (che Bergoglio conosce benissimo) i prepotenti e i bravacci hanno sempre mille spanne di possibilità in più per aggirare la legge, il re dei pesci ha un nome: Silvio Berlusconi. Ed è talmente privilegiato che il presidente della Repubblica gli ha dedicato una nota l’agosto scorso per sancire che è legittimo manifestare “riserve” davanti a una sentenza della Cassazione (?) ed è “comprensibile” manifestare “turbamento e preoccupazione” (??) per la condanna a pena detentiva di un ex capo del governo. Si traduca in una qualunque lingua occidentale il testo della nota e la si troverà incomprensibile e inedito a Berlino, Londra, Parigi, Washington, Ottawa e via di questo passo. Paesi dove il leader politico, anche votatissimo, sparisce dalla circolazione appena infrange la legge. Se poi si aggiungono le tortuose manovre per un’amnistia e un indulto a favor di Cavaliere, quando si potrebbero svuotare le carceri con provvedimenti limitati ad alcune fattispecie e per il resto con un largo ricorso ai domiciliari, che non cancellano il reato e non concedono sconti futuri ai mascalzoni, si capisce bene l’abissale distanza tra le fresche parole di Bergoglio e le tortuose dichiarazioni di tanti leaderini nostrani. Quanto distanti dal sentire comune siano gli inghippi per amnistiare B. e una bella fetta di delinquenti, magari in colletto bianco, lo si rileva dall’ultimo sondaggio sulla rivista Famiglia cristiana. La legalità è tra le massime priorità del mondo cattolico. Secondo i dati di Demopolis, il 75 per cento degli intervistati considera prioritario “legalità e senso morale della politica”. È la richiesta n. 2. In testa con l’83 per cento delle risposte si trova solamente la domanda di “garantire il futuro dei giovani”. Al terzo posto (70 per cento) sta la difesa della famiglia. A conoscere Bergoglio, che legge molto i giornali e sa bene ciò che accade in Italia, l’accenno ai pesci grossi (più d’uno naturalmente), l’accenno ai pesci profittatori non appare affatto sfuggito per caso. Rivolgendosi ai cappellani, papa Francesco ha raccontato che la domenica a volte chiama al telefono dei carcerati argentini di sua conoscenza. “Faccio una chiacchierata. Poi quando finisco penso: perché lui è lì e non io che ho tanti e più motivi per stare lì? Pensare a questo mi fa bene” . Spiega Francesco di provare la consapevolezza che le debolezze, che lo accomunano a tante persone, sono le stesse. Se chi sta in carcere, è “caduto” e Bergoglio no, ciò “per me è un mistero che mi fa pregare e mi fa avvicinare ai carcerati”. Il papa ha esortato i cappellani a continuare a impegnarsi per una “giustizia di riconciliazione, giustizia di speranza, di porte aperte... Non è un’utopia, si può fare”. Ma soprattutto li ha invitati a rendere presente ai carcerati che Dio non sta fuori dalla loro cella. “Il Signore è dentro con loro... anche lui è un carcerato... carcerato dei nostri egoismi, dei nostri sistemi, di tante ingiustizie”. Anche nella Chiesa, peraltro, ci sono pesci grossi abituati a fare e disfare. In questi giorni Francesco si è occupato del caso del vescovo di Limburg Tebartz van Elst, accusato di avere sperperato 31 milioni per la sua nuova residenza. In passato non gli sarebbe successo praticamente nulla. Ora l’opinione pubblica è molto più forte. La Conferenza episcopale tedesca ha istituito una commissione d’inchiesta. Il papa ha ascoltato il presidente dei vescovi tedeschi, mons. Zollitsch, poi ha ricevuto l’accusato. Un primo segnale di punizione è arrivato ieri: mons. Tebartz van Elst per due mesi sarà esiliato dalla diocesi, privato dei poteri di governo. Quando sarà pubblicato il rapporto della commissione d’inchiesta, Francesco prenderà la decisione finale. Quello che vuole il papa argentino è chiaro: una “Chiesa povera e per i poveri”, in cui a nessun costo si sprechino soldi utili all’assistenza. Ma non è un mistero che una parte delle gerarchie freni rispetto a misure drastiche contro chi sbaglia e sia pronta a fare sorda resistenza. Giustizia: la parola del Papa, i detenuti, le nostre vite di Riccardo Maccioni Avvenire, 24 ottobre 2013 L’omo, ogni uomo, è come diviso in due. Sa dove abita il bene e spesso sceglie il male, parla di libertà e poi finisce per costruirsi prigioni di rabbia e solitudine. Il credente non fa eccezione. Dieci, cento, mille volte si è sentito ripetere che Dio ama gli ultimi, i più poveri tra i poveri, i rifiutati da tutti. Eppure deve sforzarsi ogni volta per andare oltre la sofferenza, per vedere in fondo a uno sguardo spento il volto di un amico, il sorriso di un fratello, l’immagine di Gesù stesso. Invece il Signore abita proprio lì, è nelle piaghe del malato incurabile, nella rabbia sconfitta del detenuto, nella solitudine dell’anziano dimenticato in un ospizio. Lo ha ricordato con delicata chiarezza il Papa ieri. Parlando ai cappellani delle carceri italiane, Francesco ha sottolineato che nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, che Dio non rimane fuori dalle prigioni, che il suo amore paterno e materno arriva dappertutto. Anche nella cella sovraffollata, persino nell’istituto di massima sicurezza, tra i pluriomicidi in regime di 41 bis. Tina presenza, la sua, che non esclude il nostro impegno ma al contrario lo fa più urgente, ci richiama al dovere di rendere il sistema carcerario tollerabile, l’apparato detentivo, umano. Perché dietro le sbarre non ci sono persone di serie B ma animate dalla speranza che è quella della “gente per bene”, la medesima voglia di felicità, lo stesso spirito di libertà. In fondo, ha ricordato ancora Bergoglio, al posto loro potevamo esserci noi, perché le debolezze sono di tutti, e se noi non siamo caduti, è perché abbiamo avuto maestri saggi, famiglie capaci di farci crescere, madri che hanno pregato per noi, amici con cui confidarci. Relazioni buone, insomma. Non basta allora chiedere, com’è doveroso, la punizione del colpevole, il suo pentimento. Occorre accompagnarlo nel cammino di liberazione, offrirgli opportunità di riscatto, braccia da afferrare, spalle su cui piangere. Giustizia di riconciliazione, l’hanno chiamata i cappellani nel loro convegno, e l’immagine richiama speranza, porte aperte, orizzonti spalancati sul domani. Da questi sacerdoti «segno della vicinanza di Cristo» ai detenuti, come li ha definiti il Papa, viene l’esempio e insieme un monito. Un invito alla vicinanza, alla comprensione, alla preghiera. La sollecitazione a visitare quei luoghi di sofferenza che sono le prigioni, per imparare la difficile arte del perdono, l’amore verso chi sembra non meritarlo, la forza di donarsi a chi non sente neppure il dovere di dire grazie. Gli stessi difetti, le medesime miserie, che percorrono la vita di chi sta fuori, spesso ostaggio di una sterile autosufficienza, incapace di lasciarsi amare, poco o nulla disponibile a ringraziare. In fondo guardare con benevolenza a chi sta in cella, piangere, lavorare con loro, è anche un modo per uscire dalle nostre personali prigioni, segare le sbarre che ci siamo costruiti giorno per giorno. Un carcere interiore che si chiama egoismo, bramosia di potere, insofferenza verso chi è più povero e debole. Però la chiave per uscirne c’è, si trova lungo il sentiero ripido e stretto dell’umiltà, nella forza dell’ascolto, nella disponibilità a mettersi in fondo alla fila. Perché chi cammina in coda ha più tempo per alzare gli occhi al cielo, per sperimentare l’amore di Dio e la sua misericordia. Forza che libera, finestra che regala aria nuova, luce che resta accesa anche nella notte più nera, vissuta nel buio di una cella. Giustizia: Napolitano; contraffatte le mie parole sulle carceri Agi, 24 ottobre 2013 Del messaggio alle Camere sulla condizione carceraria “è stata da più parti alimentata una rappresentazione contraffatta, grossolanamente strumentale”. Lo ha affermato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricordando che nel messaggio “si indicavano dati di fatto, cifre non occultabili e scadenze non eludibili e nello stesso tempo si suggeriva una gamma di possibili rimedi e interventi”. Il presidente ha ringraziato “quanti in Parlamento e nel pubblico dibattito hanno mostrato di intendere il messaggio nella sua reale ispirazione e portata, intervenendo con argomenti di particolare qualità. Il Parlamento farà in assoluta libertà le sue scelte e se ne assumerà la responsabilità”. Giustizia: Gonnella (Antigone); il Papa ha ragione, le