Giustizia: il carcere e la scienza di Umberto Veronesi L’Unità, 20 ottobre 2013 Il nostro sistema di neuroni è plastico e si rinnova perché il cervello è dotato di cellule staminali proprie. Questo dimostra che la persona che abbiamo messo in carcere, non è la stessa vent’anni più tardi. Il dibattito sulla giustizia, che si è scaldato negli ultimi giorni attorno ai temi dell’amnistia e dell’indulto, non è solo politico ma anche civile, culturale, etico e per certi aspetti scientifico. Nella mitologia greca Nemesi, dea della vendetta, era il volto tragico di Dike, dea della giustizia. Per molti secoli il concetto di vendetta e giustizia sono stati interscambiabili, finché arrivò l’insegnamento di Gesù di Nazareth, che introdusse l’idea di perdono e di ravvedimento: la “metànoia” che Giovanni Battista predicava sulle rive del Giordano. In sostanza la possibilità di una metanoia presuppone che anche chi ha sbagliato può cambiare. Perché anche chi ha sbagliato può cambiare il proprio pensiero e dunque può essere recuperato. Questo principio è stato ripreso nei tempi moderni, quando molti Paesi hanno affinato l’idea di una giustizia rieducativa. Un modello avanzato in questo senso si trova ad esempio in Norvegia, il cui codice penale non prevede pene detentive superiori a 21 anni (salvo reati di crimini contro l’umanità e genocidio) nel rispetto di una filosofia e un’organizzazione orientata al reinserimento dei criminali nella società. È in nome di questa filosofia che tutta la popolazione ha accettato con grande senso civico anche la condanna (ad appunto 21 anni di prigione) di Breivik, l’autore di una strage di ragazzi inermi e giovanissimi, che tutti ben ricordiamo. E un principio a volte difficile da accettare emotivamente, ma che ha condotto a risultati molto concreti: la Norvegia ha uno dei tassi di recidiva di crimine fra i più bassi del mondo. Anche la Costituzione italiana all’articolo 27 recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, ma purtroppo la realtà delle nostre carceri sembra ignorare del tutto questo punto. La situazione delle celle è stata definita da Silvio Scaglia come peggiore di quella descritta dai giornali, dove per il carcerato “c’è meno spazio di quello che le leggi prevedono per i maiali”. Ma se neppure la dignità è rispettata, come si può anche solo pensare a una rieducazione? Del resto la nostra legge ammette ancora l’ergastolo ostativo, che è un’infamia perché è una condanna a morire in carcere; dunque una forma diversa, ma non meno crudele, di pena capitale: una pena di morte civile o pena fino alla morte, perché chi sa di non poter mai più tornare alla sua vita, è condannato ad una agonia lenta e spietata. Tanto da far dire - riporto una frase dell’ergastolano Carmelo Musumeci - “fatemi la grazia di poter morire”. Un sistema carcerario punitivo è contro la civiltà ed è contro la scienza. La ricerca scientifica ha ormai dimostrato in modo certo che il Dna dell’uomo è programmato per il mantenimento della specie e invita dunque a procreare, educare, abitare, fare sapere, costruire ponti e legami che rendano più sicura la vita. Pertanto l’uomo è biologicamente portato al “bene”, e il “male” è la reazione a situazioni avverse, ad abusi o violenze subite. Come diceva sant’Agostino il male è la privatio boni, l’ombra del bene o la sua assenza. Di conseguenza, se il bene è l’origine, è possibile riportarvi chi è caduto nel vortice del crimine. Anche qui ci viene in aiuto la ricerca scientifica che, pochi anni fa, ci ha confermato che il nostro sistema di neuroni è plastico e si rinnova, perché il cervello è dotato di cellule staminali proprie in grado di generare nuove cellule. Questo dimostra scientificamente che la persona che abbiamo messo in carcere, non è la stessa vent’anni più tardi e che per ogni uomo esiste per tutta la vita la possibilità di cambiare ed evolversi, adattandosi a nuovi stimoli. Mi ha molto colpito a questo proposito il caso di Anthony Farina, ricordarlo ai media pochi giorni fa dalla moglie del noto attore Colin Firth, Livia Giuggioli. A soli 18 anni Anthony, un ragazzino povero, brutalizzato, vittima di abusi e violenze in famiglia, con il fratello di 16 anni rapina un fast food, spinto dalla madre. Durante la rapina il fratello minorenne uccide una persona e Anthony, pur innocente, entra comunque nel braccio della morte. Oggi Anthony ha 40 anni, ancora rischia la pena capitale in Florida e la sua vita è appesa agli appelli degli attivisti contro la pena di morte, come Livia. Come può la civile America uccidere un uomo per un crimine che - forse, o forse no - ha commesso 22 anni fa? Come si può nel terzo millennio legittimare la violenza vendicativa, come nella Grecia antica, perpetrando un omicidio di Stato? Proprio per combattere la violenza in ogni sua forma, soprattutto se istituzionalizzata, ho fondato cinque anni fa il movimento “Science for Peace”, a cui aderiscono molti uomini di scienza, fra cui 21 Premi Nobel. A partire dallo scorso anno, ci siamo impegnati in una campagna internazionale a favore di una giustizia rieducativa e per questo nel corso della prossima Conferenza mondiale Science for Peace, sul tema “Dna Europa” che si terrà a Milano il 15 e 16 novembre prossimo, dedicheremo una sessione ai sistemi giudiziari e carcerari europei. Siamo convinti che un’Europa unita, Premio Nobel per la pace 2012, debba promuovere sistemi di pena che neghino la vendetta e la violenza, rispettino la dignità umana e tendano al recupero della persona in ogni fase della sua vita. Giustizia: l’ecologia del vivere e l’inferno del pianeta carceri di Peppe Mariani www.italiamagazineonline.it, 20 ottobre 2013 Il Presidente della Repubblica, in questi giorni, ha inviato un messaggio alle Camere chiedendo provvedimenti urgenti per risolvere la triste situazione di sovraffollamento delle carceri italiane. Proponendo sia l’amnistia, in altre parole la rinuncia da parte dello Stato a perseguire alcuni reati, sia l’indulto, cioè un annullamento della pena. Entrambe le soluzioni hanno scatenato un acceso dibattito sia all’interno del Parlamento, sia fuori. Si discute su quali reati includere, quali escludere, se devono riguardare Berlusconi o no. Quindi ancora una volta l’ipocrisia della classe dirigente nostrana, nasconde con operazioni irridenti ciò che, invece, è chiaro a molti, e invece di prendere il problema di “petto”, per sempre, per aprire una stagione di giustizia e di riforme, che cosa fa? Guarda ai sondaggi, a come le loro improbabili proposte o comportamenti da onorevoli disertori di Stato, potrebbero incidere sulle loro carriere ingrate e infauste. Penso che sia un dovere “umano”, informare i cittadini sulle condizioni in cui si vive nelle carceri. Ogni tanto qualche burocrate cerca di mettere il bavaglio a operazioni di trasparenza anche quando le denunce, sulle condizioni di vita dentro il pianeta “inferno” sono fatte dagli operatori penitenziari. Non a caso già ormai da un ventennio gira tra gli addetti ai lavori lo slogan: per abbattere le mura dei misteri occorre abbattere i misteri di quelle mura. Qualche tempo fa una ragazza s’impiccò mentre si trovava in stato d’ingiusta detenzione, ma prima di morire lasciò una lettera tra cui denunciava: “La galera è un posto di tortura fisica e psichica, qua non si dispone di assolutamente niente, non si può decidere a che ora alzarsi, che cosa mangiare, con chi parlare, chi incontrare, a che ora vedere il sole. Per tutto bisogna fare una “domandina”, anche per leggere un libro. Rumore di chiavi, di cancelli che si aprono e si chiudono, voci che non dicono niente, voci che fanno eco in questi corridoi freddi, scarpe di gomma per non fare rumore ed essere spiati nei momenti meno pensati, la luce di una pila che la sera controlla il tuo sonno, posta controllata, parole vietate”. Purtroppo questo triste destino riguarda molte persone detenute, alcune statistiche dicono che i suicidi tra i detenuti sono 17 volte più frequenti rispetto alla media della popolazione italiana; quest’anno siamo già arrivati, alla data del 17 ottobre 2013 a 42, e dal 2000 invece il totale è di 794 suicidi. Una mattanza. Lo stesso destino, è riservato anche agli operatori penitenziari, anch’essi abbandonati a se stessi, con mille problemi, drammi, incombenze, turni e sottodimensionamento da affrontare tutti i giorni dell’anno, feste comprese. I rappresentanti degli agenti penitenziari denunciano, che non si conoscono ricerche in quest’ambito, forse per colpa dei tabù culturali che ostacolano l’analisi del problema, tanto che ancora oggi è difficile quantificare il numero dei suicidi e dei tentati suicidi tra gli appartenenti alle forze di polizia e compararne i dati con la popolazione di riferimento, ma dal 2000 si parla di circa 100 di dipendenti dell’amministrazione penitenziaria che si sono tolti la vita. Un’altra mattanza. Che l’Italia viola i diritti dei detenuti, tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati, non siamo noi a dirlo, ma anche la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante e ha costretto a pagare l’Italia delle tasse e dei sacrifici, multe salatissime, per danni morali. E considerato, che vogliamo rimanere in buona compagnia, allora, a queste denunce aggiungiamo quella del Presidente della Repubblica Napolitano che afferma: “La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo rappresenta un nuovo grave richiamo per l’Italia…una mortificante conferma dell’incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena”. Quella del Guardasigilli: “Sono profondamente avvilita ma purtroppo l’odierna condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo non mi stupisce… c’era da aspettarselo!”