Giustizia: la vergogna delle prigioni lager di Maurizio Gallo Il Tempo, 1 ottobre 2013 I numeri segreti sull’indecente sovraffollamento nelle galere italiane. Quasi un quarto dei detenuti in eccesso. La metà è in attesa di giudizio. È una tortura, ma non si chiama così. Dovrebbe rieducare, invece è diseducativa, per usare un eufemismo. Il suo scopo ultimo, oltre che di difesa sociale, sarebbe quello di restituire alla società un cittadino “riabilitato”. Al contrario, chi vive questa esperienza ne emerge più socialmente pericoloso di prima. È la detenzione in carceri sovraffollati, dove i galeotti sono stipati in celle strapiene e la tensione provoca periodicamente risse, ferimenti, atti di autolesionismo, suicidi, ribellioni. “Il Tempo” ha scovato i dati segreti di un fenomeno che è costato al nostro Paese l’ultimatum della Corte europea dei diritti dell’uomo: l’Italia ha un anno di tempo per risolvere il problema e, in base alla sentenza dei giudici di Strasburgo, dovrà anche introdurre una procedura per risarcire i detenuti. E veniamo ai numeri della vergogna. Al 31 luglio 2013 nei 206 istituti di pena dello Stivale c’erano la bellezza di 64.873 persone. Per il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Giovanni Tamburino, che ha riferito sulla drammatica situazione in Senato, a metà settembre i detenuti erano più di 65 mila. La capienza, però, è soltanto di 47.459 posti. La differenza è, quindi, di 17.414 unità, quasi un quarto del totale oltre le possibilità di accoglienza dei nostri penitenziari. In testa alla claustrofobica classifica del pigia pigia c’è il Veneto, con più di tremila carcerati su meno di duemila posti. Seguono a ruota Puglia, Lombardia, Campania. Nel Lazio il rapporto è di 4.834 a 7.175, cioè 2.341 in eccesso rispetto alle possibilità di accoglienza. In Abruzzo siamo a 1.534 contro 2.047 (513 eccedenti) e, in Molise 391 a 505 (+114). Nelle tabelle che pubblichiamo qui accanto potete verificare la disastrosa situazione in tutta Italia e, carcere per carcere, in due regioni in particolare, Lazio e Abruzzo. Per risolvere questo dramma vissuto quotidianamente sulla pelle da decine di migliaia di persone, che devono sì scontare la pena ma non in modo inumano, non servono provvedimenti d’emergenza come l’indulto. E non basta costruire nuovi edifici se l’edilizia carceraria non viene accompagnata da una politica penitenziaria adeguata. Lo stesso direttore Tamburino ha fornito in Parlamento i dati sull’efficacia dell’indulto applicato nel giugno 2006. Cifre non confortanti. Quel mese dietro le sbarre c’erano 61.264 persone che, a dicembre, scesero di 22.000 unità, portando il numero complessivo a 39.005. Ma l’effetto fu di breve durata. Quattro anni più tardi, cioè nel giugno del 2010, i detenuti erano 68.258. E dopo altri sei mesi, 69 mila. Quali sono le cause del fenomeno? Il sovraffollamento nasce nelle aule di tribunale. Il ricorso troppo frequente alla custodia cautelare (oggetto di uno dei referendum dei radicali) e la lunghezza dei processi che sono alla sua origine, rappresentano indirettamente una grave violazione della Carta Costituzionale. Chi è soggetto a restrizioni della libertà quando ancora non è stato giudicato, infatti, è costretto a espiare una pena anticipata e mai comminata (la metà dei detenuti sono in attesa di giudizio). Non di rado il giudice che accoglie le richieste di custodia in cella del pubblico ministero di turno lo fa in base a uno dei tre “pericoli” previsti dal codice: la reiterazione del reato. Ma se il rischio di fuga (se si hanno conti e amicizie o disponibilità di case all’estero, ad esempio) e quello di inquinamento delle prove (si può stabilire se il soggetto ha questo potere in base alla sua posizione nella società) sono in qualche modo accertabili, la probabilità di reiterazione è impossibile da dimostrare ed è a completa discrezionalità del giudice. Senza calcolare che nel nostro Belpaese il ricorso a misure alternative al carcere è minimo e che molti dei detenuti sono stranieri e potrebbero essere espulsi per scontare la pena in Patria. Oppure sono tossicodipendenti e potrebbero essere trasferiti in una comunità di recupero sotto il controllo della polizia penitenziaria. Ma anche quello degli agenti è un problema che influisce negativamente. Per il Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, all’appello mancano 7.000 unità e il turn over è fermo da tempo. Il risultato è devastante. Per i carcerati e per l’intera società, che paga il prezzo del sovraffollamento in termini economici e di escalation criminale. A tal proposito qualcuno dovrebbe ricordare le parole di Cesare Beccaria: “Il fine delle pene non è di tormentare e affliggere” e il processo “deve essere finito nel più breve tempo possibile. Qual più crudele contrasto che l’indolenza del giudice e le angosce d’un reo?”. Era la metà del 700. E l’auspicio di Beccaria non si è ancora realizzato. Giustizia: politica folle e carceri indegne… ma che Paese è? di Gian Marco Chiocci Il Tempo, 1 ottobre 2013 Non serve scomodare Fedor Dostoevskij per rammentare a noi tutti - menefreghisti coi guai altrui - che il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni. Rileggere Delitto e Castigo serve a poco quando ti trovi a dover raccontare ciò che uno Stato incivile tiene gelosamente occultato. Giornalisticamente parlando è già capitato con l’inchiesta de Il Tempo sui 50mila innocenti sbattuti in gattabuia. Ricapita quest’oggi con un nuovo, drammatico, reportage sul sovraffollamento delle celle, primato infame in violazione dei diritti dell’uomo (come ha stigmatizzato la Corte europea), un crisantemo all’occhiello della giustizia italiana. I dati drammatici, immorali e sconci che tra infinite difficoltà abbiamo recuperato nelle segrete stanze ministeriali, devono far riflettere tutti: dai lettori agli extraterrestri imbullonati alle poltrone di palazzo fino ai manettari un tanto al chilo insensibili alle sofferenze di 65mila cristiani (la metà in attesa di giudizio) pur di non far rientrare nel conteggio dell’amnistia anche Quello Lì. Leggetevela attentamente quest’inchiesta, senza pensare a Berlusconi. Tra pelle d’oca e bile in eccesso capirete perché non si può non gioire alla notizia del raggiungimento della fatidica soglia delle 500mila firme per il referendum radicale sulla giustizia. E intuirete la difficoltà, per chi scrive, di spiegare al lettore i bizantinismi di una politica incomprensibile agli addetti ai lavori, figurarsi ai comuni mortali. È di ieri la notizia che le colombe son tornate ugualmente, nuovamente, berlusconiane attaccando (a sproposito) il giornalista più berlusconiano che c’è. Silvio ha ricucito congelando le dimissioni dei parlamentari ma non quelle dei ministri, chiedendo di fatto a Letta di non porre la fiducia ma di votare l’abolizione delle imposte. Letta risponderà picche per rispedire al mittente la responsabilità della crisi. Mezzo Pd, la nascente Forza Italia, grillini e Lega vogliono il voto, ma Napolitano proverà a negare le urne. Non so voi, ma chi ci capisce è un genio. Preferiamo chiuderla qua e ricordare l’ultimo povero cristo che s’è tolto la vita nel cesso lurido della sua cella a Livorno. Prima di bestemmiare per le tasse in arrivo, pregate per lui. Giustizia: mezzo metro a testa, ecco la “hit parade” delle celle-loculi di Maurizio Gallo Il Tempo, 1 ottobre 2013 Dire che sono come topi in gabbia non è giusto. Non corrisponde al vero. I topi, infatti, hanno più spazio dei detenuti delle carceri italiane. Immaginate di essere costretti a vivere per venti-ventidue ore al giorno in un metro quadrato a testa. Lo avete fatto? Bene. Adesso riducete la metratura. E non di poco. Ci sono celle lungo la nostra Penisola dove il rapporto si abbassa sensibilmente e ogni galeotto ha a disposizione appena cinquanta centimetri quadri. Come accade a Catanzaro: quindici persone si contendono otto metri. Sempre in Calabria, a Lamezia Terme, nove detenuti occupano la stessa, piccola cella. Ma per tracciare la classifica dei “loculi di detenzione” partiamo dal nord. A Trieste si vive in sei in cinque metri quadri, a San Vittore si va da una cella di dieci metri che ospita tredici persone a una di tre che ne accoglie quattro. In Piemonte va leggermente meglio. A Torino il rapporto è di cinque individui per sei metri (e qualcuno dorme a terra, perché non ci sono letti sufficienti), mentre a Biella è di due metri per due detenuti. Si sciala, insomma. A Venezia in undici si contendono 1200 centimetri quadrati, ma a Padova il rapporto è di sei a cinque. In Liguria “avanza” un metro. Infatti, al Marassi di Genova sono in otto in nove metri. Non va meglio in Emilia Romagna: a Modena quattro detenuti coabitano per il novanta per cento della giornata in tre metri quadrati. Nel carcere fiorentino si sta meglio che in una clinica privata. Ci sono celle singole. Peccato che siano occupate ognuna in media da tre persone. Non fanno eccezione i due penitenziari capitolini. A Rebibbia in quattordici usano la sala da ping pong. Non per giocare, però. Per trascorrere tutta (o quasi) la loro giornata da reclusi. A Regina Coeli vivono in sei in quattro metri quadri. A Frosinone l’equazione è di uno a uno: sei metri per sei detenuti. Se scendiamo più giù lungo lo Stivale le condizioni sono persino peggiori. Prendiamo la Puglia. A Bari sono in quindici in tredici metri; a Foggia in nove in una cella di otto; a Turi in sei in otto metri. In Basilicata (Potenza) sei prigionieri coesistono in uno spazio