nostre celle sono classiste Ansa, 24 ottobre 2013 Due detenuti su tre vengono da sottoproletariato urbano. “Papa Francesco ha ragione. Il nostro è un carcere classista”. Lo afferma Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri, secondo il quale “per rendere la giustizia meno selettiva, bisogna rivedere le leggi su droghe, immigrazione e recidiva”. “Il nostro è un sistema penale classista - aggiunge - Non è un carcere per ricchi. In carcere troviamo i più poveri, i diseredati, gli immigrati, chi ha problemi psichiatrici, i tossicodipendenti. Due detenuti su tre fanno parte del sottoproletariato urbano. C’è chi sta dentro perché vende cd contraffatti e chi perché ha istigato alla immigrazione clandestina”. “Il grande crimine dei colletti bianchi - rileva Gonnella - è fuori dal nostro sistema carcerario e la tortura non è reato in Italia mentre nel nuovo codice penale del vaticano sì. Per questo vanno cambiate subito le leggi manifesto del carcere selettivo: ovvero le leggi su droga, immigrazione e recidiva”. “Nelle galere italiane abbiamo tassi di alfabetizzazione e malattie (Tbc e scabbia) che ci riportano all’Italia del secondo dopoguerra - dice ancora Gonnella - I numeri della carcerazione in Italia al 30 settembre del 2013 ci dimostrano quanto detto dal Papa. 22 anni fa i detenuti erano 31.053. 12 anni fa erano 55.393. Oggi sono 64.798. Il 35,19% è composto da stranieri. Il 39,44% ha una imputazione o condanna per violazione della legge sulle droghe. Il 53,41% è dentro per reati contro il patrimonio. Solo il 10,2% ha una condanna o una imputazione di mafia e dintorni. 24.364 detenuti ovvero il 60,45% delle persone condannate deve scontare una pena residua inferiore ai 3 anni”. Secondo gli ultimi dati di Antigone sono 647 i detenuti in possesso di una laurea, 22.117 quelli con la licenza di scuola media inferiore; 789 gli analfabeti. Giustizia: Cascini (Dap); affollamento non unico problema, va cambiata vita detenuti Ansa, 24 ottobre 2013 “E’ vero che il carcere soffre di una grave situazione di sovraffollamento, ma non è l’unico problema, anzi non è il problema principale”: lo ha detto il vice direttore e direttore dell’Ufficio ispettivo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), Francesco Cascini, intervenendo al congresso di Federserd in corso a Roma. “Qualche anno fa - ha spiegato - i detenuti erano 45mila ma le condizioni di vita all’interno dei penitenziari erano identiche”. Cascini ha parlato di detenuti che per 24 ore rimangono a letto sotto l’effetto degli psicofarmaci. “Una quotidianità - ha precisato - che impedisce la vita sociale e annulla il tempo nel carcere”. Occorre dunque, secondo Cascini, “modificare le condizioni di vita nel carcere”, e prevedere “percorsi differenziati per le persone”. Per quanto riguarda in particolare i detenuti tossicodipendenti, poi, le condizioni sono “ancora più devastanti”. Il vice direttore del Dap ha focalizzato la difficoltà dei giudici di sorveglianza a concedere misure alternative al carcere quando non hanno un riferimento residenziale delle persone: questi affidamenti non residenziali invece, ha detto, andrebbero implementati magari utilizzando altri sistemi di controllo, come ad esempio quello elettronico a distanza”. Giustizia: Mauro Palma; numero persone in carcere per droga è il più alto in Europa Ansa, 24 ottobre 2013 Ci sono delle ambiguità nella legislazione italiana in materia di droga: è quanto ha detto Mauro Palma, presidente della Commissione del Ministero della Giustizia per l’elaborazione degli interventi in materia penitenziaria, intervenendo al congresso di Federserd, in corso a Roma. Palma ha parlato di “confine molto labile tra l’uso personale e lo spaccio”, “nella definizione di uso di gruppo e nel confine tra coltivazione a scopo commerciale e coltivazione per uso personale”. “Tre elementi di frontiera - ha sottolineato - su cui la legislazione italiana è sempre stata ambigua”. Palma si è anche detto “perplesso per il fatto che una figura definita come "reato di lieve entità" sia inserita in un contesto penalizzante, esponendola al rischio della detenzione”. C’è dunque, ha spiegato, una “difficoltà italiana a depurare le norme dal loro valore simbolico. Da qui la tendenza a legiferare sull’emergenza, mentre le norme dovrebbero essere ricondotte alla ordinarietà”. Palma ha anche reso noto che l’Italia, nel quadro europeo, “non ha il numero più alto di detenuti”, visto che nel nostro Paese c’è un detenuto ogni mille abitanti mentre in Spagna si passa a 1,4 e in Gran Bretagna a 1,6. Ma il numero di coloro che sono in carcere per reati di droga è il più alto d’Europa: alla fine del 2011 erano 14.868, più o meno lo stesso di oggi. Mentre ad esempio in Germania i detenuti per reati di droga sono 8.840 su 70 mila detenuti. E un altro dato su cui riflettere, ha aggiunto, è che in Germania i detenuti per reati economico-finanziari sono 8.600 mentre da noi appena 156. Giustizia: Nava (Federserd); con misure alternative per tossicodipendenti si risparmia di Angela Abbrescia Ansa, 24 ottobre 2013 Portare i tossicodipendenti fuori dal carcere, cioè in comunità o nei Servizi per le dipendenze, per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario e, in più, risparmiare oltre la metà della spesa attuale. La proposta di Felice Nava, responsabile della sanità penitenziaria di Padova e dirigente di Federserd, si inserisce a buon diritto nel dibattito sulla situazione negli istituti di pena in Italia e sembra una risposta alle sollecitazioni giunte dal capo dello Stato Giorgio Napolitano e dal Papa. Ma nel quinto congresso della federazione degli operatori delle dipendenze, in corso a Roma, oggi in molti hanno parlato della necessità di ricorrere di più alle misure alternative al carcere. Le argomentazioni di Nava sono scientifiche: ha citato uno studio recente del Nida, l’ente statunitense che si occupa di dipendenze, che ha dimostrato come ogni dollaro speso nelle strutture riabilitative esterne al carcere sia capace di diminuire di 14 volte la spesa legata ai reati connessi con i problemi di alcol o tossicodipendenza. Rapportato al caso italiano, ha spiegato Nava, se ogni detenuto in carcere costa circa 200 euro al giorno (stime Dap), la cifra si dimezza (80-100 euro) se a ospitarlo è una comunità. “L’Italia è uno tra i paesi al mondo che ha la percentuale più alta di consumatori di sostanze in carcere - ha detto Nava - attualmente circa il 30% dei 66 mila detenuti sono consumatori di sostanze stupefacenti, percentuale che raggiunge il 50% tra i 27 mila detenuti in attesa di giudizio”. Portando queste persone fuori dai penitenziari, quindi, si risolverebbe il problema del sovraffollamento (attualmente la capienza carceraria è di circa 45 mila posti) e si risparmierebbe. “Ma per potenziare le misure alternative - ha concluso Nava - va rivisto a fondo l’impianto normativo e bisogna dare maggiori risorse ai Servizi e al territorio”. Il sovraffollamento non sembra però essere l’unico problema del carcere. Secondo il vicedirettore del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), Francesco Cascini, “è vero che il carcere soffre di una grave situazione di sovraffollamento, ma questo non è il problema principale”. “Qualche anno fa - ha spiegato - i detenuti erano 45 mila ma le condizioni di vita all’interno dei penitenziari erano identiche”. Cascini ha parlato di detenuti che per 24 ore rimangono a letto sotto l’effetto degli psicofarmaci. “Una quotidianità - ha sottolineato - che impedisce la vita sociale e annulla il tempo nel carcere”. Occorre dunque, secondo Cascini, “modificare le condizioni di vita nel carcere” e prevedere “percorsi differenziati per le persone”, e questo deve valere in particolare per i detenuti tossicodipendenti, le cui condizioni sono “ancora più devastanti”. Il vice direttore del Dap ha anche focalizzato la difficoltà dei giudici di sorveglianza a concedere misure alternative al carcere quando non hanno un riferimento residenziale delle persone: questi affidamenti non residenziali invece, ha detto, andrebbero implementati magari utilizzando altri sistemi di controllo, come ad esempio quello elettronico a distanza”. C’è anche chi ha portato la voce delle comunità: Francesco Bellosi, del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), ha raccontato le difficoltà, “anche ideologiche”, da parte delle comunità ad accogliere i detenuti