. Anche l’Associazione nazionale magistrati interviene sulla sentenza. E spiega che l’emergenza carceraria è una “assoluta priorità” che il nuovo Parlamento dovrà affrontare. E allora? Io penso, che una cartina al tornasole per capire quanto sia grave l’emergenza è sentire o vedere gli operatori penitenziari nella loro quotidianità. Il personale deve rinunciare ai diritti elementari e sottoporsi a turni massacranti per reggere la baracca. Poi ci sono le storie incredibili di vita di detenuti e detenute gettati dentro questo girone dantesco che potrebbe contenere 41mila unità, ma è, invece popolato da 65mila dannati. La violazione quotidiana, di leggi e della nostra Costituzione, riguardo alla restrizione dei diritti alla salute, alla prevenzione, e il venir meno dell’accesso alle pene alternative e ai percorsi di reinserimento. Poi ci sono le storie di famiglie e minori coinvolti in queste tragedie, anche se assolutamente estranei e inconsapevoli, che porteranno i segni per tutta la vita con conseguenze difficili da prevedere e valutare. E poi ci sono le denunce e le visite fatte dal sottoscritto, per far comprendere fatti, soluzioni e brutture, cadute nell’indifferenza più odiosa da questi farisei. Parlo con cuore stretto in una morsa di rabbia, perché questa è una vicenda tristissima, che alimenta sempre più sentimenti di indignazione e frustrazione nei confronti di un sistema che non funziona più nemmeno ai livelli minimi di sicurezza e ai livelli minimi di civiltà sia per la popolazione detenuta sia per gli operatori penitenziari. La questione penitenziaria, nella sua drammaticità, è anche una questione morale. Per i tanti sprechi, però bloccano il turnover e il pagamento degli straordinari. Per l’incapacità di risolvere ogni problema che è posto all’attenzione dei nostri disertori di Stato. Per l’indecenza delle strutture. Per il degrado degli ambienti. Per i rischi igienico-sanitari. È forse il caso di approfondire e investigare? Noi diremmo anche di risolvere. Invece nulla. Tutto è rimesso alla sola buona volontà e alle capacità del personale volontario e non. Si continuano ad ammassare persone in spazi che non ci sono. Spesso le denunce dei rappresentanti sindacali degli operatori penitenziari non cadono solo nel vuoto ma ricevono “l’invito” dai burocrati a non allarmare. In fondo, penso che sia un dovere civico e umano oltre che istituzionale, informare sulla grave realtà, nel tentativo di scuotere le coscienze, la società, la stampa, e i nostri disertori politici, che ogni tanto, con il codazzo di gente a seguito e con eserciti di giornalisti fanno la visitina “ di forma” per poi rimanere atterriti, ma solo per un giorno! Tutto rimane ovattato nell’indifferenza e i drammi quotidiani continuano a consumarsi all’interno di quelle mura che sempre più sono il confine tra civiltà e inciviltà. Giustizia: la Commissione al Senato ha avviato l’esame dei ddl su amnistia e indulto Asca, 20 ottobre 2013 La Commissione Giustizia ha avviato l’esame dei ddl 20 e 21 in materia di amnistia e indulto, con la relazione illustrativa dei senatori Falanga e Ginetti. In particolare quest’ultima ha ricordato il messaggio inviato lo scorso 8 ottobre al Parlamento dal Presidente della Repubblica per ribadire l’emergenza del sovraffollamento carcerario “fa dell’Italia un’anomalia nel panorama europeo ponendolo tra i paesi più arretrati in materia di espiazione della pena. La gravità dello stato del sistema penitenziario italiano- ha aggiunto - è testimoniata in primo luogo dalle inascoltate raccomandazioni della Comunità europea e dalle ripetute condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha perfino dato all’Italia un termine per mettersi in regola con gli standard minimi di un paese civile, superato il quale dovrà dotarsi di un sistema per garantire un risarcimento contro quella che è una vera e propria violazione dei diritti umani. La relatrice ha anche messo in luce la recente sentenza della Corte costituzionale che - pur ritenendo inammissibili le questioni sollevate dai Tribunali di Milano e Venezia dirette a consentire alla magistratura di sorveglianza di adottare il rinvio dell’esecuzione della pena anche nel caso in cui le il giudice ritenga che, a causa del sovraffollamento carcerario, la pena si svolgerebbe in condizioni inumane - ha però affermato che il legislatore è obbligato a porre rimedio a tale problema nel più breve tempo possibile. In caso di perdurante inerzia legislativa, la Corte - ha aggiunto - potrebbe adottare decisioni dirette a far cessare l’esecuzione della pena laddove essa sia resa in condizioni contrarie al senso di umanità. Il messaggio del Presidente della Repubblica indica una serie di interventi che il Parlamento e il Governo dovrebbero rapidamente realizzare, provvedimenti diretti a depenalizzare e perseguire con sanzioni amministrative un gran numero di fattispecie penali di ridotta offensività, e nell’immaginare sanzioni, anche di carattere detentivo, alternative alla reclusione in carcere. Rispetto a questi interventi legislativi in itinere, come pure a quelli in materia di strutture carcerarie, l’amnistia e l’indulto - ha concluso - si configurano come interventi di natura assolutamente emergenziale e straordinaria, la cui giustificazione risiede nel fatto che sono gli unici praticabili nell’immediato. Il confronto proseguirà la prossima settimana. Giustizia: in Commissione al Senato prosegue l’indagine conoscitiva sul sistema carcerario Asca, 20 ottobre 2013 La Commissione Giustizia ha proseguito l’indagine conoscitiva sul sistema carcerario con un’ audizione del Commissario straordinario del Governo per le infrastrutture carcerarie, prefetto Sinesio il quale si è soffermato innanzitutto sul piano carceri. Ha precisato che il piano si fonda su tre pilastri: la realizzazione di un’edilizia carceraria di nuovo tipo, l’implementazione degli organici di polizia penitenziaria e l’adozione di misure deflattive, in vista di obiettivi quali la tutela della persona umana e il miglioramento delle condizioni di permanenza dei reclusi, il miglioramento delle condizioni di lavoro presso le strutture carcerarie, la valutazione del patrimonio carcerario e l’ammodernamento generale delle infrastrutture. Il piano per realizzare nuove strutture carcerarie e adeguare quelle esistenti, approvato il 24 giugno 2010 dal Comitato di indirizzo e controllo, prevedeva - ha ricordato - la programmazione dell’impiego di risorse finanziarie per 6.753 milioni di euro per realizzare nuovi carceri e nuovi padiglioni in strutture esistenti per un totale di 9.150 posti detentivi. Il piano è stato oggetto di successive integrazioni fino alla rimodulazione approvata il 31 gennaio 2012, a seguito della quale si è prevista la realizzazione di un numero di posti detentivi pari a 12.324 unità da realizzare entro l’anno 2016, delle quali 750 sono già state consegnate nel 2012 e 3.962 lo saranno alla fine del 2016. Sinesio ha poi ricordato le ragioni che hanno determinato l’adozione di un Commissario straordinario ribadendo l’opportunità di puntare comunque su un solo centro di spesa e si è soffermato sui nuovi criteri di realizzazione dell’edilizia carceraria. Giustizia: il pm Di Matteo “Amnistia? Un aiuto alla mafia. Possibile un ritorno alle stragi” di Lorenzo Lamperti Affari Italiani, 20 ottobre 2013 Dopo la decisione dei giudici di Palermo di far testimoniare Napolitano al processo Stato-mafia, il pm che ha condotto l’inchiesta, Nino Di Matteo, rompe il lungo silenzio con un’intervista ad Affaritaliani.it: “Rispetto a 20 anni fa si è indebolita solo l’ala militare, la mafia continua tuttora a infiltrarsi nelle istituzioni e a condizionare le decisioni politiche, dagli enti territoriali sino ai piani alti”. Duro attacco alla politica: “All’apparenza sono tutti antimafia ma nella realtà si fa molto poco. Senza la politica Cosa Nostra sarebbe una banda criminale comune a tante altre”. Sull’amnistia: “Sarebbe un aiuto alla mafia”. Sulla magistratura: “Vogliono burocratizzarla e renderla innocua. Ma una parte dei pm è politicizzata”. A Di Matteo continuano ad arrivare minacce di morte: “Chi esclude un ritorno a una strategia stragista non conosce la storia”. E su Napolitano: “La sua testimonianza è pertinente come quella delle altre 175 persone citate”. Antonino Di Matteo, una studio dell’Università Bocconi di Milano afferma che ogni cinque indagati per mafia c’è un imprenditore. È questa oggi l’emergenza quando si parla di mafia? Oggi a 20 anni dalle stragi possiamo dire che dopo l’azione repressiva ai danni della mafia militare