di appena cinque metri quadrati. Al Badu e Carros di Nuoro il rapporto è esattamente invertito: cinque detenuti-sei metri quadri. In Campania abbiamo Poggioreale, dove in una cella nove detenuti vivono in sei metri o, in un’altra, dodici si devono accontentare di dieci metri quadri. Della Calabria abbiamo detto. Anche in Sicilia, infine, la situazione è drammatica e umanamente inaccettabile. A Trapani sono in sei per otto metri; a Siracusa lo stesso spazio è destinato a dodici individui; al Pagliarelli di Palermo, invece, il record negativo è di tre galeotti in quattro metri quadrati. D’altra parte negli anni il numero di “inquilini” del nostro sistema detentivo è cresciuto progressivamente. In base ai dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 30 giugno del 1991 dietro le sbarre c’erano poco più di trentamila detenuti (31.053). Dieci anni dopo il numero era salito a quasi 56 mila (55.393) e un altro decennio più tardi, nel 2011, si era arrivati al record di quasi 67 mila (per l’esattezza 66.897). La popolazione è calata leggermente negli ultimi tre anni ma non abbastanza da determinare un miglioramento delle condizioni di esistenza cautelare dei “reclusi-topi”. Nel giugno del 2012, infatti, il dato complessivo era di 66.528 unità, per passare a 65.701 a luglio. Alla fine del giugno 2013, invece, la popolazione carceraria è nuovamente cresciuta rispetto all’anno precedente, oltrepassando di poco la cifra di 66 mila persone ristrette (è proprio il caso di dirlo) in celle che equivalgono a un bagno di un miniappartamento. La costrizione in spazi così piccoli e la mancanza di attività (solo un numero esiguo di detenuti lavora dentro o fuori la prigione) è all’origine di tensioni che sfociano spesso in risse, aggressioni, proteste e vere e proprie rivolte. Giustizia: aspettiamo indulto e amnistia, Napolitano ha ragione di Michele Macelletti La Gazzetta del Mezzogiorno, 1 ottobre 2013 Tanto tuonò Pannella che Napolitano alfine... si decise al messaggio. Con la solita e solitaria testardaggine, che contraddistingue da sempre Marco Pannella, la strada per un amnistia pare ora divenire uno strumento percorribile e necessario per le nostre istituzioni. Digiuni, sit-in, appelli e una lista di scopo, presentata dai radicali alle ultime elezioni politiche, potrebbero ora concretizzarsi in quell’atto formale e istituzionale che era stato chiesto invano a Napolitano. La Corte europea dei diritti dell’uomo, dopo aver rigettato la richiesta del governo italiano per il ricorso del caso Torregiani, ha intimato all’Italia due cose: trovare entro un anno una soluzione al sovraffollamento carcerario e introdurre una procedura per risarcire i detenuti che ne sono stati vittime. Lo Stato italiano è stato dichiarato colpevole di aver violato i diritti dell’uomo, costringendo a condizioni di vita inumane e degradanti i detenuti. I procedimenti, già pendenti di fronte alla Cedu sono migliaia e le cifre da risarcire potrebbero essere davvero enormi e insostenibili. Ecco perché il messaggio alle Camere, che il Presidente ha annunciato di aver pronto, è un atto estremamente significativo, oltre che dovuto. Molti si stanno già domandando: e se questo comporterà che il Parlamento, a maggioranza qualificata approvi l’indulto e l’amnistia ne beneficerà anche il condannato Berlusconi? La risposta l’ha già data Rodotà: “L’amnistia è necessaria per il paese e se questa favorisce Berlusconi... non me ne frega niente!”. Giustizia: 500mila firme per fermare questo scempio, il primo passo è fatto di Massimo Bordin (ex direttore di Radio Radicale) Il Tempo, 1 ottobre 2013 Le firme, almeno per i referendum sulla giustizia, ci sono e sono più delle 500mila necessarie. Restano altri passaggi da compiere fino ad arrivare al voto su quesiti che potrebbero riformare alla radice il funzionamento della giustizia. Intanto però si annuncia un’altra significativa iniziativa in materia giudiziaria. Sostiene Pannella che fra le parole usate dal presidente Napolitano, durante la sua recente visita al carcere di Poggioreale, per annunciare che intende inviare un formale messaggio alle Camere sulla situazione carceraria, ce n’è una qualificante, in fin dei conti decisiva. Non si tratta di “clemenza”, una pulsione dell’animo, un imperativo morale, commovente in un papa come Giovanni Paolo II quando la pronunciò a favore dei detenuti di fronte al Parlamento riunito per ascoltarlo. E non si tratta nemmeno di “dovere”, perché ci si sente in dovere innanzitutto rispetto a se stessi e sempre al campo della morale, sia pure laica, il termine può riferirsi. Ma un presidente della Repubblica non è il sommo pontefice e nemmeno un professore di filosofia. È un’autorità istituzionale. E allora la parola chiave è “obbligo”. Il messaggio presidenziale alle Camere è un intervento istituzionalmente obbligato. Restano pochi mesi allo Stato italiano per ottemperare all’ingiunzione della Corte europea, che ci ha imposto di rientrare negli standard propri di un Paese dove viga lo stato di diritto a proposito della situazione carceraria. Le cifre e le notizie che compongono la meritoria inchiesta a puntate che “Il Tempo” pubblica da oggi portano a un risultato comparativo addirittura umiliante per l’Italia. Sui 47 stati membri del consiglio Ue solo altri quattro superano la soglia del 30% di detenuti in più rispetto ai posti disponibili: Cipro, Ungheria, Grecia e Serbia. Quanto ai detenuti in attesa di giudizio, soltanto Ucraina e Turchia ci superano. Ma solo in cifra assoluta. Se si calcola la percentuale di quelli in attesa di giudizio rispetto all’intera popolazione detenuta, il “primato” è del nostro Paese. Visto dal particolare angolo visuale di un carcere, il legittimo orgoglio di essere cittadini di uno dei sei stati fondatori della comunità europea vacilla. Senza contare il numero di suicidi in carcere, una media di cinque al mese fra i detenuti, ma non è così raro che agenti di custodia facciano la stessa scelta. Dal 2000 i due soli anni in cui il numero di suicidi è significativamente diminuito sono stati il 2007 e il 2008. Nel 2007 fu varato il cosiddetto indultino, un provvedimento molto ridotto che il governo Prodi volle così per non irritare l’alleato Di Pietro. Nel 2009, invece, vi fu un picco di suicidi in carcere, soprattutto di stranieri, che non è stato ancora superato. Il governo Berlusconi aveva varato il cosiddetto “pacchetto Maroni” sull’immigrazione per compiacere l’alleato Bossi. Va infine tenuto presente che il nostro Stato spende per ogni detenuto, per tenerlo in condizioni peggiori di quelle di Turchia e Cipro, il 20% in più di Francia e Germania. Ma questo riguarda le nostre tasse e il loro uso. La corte europea è arrivata agli ultimatum. Sul fronte della giustizia l’Italia ormai colleziona condanne in serie fra Strasburgo e l’Aja. Ecco perché chi, come il capo dello Stato, riveste un ruolo di garanzia costituzionale, ha addirittura l’obbligo di avvertire il Parlamento che lo ha eletto di come sia necessaria una iniziativa legislativa che ci consenta di uscire da una situazione di patente illegalità. E lo può fare solo varando un vero provvedimento di amnistia, che non è una fissazione dei radicali. Il ministro dell’Interno Cancellieri, che di professione è prefetto, non assistente sociale, sull’argomento sostiene le stesse cose di Pannella. Quanto al presidente Napolitano, ha detto meno di un anno fa che, se dipendesse da lui, l’amnistia la firmerebbe non una ma dieci volte. Dipende dal Parlamento. Ed è bene che sia avvisato. Giustizia: Referendum; in vista contenzioso, nel mirino vizi di forma commessi dai Comuni di Vittorio Pezzuto La Notizia, 1 ottobre 2013 E stata una mattinata all’insegna della mestizia quella che ha accompagnato ieri la consegna delle firme referendarie nell’austero palazzo della Corte di Cassazione, mentre piazza Cavour apriva e richiudeva le sue quinte sotto la frusta dell’acqua. Per una volta questo rito democratico non è stato celebrato con la traboccante soddisfazione di aver assicurato al Paese un’occasione preziosa di riforma. Pochi avevano voglia di festeggiare una mobilitazione per lunghi tratti carsica così come la rivincita sulla censura della Rai, che ha costretto a una campagna clandestina. Come al termine di una lunga battaglia dall’esito incerto, i plotoni referendari provano adesso a smaltire la stanchezza e si interrogano sulle reali possibilità di un loro successo. Sanno già di aver perso la sfida delle 500mila firme sui sei referendum proposti sui temi civili (anche per il risibile rapporto degli altri co-promotori: i socialisti di Nencini, Sei e Rifondazione comunista) e almeno confidano di potercela fare su quelli dedicati alla giustizia. Sul sito ufficiale del Comitato compare soltanto il numero delle firme (533.000) raccolte per chiedere la responsabilità civile dei magistrati. “La verità - masticano amaro nel quartier generale di via Gregorio VII - è che siamo riusciti a conteggiare soltanto l’adesione a questo quesito. Non c’è stata la possibilità di controllare quanto ci è arrivato nelle ultime ore”. Va detto che anche stavolta la raccolta delle firme si è ingolfata nello stretto imbuto della burocrazia. “Si aprirà un contenzioso di tipo nuovo con la Cassazione. Di per sé le firme sarebbero sufficienti, a fare la differenza sarà la valutazione della Corte sulla loro validità” spiega il tesoriere radicale Maurizio Turco, ben deciso a far valere le ragioni dei referendari contro le inefficienze dei Cornimi. Primo: molti