tossicodipendenti agli arresti domiciliari, “che possono costituire un problema per la responsabilità che ricade sugli operatori riguardo alla sicurezza”. “Sono resistenze che vanno superate” ha detto. Ma occorre anche attrezzare queste strutture, perché sono poche quelle in grado di dare una risposta a queste situazioni. Sicilia: sovraffollamento delle carceri; mancano risorse, detenuti e agenti si suicidano di Maurizio Zoppi www.lettera43.it, 24 ottobre 2013 Dentro al carcere stanno uno sopra l’altro. Sono trattati peggio degli animali. Questo, il grido di disperazione di una delle tante mogli dei carcerati dell’Ucciardone di Palermo. Chi sta dietro le sbarre, passa nel “canile” prima di aver assegnata la cella. Ovvero una gabbietta, larga un metro e alta due, dove sta chiuso in piedi per ore, qualcuno anche per giorni. La donna che aspetta notizie dalla polizia penitenziaria dell’Ucciardone ha da poco partorito e ha bisogno della firma del marito sui certificati in merito alla piccola neonata. Le parole della madre sono la fotografia di quella che è da anni la situazione carceraria in Sicilia. E, per chi dirige ogni giorno le case circondariali, misure come l’indulto, che il Senato ha iniziato a discutere, non possono essere considerate risolutive. Secondo l’ultima relazione del Garante dei diritti dei detenuti nell’Isola, aggiornata al dicembre 2012, i detenuti nelle 28 carceri siciliane sono 7.098, rispetto ai 5.555 posti regolamentari disponibili. La situazione, a oggi, è rimasta quasi invariata. Ci sono situazioni irreali e drammatiche, come al Pagliarelli di Palermo. Lì i carcerati sono 1.304, rispetto a una capienza di 858, mentre all’Ucciardone ci sono 487 detenuti contro i 423 previsti. A Bicocca, Catania, i reclusi sono 257, ma la struttura potrebbe contenerne 141. Poi, c’è Agrigento: 417 invece di 262. Non c’è un penitenziario in Sicilia dove il numero dei carcerati sia rapportato ai posti a disposizione. Le galere di Mistretta, Modica e Nicosia sono destinate a chiudere e i circa 200 reclusi a essere trasferiti in altre strutture, aumentando così i disagi altrove. Quando si parla di sovraffollamento l’Isola sta dietro solo a Lombardia e Campania. Nelle prigioni del Paese il tasso di suicidi è di circa 20 volte superiore a quello registrato tra la popolazione libera: dal 2000 a oggi sono 2.170 i morti dietro le sbarre di cui oltre un terzo, 778, per suicidio. Una situazione che nei primi nove mesi del 2013 mantiene proporzioni drammatiche, considerato che al 21 giugno scorso erano già 26 gli episodi di persone che hanno deciso di togliersi la vita in cella. Tre soltanto in Sicilia. Sei nel 2012. La polizia penitenziaria non sta meglio: anche gli agenti si tolgono la vita. Ma a pagare le conseguenze di questa situazione è anche la polizia penitenziaria che da anni, attraverso i vari sindacati, denuncia la carenza di personale. Alcuni agenti si sono anche tolti la vita. Nel luglio 2012, un membro della polizia penitenziaria, in servizio nel carcere di Augusta, si è ucciso sparandosi con la pistola di ordinanza. Tre mesi prima (12 aprile 2012) un assistente capo, di 39 anni, in servizio al carcere di Caltagirone, si era ucciso mentre raggiungeva la struttura per iniziare il turno di lavoro: aveva accostato l’auto al ciglio della strada e si era impiccato a un albero. Storie di vita brutali. Sia per chi sta dietro le sbarre sia per chi deve gestire queste situazioni “inumane”. Situazioni aggravate anche dalla carenza dei farmaci all’interno delle case circondariali. La Sicilia è l’unica regione in Italia che ancora non ha recepito il decreto del presidente del Consiglio dei Ministri 1 aprile 2008 (Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria). Solo nell’Isola i farmaci vengono gestiti dalla struttura penitenziaria. Quindi se il carcere non ha fondi economici, niente medicine. Chi sta in cella si sente abbandonato dalle istituzioni. In Sicilia, a maggio scorso, in occasione delle ultime elezioni regionali, dei 7 mila carcerati aventi diritto hanno votato soltanto in 46 (lo 0,6%). “Non è un problema soltanto di numeri. Un indulto non risolverà questa grave situazione. Sicuramente con una riforma dei reati penali e considerare il carcere come ultima risposta punitiva, si potrebbe smantellare poco per volta questa triste condizione d’emergenza”, ha detto a Lettera43.it la direttrice dell’Ucciardone, Rita Barbera, spiegando come da tempo i penitenziari siano diventati ormai anche dimore per malati di mente. “All’interno delle carceri esistono situazioni di vita, non croci da addossare”, ha chiosato. “Si dovrebbe tenere conto dell’attualità della nostra società. La qualità della vita sta diventando veramente pessima. Tutta questa situazione andrebbe analizzata nel profondo”. Pisa: posti per 250 detenuti, ma nelle celle del carcere Don Bosco sono in 367 di Giovanni Parlato Il Tirreno, 24 ottobre 2013 In condizioni normali, all’interno del carcere Don Bosco dovrebbero starci 250 detenuti. Fino a ieri erano 367. “Alla fine dell’estate erano 390 e abbiamo dovuto aggiungere letti in diverse celle” dice il direttore Fabio Prestopino arrivato a Pisa il 15 marzo dell’anno scorso che ci guida fra le sezioni del carcere facendo vedere il lato bello e quello brutto, le cose che vanno e che non vanno. Il carcere Don Bosco non fa eccezione al sovraffollamento che assedia le patrie galere denunciato dal capo dello Stato Giorgio Napolitano. Al primo piano della sezione penale, ci sono dieci celle di cui una singola. In tutto dovrebbero starci 19 detenuti, ma sono 32 perché nelle celle invece di starci in due sono in tre e anche quattro. Le dieci celle sono aperte e i detenuti stanno in gran parte nel corridoio comune. All’inferriata del finestrone in fondo ci sono bastoni infilati nella grata con vestiti ad asciugare, due persone si sfidano a dama con la scacchiera disegnata su un cartone e come pedine tappi di bottiglia bianchi e blu, c’è chi fuma e chi esce dalla doccia. Nel corridoio c’è un carrello della spesa come quelli che si trovano alla Coop. “È il supermercato interno” spiega il direttore Prestopino. Un detenuto mostra un foglio dove c’è una lunga lista di prodotti che si possono comprare. “In questa sezione - spiega il direttore - le porte di ogni cella restano aperte dalle 8,30 alle 15,30 e dalle 16,30 alle 18,30. In questo modo c’è una socialità maggiore, sono in tutto 8 ore ed è quanto ci chiede la Corte di Giustizia Europea”. Visitiamo una cella: ci sono due letti a castello e un altro addossato alla parete, un tavolino e un piccolo televisore. In una specie di ripostiglio, sopra un piano ci sono due fornelli a gas per cucinare, mentre è già stato passato il rancio: spezzatino con zucchini, in attesa del primo che deve ancora arrivare. “Qui è il contrario - dice un detenuto - prima portano il secondo e dopo la pasta”. A un metro c’è un lavandino e, nascosto da una tendina, il water. Quindi, visitiamo il Polo Universitario cui sono iscritti in dodici. Ad un tavolo troviamo un detenuto albanese che sta studiando. È iscritto a Scienze Politiche e fino a ora ha sostenuto sei esami. “Il mio sogno è laurearmi e andare a lavorare in Albania” dice con un sorriso che nasconde la speranza. Scendiamo e arriviamo al Centro clinico dove due medici sono di turno 24 ore su 24 più gli infermieri. C’è anche una sala operatoria dove si svolgono mediamente venti interventi (non complessi) al mese. I chirurghi arrivano dagli ospedali di Cisanello o Pontedera. Al primo piano ci sono circa 50 posti letto, mentre sono 10 al centro clinico femminile. Si auspica che al Don Bosco ci sia un intervento da parte del Ministero di Grazie e Giustizia pari a quanto investito dall’Asl. Brescia: nuovo carcere alla Caserma “Papa”; un istituto con 400 posti, costo 10-12 milioni Corriere della Sera, 24 ottobre 2013 Il nuovo carcere di Brescia potrebbe sorgere tra via Oberdan e via Franchi, all’interno della caserma Papa. Messa da parte l’ipotesi Montichiari, in un primo momento individuata dai tecnici del Ministero come il bene demaniale “più adatto” per realizzarvi un nuovo istituto di pena, ora si ragiona sulla struttura cittadina. In fondo non sono molte le ex caserme riconvertibili allo scopo. Ma che nel mirino sia finita la “Achille Papa” lo ha confermato il prefetto Angelo Sinesio, commissario straordinario del governo per le infrastrutture carcerarie. Ieri Sinesio ha