serve un salto di qualità. Bisogna cambiare marcia per riuscire a recidere il legame che la mafia ha tuttora con l’imprenditoria, la politica e le istituzioni. I dati di questa ricerca non mi sorprendono perché la mafia è sempre più imprenditrice e sempre più in grado di ripulire il denaro delle proprie attività più tipicamente criminali attraverso altre attività apparentemente lecite. In che modo si può recidere questo legame tra mafia e mondo imprenditoriale e politico? Lo Stato dovrebbe rendersi conto della centralità del problema e punire più duramente i rapporti esterni con la mafia. Purtroppo manca una visione unitaria. Fenomeni come l’abuso d’ufficio, la turbativa d’asta o la corruzione sono solo apparentemente estranei alla criminalità organizzata. Sono invece il grimaldello che la mafia utilizza per arrivare ai “piani alti”. La politica ha dotato la magistratura di tutti gli strumenti possibili per contrastare la mafia? Non credo che il salto di qualità di cui parlavo prima si possa fare continuando a punire solo i reati tipicamente mafiosi. Servono strumenti più adeguati per punire anche la connivenza. Bisognerebbe rivedere le leggi in termini di reati contro la pubblica amministrazione, appalti e voto di scambio. Il procuratore Antimafia Franco Roberti ha detto che la mafia sarà sconfitta “se lo Stato lo vorrà davvero”. Questo significa che ci sono pezzi di Stato che non vogliono che la mafia venga sconfitta? All’apparenza tutti sbandierano la propria volontà di combattere la mafia. Ma nella realtà negli ultimi anni e con gli ultimi governi si è fatto molto poco. Non si è voluto andare al di là del contrasto all’ala militare. Sarebbe invece fondamentale un impegno verso l’alto… Più volte si è detto che la forza della mafia, e di Cosa Nostra in particolare, sta nei rapporti con la politica e nella possibilità di ricattarla. Quanto è forte oggi Cosa Nostra? Rispetto a 20 anni fa è diminuita la forza militare di Cosa Nostra. E questo grazie esclusivamente all’impegno di magistratura e forze dell’ordine. Ma non è diminuita la forza economica, imprenditoriale e di penetrazione nel mondo politico. La mafia continua a infiltrarsi nelle istituzioni, partendo dagli enti territoriali per poi arrivare al tentativo di condizionare scelte politiche più alte e centrali. D’altra parte, grazie alle testimonianze dei collaboratori di giustizia, sappiamo che anche lo stesso Riina lo ha sempre saputo: senza i legami con la politica Cosa Nostra sarebbe stata una normale banda criminale, comune a tante altre. Il Presidente della Repubblica ha lanciato l’ipotesi di amnistia e indulto per svuotare le carceri. Lei sarebbe d’accordo? Credo che amnistia e indulto sarebbero un grave errore. Contribuirebbero a minare la certezza del diritto e diffonderebbero una prospettiva di impunità, dando così un aiuto più o meno diretto alle mafie. Certo, c’è il sacrosanto diritto dei detenuti di ricevere un trattamento adeguato, ma questo non può passare attraverso un’impunità che renderebbe innocua la macchina repressiva. Il rischio è che si diffonda una mentalità secondo la quale il delitto paga. Si parla spesso di “guerra” tra politica e magistratura. Lei in un suo libro parlò piuttosto di “assedio” dei politici ai magistrati. A che punto siamo oggi, questo “assedio” è ancora in atto? Continuo a sostenere che la cosiddetta “guerra” altro non sia che un attacco sistematico e organizzato con molta abilità nei confronti di una parte della magistratura. Quella magistratura, cioè, che si ostina a pensare che la legge debba essere uguale per tutti e non debba essere modellata per convenienza politica. Purtroppo larga parte della politica vorrebbe burocratizzare la magistratura, trasformandola e gerarchizzandola, rendendola più innocua e controllabile. Credo sia quanto mai attuale e urgente la battaglia per mantenere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Una battaglia che dovrebbe essere fatta propria da tutti i cittadini che hanno a cuore la giustizia. Lei ha parlato di attacchi a “una parte della magistratura”, quella che fa il proprio dovere. Questo significa che c’è anche una parte di magistratura che guarda più al proprio interesse personale? Credo che una parte della magistratura sia politicizzata. Attenzione però, politicizzata non nel senso che s’intende di solito. La magistratura politicizzata non coincide con l’apparenza mediatica. Una parte di magistrati non appare, non si espone, non partecipa al dibattito pubblico e però va a braccetto con il potere. Sono quei magistrati che non disturbano nessuno, si girano dall’altra parte per avere vantaggi nella propria carriera. Fanno riferimento a politici o al componente laico o togato del Csm di turno. Ecco, sono quelli che devono preoccupare, non certo quelli che prendono parte, nei limiti di quanto gli è consentito, al dibattito pubblico. Il risultato è che i pm che indagano sulla mafia o su altri temi delicati rischiano di venire isolati. C’è la sensazione che toccando certe inchieste si possa essere delegittimati? Per un magistrato che ha giurato sulla Costituzione questo è un rischio che va messo in conto. Un pm consapevole sa che nel nostro Paese indagare sulla zona grigia della mafia o su altri temi delicati significa andare incontro al rischio di restare isolati. Credo però si debba continuare a svolgere il proprio lavoro con serenità e coraggio. Per fortuna negli ultimi anni è cambiata la consapevolezza dell’opinione pubblica. Oggi la gente è più vicina ai pm che senza compromessi cercano la verità. Nel 1994 la mafia abbandonò la strategia stragista per entrare in un periodo di quiete apparente. Parlando a livello ipotetico, che cosa potrebbe spingerla a tornare a una stagione di bombe? Non parlo di indagini in corso, ma faccio un riferimento storico. Da sempre, quando si parla di mafia, si sono alternati periodi di basso profilo ad altri di improvvisi mutamenti di rotta. È successo così nel 1963, con la prima ondata di attentati eccellenti e la calma seguita alla repressione dopo la strage di Ciaculli. Nel 1971 si tornò all’attacco frontale con l’omicidio del procuratore Pietro Scaglione. Chi oggi esclude un possibile ritorno a una strategia stragista mostra di non conoscere la storia. Perché è così importante che il presidente Napolitano venga ascoltato come testimone nel processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo? Per gli stessi motivi che ho affermato in aula nell’udienza dello scorso 26 settembre. Riteniamo pertinente la sua testimonianza come quella delle altre 175 persone citate. Via D’Amelio, ma anche Piazza Fontana e tante altre. Sembra che in Italia ci sia un doppio livello intoccabile. Possibile che debbano restare così tanti punti oscuri nella nostra storia recente? Di chi è la colpa? Non posso parlare di indagini singole, dico solo che abbandonare inchieste che cercano verità legate alle stragi o altri punti neri della storia italiana sarebbe un errore imperdonabile. Con tutti gli elementi che sono emersi a rafforzare le ipotesi di elementi esterni alle mafie in qualche modo coinvolti in questi eventi smettere di indagare costituirebbe un gravissimo regalo alle mafie e al terrorismo. Credo che la ricerca della verità, e di una verità completa, sia un dovere etico e morale. Giustizia: domani il ministro Cancellieri a Brescia, visiterà carcere e uffici giudiziari Adnkronos, 20 ottobre 2013 Lunedì il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, sarà a Brescia per una serie di impegni. Alle 11, dopo aver deposto una corona di fiori alla Stele dei caduti a piazza della Loggia, visiterà la casa circondariale di Canton Mombello. Ad accogliere il guardasigilli il vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Luigi Pagano, il direttore dell’istituto Francesca Gioeni e il comandante di reparto Maria Luisa Abossida. Al termine, il ministro andrà al tribunale per i minorenni per inaugurare la nuova sede. Il programma prevede un breve incontro con i giudici e i rappresentanti del personale amministrativo. Dopo il taglio del nastro e la benedizione impartita da Mons. Mascher, il saluto del presidente del tribunale per i minorenni Maria Carla Gatto. A seguire gli interventi del sindaco di Brescia Emilio Del Bono, del capo del dipartimento per la Giustizia minorile Caterina Chinnici e del presidente dell’Ordine degli avvocati Pierluigi Tirale. Conclude il ministro Cancellieri. Nel pomeriggio, alle 15, il guardasigilli si recherà alla corte d’Appello di Brescia per incontrare il presidente Graziana Campanato e i capi degli uffici giudiziari. Giustizia: processo Cucchi, assoluzione annullata per funzionario Prap Claudio Marchiandi di Francesco Salvatore La Repubblica, 20 ottobre 2013 Si dovrà fare di nuovo il processo in Appello per Claudio Marchiandi, il funzionario del Prap assolto in secondo grado dall’ accusa di aver imposto il ricovero di Cucchi nel reparto detenuti dell’ ospedale Pertini. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del procuratore generale Eugenio Rubolino e annullato la sentenza di secondo grado per il funzionario, condannato in precedenza a due anni di reclusione. Secondo l’ accusa l’ intervento del funzionario avrebbe avuto lo scopo di nascondere le botte a Cucchi: Marchiandi si sarebbe precipitato di sabato pomeriggio ad autorizzare il ricovero del geometra favorendone il ricovero perché, secondo il pg, “andava tenuto lontano da occhi indiscreti”. Sicilia: inchiesta; due metri quadrati per detenuto… quando il carcere è un inferno di Giorgia Mosca e Lorenzo Tondo La Repubblica, 20 ottobre 2013 Scrivono il loro malessere sui muri e qualche volta lo affidano a un foglio di carta indirizzato agli avvocati. Protestano, scioperano e quando non basta scivolano nell’autolesionismo. Dietro le sbarre c’è la sofferenza di chi è costretto a vivere in celle troppo piccole, di chi fa i turni per stare in piedi perché di spazio non ce n’è. Storie di ordinaria prigionia nelle galere della Sicilia. Tra carenze strutturali, mancanza di personale e sporcizia. Carceri da Terzo mondo che la disperazione può trasformare in un braccio della morte. I lacci delle scarpe diventano cappi, lamette e pinze come coltelli affilatissimi. Nei primi nove mesi del 2013 in tre si sono uccisi: impiccandosi, inalando gas e strozzandosi. Sotto accusa l’emergenza sovraffollamento, acuita dalla presenza di molti extracomunitari che non avendo un permesso di soggiorno non godono del decreto svuota carceri. Nelle prigioni siciliane ci sono circa 7.000 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 5.500. A breve, chiuderanno anche le carceri di Mistretta, Modica e Nicosia e i circa duecento reclusi verranno trasferiti in altre strutture. Dove? Non si sa ancora. La stessa sorte toccherà all’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, perché dichiarato fuorilegge. Anche in questo caso per i 188 internati si dovrà ricorrere a misure alternative. L’isola è in terza posizione nella black list delle carceri maggiormente affollate, dopo Lombardia e Campania. Ed è la regione italiana con il maggior numero di strutture penitenziarie, in tutto trenta se alle venticinque per gli adulti e all’ospedale psichiatrico si sommano i quattro istituti per minori. Perché così tante? Perché nel tempo agli edifici costruiti durante l’Unità d’Italia e il periodo borbonico, si sono sommati quelli acquisiti dal ministero di grazia e giustizia cioè ex monasteri ed ex caserme, più quelli costruiti negli anni Settanta con il primo programma di edilizia penitenziaria moderna che ne prevedeva la realizzazione fuori dai centri abitati per non ostacolare la fluidità del traffico cittadino. Come il Pagliarelli alla periferia di Palermo con i suoi 1301 internati a fronte di una capienza regolamentare di 816. Vita da detenuto Spenti ed esasperati, i detenuti raccontano il loro disagi ai proprio legali. “Sono nel carcere di Trapani da un paio di anni e la mia vita ormai non ha più senso - racconta una donna - vivo male e mi sento trattata come una bestia. Ogni mese, quando mi viene il ciclo mestruale mi forniscono solo cinque assorbenti, cioè uno al giorno. Ed è solo un esempio per far capire come procede la quotidianità qui dentro. Affronto i problemi esasperanti con grande forza di volontà, aggrappandomi solo al pensiero che alla fine uscirò da qui”. Da Trapani a Messina la vita dei prigionieri non cambia molto. “ “Sono depresso - scrive un detenuto a Brucoli - so di aver sbagliato e pago ma la posta in gioco è troppo alta, mi sento violato nell’anima e nel mio intimo. Condivido una piccola cella con tanti compagni e peso 240 chili a causa di problemi ormonali di cui soffro. È un’umiliazione quotidiana perché per la mia mole non riesco a sedermi sul water che abbiamo in cella e devo fare i miei bisogni al centro della stanza mentre gli altri mi guardano”. Storie e ricorsi si mescolano e sommano sulla scrivania dell’avvocato penalista catanese Vito Pirrone, seicento solo nel 2013, lettere su lettere affollano gli scaffali della stanza del garante, Salvo Fleres. “ Mi chiamo Vincenzo Scafidi e sono un detenuto del carcere di Piazza Lanza dal 2011. Vivo in una cella di 16 mq con annesso servizio igienico e siamo in dieci così dormo su un materasso collocato su un tavolino della cella. Ci sono i letti a castello a quattro livelli e il più alto è posto a 55 cm dal soffitto. Non possiamo stare in piedi tutti insieme per mancanza di spazio, e in ventidue ore, che è il tempo che trascorriamo quotidianamente in stanza, facciamo a turno per stare in piedi. I materassi vengono usati senza soluzione di continuità da tutti e senza disinfestazione. Nel bagno non funziona lo scarico dell’acqua né tantomeno l’impianto di riscaldamento”. Il ricorso presentato da Scafidi è stato accettato e il magistrato di sorveglianza ha invitato la direzione dell’istituto penitenziario di Piazza Lanza di Catania a provvedere subito alla riattivazione dell’impianto di riscaldamento e al reperimento di fondi da destinare alle attività “trattamentali” e sanitarie dell’istituto. “Sono un detenuto dell’Ucciardone di Palermo e soffro di crisi respiratorie ma sono costretto a vivere con compagni che per sfogare il nervosismo fumano in continuazione e per me l’aria diventa irrespirabile”. Anche in questo caso il magistrato di sorveglianza ha accettato il ricorso ordinando lo spostamento di cella del detenuto. Come piccoli quartieri isolati di cui il cittadino conosce poco o niente, le carceri sono realtà di disarmante degrado. “Nella mia cella - scrive un detenuto a Catania - i letti a castello erano a quattro piani. Il mio era proprio al quarto senza alcuna protezione. Una notte, girandomi e rigirandomi, sono piombato a terra e mi sono rotto un braccio, la tibia e il femore. Per miracolo sono vivo. Ho fatto ricorso al magistrato di sorveglianza e ora stanno quantificando il risarcimento pecuniario che mi spetta” Nel gennaio scorso la Corte europea di Strasburgo ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della convenzione dei diritti dell’uomo “per trattamenti inumani e degradanti”, accogliendo il ricorso di detenuti come meno di tre metri quadrati a testa. Secondo le normative europee ciascuna persona non dovrebbe avere meno di sette metri quadrati nelle celle singole. Sono tante le denunce alle Procure. Agenti sotto stress A pagare caro il sovraffollamento sono anche gli agenti della Penitenziaria. Costretti a turni di otto ore invece di sei e sottoposti a stress che in alcuni casi hanno condotto al suicidio, come il tredici luglio scorso quando ad Agrigento si è tolto la vita un assistente capo. In Sicilia la polizia delle carceri può contare su 4.120 agenti. Secondo la legge, per far fronte agli oltre 7.000 detenuti ne mancherebbero circa 800. Al Pagliarelli ne servirebbero altri 150, all’Ucciardone manca il 50% del personale, stesso discorso ad Augusta, carcere per gli ergastolani, dove a sorvegliare gli internati dovrebbero esserci altri 200 uomini. Eppure il prossimo 28 ottobre prenderà il via la nuova rivoluzione delle carceri che garantirà ai detenuti 8 ore al giorno libere fuori dalla cella. “Immaginate oltre duecento pregiudicati nello stesso cortile con la metà degli agenti che dovrebbero sorvegliarli - dice Domenico Nicotra, vicesegretario generale dell’Osapp, sindacato del settore - Vogliono addirittura ripristinare gli idranti per sfollare i detenuti. Si tornerà indietro di 40 anni”. E sottolinea: “Quello siciliano è un carcere che cade a pezzi, su 100 mezzi di trasporto della polizia penitenziaria solo 10 funzionano. Alcuni agenti sono costretti a fare migliaia di chilometri ogni giorno per recuperare con il solo furgone funzionante decine di detenuti nelle varie prigioni”. Per evadere dallo stress c’è chi lascia il corpo. E molti abbandonano il posto di lavoro per candidarsi alle liste cittadine. Un esempio? Nel carcere di Augusta lavorano 250 agenti penitenziari. Qui, gli aspiranti consiglieri erano ben 54. Stesso discorso per Pagliarelli, dove sono stati 34 i poliziotti candidati alle ultime elezioni. Ventinove quelli dalla casa circondariale di Messina. In tutto gli agenti candidati nelle liste cittadine dell’Isola sono stati circa 260. Assenze costate allo Stato più di 500 mila euro. Nella maggioranza dei casi infatti si tratta di candidature fittizie che servono soprattutto a ottenere un lungo congedo previsto dalla legge: 30 giorni di ferie retribuite, dall’accettazione della candidatura al giorno precedente la chiusura della campagna elettorale. Trenta giorni di “vacanza” che pesano come un macigno sulla già grave mancanza di personale nelle sovraffollate prigioni che, puntualmente, ad ogni elezione, si svuotano di poliziotti. “Tanta è la voglia di evadere da uno dei luoghi di lavoro più duri”, dice Nicotra. “Le carceri sono un inferno - continua - ma chi decide di candidarsi rende il lavoro impossibile a chi invece è costretto a rimanere dentro. La verità è che fuggire, anche per 30 giorni, non sana le carenze”. Sanità Non mancano solo gli agenti nelle carceri. Anche Il passaggio al sistema sanitario nazionale dovrebbe riordinare l’organizzazione medica delle carceri. “Cinque anni di ritardo sono veramente allucinanti - spiega Maria Cipri, medico del lavoro nelle carceri di Catania e