moduli sono stati vidimati a giugno dagli uffici (e quindi al di qua dei tre mesi previsti per raccolta) ma poi le firme sono state raccolte a luglio, agosto e settembre. “I moduli erano custoditi nelle mani dello Stato, non possiamo essere ritenuti responsabili di questi errori. In una seconda spedizione del materiale avevamo tra l’altro specificato per iscritto come le firme andassero raccolte dal 1 agosto al 30 settembre. E i cittadini sono appunti andati a firmare nel periodo consentito dalla legge”. Secondo: la presenza di errori formali commessi per mano dei funzionari pubblici (timbri mancanti, firme cancellate perché il sottoscrittore non risultava residente in quel Comune, trascrizione sbagliata del computo delle firme raccolte). Terzo: il mancato accompagnamento delle firme con i relativi certificati di iscrizione nelle liste elettorali. “Seguendo le disposizioni di legge - spiega ancora Turco - il Viminale ha dato disposizione che potessero essere richiesti e ricevuti in forma digitale via Pec. Peccato che una metà buona dei Comuni ha disatteso questa direttiva, tanto che nei prossimi giorni ci arriveranno migliaia di certificati cartacei ormai inutilizzabili: per legge devono infatti essere depositati contestualmente ai moduli”. Sta di fatto che la raccolta vera e propria è iniziata solo nelle ultime tre settimane, grazie all’appoggio decisivo di Berlusconi. Pochi e accidiosi, fino ad allora i radicali non avevano combinato granché. Tanto che lo stesso Marco Pannella parla adesso di compagni “che si sentono ideologicamente radicali”. Tradotto: non basta declinare compiti il rosario contro il regime, quello che conta è la teoria della prassi. Ma anche la mobilitazione del Pdl è stata largamente al di sotto delle aspettative. “La raccolta ha funzionato in Calabria, Campania e Puglia” rivela sempre Turco. “Ma pochissime sono state le adesioni nel Lazio di Beatrice Lorenzin, nella Lombardia di Lupi e soprattutto nella Sicilia del segretario nonché ex Guardasigilli Alfano. Infine, nulla è arrivato dalla Benevento di Nunzia De Girolamo. I dati sono questi. Saranno poi gli amici di Forza Italia a dover capire se si è trattato di una sottovalutazione dell’importanza della campagna oppure di un messaggio preciso mandato allo stesso Berlusconi. Certo, a vedere quanto sta accadendo in queste ore, si può forse comprendere il perché del totale disimpegno degli ormai ex ministri”. Giustizia: al Senato esaminati molti emendamenti al Ddl sulle pene non carcerarie Asca, 1 ottobre 2013 La Commissione Giustizia, nelle sedute convocate per oggi e domani, ha come primo punto all’ordine del giorno il seguito della discussione sul Ddl di delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni per la sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili. Il testo, già approvato dai deputati, è stato connesso con il Ddl 110 di “Delega al Governo per la riforma del sistema sanzionatorio” in modo da trattare in maniera più organica la materia della riduzione del ricorso al carcere Sono stati discussi, e in gran parte respinti, numerosi emendamenti. Il relatore di maggioranza ha proposto ulteriori ritocchi dell’articolato ed era stato fissato per ieri pomeriggio il termine per la presentazione di sub-emendamenti. La Commissione Giustizia dovrà anche proseguire, in seduta congiunta con la Affari Costituzionali, la messa a punto dei Ddl relativi a ineleggibilità e incompatibilità dei magistrati. Giustizia: Maria Ciuffi; vendo un rene per la verità sulla morte di mio figlio, Marcello Lonzi di Ilaria Lonigro L’espresso, 1 ottobre 2013 Il figlio è morto in carcere nel 2003, in circostanze poco chiare, e da allora la donna non ha mai smesso di chiedere che le indagini sulla sua scomparsa vengano riaperte. Ma ora, esasperata e impoverita dall’iter giudiziario, ha lanciato questa provocazione. “Ho preso la mia decisione, non è stato facile, ma voglio vendere un rene. In Italia non è legale lo so. Ma anche la pena di morte non è legale”. L’appello disperato è arrivato qualche giorno fa da Maria Ciuffi, la madre di Marcello Lonzi, che così si è sfogata sul suo profilo Facebook. Spiega di non avere più soldi per pagare il criminologo e fornire nuovi indizi che spingano la Procura di Livorno a riaprire le indagini sulla morte del figlio. Marcello aveva 29 anni quando, nel 2003, morì di infarto - così ha stabilito la Cassazione - nel carcere “le Sughere” di Livorno. Scontava 9 mesi per tentato furto. A l’Espresso Maria conferma le sue intenzioni illegali: “La mia non è una provocazione, sono disposta a farlo”. Nonostante il caso Lonzi sia archiviato, Maria ha ancora troppi dubbi, tanti quanti sono i segni sul corpo del figlio: “Devo sapere cosa è successo, ancora non so a che ora è morto Marcello, le testimonianze sono discordi”. Dieci anni di processi l’avrebbero lasciata senza soldi: “Facevo le pulizie, ma ora non c’è lavoro. Ho imparato anche a saltare i pasti. Ma non è quello che mi rode. Mi rode l’ingiustizia. Possibile che non ci sia un magistrato onesto? Ora ne è morto un altro in carcere a Livorno: vorrei vedere il corpo” afferma la donna. Sardegna: Sdr; a rischio fondi per Progetto “Bambini senza sbarre”, Casa madri detenute Ristretti Orizzonti, 1 ottobre 2013 “Non sembra destinato a trovare una positiva soluzione in Sardegna il problema dei bimbi in tenera età al seguito di madri detenute. La Provincia di Cagliari, in particolare, rischia di vedere tramontare ancora una volta anche il progetto “Bambini senza sbarre” su cui si era impegnata a lungo, anche come presidente, l’assessore per i Servizi Sociali Angela Quaquero. Uno smacco per quanti hanno lavorato per ridurre se non impedire ai bambini in tenerissima età di vivere il trauma della carcerazione”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con riferimento al progetto “Il cammino delle madri detenute: bambini senza sbarre” finanziato dalla Regione con 191.000,00 nell’ambito del programma “Ad Altiora”. “È assurdo - sottolinea Caligaris - che in Sardegna i bambini in tenera età debbano entrare in carcere insieme alle loro mamme mentre in altre regioni italiane possano fruire correttamente di strutture alternative. Si evidenzia una manifesta incapacità di voler considerare quanto l’ingresso dentro una struttura penitenziaria abbia negative ripercussioni sulla psiche di un bambino e si nega il principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini. È nota l’ottusità ragionieristica del Ministero della Giustizia che ha negato, per motivi economici, la realizzazione di un Istituto a custodia attenuata anche se la motivazione ufficiale è stata che le donne arrestate con bimbi al seguito erano poche, legittimando quindi l’incarcerazione dei minori innocenti. Le successive insistenze da parte delle Istituzioni locali avevano indotto a percorrere un’altra strada benché il risultato sia in parte differente in quanto la casa famiglia proposta è per l’accoglienza in regime di detenzione domiciliare dopo un periodo più o meno lungo di carcerazione e nel rispetto della decisione del Giudice o del Magistrato di Sorveglianza”. “Ora però - conclude la presidente di SdR - anche questo ripiego sembra destinato a non vedere la luce rendendo vana ogni prospettiva di ridurre la presenza dei bimbi in carcere”. Napoli: il carcere di Poggioreale scoppia… ma sono ben 3.600 i detenuti ai domiciliari di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 1 ottobre 2013 Hai voglia di dire che sono aumentati i reati predatori o che le carceri scoppiano, che è difficile tenere in cella scippatori e rapinatori in mancanza di un recidiva specifica. Hai voglia di ragionare sul boom di reati da strada - tipo scippi del cellulare o degli immancabili rolex - il fatto è che l’altro lato della medaglia riguarda un fenomeno meno vistoso, ma comunque tutto napoletano: sono circa 3.600 i detenuti agli arresti domiciliari, tra pregiudicati che scontano una condanna e indagati in attesa di giudizio, un numero che sembra non avere eguali in altri distretti di Corte d’appello. Un esercito da controllare, la cui permanenza agli arresti domiciliari pone innanzitutto un problema di gestione ordinaria per le forze dell’ordine: come assicurare quotidianamente controlli di migliaia di detenuti? Tanta droga, reati predatori e indagini a carico dei colletti bianchi, eccoli gli uomini reclusi in alternativa al carcere, altra spina nel fianco del sistema detentivo napoletano. Controlli a tappeto, commissariati e stazioni dei carabinieri in allerta per garantire l’efficacia dei provvedimenti meno afflittivi. Dall’altra parte, invece, ci sono le carceri, quelle che scoppiano e che in modo più meno rituale finiscono al centro del dibattito politico giudiziario, vedi alla voce emergenza nazionale. L’ultima visita è di quelle autorevoli, con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che è tornato sabato a Poggioreale, per ricordare la sua vicinanza ai detenuti del carcere cittadino e, ovviamente, a chi quotidianamente lavora per rendere meno afflittive le condizioni di vita dei reclusi. Anche qui, più di ogni altra cosa, parlano i numeri, solo per mettere a fuoco il caso Napoli: sono circa 2800 i detenuti della casa circondariale di Poggioreale, di fronte a una capienza di 1300 ospiti”, cosa che rende sempre precaria la vivibilità delle celle. Un sistema che scoppia, come emerso di recente anche in relazione a un altro caso, sollevato da un reportage pubblicato dal Mattino on line: è il caso delle lunghe file