tenuto un’audizione in commissione Giustizia della Camera durante la quale ha illustrato i capisaldi del Piano carceri: rispetto alle scelte varate nel 2010 le risorse sono state tagliate (a fronte dei 675 milioni oggi il budget è ridotto a 468), ma il numero dei posti da realizzare è aumentato. Questo perché si è deciso di ridurre il numero di nuove costruzioni e di puntare su ampliamenti e recupero di beni demaniali. Il 18 luglio 2013, inoltre, il piano è stato modificato prevedendo che 1000 posti vadano recuperati in ex caserme ancora da individuare. Sollecitato dalle domande del deputato del Pd Alfredo Bazoli, Sinesio ha parlato anche di Brescia. Che potrebbe far parte proprio del pacchetto caserme, rientrando così nel piano carceri. Il commissario ha spiegato che domani tecnici del Ministero saranno in città per effettuare un sopralluogo all’interno della caserma Papa. Bazoli ha poi incalzato Sinesio, ottenendo risposte rassicuranti: l’ipotesi su cui si sta ragionando è realizzare all’interno della struttura un istituto da 400 posti. A disposizione vi sono 44 milioni per il recupero di beni demaniali lombardi; secondo i primi esperimenti, il recupero di una caserma a funzioni penitenziarie dovrebbe costare 10-12 milioni. Ragion per cui le risorse per la Lombardia dovrebbero essere più che sufficienti per Brescia. Quanto ai tempi, una volta partiti potrebbero bastare venti mesi. “Se la caserma Papa si rivelerà idonea, come mi auguro, per Brescia si potrà configurare la soluzione a un problema su cui si discute da anni - ha commentato in serata Bazoli - Il tutto in tempi ragionevoli. I fondi ci sono, ora speriamo che il sopralluogo dia esito positivo. Sarebbe davvero un’ottima notizia”. Due giorni fa, a Brescia, il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri aveva assicurato che avrebbe trovato una soluzione al problema Canton Mombello nell’arco di un paio di settimane. Prima del suo sbarco in città tutti gli indizi portavano alla caserma Serini di Montichiari. “Era un’ipotesi interessante, ma alcuni approfondimenti ci hanno portato a dover abbandonare questa strada” aveva spiegato la guardasigilli. Ora si punta alla Papa, sperando che le verifiche tecniche vadano bene e che nell’arco di 15 giorni Cancellieri possa ufficializzare la scelta. Il sindaco Emilio Del Bono, come sempre, resta prudente: “Il ministro ha usato parole molto impegnative. Qualunque soluzione ci verrà proposta, noi la accoglieremo positivamente. Siamo a disposizione del governo per valorizzare Canton Mombello, se lo Stato deciderà di venderlo, e agevolare ogni altra scelta”. Milano: il Giudice Cernuto; non spetta a me liberare per sovraffollamento carceri Tm News, 24 ottobre 2013 “Le condizioni di detenzione possono e devono essere affrontate con una opportuna interlocuzione con amministrazione penitenziaria che sfuggono alla competenza di questo giudice non essendo contemplata dall’ordinanza una norma che consenta al giudice di merito di formulare ordini (per esempio trasferire di cella ) all’amministrazione penitenziaria a cui spetta l’onere di determinare condizioni di detenzione cautelare rispettosi dei principi fissati dalla Costituzione e dall’articolo 3 della corte europea”. È la motivazione con cui il giudice milanese Giuseppe Cernuto ha rigettato l’istanza presentata dall’avvocato Mauro Straini che chiedeva la remissione in libertà per l’egiziano 28 enne Hassan H. (arrestato per spaccio di droga) a causa del sovraffollamento, “in 6 nella stessa cella senza possibilità di muoversi”. Il legale sosteneva che Hassan H. era ed è detenuto in un carcere che viola le norme di legalità e i principi costituzionali. Nel motivare il rigetto il giudice poi fa presente che a carico dell’egiziano, nel frattempo condannato a 1 anno e mezzo di reclusione nel processo con rito direttissimo, ci sono gravi indizi, oltre al rischio di commettere reati della stessa specie gravitando in ambienti dediti al traffico di sostanze stupefacenti. Roma: Moretti (Ugl); a Regina Coeli poco personale per troppi detenuti Adnkronos, 24 ottobre 2013 “Invieremo un’approfondita relazione al ministro Cancellieri sulla paradossale situazione del carcere romano in cui, a fronte di un organico previsto di oltre 620 poliziotti penitenziari, operano solo 480 agenti, costretti a prestare la propria attività lavorativa con un numero elevatissimo di detenuti (1.050), su una capienza considerata tollerabile di meno di 800, e con ben due padiglioni chiusi per ristrutturazione”. Lo dichiara in una nota il segretario nazionale dell’Ugl Polizia penitenziaria, Giuseppe Moretti, che oggi, con una delegazione composta dal segretario nazionale aggiunto, Francesco Laura, e dal responsabile del Coordinamento nazionale Ntp, Umberto Di Stefano, ha visitato Regina Coeli per “verificare le condizioni dei luoghi di lavoro, con particolare riferimento allo stato di salubrità e al carico di lavoro che ricade sul personale”. “In questo delicato momento, in cui tutta l’attenzione politica e mediatica è rivolta quasi esclusivamente alla popolazione detenuta e a deflazionare le carceri dal sovraffollamento, - spiega il sindacalista - abbiamo ritenuto giusto e opportuno manifestare la nostra vicinanza ai rappresentanti della legalità che lavorano all’interno del penitenziario romano, svolgendo un’attività ai limiti dell’immaginabile ed in condizioni di stress psicofisico che poche altre categorie di lavoratori riescono ad eguagliare”. “Al di là di ogni considerazione sull’opportunità di misure che hanno come solo obiettivo quello di alleggerire numericamente (e temporaneamente, come purtroppo l’esperienza insegna) le presenze dei detenuti in carcere, - conclude Moretti - appare necessario intraprendere altrettante misure rivolte ad alleggerire il mostruoso carico di lavoro ed il livello di tensione degli operatori penitenziari, in generale, e del personale di Polizia Penitenziaria, in particolare”. Arezzo: la Provincia stanzia 15mila euro per percorsi formativi in carcere La Nazione, 24 ottobre 2013 Riguardano progetti orientativi e formativi rivolti ai detenuti della Casa Circondariale di Arezzo, per consentirne l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro e per contrastare la discriminazione. Il bando scade il 12 dicembre. Il Servizio Istruzione e Formazione professionale ha stanziato 15.000 euro per progetti orientativi e formativi rivolti ai detenuti della Casa Circondariale di Arezzo, per consentirne l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro e per contrastare la discriminazione dei soggetti svantaggiati. I progetti possono essere presentati e attuati da un singolo soggetto oppure da un’associazione temporanea d’imprese o di scopo (ATI/ATS), costituita o da costituire a finanziamento approvato, in quest’ultimo caso i soggetti attuatori devono dichiarare l’intenzione di costituire l’associazione e indicare il capofila sin dal momento della presentazione del progetto. Questi (che sia un singolo o un’associazione) ne possono presentare soltanto uno. L’obiettivo è quello di migliorare il reinserimento lavorativo di soggetti svantaggiati e combattere ogni tipo di discriminazione nel mercato del lavoro, attraverso attività di formazione professionale. I destinatari sono i detenuti della Casa Circondariale di Arezzo e i progetti, in termini di obiettivi e contenuti, dovranno essere inerenti al settore della ristorazione per una durata minima di 125 ore e un contributo orario massimo di 120 euro. Non sono ammissibili i costi indiretti di struttura ed è vietato proporre finanziamenti per corsi FAD e prodotti didattici già realizzati nell’ambito del progetto TRIO. Le domande devono pervenire al Servizio Istruzione e Formazione professionale entro le ore 13 del 12 dicembre 2013. Il bando può essere scaricato al link impiego.provincia.arezzo.it/formazione; per ulteriori informazioni: Numero Verde 800 440 440 e orientamento.online@provincia.arezzo.it. Ancona: tutti a “Scuola di Libertà”, così le scuole imparano a conoscere il carcere di Stefano Pagliarini www.anconatoday.it, 24 ottobre 2013 Che cosa ci può raccontare sulla libertà chi ne è stato privato perché ha commesso un reato? E che cosa ci possono insegnare quei volontari che entrano nelle carceri per contribuire a renderle più “civili”? Troppe volte si sente commentare il carcere con la frase: “Beati loro che stanno meglio di noi”. Oppure, in riferimento ad