Giarre - oggi siamo pagati venti euro a prestazione quindi se nel tuo giorno di visita non si presenta nessun paziente non ricevi alcun compenso anche se hai speso il tuo tempo all’interno della struttura penitenziaria. Passando al servizio sanitario nazionale è proprio il tuo tempo che verrebbe remunerato”. Il governatore Crocetta ha dato incarico di predisporre un disegno di legge ma ancora i risultati tardano ad arrivare anche se il Ministero di Grazia e Giustizia ha fatto sapere che dal 31 dicembre 2013 in poi non manderà più i fondi agli istituti penitenziari e quindi l’adeguamento sarà necessario. “Un altro problema spinoso riguarda la scelta dei medici che lavorano dentro le prigioni - continua la dottoressa Cipri - ad oggi non c’è incompatibilità fra il lavoro svolto in una struttura pubblica e quello svolto negli istituti penitenziari. Così il danno è duplice: da una parte si tolgono posti di lavoro a giovani medici in cerca di occupazione a vantaggio di chi già un lavoro ce l’ha e dall’altra un medico che va a lavorare in carcere dopo aver affrontato una guardia di 24 ore non potrà avere mai una resa ottimale”. Le carceri sono ambienti usuranti per tutto il personale che vi lavora come dimostra il caso di un’infermiera che da qualche mese è ricoverata in un reparto di psichiatria proprio a causa dello stress a cui è stata sottoposta lavorando in un penitenziario. Ma perché in Sicilia c’è un ritardo tale nell’adeguamento al sistema sanitario nazionale? Forse perché l’attuale sistema è talmente consolidato che si fatica a venirne fuori? Se durante il governo Lombardo il silenzio ha regnato sovrano ora tutte le speranze sono riposte sul governatore Rosario Crocetta. E in attesa che la politica si muova, dietro le sbarre dell’Isola, in silenzio, si continua a sopravvivere. Teramo: detenuto tunisino di 41 anni muore in cella, forse aveva droga nello stomaco di Alessia Marconi Il Tempo, 20 ottobre 2013 Era entrato in carcere venerdì pomeriggio, dopo la convalida dell’arresto da parte del gip. Ma in quella cella del carcere di Castrogno è rimasto meno di 24 ore, per uscirne cadavere ieri mattina, stroncato da un arresto cardiocircolatorio. Una morte, quella di Amed Ccania, 41enne tunisino, sulla quale la magistratura vuole delle risposte, tanto che il pm di turno, il sostituto Irene Scordamaglia, ha aperto un fascicolo sull’accaduto disponendo l’autopsia sul corpo dell’uomo. Anche se dalle prime ipotesi investigative sembrerebbe che a causare la morte dell’uomo, arrestato giovedì sera dalla Guardia di Finanza di Giulianova, che lo aveva trovato in possesso di alcuni grammi di eroina, potrebbe essere stata l’ingestione e la successiva rottura di alcuni ovuli di stupefacente. Investigatori ed inquirenti, infatti, non escludono che alla vista dei militari l’uomo possa aver ingerito alcuni ovuli con l’obiettivo di far sparire la droga e che nel corso della notte quegli stessi ovuli si siano rotti liberando la sostanza e provocandogli un’emorragia intestinale. Un’ipotesi investigativa che adesso dovrà essere accertata dall’autopsia. A dare l’allarme, ieri mattina intorno alle 11.30, era stato il compagno di cella dell’uomo, che vedendolo immobile nel suo letto aveva pensato ad un malore. Ma dopo essersi avvicinato ed aver cercato invano di svegliarlo si sarebbe reso conto della tragedia e avrebbe immediatamente dato l’allarme. Una prima ricognizione sul corpo dell’uomo avrebbe escluso ogni ipotesi di suicidio o morte violenta. Da qui l’ipotesi di un malore e del successivo decesso per l’ingestione di alcuni ovuli di eroina. Quello avvenuto ieri mattina nel carcere di Castrogno non è che l’ultimo decesso in ordine di tempo avvenuto all’interno dell’istituto penitenziario teramano. Pochi mesi fa, a perdere la vita mentre si trovava all’interno del penitenziario teramano, era stato il 35enne Vincenzo Fabiano, che secondo l’autopsia sarebbe stato stroncato da un edema polmonare. Due casi molto diversi, ma che hanno riacceso ancora una volta i riflettori su uno degli istituti carcerari più affollati d’Italia e dove tra il sovraffollamento, la cronica carenza d’organico e l’arrivo continuo di detenuti con patologie fisiche e psichiche diventa sempre più difficile garantire la sicurezza sia dei detenuti che degli agenti. Tanto che solo qualche giorno fa, intervistato dal nostro giornale nell’ambito di un’inchiesta sulle condizioni delle carceri abruzzesi, il segretario del Sappe Giuseppe Pallini, nell’affrontare le tante questioni irrisolte del penitenziario teramano, sottolineava come il fatto di avere la presenza del medico 24 ore su 24 comporta se non solo un aggravio di lavoro ma anche problemi legati alla gestione di particolari categorie di detenuti. Senza contare che il carcere teramano è anche l’unico in Abruzzo ad avere una sezione femminile. Con tutto ciò che questo comporta anche in relazione alla gestione delle detenute con figli piccoli. “Tutti i soggetti che hanno problemi sanitari vengono dirottati a Teramo proprio per la presenza fissa del medico - aveva dichiarato Pallini - Se uno ha disturbi cardiologici deve per forza essere detenuto a Castrogno. Il medico spesso non basta e il personale di vigilanza è costretto continui viaggi verso l’ospedale. A Teramo abbiamo la presenza di un medico specialista in psichiatria venti ore alla settimana. Ecco, quindi, che in carcere arrivano tutti i detenuti con problematiche gravi. Aumenta il rischio suicidi. In questo momento abbiamo due detenuti che devono essere sorvegliati a vista. Ciò comporta che otto unità sono destinate in un giorno esclusivamente a quel servizio. E la questione del personale è un altro capitolo senza soluzioni”. E se la morte di ieri mattina, probabilmente, non poteva essere evitata, altre sono state sventate solo grazie al pronto intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Napoli: famiglia detenuto denuncia “con diagnosi di tumore non è stato curato ed è morto” www.today.it, 20 ottobre 2013 Nonostante le condizioni di salute, dicono i parenti, il congiunto non è stato curato. Antonino Vadalà, 61 anni, è morto il 16 ottobre scorso all’ospedale Pellegrini di Napoli. Stava finendo di scontare una condanna a sette anni di carcere per associazione mafiosa. La denuncia arriva dai famigliari di Antonino Vadalà, 61 anni, morto il 16 ottobre scorso all’ospedale Pellegrini di Napoli. Stava finendo di scontare una condanna a sette anni di carcere per associazione mafiosa, dopo essere stato giudicato nel processo scaturito dall’operazione “Bellu lavuru” che fece luce sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta negli appalti sulla Ss 106. È stata presentata dai familiari dell’uomo una denuncia querela alla Procura di Napoli: nonostante le condizioni di salute, dicono i parenti, il congiunto non è stato curato. La salma è stata sequestrata e probabilmente in questa settimana verrà conferito l’incarico per l’autopsia. I fatti: lo scorso agosto Vadalà si era sentito male nel carcere di Melfi e gli era stato diagnosticato un neurinoma acustico, una neoplasia vicino al cervelletto. Era stato portato all’ospedale San Carlo, gli era stata prescritta la radioterapia. Francesco Floccari, il legale che assiste la famiglia, aveva inoltrato istanza al Tribunale di Sorveglianza chiedendo il rinvio dell’esecuzione della pena e in via subordinata la concessione degli arresti domiciliari o comunque il ricovero in una struttura altamente specializzata che era già stata individuata dai familiari. Però dopo due settimane il magistrato ha rigettato l’istanza motivandola col fatto che un altro istituto a Rionero in Vulture dove il detenuto era stato ricoverato (e i famigliari lamentano di non essere stati avvertiti) era in grado di applicare un’altra tecnica di cura. Nel decreto però non ha disposto il ricovero bensì il rientro del malato nel carcere di Melfi. Le condizioni dell’uomo si sono aggravate nel tempo, a causa anche di una polmonite che lo ha debilitato ulteriormente. Poiché in quell’istituto penitenziario non era possibile curarlo, è stato trasferito al carcere di Secondigliano ma anche lì le difficoltà erano oggettive, non trattandosi di una struttura sanitaria. Il 25 settembre il legale ha inoltrato una nuova istanza facendo presente che la situazione era grave e finalmente il 3 ottobre il magistrato di sorveglianza ha accolto la richiesta. Ma ormai la situazione era talmente grave che non è stato possibile notificargli l’atto. Antonino Vadalà nel frattempo era stato ricoverato nel reparto di rianimazione prima all’ospedale Cardarelli di Napoli e poi al Pellegrini. Lì è deceduto il 16 ottobre. Carmelo Vadalà, il figlio, anch’egli detenuto perché coinvolto nella stessa operazione di polizia e condannato a sei anni e sei mesi di carcere, aveva chiesto di poter incontrare il padre in via eccezionale considerato che stava male. Il permesso non gli fu dato perché, raccontano i familiari, l’amministrazione competente aveva giustificato l’insussistenza di imminente pericolo di vita. Ora i parenti di Antonino Vadalà hanno sporto denuncia querela “perché anche se lui era colpevole, stava scontando la