mattutine, quelle riservate ai parenti dei detenuti, tra cui donne e bambini. Una scena che si ripete ogni mattina all’alba, con decine di persone in fila per registrarsi all’ingresso in vista di un colloquio. Una sorta di pena alternativa riservata a mogli e figli, su cui si è mosso qualche mese fa l’ufficio ispettorato del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Numeri record dunque per detenuti in cella e a casa, che mostrano innanzitutto lo sforzo di carabinieri e polizia nel contrastare gli assalti di vecchi e nuovi predatori, in uno scenario segnato anche da una serie di variabili: in un anno - dal 2012 al 2013 - a Napoli il trend di rapine e scippi è aumentato del 25 per cento, con una concentrazione nel centro cittadino. Qual è la causa del boom di assalti metropolitani? Due possibili spiegazioni: da un lato, ci sono più cani sciolti in circolazione, di fronte al pressing delle forze dell’ordine sul sistema delle piazze di spaccio, che ha reso disponibili (e disperati) ex pusher, vedette e piccoli corrieri; dall’altro, c’è la tendenza da parte di una fetta di borghesia ad acquistare smart phone al mercato nero, sempre più prolifico in città. C’è domanda, il mercato gonfia i battenti. Ma che succede quando gli scippatori vengono incastrati e arrestati? Se non hanno precedenti specifici, in cella non ci finiscono, rischiando di essere bloccati agli arresti domiciliari: ed è così che finiscono in quell’esercito di detenuti a casa che rappresenta l’altra faccia del microcrimine napoletano. Napoli: Gonnella (Antigone); Poggioreale emblema di un sistema sprofondato nell’illegalità www.napolitoday.it, 1 ottobre 2013 Un record che non si registrava da 15 anni. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: “Il carcere napoletano di Poggioreale è l’emblema di un sistema che è sprofondato nella illegalità”. Carcere di Poggioreale: si tocca quota 2900 detenuti, un record di presenze che non si registrava da oltre quindici anni. I colloqui effettuati, tra familiari e detenuti, sono stati ben 115mila. A renderlo noto è stata la la direttrice dell’istituto penitenziario napoletano, Teresa Abate, che ha sottolineato quanto “Il carcere di Poggioreale sia espressione delle difficoltà socio economiche della città di Napoli ma anche espressione delle grandi potenzialità umane e produttive di questo popolo”. Durante la visita alla casa circondariale, il Presidente Napolitano, ha dichiarato che bisogna trasformare la detenzione “in occasione di studio e lavoro” e che lo Stato ne avrebbe solo da guadagnare. Sul problema del sovraffollamento del carcere di Poggioreale, si è espresso anche Mario Barone, presidente di Antigone-Campania e componente dell’Osservatorio. Barone ha denunciato che “le condizioni di detenzione causano disagi non solo ai detenuti ma anche ai loro familiari, i quali - nonostante gli sforzi fatti dall’amministrazione penitenziaria continuano a fare lunghe e penose file per colloquiare con i propri congiunti: occorre chiedersi cosa penserebbe a riguardo l’Europa, a cui l’Italia cerca di assomigliare in tutti modi, sotto altri profili”. “La tutela del diritto universale alla salute - continua Barone - si tramuta a Poggioreale in lunghi mesi di attesa per ottenere le visite specialistiche”. Gli fa eco il presidente nazionale di Antigone, Patrizio Gonnella, il quale spiega che: “Il carcere napoletano di Poggioreale è l’emblema di un sistema che è sprofondato nella illegalità. Nel carcere di Napoli vi è un tasso di affollamento che sfiora il 180%, un tasso che non ha pari in alcun Paese dell’Unione Europea”. Gonnella ringrazia il Capo dello Stato perché “nonostante la grave crisi in atto è andato in visita in uno dei luoghi più difficili dove scontare la pena in Italia” e sottolinea che nei giorni scorsi: “Nell’altro carcere di Napoli e precisamente nella sezione Opg di Secondigliano un altro detenuto si è suicidato. Era gravemente malato. È il secondo in circa tre mesi. Un altro detenuto si era ammazzato lo scorso giugno sempre nella stessa struttura”. “Il Parlamento ha fatto poco e male sinora - spiega Gonnella. L’Italia deve entro il 27 maggio 2014 tornare nella legalità altrimenti scatteranno le condanne della Corte Europea che ci ha messo sotto giudizio. Pendono davanti alla Corte circa 600 ricorsi. 150 presentati dal nostro difensore civico. Per la Corte Europea, infatti, non prevedere almeno 3 metri quadri a persona comporta la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea del 1950 sui diritti umani che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano o degradante”. Napoli: proposta per la costruzione di un nuovo carcere, scoppia la protesta dei residenti di Claudia Procentese Il Mattino, 1 ottobre 2013 La proposta di un altro carcere nella periferia nord di Napoli non piace ai residenti e scoppia la protesta. Ad avanzare l’ipotesi di utilizzare un’ex caserma di Miano come nuovo istituto di pena è stato il sindaco Luigi De Magistris, tre giorni fa, durante la visita a Poggioreale con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Amnistia e indulto servono a tamponare - ha detto il primo cittadino partenopeo - non risolvono in modo strutturale il problema del sovraffollamento delle carceri”. Di qui l’offerta della disponibilità al ministro della Giustizia Cancellieri per alcune strutture cittadine, tra cui l’ex caserma in via Miano di proprietà del ministero della Difesa. “È una follia aprire un altro carcere in città e oltretutto nell’area settentrionale a poche centinaia di metri dal penitenziario di Secondigliano”. Non usa mezzi termini Ciro Fron-cillo, presidente dell’Avog, l’associazione dei volontari guanelliani che ha una delle sue sedi cittadine all’interno dell’Opera don Guanella, nell’omonimo rione, proprio di fianco le caserme Carette) e Beghelli in via di dismissione. “Un piano campato in aria che etichetta ancora una volta in negativo il quartiere”, è l’opinione di don Enzo Bugea Nobile, superiore e direttore dell’Opera. “Il nostro territorio nel giro di 5 anni ha perso migliaia di posti di lavoro dopo la chiusura della birreria Peroni e della clinica Villa Russo -denuncia Froncillo - perché non destinare le vecchie caserme ad attività produttive o riconvertirle a scopo sociale istituendo, ad esempio, centri di accoglienza per i familiari dei detenuti che vengono da lontano?”. In un quartiere al confine con Scampia, dove spesso a dare lavoro è la camorra tramite lo spaccio di stupefacenti, i 15 volontari guanelliani sono impegnati quotidianamente con i minori a rischio, il banco alimentare e l’affidamento di chi è condannato per piccoli reati. Duro da digerire è che “passi l’idea che questa zona ai margini è quindi da emarginare”, sottolinea Froncillo. Critica anche la posizione di Antigone Campania. “La possibile destinazione penitenziaria di un’ex caserma - commenta il presidente Mario Barone -, pur contemplata dal cosiddetto decreto “svuota carceri”, ci lascia alquanto dubbiosi. La nostra associazione si batte per la de-carcerizzazione: il problema del sovraffollamento non si risolve con la costruzione di nuove carceri. Lo Stato destinasse, piuttosto, le risorse verso le misure alternative alla detenzione, che abbassano il tasso di recidiva dei beneficiari: anche questa è sicurezza”. Intanto i venti di protesta all’interno del locale parlamentino annunciano cortei e sit-in. “Siamo pronti a fare le barricate -spiegano i consiglieri della settima municipalità Mauro Maratta e Pasquale Esposito. Tanti i progetti che si sono susseguiti in questi anni sull’area delle ex caserme: dal polo artigianale, allo stu-dentato in previsione dell’università a Scampia, fino alla cittadella dello sport e allo stadio. Ma tutti di respiro corto dal momento che, se esiste un programma di sviluppo urbano per l’area est ed ovest cittadina, per quella nord tutto tace”. Contrario alla prospettiva di un carcere di fronte l’Ipia, ubicato per l’appunto in via Miano, è il preside Saverio Petitti che sottolinea quanto “sarebbe stato più utile ascoltare le parti in causa e coinvolgere il territorio prima di fare una simile proposta che va sempre a scapito dei nostri giovani, i quali, invece, dovrebbero essere i principali fruitori di questi spazi. Occorre recuperarne la dimensione sociale ed aprirli ad un quartiere che ha fame di luoghi di aggregazione”. Torino: l’esperimento del braccialetto elettronico, finora applicato a 4 detenuti domiciliari di Sarah Martinenghi La Repubblica, 1 ottobre 2013 “Avvocato, le firmo subito il consenso: voglio anch’io il braccialetto elettronico”. Sempre più spesso nelle ultime settimane, i detenuti chiedono ai loro difensori informazioni sulla possibilità di andare ai domiciliari con la “cavigliera” che impedisce l’evasione facendo suonare l’allarme collegato alla centrale delle forze dell’ordine come un vero antifurto. Una possibilità in effetti che a Torino, da luglio, è diventata concreta, ma che è ancora molto rara. Siamo una delle pochissime città in cui il braccialetto elettronico viene infatti adottato come misura ulteriore ai domiciliari, eppure finora è stato applicato solo a quattro persone. È il giudice per le indagini preliminari Alessandra Bassi il magistrato che per prima ha creduto nel braccialetto elettronico e che cerca di applicarlo quando ne ricorrono le condizioni. Sono tutti “suoi”, infatti, gli arrestati che hanno indossato questo dispositivo. Il primo tentativo di applicarlo, a maggio, è andato a vuoto: si trattava di un indagato italiano accusato