Sportello per i detenuti: protocollo Casa di Reclusione-Cgil-Granello di Senape Padova Ansa, 19 ottobre 2013 È stato firmato tra la Casa di Reclusione di Padova, la Cgil e l’associazione Granello di Senape Padova un protocollo per formalizzare una collaborazione tra i tre enti. Già dal 2007 all’interno della Casa di Reclusione è infatti attivo uno Sportello di Orientamento Giuridico e di Segretariato Sociale, promosso dall’associazione Granello di Senape Padova e sostenuto dal Comune di Padova. Dal 2009 poi il patronato Inca-Cgil garantisce la presenza di un operatore e il supporto per tutte le richieste delle persone detenute attinenti all’assistenza previdenziale, contributiva e di salute, oltre che sostegno alle pratiche per i detenuti di origine straniera. Ogni anno gli operatori dello sportello effettuano circa 950 colloqui, di cui circa la metà si riferisce a questioni di previdenza sociale. Le richieste più frequenti riguardano le pratiche di disoccupazione, le pensioni di invalidità e gli assegni familiari, il rinnovo dei documenti, delle patenti e consulenze su questioni giuridiche. Giustizia: Scaglia e gli altri… la violata innocenza di Giuseppe Anzani Avvenire, 19 ottobre 2013 Scoperto, acciuffato, rinchiuso. Accusato di un delitto che merita la galera, e dunque messo in galera, perché non scappi, o non ci riprovi. Chi l’ha messo dentro pensa che sia colpevole, o almeno che sia molto probabile che sia colpevole, e che ne sarà data piena prova al processo. Intanto lo tiene dentro anche se non c’è timore che scappi o ci riprovi, se c’è pericolo che “inquini le prove”. Per la Costituzione, è un innocente “fino a condanna definitiva”; in pratica, comincia a patire un castigo esattamente uguale a quello di un reo. Poi viene il processo, si tirano le fila; e una gran parte dei disgraziati puniti in anticipo, secondo alcune stime addirittura la metà, se ne esce assolta. Uno sbaglio, tutto qui, una tesi senza prova; e scusate tanto. Scusate? Ma la libertà è un bene sommo, in uno Stato di diritto, e il dolore rovesciato su un innocente, a fargli grama la vita, è una tragedia. Certo sono i processi a stabilire se uno è colpevole o innocente, e ci mettono tempo; sono i processi la garanzia che nessuno è carne da galera sol perché è sbattuto in prima pagina, o scritto in nero su un registro; e le accuse debbono essere provate “al di là di ogni ragionevole dubbio”, altrimenti cadono. Ma ci vuole tempo. Ci mancherebbe che provassimo stupore perché una sentenza manda assolto l’accusato, vuol dire che il processo ha fatto la sua funzione essenziale di garanzia. Ma c’è voluto tempo, troppo tempo. No, il problema è ancora altro. È la differenza fra certezza e sospetto, fra prova e indizio, fra realismo e teorema. È pur vero che chi fa di mestiere l’inquirente muove i primi passi fiutando le piste, esplorando le congetture, raccogliendo i dati e valutando i riscontri, e ove si disegni una “ipotesi” d’accusa poggiata su solidi argomenti, la formalizza e la sottopone al processo. Ma prima di toccare la libertà bisogna pensarci non una ma dieci volte. Il rischio di “detenzione arbitraria” ci è stato rinfacciato già da anni da un Report del Working Group ori Arbitrary Detention dell’Orni, preoccupato dei ritardi processuali; in Italia “la percentuale di detenuti in attesa di giudizio è di gran lunga superiore a quella di altri Stati europei occidentali”. Noi la chiamiamo custodia cautelare. Un tempo era meno ipocritamente detta carcerazione preventiva. Le nostre leggi scrivono che per disporre un provvedimento cautelare occorrono “gravi indizi di colpevolezza”; e poi che tra i vari strumenti