sua condanna. Sarebbe uscito tra pochi mesi. Ma qui sono stati calpestati i diritti umani e speriamo che non debba capitare più a nessuno”. Trieste: detenuto suicida; autopsia e test tossicologici, fascicolo in Procura contro ignoti di Piero Rauber Il Piccolo, 20 ottobre 2013 Potrebbe aprirsi e chiudersi in tempi brevi. Ma anche no. Immediati, per intanto, proprio non saranno, com’era invece trapelato inizialmente, dal momento che è stato stabilito che si passerà comunque, preventivamente, per autopsia, esami tossicologici, audizioni e approfondimenti documentali. Quello sul suicidio di Giulio Simsig in cella - su cui in Procura si comincerà a scrivere non appena sarà depositata la relativa segnalazione della polizia penitenziaria - non sarà insomma un fascicolo Ncr, riguardante cioè i cosiddetti fatti “non costituenti reato”, e sarà anzi aperto a carico di ignoti. E non sarà poi - dati gli ultimi presupposti è presumibile che la strada diventi questa - la stessa Procura a chiuderlo. Se sarà confermata l’insussistenza degli estremi di un’eventuale responsabilità colposa per omessa vigilanza a carico delle guardie carcerarie - se non ci sarà traccia di imprudenze o violazioni di protocolli di sorveglianza - l’istanza di archiviazione sarà probabilmente avanzata al gip o al giudice di pace, a seconda delle ipotesi di reato approfondite. L’orientamento della Procura teso a fare un ulteriore approfondimento dopo il sopralluogo sul posto del suicidio subito dopo che era avvenuto - per sgomberare ogni dubbio, per illuminare ogni minimo cono d’ombra - emerge dalle ultime intenzioni del pubblico ministero di turno la mattina della morte di Simsig, titolare del fascicolo, cioè il “sostituto” Antonio Miggiani, d’intesa col procuratore capo facente funzioni Federico Frezza. I passi che verranno seguiti -non appena tale fascicolo sarà aperto - saranno quindi, come detto, la disposizione dell’autopsia e di una serie di esami tossicologici. Questo per accertare che la decisione estrema, senza ritorno, non sia stata presa dal detenuto sotto l’effetto di alcol, psicofarmaci o chissà che altro assunto di nascosto. Dopodiché la Procura - riservandosi pure di sentire le guardie in servizio nelle ore che hanno preceduto e seguito il decesso di Simsig - dovrebbe procedere all’acquisizione di documenti ad ampio “raggio”: oltre alle cartelle della struttura medica del Coroneo, attestanti lo stato di salute dello stesso gruista, l’attenzione potrebbe in effetti spaziare dai regolamenti carcerari generali, dati dalle norme nazionali, alle circolari ministeriali, fino ad eventuali ordini di servizio interni alla casa circondariale, al caso dedicati - sempre che ci fossero - alla condizione mentale di Simsig, che nel luglio del 2012 aveva già tentato di farla finita a Palazzo di giustizia mentre lo stavano portando al Tribunale del riesame. Le guardie l’avevano acciuffato per i piedi, dopo che s’era buttato oltre la balaustra del secondo piano che s’affaccia sul chiostro centrale. Un episodio che aveva pesato evidentemente nel recente diniego del Tribunale alla richiesta di un trasferimento ai domiciliari avanzata dal difensore, l’avvocato Sergio Mameli. Negli ultimi tempi - così è venuto fuori dopo la sua morte - Simsig aveva seguito un’autentica conversione, un profondo viaggio nella fede, diventando uno dei più stretti collaboratori di padre Silvio Alaimo, il gesuita cappellano del Coroneo. Cercava un perché all’atrocità che aveva commesso, una via di ritorno dall’omicidio della ex, Tiziana Rupena, datato 11 settembre 2011, per il quale era stato condannato in appello a 16 anni e otto mesi. Ma il rimorso che lo divorava, alla fine, l’ha sopraffatto. Pesaro: dopo suicidio la rivolta dei detenuti e la protesta degli agenti, il carcere è l’inferno Il Resto del Carlino, 20 ottobre 2013 Il carcere di Villa Fastiggi è fatiscente. Non è vecchio, ma è soltanto costruito male e mantenuto peggio. C’è sovraffollamento, ma è del tutto assente anche un bidone di vernice per dipingere i muri. Gli intonaci cadono a pezzi, e nessuno ha pensato che anche un ambiente pulito e verniciato potrebbe essere d’aiuto a chi deve passare giorni e anni in quel posto. A beneficiarne sarebbero i detenuti ma pure il personale che vi lavora. Non è un caso che sia scoppiata una protesta nei giorni scorsi da parte dei reclusi dopo il suicidio di un giovane marocchino trovato impiccato in cella dopo aver avuto una condanna a sette anni di carere. I detenuti hanno lanciato bombolette del gas (vuote) e si sono rifiutati di mangiare praticando lo sciopero della fame. Ci sono stati momenti di tensione che la polizia penitenziaria ha tenuto sotto controllo ma non senza qualche difficoltà per la volontà dei reclusi di far esplodere la protesta in maniera eclatante. Poi ieri è tornata la calma ed è stato sospeso lo sciopero della fame. Ecco cosa ci ha scritto Andrea Chiatti, segretario Uil degli agenti penitenziari: “Un detenuto magrebino 33 enne, si è tolto la vita impiccandosi nel bagno della camera detentiva con i lacci delle scarpe. È successo nel carcere di Pesaro giovedì sera poco prima della mezzanotte, era stato condannato a sette anni, qualche giorno fa. Nulla è valso l’intervento tempestivo del personale di polizia penitenziaria facendo intervenire i sanitari, dove purtroppo hanno appurato il decesso. La polizia penitenziaria è sempre più sola a fronteggiare questo tipo di emergenze, purtroppo, sempre meno in grado di risolverle. Anche oggi gli operatori hanno dovuto a far fronte ad una vera e propria rivolta da parte di alcuni detenuti con lanci di bombolette di gas al rientro dai passeggi creando disguidi compromettendo la sicurezza nell’istituto. Grazie solo al senso del dovere, alla deontologia degli agenti, si è riuscito a riportare l’ordine nel penitenziario. Purtroppo aver evitato, parzialmente, un’ecatombe da numeri spropositati, forse, contribuisce al silenzio e all’indifferenza della quasi totalità dello schieramento politico rispetto al dramma che si consuma ogni giorno nelle nostre prigioni, è evidente, certificato sovrappopolamento di Villa Fastiggi occorre coniugare anche le condizioni strutturali che conseguono alla mancata manutenzione degli ambienti”. Riferisce il padre di un detenuto che ha telefonato ieri in redazione: “Venerdì sono andato a trovare mio figlio e c’era in corso lo sciopero della fame. Poi ho visto salire del fumo. Mi hanno detto che i detenuti avevano dato fuoco a lenzuola e coperte anche se poi le fiamme sono state prontamente spente. C’era un gran chiasso, battevano dei ferri sulle bombolette del gas che hanno in dotazione. Mi dicevano che per fortuna quelle bombole erano vuote perché altrimenti c’era il rischio di esplosione. Sono preoccupato. Spero che si sistemi meglio quella struttura perché ci vivono degli esseri umani” Oristano: trasferiti a Massama 43 detenuti mafiosi, anche boss ‘ndrangheta Rocco Morabito di Elia Sanna La Nuova Sardegna, 20 ottobre 2013 Dovevano arrivare la scorsa settimana, ma dei problemi tecnici ne avevano fatto slittare la partenza. Ieri sera, con un volo charter, sono arrivati 43 detenuti nel nuovo carcere di Massama. La maggior parte sono in regime di alta sorveglianza. Tra loro ci sarebbe anche Rocco Morabito, uno dei più potenti boss della ‘ndragheta calabrese. Non ci sono solo italiani ma anche musulmani e cinesi. L’aereo è arrivato nel primo pomeriggio all’aeroporto di Elmas, proveniente da Milano. Un volo speciale predisposto dal ministero della Giustizia e coperto dal massimo riserbo. Questa volta lo spiegamento di forze è stato molto meno evidente del passato proprio per evitare gli sguardi indiscreti. Prima delle 15 i detenuti sono stati fatti salire su un autobus della polizia penitenziaria. Con l’ausilio di una robusta scorta di agenti, l’automezzo è partito alla volta di Oristano. Un’ora dopo circa il bus ha lasciato la 131 e ha imboccato la provinciale con direzione il carcere di Massama. Controllati da decine di agenti i nuovi ospiti sono entrati in carcere e dopo le relative immatricolazioni sono stati trasferiti al terzo piano della struttura riservata proprio ai detenuti ad alta sorveglianza. Si tratta del reparto sottoposto alcuni mesi fa ai lavori di ristrutturazione. Proprio in quella parte del carcere erano state riscontrate delle lesioni al tetto che avevano causato infiltrazioni d’acqua. Dopo tante polemiche e numerosi rinvii alla fine, come previsto e annunciato, sono sbarcati anche ad Oristano i primi detenuti ad alta sorveglianza. I dettagli del loro trasferimento erano stati studiati qualche settimana fa dallo stesso ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. La conferma della sua presenza non era dovuta infatti sola alla visita di Papa Francesco. In quell’occasione avrebbe riunito i direttori delle carceri isolane tra i quali il responsabile del penitenziario di Massama, Pierluigi Farci. Alla fine quindi il primo tassello si è chiuso: nonostante le proteste e le interpellanze parlamentari, mafiosi e camorristi sono arrivati nell’isola. I nuovi ospiti del carcere di Massama sono persone che hanno avuto condanne per reati