di furto, che approfittando dei domiciliari di notte sarebbe potuto uscire per commettere altri analoghi reati. Ma la sua applicazione è stata solo sulla carta: accusato nel frattempo anche per un altro episodio, è di fatto rimasto in carcere. Gli altri casi riguardano per lo più arrestati per droga, per scongiurare ad esempio il rischio che il tossicodipendente, in crisi di astinenza, esca per rifornirsi di stupefacente. “C’è anche un risvolto economico non da poco che dovrebbe far riflettere e magari incentivare all’uso del braccialetto - ha spiegato il gip - si tratta di uno strumento che abbiamo in dotazione, che è già stato pagato con soldi pubblici: non utilizzarlo è uno spreco”. È stata infatti firmata una convenzione con la Telecom per tre anni, che ha assicurato 2mila braccialetti in tutta Italia: quando arriva una richiesta, il dispositivo diventa disponibile nel giro di 24 ore. Una convenzione però che è costata diversi milioni di euro. Ed è su questo punto, in realtà, che si concentrano le critiche maggiori: “Simili iniziative sono costate negli anni non meno di 20 milioni di euro - ha commentato ad esempio Leo Beneduci, del sindacato di polizia penitenziaria Osapp - con i risultati che tutti conosciamo: forse qualcuno ritiene di dover sprecare a carico della collettività ancora altro denaro”. Un protocollo con le modalità per l’applicazione del braccialetto elettronico è stato redatto dal capo dei gip Francesco Gianfrotta, ma sono pochi i colleghi “favorevoli”: l’idea, per molti, è che sia inutile. “O ti sei meritato i domiciliari, e allora li ottieni sulla fiducia senza bisogno di un braccialetto, oppure resti, o vai, in carcere”, è il concetto di chi non lo ritiene uno strumento utile più che tanto. Certo in carcere tutti lo vogliono pur di poter uscire e tornare a casa, ma è un dato di fatto che finora quasi tutti gli avvocati che hanno presentato un’istanza per conto dei loro clienti se la sono vista rifiutare. Viene infatti applicato come misura non alternativa (il codice non lo prevedrebbe, tanto è vero che la possibilità di metterlo con il Gps con la finalità di prevenzione a chi è accusato di stalker è una novità al vaglio del legislatore), ma che “aggrava” gli arresti domiciliari, per scongiurare cioè il pericolo di fuga e di reiterazione del reato. Il detenuto deve essere una persona radicata nel territorio e deve abitare in una casa dotata di energia elettrica e non in un sotterraneo: prima di indossarlo, le forze dell’ordine valutano che sussistano le condizioni logistiche e abitative. Ci si può anche fare la doccia, è vietato toglierlo: se si varca la soglia di casa o tutto il suo perimetro, parte l’allarme che segnala l’evasione. Sassari: processo per la morte di Marco Erittu, la Dda si concentra sul giallo di Sechi di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 1 ottobre 2013 Le indagini della Dda di Cagliari - che recentemente ha riaperto il fascicolo sulla scomparsa di Giuseppe Sechi, il muratore di Ossi sparito nel nulla il 22 marzo del 1994 - sarebbero arrivate a una fase molto delicata. A sostenerlo è un luogotenente dei carabinieri del nucleo investigativo di Nuoro che ieri ha testimoniato nel processo che si sta celebrando in corte d’assise per l’omicidio (avvenuto il 18 novembre del 2007) del detenuto Marco Erittu, trovato morto in una cella di San Sebastiano. Per quel fatto - inizialmente archiviato come suicidio - è in carcere Pino Vandi, il presunto mandante del delitto. Il fatto che la Dda si stia concentrando sulla scomparsa di Sechi rafforzerebbe in un certo qual modo la tesi secondo cui (così come raccontato dal supertestimone Giuseppe Bigella, reo confesso del delitto di San Sebastiano e per questo già condannato) Marco Erittu sarebbe stato ucciso perché in procinto di fare rivelazioni sul coinvolgimento di Vandi nella scomparsa del muratore di Ossi. Secondo Bigella, in sintesi, sarebbe stato Pino Vandi a commissionare l’omicidio di Erittu perché voleva tappargli la bocca una volta per tutte. Legami tra criminalità nuorese e sassarese. Nell’udienza di ieri davanti alla corte presieduta da Pietro Fanile (a latere Teresa Castagna) il luogotenente ha ripercorso gran parte dell’ attività investigativa finalizzata a ricostruire i rapporti tra la malavita nuorese e quella sassarese. E proprio nell’ambito di questi accertamenti - fatti di intercettazioni telefoniche e ambientali e di colloqui con ben 700 persone - è emerso il legame tra vari soggetti criminali delle due province, quasi sempre per questioni di droga. Tanto che, a precisa domanda del pm Giovanni Porcheddu: “Sono emersi rapporti tra la malavita nuorese e Pino Vandi?”, la risposta del luogotenente è stata: “Sì”. A un certo punto i carabinieri di Nuoro si sono interessati a Erittu. “Perché Bigella disse che il detenuto ucciso era a conoscenza del luogo in cui Giuseppe Sechi era stato seppellito”, ha spiegato il luogotenente. Ecco perché Sechi diventa un tassello importante per gli investigatori nuoresi che in quel periodo indagavano sul sequestro di Paoletto Ruiu, il farmacista rapito a Orune nel 1993 e mai tornato a casa. Ai familiari fu inviato - come prova in vita del loro caro - un orecchio mozzato. Ma, grazie agli accertamenti biologici, si scoprì che in realtà era di Sechi. E nella sparizione di quest’ultimo pare fosse coinvolto proprio Pino Vandi. La tesi degli inquirenti. La morte di Erittu, la scomparsa di Sechi e il sequestro del farmacista di Orune Paoletto Ruiu sarebbero in sostanza tre eventi drammatici strettamente legati tra loro. E su questo legame si starebbe concentrando ora in maniera più decisa la Direzione distrettuale antimafia di Cagliari. Nel processo in corso sarebbero emersi elementi importanti che potrebbero dare una sterzata significativa alle indagini sulla scomparsa del muratore di Ossi. Il rapporto tra Erittu e Sechi. “Erittu ci disse di aver conosciuto Giuseppe Sechi - racconta il teste - Nel 2003 lo contattammo e ci spiegò di non aver mai spacciato droga a Sechi e di averlo visto un giorno davanti alla stazione di Sassari mentre saliva sul fuoristrada di un nuorese”. Ancora una volta, quindi, un elemento che conferma l’intreccio tra personaggi delle due province. Gli altri imputati. Il nucleo investigativo di Nuoro durante le indagini ha intercettato anche un altro imputato di questo processo: l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna, sospettato di aver aperto la porta della cella di Erittu ai componenti del presunto commando omicida. In particolare sono state ascoltate le sue frequenti telefonate con il collega Giuseppe Sotgiu, imputato a sua volta per favoreggiamento. La prossima udienza. Il processo continuerà il 7 ottobre quando sarà sentito il maresciallo di Nuoro che indagò insieme al luogotenente. Volterra (Pi): detenuti-giardinieri, firmata Convenzione tra Comune e Casa di Reclusione Ristretti Orizzonti, 1 ottobre 2013 Municipio e Casa di Reclusione hanno stipulato una convenzione con il Centro per l’impiego della Provincia di Pisa. Detenuti giardinieri a Volterra. Il recupero di chi si trova in carcere passa anche dalle attività socialmente utili e così l’amministrazione comunale e la casa di reclusione hanno avviato un’iniziativa che permette ai detenuti, grazie ai tirocini formativi promossi dalla Regione Toscana e alla convenzione stipulata con il Centro per l’impiego della Provincia di Pisa, di affiancare la squadra di giardinieri comunali. Il detenuto, affiancato da un tutor, svolgerà prevalentemente operazioni di taglio dell’erba con particolare attenzione alle aree archeologiche del Teatro romano, dell’acropoli e del giardino del Museo Guarnacci. Il lavoro della durata di sei mesi è retribuito con un contributo di 500 euro mensili che la Regione rimborserà completamente al Comune al termine del percorso. Velletri (Rm): Polizia penitenziaria protesta; troppi detenuti e turni di lavoro massacranti di Luca Rossi www.castellinews.it, 1 ottobre 2013 “La situazione è diventata ingestibile - dicono i sindacalisti - il personale subisce uno stress lavorativo eccessivo”. Ennesima protesta della polizia penitenziaria del carcere di Velletri, contro la carenza di personale e gli orari massacranti che i pochi effettivi sono costretti a fare. Nella mattinata di oggi, tutte le sigle sindacali hanno deciso di manifestare proprio davanti la casa circondariale, sulla Cisterna-Campoleone, per dire basta ai continui straordinari, ai doppi turni, all’abbandono in cui versano i mezzi di trasporto. La casa circondariale di Velletri, a fronte di una popolazione carceraria in crescita, e che arriva, in alcune settimane, anche al numero di 650 detenuti (nonostante la struttura sia nata per contenerne circa 300) conta infatti 210 unità lavorative, a cui ne vanno tolte però almeno 30 che sono state “distaccate” per varie ragioni. Dei rimanenti 180 lavoratori, circa 80 sono gli addetti ai servizi amministrativi, mentre sono in tutto un centinaio gli agenti deputati al controllo dei detenuti, divisi in tre bracci, su turni che vanno dalle 24 alle 8, dalle 8 alle 16 e dalle 16 alle 24, nonostante l’orario lavorativo sia di 6 ore. Una forza lavoro carente dunque, al di sotto anche della già bassa media nazionale, per un mestiere sempre più difficile, soprattutto dal punto di vista psicologico. Alessandro De Pasquale, Segretario generale del Sippe, ci ha spiegato quali sono le richieste della polizia penitenziaria: “Chiediamo all’Amministrazione penitenziaria e al Ministro dell’interno