extracomunitari: “Rimandiamoli nelle loro patrie galere che sono più serie delle nostre”. Luoghi comuni che dimostrano piuttosto quanto sia necessario ripartire da una cultura della libertà, conoscendo davvero il carcere e le storie di chi ci è finito. Ecco perché ieri, al centro Giovanni Paolo II della Caritas Ancona-Osimo, è stato presentato il nuovo progetto “A scuola di libertà”. Da una parte il carcere, dove ci sono coloro che la libertà l’hanno persa. Dall’altra la scuola, dove c’è chi troppo spesso la libertà la dà per scontata. Il progetto nazionale, che partirà il 15 novembre in tante città italiane, è stato lanciato della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia e promosso ad Ancona dalla Caritas Diocesana, Ufficio Scuola, Ufficio Pastorale giovanile e Associazione Santissima Annunziata. Tante le iniziative. In primis da oggi sarà possibile visitare il prototipo di una cella, per toccare con mano che cosa significhi vedere ristretta la propria libertà. Una modello rivolto agli studenti delle scuole di secondo grado. Nell’anconetano sono già in 7 gli istituti scolastici che hanno aderito. In più prende il via un progetto dal titolo “A scuola di libertà”, per cui gli studenti si potranno organizzare (gruppi o classi) per presentare un elaborato multimediale, una produzione artistica o un testo narrativo sul tema della prevenzione e del contrasto verso ogni forma di illegalità. Lavori che saranno consegnati il 30 novembre e che saranno poi esaminati da un’apposita commissione che premierà i 5 migliori lavori. Ma perché i ragazzi dovrebbero formarsi sul tema delle libertà e conoscere meglio la vita nelle case circondariali? “I ragazzi non si rendono conto che la libertà è un bene così prezioso - ha detto Anna Pia Saccomandi, segretario generale della conferenza nazionale volontariato e giustizia. E loro mentre crescono, hanno dei comportamenti che potrebbero incidentalmente portarli in carcere senza che se ne rendano conto. E allora lavoriamo di più sulla prevenzione perché le persone che escono dal carcere restano segnate per sempre nelle relazioni umane e nella fiducia in se stessi”. Lo sa bene Anna Pia che, insieme a tanti altri volontari, operano quotidianamente per assistere e supportare l’opera di rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti nelle carceri. Ecco dunque che sono previsti anche una serie di incontri in cui sarà il carcere ad andare nelle scuole. Ex detenuti o detenuti in permesso saranno accompagnati nelle varie scuole per portare la loro testimonianza da detenuto, anche al fine di smontare quei luoghi comuni e quelle semplificazioni con cui troppo spesso si descrivono le carceri e la popolazione detenuta. Gli stessi luoghi comuni che ci portano a sentire il bisogno di fare cultura su un mondo che, troppo spesso, resta nell’ombra. Un chiaro scuro che non fa che alimentare certi falsi miti, a cui Anna Pia Saccomandi, che è anche volontaria Caritas dello sportello giustizia, risponde così: “Noi siamo stati condannati dalla Corte Europea. I diritti della persona sono inviolabili al di là dei ragionamenti delle persone. Prima di aver sperimentato è meglio tacere. Bisogna prima conoscere per parlare. Questo significa saggezza e maturità da parte degli adulti che devono lasciare alle nuove generazioni una testimonianza di verità che questa generazione di adulti non lascia ai giovani di oggi”. Bologna: Istituto Penale per Minorenni… una pena senza fine di Maurizio Serra (Fp-Cgil) Ristretti Orizzonti, 24 ottobre 2013 È da mesi che la Funzione Pubblica Cgil di Bologna segnala alle autorità competenti le continue criticità che vive l’Istituto Penale per Minorenni di Bologna sia dal punto di vista organizzativo che gestionale. Visitando l’Istituto, la prima cosa che emerge è che la struttura non è stata ancora completata e la sicurezza sui luoghi di lavoro non è, pertanto, assolutamente garantita. Per accedere al reparto detentivo esiste una sola scala che, qualora non fosse accessibile come via di fuga, trasformerebbe quel luogo di detenzione, per alcuni, e di lavoro, per altri, in un’autentica trappola in caso di un evento sismico o di un incendio. Nonostante i lavori di ristrutturazione, oramai presenti da diversi anni, l’impressione che si ha entrando nell’istituto è di accedere in un luogo obsoleto e precario. Non meno disastrosa è la situazione dell’organico di Polizia Penitenziaria che è gravemente carente. I dati forniti dal Dipartimento della Giustizia Minorile parlano di 41 unità, così come previsti dalla pianta organica stabilita sulla base del Decreto Ministeriale del 2001. È importante precisare, però, che di queste 41 unità 18 sono distaccati, quindi non presenti nella sede di Bologna. Questi distacchi hanno determinato inoltre l’assenza di unità appartenenti al ruolo dei sovrintendenti e degli ispettori. La professionalità del personale dell’Ipm è messa a dura prova da diversi episodi problematici con i minori ristretti - puntualmente denunciati - all’autorità giudiziaria, che fino ad oggi sono stati gestiti con professionalità e per questo motivo non hanno avuto conseguenze di rilievo. Negli ultimi giorni infatti, all’interno dell’Istituto si sono verificati una serie di eventi critici, come ad esempio un principio di incendio e altre situazioni che hanno portato alcuni agenti a ricorrere alle cure mediche del caso. La Cgil ritiene che questa situazione derivi da una gestione approssimativa da parte dei vertici del Dipartimento, nonché dalla difficoltà della direzione stessa dell’istituto a risolvere nell’immediato le problematiche sopra citate. Tutto ciò fa percepire al personale il totale abbandono dell’istituto da parte dei vertici istituzionali. Di fronte a tutto questo dobbiamo misurare il silenzio del Dipartimento di Giustizia Minorile con il quale da mesi le Organizzazioni Sindacali chiedono di aprire un confronto per cercare soluzioni alle innumerevoli criticità dell’Istituto. Fino ad ora il personale si è limitato allo stato di agitazione ma al perdurare della situazione si dovranno valutare azioni più forti per dare peso alla vertenza. Milano: a Bollate detenuti-volontari, coltivano piante per progetti pro vittime sex-offenders Ansa, 24 ottobre 2013 I detenuti del carcere milanese di Bollate volontari per finanziare progetti di Telefono Rosa contro la violenza sulle donne: coltivano piante aromatiche, le trapiantano in vasi decorati e le vendono per finanziare attività dell’associazione. L’idea è coinvolgere gli autori di reati sessuali in progetti a favore delle proprie vittime, come forma di restituzione sociale dopo la violenza commessa. Per ora il progetto “Demetra”, coinvolge 16 detenuti volontari del penitenziario lombardo, uno dei più grandi, con 1.150 ospiti e 380 cosiddetti “sex offenders”, autori di stupri e di violenze domestiche. “È nato da un’associazione fondata dagli stessi detenuti, una cinquantina, che svolgono lavori socialmente utili. Altri hanno dipinto una scuola assieme ai genitori degli alunni”, ha spiegato il direttore del carcere, Massimo Parisi, presentando l’iniziativa. “La persona che ha commesso un reato ha diritto a essere reinserita nella società con un bagaglio diverso. E nel caso del progetto di Bollate attraverso il loro reinserimento c’è un ritorno alle vittime”, ha detto la vicepresidente del Telefono Rosa Paola Lattes. La scelta del carcere milanese, come ha sottolineato il vice capo del Dap Luigi Pagano, che ne è stati direttore non è casuale. “C’è un progetto di recupero dei sex offenders che ha dato i suoi risultati. Coinvolgendoli nelle attività rieducative, si prova a portare fuori dal “ghetto” questo tipo di detenuti emarginati dal resto della popolazione carceraria”. “Siamo all’avanguardia dal punto di vista legislativo - ha detto Simonetta Matone, Capo Dipartimento Affari di Giustizia - perché abbiamo una delle leggi più precise e severe, che prevede tutte le possibili fattispecie di violenza. Dal punto di vista del colpevole, invece, siamo messi malissimo: la cura e la rieducazione del colpevole è un tabù, in particolar modo per chi ha compiuto reati della sfera sessuale. È arrivato il momento di cominciare a parlare seriamente del recupero dei sex offenders, anche perché non c’è nessun altro reato come quello della violenza sessuale e contro i minori che ha un così alto tasso di recidiva. Quindi ben vengano progetti come questo”. Cancellieri: volontariato è occasione riscatto “Coinvolgere chi ha sbagliato, anche commettendo reati ignobili come quelli sessuali, in attività che possano in qualche modo portare un beneficio alla parte lesa significa concedere al detenuto una reale opportunità di trasformare la propria pena in riscatto umano e sociale e alla vittima la possibilità di guardare la realtà con gli occhi di chi se non può perdonare almeno possa cercare di recuperare fiducia nel prossimo”. Lo sottolinea il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, che ha inviato un messaggio alla presentazione del progetto di volontariato dei detenuti Dematra del Telefono Rosa e del carcere di Bollate. Cancellieri evidenzia come “il lavoro e l’impegno dei detenuti in opere di beneficenza e di volontariato abbiano il duplice effetto positivo” del reinserimento sociale e di avvicinamento del società al mondo dei detenuti, con “la consapevolezza che tra loro ci sono persone con la voglia di cambiare e di cercarsi un’altra occasione”. “Che il frutto del lavoro dei detenuti sia in questo caso dedicato al Telefono Rosa - conclude il ministro - assume anche un valore altamente simbolico contro uno dei fenomeni più dolorosi e deprecabili che va tenacemente contrastato anche da un punto di vista culturale”. fino a quel momento previsti dal Codice Penale. Roma: da Rebibbia una valigetta “24 ore” in regalo per Papa Francesco di Davide Muscillo Ansa, 24 ottobre 2013 Borsa realizzata da detenute, “Ricucita come i nostri sogni”. Una “24 ore” nera fabbricata dietro le sbarre. Un modello unico al mondo, cucito e realizzato dalle detenute del carcere di Rebibbia esclusivamente per Papa Francesco. Una versione “limited edition” visto che loro per realizzare le loro borse riciclano i banner pubblicitari in Pvc della Fao, usati per le campagne di comunicazione e ora dismessi. Il dono è stato consegnato questa mattina al Pontefice durante l’udienza che ha concesso ai cappellani delle carceri italiane. La borsa, disegnata dalla stilista e designer Silvia Mazzacesi, è stata realizzata nel laboratorio sartoriale di pelletteria all’interno del penitenziario femminile di Rebibbia. A lavorarci, dagli inizi di ottobre, sei detenute: tre italiane, due nigeriane ed un’ucraina. Il piccolo laboratorio “La borsa delle immagini” è attivo da diversi anni nel carcere romano. A gestirlo è la cooperativa sociale “Ora d’aria” di cui sono socie fondatrici anche alcune detenute. L’obiettivo è da una parte quello del reinserimento sociale delle donne attraverso il lavoro, dall’altra la mission “green” del recupero dei materiali che sarebbero finiti ad alimentare il ciclo dei rifiuti. “Le borse vengono realizzate riutilizzando i banner in pvc donati da enti pubblici e privati, in particolare dalla Fao - spiega Marilena Miceli della cooperativa “Ora d’Aria”, e vengono anche vendute in diversi punti a Roma, come ad esempio in via di Torre Argentina. Per la borsa del Papa le detenute hanno iniziato a lavorare dagli inizi di ottobre. Per realizzarla, quindi, ci hanno impiegato circa 15-20 giorni. Erano emozionate e ci hanno messo grande impegno nel fabbricarla”. Ma all’interno della borsa c’era anche una sorpresa indirizzata a Papa Francesco: infilata in una cartella portadocumenti in pvc, sempre cucita a mano e realizzata da loro, una lettera firmata dalle detenute. “Questa borsa - scrivono da Rebibbia - prima di arrivare nelle sue mani è arrivata a noi in forma di pelle e ganci. Noi con il nostro impegno e la nostra dedizione abbiamo ricucito questa borsa così come cerchiamo di ricucire i nostri sogni e i nostri desideri”. Di risposta arrivano le parole di conforto di Jorge Mario Bergoglio che riecheggiano nel carcere romano: “Anche Dio è un carcerato - dice il primo papa sudamericano della storia pontificia - non rimane fuori dalla cella, è dentro con loro, anche lui è un carcerato, dei nostri egoismi, dei nostri sistemi, delle tante ingiustizie”. Comunicato Arci Ora d'Aria Ieri mattina, nel corso dell’Udienza Generale in Vaticano, è stata regalata dai Cappellani delle carceri italiane a Papa Francesco una borsa da lavoro realizzata espressamente per lui dalle detenute di Rebibbia femminile. La borsa, disegnata da Silvia Massacesi, giovane designer di recente vincitrice del Primo Premio del Comitato Leonardo – “Alfredo Canessa, Centro di Firenze per la Moda Italiana” – Moda e Sostenibilità e consegnatole dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è stata cucita, in un unico esemplare, dalle detenute partecipanti al progetto della Cooperativa Sociale “Ora D’Aria” di Roma. Tutte le fasi di realizzazione della borsa saranno raccolte in un reportage fotografico, visibile dalla prossima settimana sul sito internet della cooperativa www.oradarialab.com, dal fotografo Michele Cirillo. La Cooperativa “Ora D’Aria” è nata nel 2011 a seguito di un progetto realizzato, nel carcere romano di Rebibbia femminile, dall’omonima associazione e volto a creare un laboratorio artigianale di produzione di borse e accessori utilizzando materiale da riciclo. Della Cooperativa sono socie sia le detenute che lavorano nel laboratorio, sia le volontarie che, a diverso titolo, hanno dato vita o partecipato al progetto. Lo scopo sociale della Cooperativa è fare formazione e creare lavoro (attualmente due detenute sono regolarmente assunte ed altre sei collaborano con borse lavoro finanziate dalla Provincia di Roma) per le donne recluse e per il loro reinserimento una volta finito il periodo di detenzione. Nei suoi tre anni di vita la Cooperativa ha ricevuto gratuitamente i banner in PVC utilizzati come materia prima nelle sue lavorazioni da enti pubblici e privati, tra cui la FAO, per la quale ha anche realizzato diversi specifici prodotti. Oltre alle commesse ricevute dalla Fao e dal Carcere di Rebibbia, la cooperativa ha realizzato numerosi prodotti acquistabili in alcuni punti vendita selezionati, visibili sul sito della cooperativa, o nei mercati a cui la cooperativa riesce a partecipare, tra cui i principali sono quelli annuali promossi dal DAP e dall’ISSP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Istituto Superiore Studi Penitenziari). La Cooperativa di recente ha anche aderito al progetto “Sigillo”, finanziato dalla Cassa per le ammende, che costituisce un marchio per le produzioni realizzate nelle carceri femminili italiane. Napoli: arrestati due agenti, passavano telefonini ai detenuti, che davano ordini dal carcere Il Mattino, 24 ottobre 2013 Davano ordini dal carcere attraverso telefonini forniti da due Assistenti Capo della Polizia Penitenziaria corrotti. Clan Cesarano, sono 17 le ordinanze di misure cautelari emesse dalla Procura di Napoli nei confronti di presunti affiliati. I provvedimenti sono stati eseguiti dai carabinieri a Pompei, Castellammare, Scafati, Torre del Greco ed Acerra. Le indagini sono iniziate dopo l’omicidio di Carmine D’Antuono e Federico Donnarumma, avvenuto a Gragnano nel 2008. La Direzione distrettuale antimafia a seguito dell’inchiesta avviata ha verificato che il clan Cesarano, capeggiato da Federico Cesarano, evaso dall’aula bunker di Salerno nel 2008 e arrestato nel 2000, è ancora operante tra Castellammare e Pompei. La Dda ha tratteggiato il nuovo organigramma del sodalizio camorrista, come avviene la spartizione dei guadagni da traffici illeciti e quali sono le attività illegali gestite. Nel corso delle indagini ha ricostruito un tentativo di estorsione, per l’importo di 50mila euro, ai danni di un floricoltore di Pompei e scoperto armi usate dal clan. Gli inquirenti hanno inoltre dimostrato che anche dal carcere i boss comandavano attraverso pizzini trasmessi all’esterno: in una di queste uno dei camorristi ribadiva che bisognava spargere il terrore sul territorio, instaurare il clima di paura, omertà e assoggettamento al clan. I detenuti di spicco del sodalizio comunicavano anche attraverso telefonini introdotti nei penitenziari con la complicità di due agenti penitenziari corrotti. Al termine dell’indagine il giudice per le indagini preliminari ha emesso 16 ordinanze di custodia cautelare in carcere e 2 (gli agenti penitenziari) ai domiciliari. Venezia: poliziotto penitenziario ferito durante piantonamento di un detenuto in Ospedale Agi, 24 ottobre 2013 Resta alta la tensione nelle carceri italiane: ancora poliziotti penitenziari aggrediti. È accaduto questa mattina nell’Ospedale di Venezia, durante