di mafia e che sono stati affiliati alle cosche pur non essendo tra gli elementi di spicco della criminalità organizzata, rimangono dei detenuti particolari con alle spalle rapporti che si possono tranquillamente definire pericolosi per infiltrazioni anche nel tessuto sociale del territorio. Non sarà facile avere conferme ma le indiscrezioni confermerebbero che tra loro ci possa essere Rocco Morabito, uno dei figli di Giuseppe “U Tiradrittu”, finito in carcere a marzo scorso dopo un blitz che ha portato all’arresto di 20 persone affiliate alla ‘ndrangheta con interessi in mezza Europa. La presenza di esponenti della malavita organizzata a Massama confermerebbe le qualità di sicurezza della nuova struttura nella quale proprio di recente sono arrivati anche i primi rinforzi. Molti degli agenti, sono sardi, rientrati dopo anni di lavoro nelle carceri di mezza Italia. Alcuni di loro, di recente, sono stati sottoposti ad addestramenti speciali proprio per essere pronti ad affrontare i nuovi detenuti ad alta sorveglianza. Occorrerà ora vedere se il loro arrivo scatenerà nuove proteste da parte di alcune forze politiche contrarie al loro arrivo in Sardegna. Milano: volontari oltre le sbarre, studenti Politecnico e detenuti di Bollate ridisegnano le celle Corriere della Sera, 20 ottobre 2013 La storia di un progetto speciale: “Se si trova il coraggio di oltrepassarlo, quel muro, ci sono le persone”. Studenti del Politecnico e detenuti studiano come ridisegnare le celle. Studenti del Politecnico e detenuti studiano come ridisegnare le celle. Più facile mettere cesure nette, considerare il muro delle prigioni come uno spartiacque tra bene e male, buoni e cattivi. Ma se in qualche modo si trova, non senza fatica, lo slancio per oltrepassarlo, quel muro, ci si immerge nell’energia lucida e fredda che gli sta dietro e si procede ancora, fino alle persone, la prospettiva cambia completamente. L’hanno capito gli studenti del Politecnico che nei mesi scorsi hanno frequentato il carcere di Bollate e guidati dai due docenti Emilio Caravatti e Lorenzo Consales hanno incontrato i detenuti del Gruppo della trasgressione con i volontari coordinati da Juri Aparo, ex docente di psicologia della devianza. Da lì, fiammifero acceso quasi per caso, è scaturito un progetto speciale che ha fatto bene a tutti. “Nelle prigioni c’è chi rinuncia alla sua ora d’aria pur di vivere i pochi metri quadri un pò più sgombri, in libertà: lo spazio, se opprime, rende passivi mentre dovrebbe indurre immaginazione e uso produttivo del tempo. Abbiamo ridisegnato celle e superfici comuni con idee low cost, partendo dalle esigenze di chi ci abita”, si scalda Consales. “La dimensione progettuale ha coinvolto tutti, al di là di qualche iniziale resistenza anche i detenuti erano entusiasti. Le ipotesi emerse potrebbero attuarsi con spese contenute ma al di là dell’applicazione è lo scambio ad avermi colpito” fa eco Caravatti. Muri interattivi, spioncini a caleidoscopio, pareti che proiettano paesaggi, finestre incorniciate da libri che cambiano ogni giorno, angoli attrezzati e soppalchi o tende bicolor per dare a un ambiente che suggerisce monotonia, alienazione, mancanza di riservatezza “le ali di creatività indispensabili per allargare, almeno in percezione, gli orizzonti” . Lavorare con chi ha sbagliato, imparare ad accettare anche le zone d’ombra come parte costruttiva delle relazioni, fa notare ancora Aparo, “protegge il bene pubblico più della separatezza garantita dalle mura del carcere: i progetti condivisi aiutano a prevenire la sensazione di impotenza e marginalità che tanto peso assume nel ritiro o nella condotta deviante”. Lo dicono anche i dati, del resto, spieghiamo domenica 20 ottobre nelle pagine della Città del bene: quando le persone si inseriscono in percorsi di rieducazione sociale il tasso di recidiva crolla dal 70% a poco più del 10% Comunicazione anche come chiave di riscatto, allora: i volontari oltre le sbarre, più di diecimila in Italia con una cinquantina di cooperative sociali solo a Milano, alimentano tra fuori e dentro quell’osmosi vitale e sana senza la quale i detenuti sarebbero condannati all’isolamento senza prospettive, causa quasi certa di ogni mancato reinserimento. Molti studenti continueranno a frequentare Bollate e il Gruppo della trasgressione anche adesso che il progetto è finito: coi detenuti si è creato un filo, una consuetudine che resiste, e forse nasceranno altre idee. Loro lo dicono chiaro, fuori da ogni banalità: a conoscersi meglio, spesso ci si piace di più. Immigrazione: dallo zoo di Tripoli al container-lager… detenuti in Libia per conto dell’Italia Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 20 ottobre 2013 La denuncia delle reali condizioni in cui versano i rifugiati somali detenuti in Libia per conto dell’Italia. Un reportage tv che svela indirettamente anche le ambiguità dell’attuale missione militar-umanitaria. “Freedom... freedom... freedom”, il televisore rimbomba di grida quasi sincopate: sono persone giovani, alcune adolescenti, che urlano, cantano, ritmando dietro le sbarre di prigioni-container. È il reportage di Amedeo Ricucci sulla condizione reale dei migranti africani nella nuova Libia, andato in onda venerdì su Tv7. Un documento, eccezionale quanto inequivocabile, che illumina, le responsabilità italiane. Il giornalista Rai, già collaboratore del manifesto, ha raccontato la disperazione di tremila immigrati rinchiusi in un centro di detenzione a 50 km da Tripoli, controllati armi alla mano da miliziani del Jebel Nafusa “che sanno fare la guerra”, tutti catturati mentre erano in procinto di lasciare il territorio libico per raggiungere l’Italia e l’Europa. In fuga dalla guerra e dalla miseria della Somalia. Sono loro stessi a dirlo. Ma ora vivono da molti, moltissimi mesi rinchiusi nelle gabbie dei “centri di accoglienza” libica, i campi di concentramento che l’Italia finanzia e organizza con le “autorità” libiche. E dal reportage emerge che in quella condizione ci sono più dì 50mi-la persone e che altrettante sono state rispedite nei luoghi di provenienza. Mentre urlano da dietro le sbarre il bisogno di libertà, di una condizione migliore della fame, delle guerre. Per “il diritto di cambiare il mio destino” ripete ossessivamente un ragazzo recluso. Smistati come animali. Infatti sono stati raccolti prima nell’area dello zoo di Tripoli prima di finire nell’accoglienza” dei container-lager. E vengono tenuti in galera per noi. Perché quei campi di concentramento altro non sono che il risultato diretto dei trattati voluti dall’Italia e firmati con la Libia, prima tra Gheddafi e Berlusconi (con approvazione bipartisan del parlamento italiano) e poi riattivati dopo l’ottobre 2012 con le nuove “autorità” dopo la caduta nel sangue del Colonnello libico. E che ora vengono ripristinati dal governo Letta-Alfano come risposta ai naufragi a mare dei barconi e alle stragi di Lampedusa e Malta. La denuncia del reportage televisivo sulla condizione reale dei migranti africani sequestrati in Libia, arriva negli stessi giorni in cui solerti funzionari del governo italiano trattano con il “governo” libico sui rimpatri, la sicurezza dei porti e il pattugliamento a mare. Mettiamo le virgolette alla parola governo, perché in Libia non esistono autorità, le istituzioni ufficiose centrali per “governare” usano milizie armate spesso contrapposte, come dimostrano la cattura recente del premier Zeidan, gli assalti e gli incendi dei ministeri, gli attentati alle ambasciate e l’uccisione, solo venerdì scorso, del capo della polizia. Sarebbe davvero interessante sapere con quale banda annata tratta il governo Letta-Alfano. Intanto l’Italia ha avviato, senza discuterne in parlamento, la “missione militare-umanitaria” per il soccorso a mare dei barconi di esseri umani in fuga e per il contrasto dell’immigrazione clandestina. Una commistione d’intenti che rischia di trasformarsi, in mare, in pericolosa ambiguità. Come definire altrimenti la doppiezza governativa? Con il cittadino Letta che si augura la fine della Bossi-Fini e il ministro Alfano che la difende e che insiste sulla perseguibilità del reato di clandestinità. Due le soluzioni, entrambi sulla pelle delle persone migranti. Male che vada, come purtroppo è prevedibile - al di là dell’umanità dei militari impegnati e delle storiche regole del mare - il contrasto umanitario che perseguita il reato di clandestinità pretende aggressività, volontà d’ordine, repressione, abbordaggio contro gli scafisti, recupero e accompagnamento al porto vicino più sicuro e anche a quello di provenienza. È l’ingaggio strabico che non è stato dichiarato da nessuno, ma che così dovrà essere applicato. Senza memoria di quello che fu nel marzo 1997 la tragedia annunciata della Kater I Rades, contrastata in mare dalla Sibilia della Marina militare che provocò 108 vittime, perché applicava il blocco navale militar-umanitario deciso davanti all’Albania dall’allora governo di centrosinistra. E invece, bene che vada, l’attuale missione militar-umanitaria, riporterà gli esseri umani che ci ostiniamo a considerare clandestini, in Libia (o a Malta