di porre fine a questa mobilità selvaggia e di garantire il personale necessario ad una struttura carceraria come quella di Velletri. Noi abbiamo 640 detenuti gestiti da 100 agenti - ha continua De Pasquale - e la situazione è diventata ingestibile: siamo costretti a fare 8 ore invece di 6, il riposo viene rimandato, il personale subisce uno stress lavorativo eccessivo”. Verona: detenuto incendia la cella, agenti intossicati dal fumo e ricoverati in ospedale Ansa, 1 ottobre 2013 Tre agenti della Polizia Penitenziaria in servizio al carcere di Verona sono stati ricoverati all’ospedale. Lo rende noto Daniela Ferrari, segretaria territoriale Cisl-Fns, che denuncia l’incremento degli eventi critici nella Casa circondariale di Montorio e i rapporti sempre più problematici tra il personale e l’Amministrazione penitenziaria. Nel primo caso due agenti due agenti sono rimasti intossicati dalle esalazioni di fumo provocate dall’incendio appiccato nella cella di un detenuto: “Dopo avere spento le fiamme con l’estintore - denuncia il sindacato - i due agenti sono stati colti da malore avendo respirato anidride carbonica in assenza di dispositivi di protezione”. “Nella stessa giornata - prosegue la nota sindacale - in un’altra sezione detentiva più volte segnalata per la problematicità, un altro poliziotto è stato colpito da malore”. “Abbiamo appena appreso - conclude Daniela Ferrari - che persino i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza hanno rassegnato le dimissioni per la totale indifferenza mostrata dalla direzione alle segnalazioni”. Milano: processo “Maugeri”; salta prima udienza... perché i giudici non trovano il detenuto Il Giornale, 1 ottobre 2013 Tre pubblici ministeri, un giudice, un paio di cancellieri, una ventina - a occhio - di avvocati di grido con staff al seguito, una decina di carabinieri, più il parterre della stampa pronto a raccontare in diretta la prima udienza a carico dell’ex governatore Roberto Formigoni. E tutto questo schieramento di forze naufraga ieri mattina contro il più surreale degli intoppi: si sono persi il detenuto, ovvero Piero Daccò, l’unico imputato che affronta in ceppi il processo per le tangenti sulla sanità. Il regolamento parla chiaro: i detenuti hanno il diritto di partecipare personalmente alle udienze a loro carico, e se non rifiutano esplicitamente la gita a palazzo di giustizia devono esservi portati dalla polizia penitenziaria. Ma ieri mattina, nella grande aula della corte d’assise d’appello dove veniva ospitata l’udienza preliminare, di Daccò non c’era traccia. Motivo? Il lobbista era nella sua cella del carcere di Bollate, dove nessuno lo era andato a prendere. Pare che l’ordine dal palazzo di giustizia di accompagnare Daccò in aula fosse regolarmente partito, ma per l’indirizzo sbagliato, il carcere di Opera. Bologna: libri, matite e penne per i detenuti-studenti, la colletta organizzata dall’Ascom di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 1 ottobre 2013 Regalare un libro a chi vive nel disagio, come piccola opportunità di rinascita. Perché, come dice la scrittrice francese Marguerite Yourcenar, “costruire biblioteche è come edificare granai contro l’inverno dello spirito”. Con questa convinzione, la Federazione librai indipendenti di Bologna ha organizza insieme all’Ascom la prima colletta del libro per gli studenti dei corsi tenuti alla Dozza dal Centro territoriale Besta per la formazione degli adulti. Dal 5 al 12 ottobre si possono acquistare volumi e cancelleria da donare ai detenuti-allievi; il progetto ha preso forma grazie alla collaborazione del preside Emilio Porcaro e di due insegnanti della scuola. Il valore della cultura “è innegabile: attraverso la lettura si superano barriere, si cresce e si può accedere a panorami diversi anche se ci si trova in situazioni di isolamento”, osserva il direttore generale Ascom, Giancarlo Tonelli. Roma: Costituzione cantata e recitata nel carcere di Rebibbia, progetto di Corrado Veneziano di Antonella Matranga L’Unità, 1 ottobre 2013 Giovedì 26 settembre per la prima volta in vita mia sono entrata in un carcere e più specificatamente nel carcere maschile di Rebibbia. Ero lì per il primo degli appuntamenti di “La Costituzione parlata e cantata nelle carceri di Roma”, progetto di Corrado Veneziano a cui ho collaborato, patrocinato e realizzato dal Comune di Roma e che ha visto nel primo appuntamento incentrato sull’Articolo 9 della Costituzione dedicato alla Tutela dell’ambiente, l’intervento di Serena Autieri e del Paolo Rainaldi Quartet. Certo non ho visto le celle, certo eravamo in un teatro, ma vi assicuro che comunque è stata una esperienza che non scorderò mai nella mia vita. Non scorderò mai quelle facce, quegli sguardi, le battute, le risate, l’entusiasmo, le voci. È una esperienza che consiglio a tutti, in maggior luogo a chi ha pregiudizi o idee preconcette sui detenuti o a chi non comprende che tutto cambia … in quelle mura e che cose semplici per noi per loro diventano complicate. Persino arrivare in un teatro. I detenuti infatti devono arrivare accompagnati dai secondini in gruppi di dieci, non di più, per motivi di sicurezza. E ancora per motivi di sicurezza la sala non può essere riempita del tutta ma solo a metà. Eppure la forza della loro presenza l’abbiamo sentita davvero, comunque. Eravamo tutti seduti in prima fila a ripassare le ultime battute, quando sono entrati i primi dieci e poi i secondi e ad un tratto ci siamo trovati completamente attorniati da tutti loro. Si sono seduti accanto a noi, ci hanno fatto mille domande, s’incuriosiscono, e ci informano che non sapevano nulla di quello che avrebbero visto, né tantomeno sapevano della presenza di Serena Autieri, che accolgono felici con applausi, esternazioni di entusiasmo, cercando biglietti di carta e penne (anche questo per loro non facili da ottenere) per autografi. Sono forti, presenti, e contrariamente a quello che pensavamo, sono tutti italiani, già, pochissimi gli extracomunitari. Sono italiani, giovani, anziani, chi detenuto per qualche anno, chi per sempre, sono tutti accomunati dalla stessa felicità di trovarsi coinvolti in una così bella novità. Abbiamo aspettato che entrassero separati dagli altri il gruppo dei travestiti e lo spettacolo è iniziato. A dire il vero, ero un pò preoccupata, non sapevo se quel pubblico avrebbe retto a testi dedicati alla costituzione e all’ambiente conditi di musica in acustica jazz e blues. E invece anche qui ho sbagliato, o meglio sono stata felicemente contraddetta. Lo spettacolo è partito con la lettura dei dodici articoli della costituzione ad opera di Mara Veneziano e Paola Ricci, ed è poi proseguito con dei testi legati all’ambiente, alcuni ironici, altri seri e impegnativi recitati da Serena Autieri. I detenuti hanno ascoltato, partecipi, e hanno applaudito quando poi Serena, con la sua verve e splendida voce, ha interpretato accompagnata alla chitarra da Paolo Rainaldi e dal coro dei detenuti ormai in piedi e in tripudio, prima Volare poi Azzurro e infine Tu si na cosa grande Ma la cosa bella è che i detenuti hanno riversato lo stesso affetto e dedicato la stessa attenzione a tutti quelli che hanno partecipato al progetto. Dopo Serena, infatti, in scena è andato il quartetto di Paolo Rainaldi, magnifico chitarrista, che prima con Roberto Valle in duo (apprezzatissimo) e poi con la sua band (Antonello Mango basso, Claudio Moretta, batteria) ha affrontato pezzi non facili, dai Led zeppelin, ai Police, Hendrix... e loro lì entusiasti per la bravura, per la generosità degli artisti, che senza un pubblico, senza telecamere, senza radio, né pubblicità, senza neanche potersi fotografare, ha cantato, recitato, suonato per loro con grande maestria e senza risparmiarsi. Quando sono andati via ci hanno salutato con entusiasmo, con modi da gentiluomini di altri tempi, che non si conoscono più. Un ragazzone alto, mi ha stretto la mano e mi ha detto: È stato un piacere fare la sua conoscenza, grazie per tutto. Arrivederci. Grazie a te, ho risposto. I prossimi appuntamenti con La Costituzione cantata e recitata nelle carceri italiane sono: giovedì 3 ottobre nel carcere di Rebibbia sezione femminile si parla di Articolo 1 e di Lavoro con Cosimo Cinieri e la band di Clive Riche. Venerdì 4 ottobre nel carcere minorile di Casal del Marmo si affronta l’articolo 5 che parla dell’Unità della Nazione con Daniela Marazita e la Paolo Rainaldi Band. Augusta (Sr): un corso di apnea rivolto ai detenuti, organizzato da Patrizia Maiorca www.informaresicilia.it, 1 ottobre 2013 Il cortile è quello dell’accettazione come in gergo burocratico viene chiamato l’ingresso del carcere. Di solito c’è il vai e vieni dell’ora d’aria. Oggi c’è invece una signora bionda in costume, con gli occhi azzurri che il mondo ha conosciuto nel volto di suo padre Enzo. È Patrizia Maiorca. Al centro del cortile c’è una piscina e nel cornicione grigio in alto il sole produce il riflesso dell’acqua. I detenuti arrivano dalle sezioni con gli asciugamani ed i sandali, si spogliano di camice e magliette, mostrando ovviamente un ampio assortimento di tatuaggi, si avvicinano alla piscina e toccano l’acqua perplessi. Tutto era iniziato quando tempo addietro Patrizia venuta a d assistere ad uno spettacolo aveva proposto un corso di apnea a secco che la direzione accettò non avendo la minima idea di cosa si trattasse. Si trattava, o questo diventò respiro, controllo, resistenza, pensiero portato altrove. Una finestra sul mare si chiamò il progetto; progetto