il piantonamento di un detenuto ricoverato. Il detenuto, che pretendeva di girare liberamente e di fumare nel reparto ospedaliero, ha scagliato una sedia colpendo uno dei poliziotti penitenziari che lo sorvegliavano. Ne dà notizia il Sindacato autonomo polizia penitenziaria, che aggiunge che il poliziotto è dovuto ricorrere alle cure dei sanitari del Pronto Soccorso per una ferita alla spalla (10 giorni di prognosi): il Sappe esprime al collega “vicinanza e solidarietà” . Il Segretario Generale Sappe Donato Capece ricorda poi alcuni numeri delle violenze e degli eventi critici in carcere: “nei primi sei mesi del 2013 nelle carceri italiane ci sono stati tantissimi eventi critici: 18 suicidi, 545 tentati suicidi sventati dalla Polizia Penitenziaria (e dei quali, colpevolmente, non si parla quasi mai), 3.287 atti di autolesionismo, 1.880 colluttazioni e 468 ferimenti. Cifre spaventose” - conclude Capece - “che dovrebbero far comprendere in quali critiche situazioni lavorano ogni giorno i poliziotti penitenziari, come purtroppo dimostra chiaramente l’aggressione di questa mattina ad un poliziotto penitenziario nell’Ospedale di Venezia durante un piantonamento”. Bologna: vecchie glorie del calcio in campo coi detenuti, per ridipingere la Dozza di Luca Sancini La Repubblica, 24 ottobre 2013 Da Pagliuca a Colomba, i campioni storici del Bologna sfidano la squadra del carcere a Zola Predosa per raccogliere fondi utili all’acquisto della vernice per ridipingere celle e corridoi dell’istituto. Anche gli ultras organizzano colletta. Vecchie glorie rossoblù come Gianluca Pagliuca, Jonatan Binotto, Michele Paramatti e Franco Colomba sfideranno sabato pomeriggio a Zola Predosa la squadra dei detenuti della Dozza. Dopo, ci sarà un terzo tempo a tavola, per raccogliere fondi utili all’acquisto della vernice per ridipingere celle e corridoi del carcere. E anche i gruppi ultras della Curva Bulgarelli annunciano il loro impegno per una colletta alla ricerca di altre risorse. “Un calcio che colora” diventerà così una giornata che è la naturale prosecuzione dell’idea di Roberto Morgantini e delle attività dell’Associazione Piazza Grande, in favore di un miglior rapporto tra città e carcere. Lo scorso anno un gruppo di cittadini, tra cui Stefano Bonaga, Alessandro Bergonzoni, Mario Bovina e l’ex giocatore rossoblù Gaby Mudingaiy, varcarono le soglie della Dozza per un giorno in un atto concreto e simbolico al tempo stesso per riqualificare le strutture della Dozza, ridipingendo alcune aree comuni. Sabato invece saranno tutti all’aria aperta su un campo da calcio, per una giornata che sarà in qualche modo speciale per una quindicina di detenuti che saranno accompagnati da un gruppo di volontari. A chiamare a raccolta gli ex giocatori del Bologna sarà Jonatan Binotto, veloce ala degli anni ‘90, attualmente allenatore della squadra Allievi: «In molti mi hanno già dato la disponibilità, altri si aggiungeranno in questi giorni, anche Mudingaiy da Milano ci farà sentire il suo sostegno». Alla presentazione dell’iniziativa in Provincia questa mattina c’erano anche il vicepresidente Giacomo Venturi, il direttore della Casa Circondariale Claudia Clementi e il sindaco di Zola Stefano Fiorini. Il programma prevede il match alle 17.30 al centro sportivo “Melotti” a Zola Predosa, a seguire alle 19.30 la cena di solidarietà nella sala “Ilaria Alpi”. Quindici euro per gli adulti, 10 euro fino a 12 anni di età. Per informazioni dbrizzi@comune.zolapredosa.bo.it e 051/6161664 Libri: “Accogliamoli tutti”, di Luigi Manconi e Valentina Brinis Recensione di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 24 ottobre 2013 Il tempismo è perfetto. A tre settimane dal più spaventoso dei naufragi nel Mediterraneo, nel pieno della discussione sul reato di clandestinità e sulla legge Bossi-Fini, esce per il Saggiatore un pamphlet dal titolo dirompente: “Accogliamoli tutti” (120 pagine, 13 euro). Spiazzante poi nel sottotitolo: “Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati”. A firmarlo sono in due: il parlamentare del Pd Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato, e la sociologa Valentina Brinis, direttrice del sito italiarazzismo.it. Lui presidente lei ricercatrice della Onlus “A Buon Diritto”. Una provocazione? “No, non è quello l’intento. Direi che è un libro licenzioso e saggio”, sorride il senatore. All’apparenza “audacissimo”, nel suo sviluppo “si affida interamente a dati demografici, economici e sociali”. Una scossa a un dibattito imbrigliato dalle ideologie, dalle reazioni di pancia e dai buonismi, sulla scorta di un’analisi saldamente fondata sulle leggi, sulle ricerche scientifiche, sui numeri. Gli autori la materia la conoscono. Luigi Manconi da tempo. Nel testo fissa una data autobiografica: Sassari, autunno del 1988, l’incontro con un venditore africano dal barista ribattezzato col cognome locale “Carboni”, in un tentativo spontaneo d’integrazione. “La società italiana ha risposto all’immigrazione con una inesausta capacità di adattamento intelligente e razionale - riflette - Ma ciò che ora serve, e che finora è stata debolissima, è la politica: quella centrale e quella locale. Una politica che abbandoni definitivamente l’idea dell’immigrato o del richiedente asilo come un nemico o una minaccia sociale”. Governare il fenomeno con una visione di più ampio orizzonte, allora. E da subito, indicano gli autori, abrogare il reato di clandestinità, superare le barriere dei flussi con l’introduzione del visto d’ingresso per ricerca di occupazione. La solita bontà della sinistra? Per nulla: “Noi non vogliamo affatto bene agli immigrati”, scrivono Manconi e Brinis, di nuovo sul filo della provocazione. “Nessuna retorica della solidarietà, nessun terzomondialismo - spiega il senatore - La convivenza interetnica è necessaria, sempre faticosa, talvolta dolorosa, ma è la sola via. L’alternativa è il conflitto razziale”. Lo indicano le cifre, lo confermano gli scienziati sociali: “Favorire la regolarizzazione degli immigrati, garantire loro i diritti di cittadinanza, incentivare l’integrazione è la condizione necessaria perché ci siano più sicurezza e più benessere per tutti, anche in tempo di crisi”. Sono sempre gli studi a certificarlo: quando hanno i documenti e una condizione stabile, gli stranieri delinquono meno degli autoctoni. I demografi aggiungono che gli italiani invecchiano (12 milioni gli over 65enni nel Paese): una trasfusione costante di energie diventa indispensabile. E a leggere i testi di economia si scopre che, se la disoccupazione italiana cresce più di quella straniera, è perché il nostro sistema produttivo è vecchio, inadeguato, e ha ancora bisogno di lavoratori sottopagati, poco qualificati, spesso sfruttati. Come sono i migranti. Quel titolo così provocatorio, allora, “intende ribaltare stereotipi e luoghi comuni - conclude Manconi - E vuole evidenziare il senso di una proposta politica e culturale che, in apparenza, è radicale ma che, nei fatti, si rivela assai equilibrata. E corrisponde alle esigenze del nostro sistema economico e sociale, ai problemi posti dal calo demografico e dal bisogno di nuova forza lavoro che manifestano importanti settori produttivi”. Accogliamoli tutti, in sostanza, perché ci conviene. India: Alemanno; sosteniamo marcia solidarietà lanciata da famiglie dei due marò Adnkronos, 24 ottobre 2013 “Non vogliamo che si spengano i riflettori sull’assurda vicenda dei nostri due marò ancora detenuti in India: il loro posto è qui in Italia”. Lo scrive Gianni Alemanno sulla sua pagina Facebook. “Per questo - prosegue Alemanno - sosteniamo con forza l’iniziativa di una marcia di solidarietà da fare a Roma il prossimo 23 novembre, lanciata dalle famiglie di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Vogliamo che i nostri soldati -conclude- sentano l’affetto e la vicinanza del proprio Paese, che non li ha dimenticati né lasciati soli”. Spagna: dopo sentenza Strasburgo si teme effetto domino, 130 dell’Eta presto liberi di Antonio Andreucci Ansa, 24 ottobre 2013 Allarme in Spagna, dove 130 terroristi dell’Eta e almeno altri 15 pericolosi delinquenti comuni potrebbero dover essere scarcerati a breve. La sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, contestando l’applicazione retroattiva della “Dottrina Parot” sul cumulo delle pene, e che fra ieri e oggi ha già prodotto il rilascio di terroristi dell’Eta pluricondannati