perché tornino il Libia o a Lampedusa perché poi tornino in Libia), nei lager descritti nel reportage di Amedeo Ricucici. Una inchiesta, la sua, che dovrebbe essere vista dal parlamento italiano, che dovrebbe sentire l’autore nelle sue commissioni esteri e interni. Ci auguriamo che accada. Temiamo invece che non accadrà nulla. Solo, domani, un rumoroso silenzio militar-umanitario e tante lacrime e parole di circostanza ai funerali senza bare ad Agrigento delle 387 vittime del massacro di Lampedusa. Solo le ultime delle migliaia delle quali siamo responsabili. India: ministro Bonino su “caso marò”; rapporti con Paesi terzi complessi e delicati Adnkronos, 20 ottobre 2013 L’Italia “segue 3200 italiani nelle carceri nel mondo e li segue uno per uno e cerca di dare assistenza a tutti, come è giusto che un paese faccia”. Lo ha detto Emma Bonino, ministro degli Esteri, parlando del caso marò al convegno dei giovani imprenditori di Confindustria. “Ma al netto di aprire bombe nucleari ovunque - ha aggiunto - i rapporti con i paesi terzi sono complessi e delicati. Nella pretesa del rispetto dello stato di diritto, per esempio, tantissima credibilità da spendere all estero noi magari non ce l’abbiamo”. Stati Uniti: più facile la chiusura Guantánamo con la fine guerra in Afghanistan Adnkronos, 20 ottobre 2013 L’avvicinarsi della fine della guerra in Afghanistan potrebbe aiutare il presidente Barack Obama ad ottenere quello che ha detto di voler fare dal suo primo giorno alla Casa Bianca: chiudere la prigione di Guantánamo. Finora il Congresso si è opposto al rilascio o al trasferimento dei 164 detenuti rimasti nel campo di prigionia istituito da George Bush nel 2001 catturati in Afghanistan e sugli altri fronti della guerra al terrorismo. Ed ora gli esperti legali dell’amministrazione democratica stanno studiando se la fine ufficiale del conflitto in qualche modo mette in discussione l’autorità legale degli Stati Uniti di continuare queste detenzioni. Infatti, anche se l’amministrazione Bush fu attenta a non definire mai i catturati prigionieri di guerra per non garantire loro il rispetto della convenzione di Ginevra, la fine del conflitto potrebbe portare a mettere fine a oltre una decine di talebani catturati, che potrebbero presentare appello alle corti federali. “Secondo la sentenza della Corte Suprema, l’autorità di detenere qualcuno imprigionato perché belligerante, può terminare se la guerra combattuta finisce. Credo che questa sia una questione reale”, ha detto il generale Mark Martins, procuratore capo delle commissioni militari di Guantánamo. I detenuti di Guantánamo sono imprigionati, molti da oltre 12 anni, in maggioranza senza incriminazione, sulla base dell’autorizzazione all’uso della forza votata dal Congresso contro chi “ha pianificato, autorizzato, commesso o aiutato” gli attacchi dell’11 settembre. Quindi l’ideale per Obama sarebbe di sbarazzarsi di questa autorizzazione, che continua ad essere vigente e rendere legali le azioni anti-terrorismo americane, per sostituirla con una versione più specifica per le azioni contro i nuovi gruppi collegati ad al Qaeda nel Medio Oriente, in Africa e contro nuove possibili minacce. Quindi la decadenza di questa autorizzazione permetterebbe anche agli altri detenuti che non sono stati catturati in Afghanistan di chiedere, finalmente, di poter comparire di fronte ad un giudice. “Se questa cade veramente non si avrebbe più l’appiglio legale per continuare le detenzioni” dice una fonte dell’amministrazione. Questo però non risolverebbe tutti i problemi, perché, anche con il trasferimento dei prigionieri contro i quali non è stato avviato alcun procedimento, l’amministrazione avrebbe sempre avere una prigione dove tenere invece quelli contro i quali sono stati avviati i processi delle commissioni militari, compresi i pianificatori degli attentati dell’11 settembre, che il Congresso ha proibito di trasferire in prigioni americane. E rimarrebbero da sistemare anche una 40 di detenuti che sono stati dichiarati potenzialmente pericolosi ma che è impossibile processare. Stati Uniti: ritrovati 2 detenuti liberati per errore, in un motel di Panama City, in Florida La Presse, 20 ottobre 2013 È finita la caccia all’uomo in Florida: nella notte sono stati trovati e arrestati i due detenuti liberati per errore qualche giorno fa da un carcere dello Stato. I due, entrambi condannati all’ergastolo per omicidio, sono stati catturati senza incidenti in un motel di Panama City, in Florida, intorno alle 18.40 ora locale. Joseph Jenkins e Charles Walker, questi i loro nomi, hanno entrambi 34 anni. Il primo era stato riconosciuto colpevole della rapina finita male e dell’omicidio di un uomo di Orlando, Roscoe Pugh, in un caso risalente al 1998; è stata proprio la famiglia di Pugh questa settimana a contattare l’ufficio e ad avvisare ch Jenkins era stato rilasciato, facendo partire così la caccia all’uomo. La procura aveva scoperto così anche il caso di Walker, liberato anche lui per errore; Walker era stato condannato per omicidio nel caso dell’uccisione di un 23enne, Cedric Slater, avvenuta nel 1999 nella contea di Orange. Messico: scrive al Papa il professore indigeno da 13 anni in cella di Fabrizio Lorusso L’Unità, 20 ottobre 2013 Condannato senza prove, per Amnesty e la Chiesa locale è un prigioniero politico. Da metà settembre Città del Messico è invasa da gruppi di indigeni che vengono da lontano, dall’estremo sud del paese, per protestare. I manifestanti camminano lungo l’immensa Avenida Central che taglia in due il centro storico o si ritrovano sotto i palazzi del potere. “All’innocente catene e indifferenza, al criminale libertà e protezione, la giustizia c’è per solo chi se la compra e non per chi se la merita, libertà al Prof. Patishtàn”, c’è scritto sui loro striscioni. Il professore indigeno dell’etnia tzotzil Alberto Patishtàn, insegnante di provincia nello stato meridionale del Chiapas, è in prigione da 13 anni per un omicidio che non ha commesso. A metà settembre il tribunale federale della capitale del Chiapas, Tuxtla Gutiérrez, ha respinto il ricorso degli avvocati di Patishtàn che chiedevano la sua scarcerazione e le piazze si sono riempite. Patishtàn è accusato di aver partecipato a un’imboscata in cui morirono sette poliziotti il 12 giugno del 2000. Il professore è stato prima prelevato da quattro agenti in borghese senza mandato di cattura, imprigionato e malmenato in carcere. Due anni dopo è stato condannato a 60 anni in base alle deposizioni di un unico testimone. Secondo Amnesty International il processo è stato ingiusto, “non si sono considerate le contraddizioni nelle dichiarazioni del testimone che avrebbe riconosciuto Alberto e le testimonianze che indicavano che si trovava da un’altra parte”. Patishtàn nel giorno dell’imboscata stava dando lezioni in un’altra città, ma il suo alibi è stato ignorato. Il “Profe”, com’è soprannominato Patishtàn, si era inimicato il sindaco di El Bosque e il governatore del Chiapas per il suo attivismo politico e perché era a capo della protesta di un gruppo di cittadini contro l’ondata di omicidi e l’insicurezza nella regione. Dopo la decisione sfavorevole del tribunale, l’unica strada per il Profe è rivolgersi alla Corte Interamericana dei Diritti umani. La Corte può obbligare lo Stato messicano a liberarlo, ma la sentenza richiede un iter di vari anni. “Siamo tutti Patishtàn, continueremo a lottare”, assicurano gli attivisti di comitati, organizzazioni e le persone che sostengono il professore. “Di nuovo vediamo che la giustizia c’è solo per chi ha la pelle bianca e gli occhi azzurri, non per gli indigeni”, dice il figlio del Profe, Héctor Patishtàn. Il vicario dell’arcidiocesi di Tuxtla, José Luis Aguilera, ha espresso solidarietà a Patishtàn, definendolo “un prigioniero politico di un sistema afflitto da irregolarità”. Il Profe ha inviato una lettera a Papa Francesco per informarlo della sua situazione. “La mia luce resta accesa non tanto perché io ci veda, ma affinché gli altri s’illuminino”, ha scritto a Bergoglio. In questi anni Patishtàn ha insegnato a leggere e scrivere a decine di detenuti, ha lottato per migliorare le loro condizioni di vita e ha fondato il collettivo Voz del Amate che, collegandosi ai movimenti e alla società civile, è riuscito a far ottenere il rilascio di 137 prigionieri. Nell’ottobre 2012 il Profe ha superato un’altra prova, quella contro il cancro: gli è stato asportato un tumore al cervello. Per questi anni di resistenza Patishtàn è diventato un simbolo, ma, nonostante l’appoggio di alcuni parlamentari e di una parte crescente dell’opinione pubblica, non ha ancora vinto la sfida con l’ingiustizia. Il leader storico della sinistra messicana, Cuauhtémoc Càrdenas, e organizzazioni straniere come il Movimento dei Senza Terra brasiliano, i francesi di Espoir Chiapas e i tedeschi di B.A.S.T.A. difendono la sua causa. Amnesty ha raccolto sedicimila firme con la campagna “Nessun giorno in più senza giustizia” sostenendo che “il sistema di giustizia messicano è incapace di garantire un processo giusto ed equo, specie se le persone accusate sono d’etnia indigena”.