per modo di dire, senza soldi senza contributi, solo buona volontà ed immaginazione intorno alla competenza ed al carisma di Patrizia . Ed appunto l’immaginazione portò a pensare che il corso potesse proseguire in modo più naturale, se non a mare, in una piscina e così i dirigenti della Uisp, e delle Fias, già lavorati ai fianchi da Patrizia, quando vennero al carcere per la cerimonia finale del corso e colpiti (perché tutti quelli che entrano in carcere, anche i più ben disposti entrano con una idea ed escono con un’altra ) si impegnarono a far avere la piscina e tutto ciò che occorreva. Da quel giorno iniziarono ad arrivare al direttore messaggi inconsueti di Patrizia “lunedì arrivano maschere e pinne per i detenuti”. E discussioni su come livellare il fondo della piscina che appena veniva riempita si piegava a V; Dottore, appena entrano i detenuti si ribalta, dicevano gli addetti alla manutenzione. Va bene sistematela dice il direttore, però chiamiamola vasca, che se no mi dicono che ai detenuti gli faccio fare pure il bagno in piscina. Ed ora sono li, gli uomini tatuati e la donna con gli occhi azzurri, hanno piantato la scaletta, sono entrati in acqua, il pavimento del cortile del carcere noto negli anni per i rubinetti a secco si riempie degli schizzi d’acqua. I “malacarne” (così sono chiamati in Sicilia quelli che delinquono) eseguono disciplinatamente gli ordini dell’istruttrice . Patrizia dice citando Euripide “Il mare lava tutto il male”, sarà vero? Per intanto gli uomini tatuati rispondono ai comandi come agnellini ed escono dopo più di un’ora di disciplina. Allora, che mi dite chiede il direttore radunandoli? Mi pareva di essere fuori dice uno, devo smettere di fumare dice un altro, prima di avviarsi tutti verso le sezioni gocciolanti ed ancora perplessi. Scusa se ti ho bagnato la poltrona dice Patrizia ancora in costume, al direttore, congedandosi dopo essere risaliti in direzione per i commenti, futtitinne (fregatene) le risponde il direttore. Patrizia poi, rispondendo ad un suo sms in cui lui la ringraziava dice “non ho fatto niente di speciale, solo sognare e cercare di realizzare il sogno”. Ferrara: il 5 ottobre incontro “La cultura ci rende migliori? Dialogo sul teatro in carcere” www.giustizia.it, 1 ottobre 2013 L’appuntamento, dal titolo “La cultura ci rende migliori? Dialogo sul teatro in carcere” si svolge sabato 5 ottobre 2013 dalle ore 15 presso il Ctu di Ferrara in via Savonarola 19. Nell’ambito del Festival “Internazionale”, Balamòs Teatro, in collaborazione con il Centro Teatro Universitario di Ferrara, organizza un incontro sul tema della cultura come strumento di formazione dell’individuo e trasformazione degli schemi prestabiliti in carcere. Obiettivo è ampliare il dialogo al ruolo che la cultura in generale può rivestire nel “trattamento penitenziario” per la reintegrazione sociale del detenuto. Il programma: Ore 15: saluti e inaugurazione mostra fotografica “Scatti Sospesi 2012-2013” di Andrea Casari sul progetto teatrale “Passi Sospesi” negli Istituti penitenziari di Venezia. La mostra fotografica è aperta anche domenica 6 ottobre dalle 10 alle 18. Ore 16: incontro moderato da Peter Kammerer - Università di Urbino, dal titolo: “La cultura ci rende migliori? Dialogo sul teatro in carcere”. Saranno presenti: Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), Massimo De Pascalis, direttore dell’Istituto Superiore di studi penitenziari, Valeria Ottolenghi, Associazione nazionale dei critici di teatro, Ornella Favero direttrice della rivista “Ristretti Orizzonti”, Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale di Teatro in Carcere e direttore della rivista Teatri delle Diversità, Fabio Cavalli, regista teatrale e co-sceneggiatore del film “Cesare deve morire”, Daniele Seragnoli, direttore del Centro teatro universitario di Ferrara e delegato del Rettore per le politiche culturali nel territorio, Michalis Traitsis, regista di Balamòs Teatro e responsabile del progetto teatrale “Passi Sospesi” negli Istituti penitenziari di Venezia e molti operatori di teatro in carcere in Italia. Ore 18: “Passi Sospesi - immagini di un percorso 2006-2013”, un video di Marco Valentini sul progetto teatrale “Passi Sospesi” negli istituti penitenziari di Venezia. India: Bonino su caso maro “non è accertata la colpevolezza, e non è accertata l’innocenza” La Repubblica, 1 ottobre 2013 “Non è accertata la colpevolezza, e non è accertata l’innocenza. I processi servono a questo”. Questa affermazione apparentemente banale e quasi dovuta dello staff del ministro degli Esteri Emma Bonino ha scatenato su Internet una piccola tempesta sul caso dei due marò detenuti in India. Sulla pagina di Facebook aperta “per ospitare pareri e commenti sulla vicenda che ha coinvolto i due marò italiani Latorre e Girone” arrestati in India con l’accusa di aver ucciso due pescatori indiani, ieri è comparsa una precisazione della titolare della Farnesina. La Bonino in qualche modo rompe il fronte dell’innocentismo a tutti i costi che il governo italiano ha seguito fino ad oggi. Una linea solo apparente, perché nei fatti i tre ministeri maggiormente coinvolti (presidenza del Consiglio, ministeri degli Esteri e della Difesa) riservatamente conoscono le prove contro i due marò e ammettono che una condanna da parte dei giudici indiani è possibile. Il vero problema ormai sono i continui rinvii del dibattimento processuale. La pagina di Facebook dedicata ai marò riprendeva le dichiarazioni del viceministro Lapo Pistelli rilasciate il 25 settembre a Il Mondo. Pistelli, spiega la pagina Facebook, sostiene che la “la cosa peggiore sia porre la questione in termini di previsioni sui tempi” e ricorda che “all’inizio di quest’anno l’Italia aveva una linea abbastanza incerta su come procedere, mentre ora abbiamo rimesso la questione su un binario di certezza: scelta di una giurisdizione speciale, condivisa; regoleda utilizzare in processo, condivise”. È proprio questa frase a far arrabbiare un internauta che sul caso marò ha aperto anche un blog: “Se non vado errato - scrive - “condivisa” vuol dire che l’Italia si assume in toto la “corresponsabilità” legale e politica del processo ai marò in India, in una Corte speciale, in un ordinamento che prevede la pena di morte, nel quadro della normativa antiterrorismo. Sarebbe molto ma molto grave, forse una delucidazione su questi contenuti non guasterebbe”. E a questo commento che lo staff del ministro Bonino risponde: “Non è accertata la colpevolezza, e non è accertata l’innocenza. I processi servono a questo”. Germania: in Sassonia un carcere “speciale”, specializzato nell’accogliere detenuti anziani di Roberto Giardina Italia Oggi, 1 ottobre 2013 Uno dei carceri più confortevoli fu aperto nel 1716 in Sassonia, e logicamente è stato, di tanto in tanto, rinnovato. Ha una particolarità: è specializzato nell’accogliere gli anziani, i delinquenti della terza età, a partire dai sessant’anni, e coloro che commettono reati per la prima volta e vengono condannati ad almeno due anni. Non è opportuno, spiegano, che vengano rinchiusi insieme con i professionisti del crimine. In quanto a chi è in là con gli anni, ci si preoccupa che riceva un trattamento particolare, dal vitto all’assistenza da parte di un geriatra. Come si evince, in Germania si finisce in galera senza sconti anche per scontare pene non molto lunghe; anzi, ci sono altre prigioni riservate a chi deve scontare pochi giorni, per multe non pagate, disturbo della quiete pubblica e cose simili. Sono queste piccole infrazioni che rendono la vita infernale per il prossimo, e in Italia chi le commette continua a fare i propri comodi. In quanto agli anziani, vanno in cella a qualsiasi età. E ci restano anche a novant’anni, fino alla morte a volte, se devono scontare una lunga pena. Non pensate male. Non voglio fare paragoni con Roma. Sono finito a interessarmi del carcere di Waldheim, a causa di una ricerca letteraria. Tra i suoi ospiti illustri c’è Karl May, il Salgari tedesco, che, prima di mettersi a scrivere best-seller, si arrangiava con piccole truffe, e venne condannato a quattro anni che scontò fino all’ultimo giorno dal 1870 al 2 maggio del 1874. Waldheim si trova nei pressi di Chemnitz, la ex Karl-Marx Stadt, nella scomparsa Ddr. A lungo ospitò prigionieri politici, durante il nazismo e durante la dittatura comunista. Tra gli ospiti celebri troviamo Sophie Apitzsch, che nel 1714 si travestì da uomo e si spacciava per un principe di Sassonia, truffò molti nobili e finì a Waldheim, dove venne rapidamente graziata per evitare che raccontasse storie compromettenti. Oggi Waldheim è un carcere riservato agli uomini e ha 377 posti. Si assiste a un incremento dei reati commessi per la prima volta nella terza età. Dal 1995 sono raddoppiati. I sociologi non hanno ancora inventato spiegazioni; probabilmente il fenomeno è dovuto all’aumento dell’età media della popolazione. Qui i detenuti con i capelli grigi o bianchi sono ospitati in celle singole di almeno 10 metri quadrati, il carcere è dotato di ascensori, le ore d’aria sono numerose e gli ospiti godono di un trattamento antinvecchiamento studiato appositamente: dal vitto ai preparati vitaminici, a ginnastiche particolari. Il lavoro è obbligatorio, a meno che il medico dispensi il carcerato. Comunque non si tratta di attività pesanti. C’è l’aria condizionata nelle sale comuni, e si offrono diversi corsi per vincere la monotonia, da quelli di cucina alle lezioni di scacchi. Si rimane in cella anche se