come Ines Del Rio Prada e Antonio Troitino, rischia di scatenare un effetto domino. La questione non è solo giuridica, ma investe anche la politica e genera “allarme sociale”, come ha ricordato il ministro dell’Interno spagnolo, Jorge Fernández Díaz. Quest’ultimo ritiene che, malgrado il dispositivo della Corte di Strasburgo riguardi proprio la norma sul cumulo, ritenuta contraria nella sua applicazione alla giurisprudenza europea sui diritti umani, quella sentenza potrebbe non essere applicata automaticamente a tutti i detenuti, ma andrebbe considerato ogni singolo ricorso. Certo è che la Spagna non può ignorarla e il premier, Mariano Rajoy, alle associazioni dei parenti delle vittime del terrorismo, che domenica manifesteranno a Madrid, ha espresso la solidarietà del suo governo e ha assicurato che l’inevitabile riforma della Dottrina Parot terrà conto delle istanze delle parti offese. Ma le Associazioni sono critiche, e ritengono che possa esserci un accordo tra magistratura e politica per favorire un processo di pacificazione. Timori prontamente smentiti con forza dallo stesso Diaz, che ha ribadito l’intransigenza dello Stato nei confronti del terrorismo. A determinare questa situazione è stato l’accoglimento del ricorso di Ines Del Rio, terrorista dell’Eta arrestata nel 1987 e condannata a complessivi 3.838 anni di detenzione per 24 omicidi. Ieri è tornata libera dopo 26 anni di carcere. Avrebbe dovuto tornarci prima, sostiene Strasburgo, mentre sarebbe dovuta rimanere ancora dietro le sbarre in base alla Dottrina Parot. Quest’ultima, introdotta nel 2006 dalla Corte Suprema spagnola, calcola infatti i benefici di pena sul cumulo delle condanne e non sui 30 anni di reclusione massima fino a quel momento previsti dal Codice Penale spagnolo. Ma il ricalcolo, col sistema del cumulo, delle pene già inflitte col vecchio Codice penale è stato applicato retroattivamente, cioè dopo il 2006, ai delitti contestati alla Del Rio e agli altri terroristi baschi. Dopo la Del Rio, oggi è toccato a un altro esponente dell’Eta, Antonio Troitino, arrestato nel 2012 in Gran Bretagna, dove era fuggito, per scontare 2.700 anni di carcere per 22 omicidi (tra cui la strage di 12 agenti della Guardia Civil). Ieri un tribunale londinese, proprio in base alla sentenza della Corte europea, ne aveva disposto la scarcerazione - con obbligo quotidiano di firma - dando una settimana di tempo alla Spagna per presentare richiesta di estradizione. Sono i primi due terroristi tornati liberi, ai quali, secondo calcoli delle Associazioni, presto se ne potrebbero aggiungere altri 130, in gran parte dell’Eta, ma anche di gruppi armati indipendentisti come quello Galiziano. Non solo: a beneficiare della decisione di Strasburgo sarebbero anche 15 pericolosissimi delinquenti comuni, ognuno dei quali con centinaia di anni da scontare in carcere cumulati in vari processi proprio in virtù della Dottrina Parot. Bolivia: 2mila bambini condannati a vivere in carcere insieme alle madri Radio Vaticana, 24 ottobre 2013 Si calcola che circa 2mila bambini in Bolivia non hanno altra alternativa se non quella di vivere nelle carceri con le rispettive madri che scontano le loro condanne. La vita dietro le sbarre è il prezzo che pagano per stare con le loro madri. Il Governo - riporta l’agenzia Fides - ha iniziato a “liberare” quelli con più di 11 anni a causa dei maltrattamenti che subiscono. Nel carcere di massima sicurezza di Miraflores, in pieno centro a La Paz, vivono una centinaia di detenute. Per evitare l’isolamento totale dei loro figli, ogni giorno le maestre li portano fuori. A Miraflores la maggior parte dei bambini ha meno di 6 anni, tuttavia nell’intero Paese sono molti i Centri dove anche gli adolescenti vivono in cella con i rispettivi genitori. In Bolivia si registra un’ampia lista di denunce di violenze ai minori negli istituti di detenzione. Alcune di queste violenze sono commesse dagli stessi familiari dei piccoli. Spesso le situazioni si aggravano a causa dell’abuso di alcool e droghe. Il Governo spera che entro la fine dell’anno gran parte di queste piccole vittime verranno portate fuori dalle prigioni del Paese. Russia: Greenpeace, Mosca riduce le accuse... i 30 detenuti non sono “pirati” ma “vandali” www.blitzquotidiano.it, 24 ottobre 2013 Da “pirati” a “vandali”, come le Pussy Riot: è la piroetta giudiziaria con cui gli investigatori russi hanno derubricato le accuse contro i 30 attivisti di Greenpeace detenuti da oltre un mese a Murmansk per una pacifica protesta contro una piattaforma petrolifera artica di Gazprom. Era stato lo stesso Putin ad ammettere per primo che gli autori del blitz “non sono pirati”. La nuova imputazione comporta una pena massima di sette anni, contro i 15 previsti per il reato di pirateria. Per Greenpeace Russia si tratta comunque di accuse “fantasiose” e “largamente sproporzionate”. La correzione di rotta del comitato investigativo arriva alla fine di una giornata in cui Mosca aveva sfidato l’opinione pubblica mondiale in nome della propria “sovranità nazionale”, sottraendosi al giudizio di un tribunale internazionale richiesto da Amsterdam nel caso della “Arctic Sunrise”, la nave battente bandiera olandese usata dai militanti di Greenpeace per la loro protesta. Secondo il ministero degli esteri russo, il tribunale internazionale per il diritto marittimo, organo indipendente dell’Onu con sede ad Amburgo, non ha giurisdizione su violazioni di leggi russe e quindi di diritti sovrani. Una posizione “inaccettabile” e “arbitraria” per l’associazione ambientalista. Ma Mosca aveva lanciato anche un primo segnale di disgelo, sottolineando che “la Russia resta aperta alla soluzione della situazione”. Forse la derubricazione del reato va in questa direzione. Da un mese la Russia resiste alle proteste dei 18 Paesi da cui provengono gli attivisti, tra cui l’italiano Christian D’Alessandro. In prima fila, nel braccio di ferro tra Mosca e l’Occidente, c’è l’Olanda, che due giorni fa ha chiesto al tribunale internazionale per il diritto marittimo “misure provvisorie” come il dissequestro della Arctic Sunrise e la liberazione dei militanti. La mossa ha inasprito le tensioni tra i due Paesi, alimentate anche da recenti episodi di percosse ai rispettivi diplomatici proprio nell’anno incrociato Russia-Olanda, che sarà chiuso l’8 novembre da una cerimonia con Putin e il re Guglielmo Alessandro, la cui presenza era stata messa in forse sino a qualche giorno fa. Mosca ha fatto muro, boicottando l’iniziativa giudiziaria olandese, anche a rischio di peggiorare ulteriormente la propria immagine internazionale. Il ministero degli esteri ha fatto sapere infatti che la Russia non intende partecipare alla procedura arbitrale “per risolvere contenziosi riguardanti i diritti sovrani e la giurisdizione”, trattandosi di violazioni “di leggi russe sulla zona economica esclusiva e sulla piattaforma continentale”. Mosca invoca il fatto di aver ratificato nel 1997 la convenzione Onu sul diritto marittimo allegando una dichiarazione nella quale precisa di non accettare procedure che portino il tribunale a decisioni vincolanti sulla sovranità nazionale. Pur definendo “positiva” l’apertura manifestata per la prima volta dalla Russia per risolvere il caso, Greenpeace ha obiettato che Mosca “non può scegliere quale parte della Convenzione dell’ Onu sul diritto marittimo applicare”, accusandola di aver “allargato questo sistema di esclusioni in maniera intollerabile”. “Se la Federazione Russa crede che il tribunale marittimo internazionale non abbia giurisdizione in merito, sarebbe appropriato che sollevasse la questione nel corso dell’udienza”, ha osservato Daniel Simons, consulente legale di Greenpeace International. “Sembra che le autorità russe non accettino che un tribunale indipendente valuti l’illegittimità delle misure prese”, ha aggiunto. Tenace alfiere del rispetto del diritto internazionale, a partire dalla carta Onu nella crisi siriana, Mosca questa volta lo ha dribblato arroccandosi nella difesa della propria sovranità nazionale in nome di interessi che considera strategici e inviolabili, come l’esplorazione petrolifera dell’ Artico, uno degli ecosistemi più fragili e vulnerabili del pianeta ma già diventato il nuovo Eldorado per molte major energetiche. E pragmaticamente ha preferito un autonomo gesto di “clemenza”, piuttosto di doversi sottomettere ad un verdetto internazionale.