si finisce su una sedia a rotelle. A Waldheim c’è molta attenzione per gli handicap. Nessuno deve restare isolato, e si cerca una terapia attraverso la socialità. “Sono detenuti dello Stato e prigionieri del loro corpo”, dice Frau Ines Föhre, responsabile del reparto riservato agli anziani. I problemi si pongono nei casi di demenza senile o di Alzheimer. “Cosa fare quando non riescono più a comunicare con i miei assistiti?”, si chiede Frau Föhre. Dovrebbero essere rimessi in libertà e curati altrove, ma dove? Alcuni hanno commesso gravi delitti, possono essere trasferiti in un normale Heim, un ricovero per anziani. E rimangono a Waldheim, dove vengono seguiti con particolare attenzione. La grazia, per molti di loro, sarebbe una crudele condanna: i parenti, se li hanno, li rifiutano e finirebbero per strada in balia di se stessi. Israele: abusi sui detenuti palestinesi… quasi sempre senza colpevoli di Roberto Prinzi Nena News, 1 ottobre 2013 Due soldati israeliani del battaglione 51 della Brigata Golani sono stati accusati, la scorsa settimana, di avere picchiato un palestinese ammanettato e bendato. Altri due israeliani, ora non più nell’Esercito, sono stati denunciati come civili per avere preso parte all’aggressione e sono in attesa di udienza. I fatti risalgono al maggio 2012, ma sono stati scoperti solo recentemente, quando la polizia militare ha trovato un filmato che mostra le violenze sul telefonino di uno dei due soldati. Secondo l’atto di accusa, il palestinese, arrestato per essere entrato in Israele dalla Striscia di Gaza, sarebbe stato condotto in una “stanza chiusa” del campo Yiftah, vicino al confine con la Striscia. Qui sarebbe stato picchiato ripetutamente da quattro soldati, nonostante uno dei presenti avesse invitato i suoi colleghi a smettere. Un altro soldato avrebbe fatto da sentinella sulla soglia della porta, mentre un altro avrebbe filmato la scena stando attento a non riprendere i volti dei suoi colleghi aggressori. Secondo l’accusa, le violenze sarebbero state “premeditate e documentate”. I soldati, fermati lo scorso lunedì, sono accusati di “abusi e violenze gravi”. Il difensore di uno dei soldati, l’avvocato Konzitz, ha dichiarato che il suo “assistito nega assolutamente di aver preso parte all’accaduto, dichiarando di non essere stato in quella stanza. Si tratta di un soldato normale che non ha mai avuto problemi nel passato”. Non è ancora chiaro se la vittima palestinese, le cui generalità sono definite “sconosciute” nell’atto di accusa, sarà chiamata a testimoniare. Negli ultimi anni sono stati registrati diversi casi in cui soldati israeliani hanno picchiato o umiliato detenuti palestinesi. Tra i più recenti vi è quello della soldatessa Eden Aberjil che scelse di documentare quello che definì “il periodo più bello della sua vita”, facendosi fotografare accanto a palestinesi ammanettati e bendati. La soldatessa del Magav Shani Sivilya, invece, preferì farsi ritrarre accanto a un detenuto diciassettenne mentre gli puntava una pistola alla tempia. Tutti casi di maltrattamento e umiliazione che difficilmente portano l’aggressore a scontare pene. Complice l’atteggiamento riluttante della polizia israeliana. “In una serie di casi documentati”, ha scritto Yossy Gurvtitz dell’associazione israeliana di diritti umani Yesh Din, “la polizia ha rifiutato di indagare le denunce dei palestinesi. Il 94 per cento dei casi seguiti da Yesh Din si è concluso senza rinvii a giudizio, perchè di solito il colpevole non è stato individuato o non c’erano prove sufficienti”. Inoltre scrive Gurvitz, “la polizia è colpevole anche di non informare chi sporge denuncia sui risultati delle inchieste: circa il 70 per cento delle denunce registrate prima del report di Yesh Din non ha ricevuto alcuna risposta. Tutte erano sporte da palestinesi”. Iran: 22 detenuti sono stati giustiziati, il numero delle esecuzioni dopo le elezioni sale a 201 www.ncr-iran.org, 1 ottobre 2013 . Dal 24 al 26 settembre, contemporaneamente alla partecipazione del presidente dei mullah Rouhani all’Assemblea Generale dell’ONU e alle sue assurde sceneggiate a New York, i boia del disumano regime clericale hanno giustiziato 22 detenuti, fra i quali 4 donne, in varie città dell’Iran. Quindi, il numero delle esecuzioni registrate dopo le elezioni farsa è salito a 201. Migliaia di altri prigionieri si trovano nei bracci della morte. Il 25 settembre, 14 detenuti sono stati giustiziati, in due gruppi di rispettivamente otto e sei, nelle prigioni di Orumiyeh e Gohardasht. Tre dei giustiziati a Orumiyeh erano donne. Era donna anche una delle persone giustiziate a Gohardasht, impiccata dopo essere stata detenuta per 10 anni. Altri otto detenuti sono stati giustiziati nella prigione di Kerman il 24 e il 26 settembre (come riportato dall’agenzia informativa “Mehr”, affiliata al Ministero dell’Intelligence, il 26 settembre). Inoltre, un detenuto è stato impiccato nella prigione Vakilabad di Mashhad il 23 settembre. Pochi giorni prima, tre detenuti, Khorsheed Mohammadi, Sahand-ali Mozaffari e Farokh Yekani, erano stati impiccati nella prigione di Orumiyeh. In un’ulteriore atrocità, i boia del regime nella prigione di Zahedan hanno impiccato il corpo di Ahmad Issa Zehi, di 23 anni, che era già morto per attacco cardiaco prima dell’esecuzione, per intensificare attraverso questo atto l’atmosfera di terrore. Bolivia: il Presidente Evo Morales ammette “nelle prigioni lo Stato è assente…” www.progettomondomlal.blogspot.it, 1 ottobre 2013 Lunedì 2 settembre il presidente della Stato Plurinazionale della Bolivia, Evo Morales, inaugurando l’evento “Riforma del Sistema Penitenziario” a Santa Cruz della Sierra (teatro degli ultimi gravi incidente avvenuti in carcere, ndr) ha dichiarato che nelle prigioni lo Stato è assente (“sin Dios y leyes”), i prigionieri comandano in tutte le carceri del Paese e che il problema di fondo in un sistema dove l’84% della popolazione carceraria è in attesa di giudizio è il ritardo della giustizia. “Si possono costruire carceri, ma saranno sempre piene”. Per ultimo Morales ha criticato la presenza di minori nelle carceri. L’evento ha registrato la partecipazione delle massime autorità del Paese (Presidente della Repubblica, del Senato, Ministro degli Interni, Governatore della regione di Santa Cruz, e rappresentanti dei 3 livelli statali (nazionale, regionale e municipale) e del settore. Anche ProgettoMondo Mlal era invitato al forum. Nei 3 tavoli tematici (ritardo di giustizia, normativa penitenziaria, infrastruttura e servizi) sono emerse diverse proposte tecniche ed è stata inoltre confermata l’apertura imminente del Centro per adolescenti e giovani Cenvicruz dove ProgettoMondo Mlal è stato chiamato a collaborare per il trasferimento di buone pratiche in riabilitazione e rinserimento sociale. Come nota a margine, maggioranza e opposizione hanno chiesto di non politicizzare il tema e di unificare criteri e sforzi per trovare delle soluzioni condivise. Minori, il modello Qalauma oggi anche a Santa Cruz In virtù dell’esperienza pilota realizzata da ProgettoMondo Mlal nel Centro di Qalauma, lo scorso 16 settembre, il ministro Carlos Romero, con il presidente della Regione Autonoma di Santa Cruz e il leader dell’opposizione Ruben Costa, hanno firmato un accordo per la gestione e il funzionamento del nuovo Centro di riabilitazione per adolescenti e giovani di Santa Cruz, ponendo così fine al lungo e acceso braccio di ferro che, a 7 anni dal relativo decreto presidenziale di apertura, aveva di fatto impedito l’avvio della struttura. Il Centro sarà destinato al recupero di 140 adolescenti e giovani privati di libertà, tra 16 e 25 anni, ed è costato al governo autonomo regionale 2 milioni di euro. Il complesso è costruito su una superficie di 4 ettari e dispone di 400 ettari di terreno fertile utilizzabile per le attività produttive. Il Centro “Nuova Vita Santa Cruz” nasce, e prende il nome, proprio in memoria della tragica storia della Granja de Espejos. Durante gli anni della dittatura, infatti, nel Centro di “recupero” Granja de Espejos, furono massacrati, e qui sotterrati dalla polizia, i cadaveri di 150 persone. Su richiesta delle istituzioni nazionali e locali, ProgettoMondo Mlal è dunque da oggi impegnato nel trasferimento delle buone pratiche di riabilitazione e della “metodologia Qalauma” al nuovo Centro di Santa Cruz. L’inaugurazione del nuovo Centro, a soli 2 anni dell’apertura di quello di Qalauma, costituisce un evento di grande rilevanza per chi, come ProgettoMondo Mlal, ha lavorato in questi ultimi 10 anni in Bolivia per sensibilizzare l’opinione pubblica e le autorità locali sulla sistematica violazione dei diritti umani della popolazione giovanile rinchiusa in carceri per adulti. Roberto Simoncelli, coordinatore ProgettoMondo Mlal Centro Qalauma, El Alto, Bolivia Tunisia: espulso algerino ex detenuto Guantànamo, autorità rifiutano rinnovo passaporto Ansa, 1 ottobre 2013 Un algerino, che ha da poco riottenuto la libertà dopo essere stato detenuto per anni a Guantànamo, è stato invitato dalle autorità della Tunisia a lasciare il Paese, dove era giunto da poco insieme alla moglie di nazionalità tunisina. L'uomo, secondo quanto scrive oggi il quotidiano arabofono algerino al Khabar, si chiama Mohamed Ghazali ed è arrivato in Tunisia da pochi giorni. Il quotidiano ha appreso dal padre dell'uomo, che vive in Svezia, che Ghazali era arrivato legalmente in Tunisia (in nave, proveniente dall'Italia) con l'obiettivo di risiedervi e di investirvi.