il carcere costituisce l’extrema ratio, tanto che il giudice deve spiegare perché non ha potuto ricorrere alle altre misure. Eppure la popolazione carceraria in attesa di giudizio finale è quasi il 40 per cento dell’intero; e chi è in custodia cautelare per un’accusa ancora da giudicare (e dunque è presunto innocente) ha lo stesso trattamento dei condannati definitivi. Inammissibile per questi stessi ultimi, inumano e torturante qual è, assurdo e incivile in sovrappiù per i primi. Questi pensieri vengono oggi alla mente, di fronte alla vicenda di un personaggio noto, Silvio Scaglia, assolto in questi giorni dal tribunale di Roma in un processo per riciclaggio di grande risonanza. Assolto dopo aver subito un anno di custodia, fra galera e domiciliari, al suo rientro volontario in Italia a fronteggiare l’infondata accusa; oggi le sue parole rievocano l’incubo, rammentano “tutti gli innocenti che sono in prigione e che non hanno i mezzi che ho io per potermi difendere”. Ma come, il primo mezzo di protezione del cittadino non è la Costituzione, la legge, la civiltà? Non sono i giudici? Se ogni uomo è fallibile, buona precauzione contro l’errore è la venerazione della libertà, prima di toccarla. Qualcosa rimanda alla purezza della sapienza, nella cultura e nella coscienza, quando si tocca la libertà dell’uomo. Sapienza, è il nome di un libro che vale tutti i codici, in un solo versetto iniziale: “Amate la giustizia, voi che giudicate la terra”. Giustizia: indulto, non servono provvedimenti spot di Stefano Allievi (Docente di Sociologia all’Università Padova) Il Mattino di Padova, 19 ottobre 2013 Ieri, su queste pagine, il collega Giuseppe Mosconi mi ha mosso, senza nominarmi, alcune dure rampogne, per essermi espresso contro l’indulto, così come se ne parla attualmente. Chiarirò il mio pensiero. Comincio da ciò con cui concordo. Il problema del sovraffollamento carcerario c’è, da anni, ed è vergognoso in sé, non solo per le critiche e le sanzioni che ci muove l’Unione Europea. Tale sovraffollamento è dovuto in gran parte al fatto che ci sono dei reati minori, che altrove non sono puniti con il carcere e non ha senso che lo siano, legati a una condizione (quella di tossicodipendente o di immigrato irregolare) più che a un fatto. Mi riferisco ai reati legati alla detenzione e spaccio di modiche quantità di droghe, anche leggere. E a quelli legati alla condizione di irregolarità. Tradotto: la Fini-Giovanardi e la Bossi-Fini, leggi che producono il problema sociale della carcerazione di massa e delle sue conseguenze, più che risolvere, con il carcere, un problema sociale. Basterebbe cambiare alcuni articoli di queste leggi, per modificare la condizione carceraria: e allora sì, avrebbe senso indultare coloro che sono detenuti a seguito di questi reati, che verrebbero depenalizzati. E pensare nel frattempo alla riforma di una giustizia indecentemente lenta, che ci costa due punti di Pil. Ecco perché un indulto ha senso - e mi vedrebbe favorevole - solo se viene dopo o insieme ad altre soluzioni. Perché altrimenti tra due anni saremmo daccapo: con le carceri sovraffollate e i problemi irrisolti. Se si vuole davvero riformare, ovvero cambiare strada, occorre altro. Se c’è da svuotare una vasca, bisogna prima di tutto chiudere il rubinetto. Togliere il tappo ogni tanto non risolve il problema. E, in più, è diseducativo. E qui vengo all’argomentazione che mi sta più a cuore. L’indulto, come il condono, è una non soluzione, che alla lunga produce problemi più gravi. Come è accaduto con tutti i condoni del passato. E l’ultimo indulto di sette anni fa. Non sono tra coloro che non lo vogliono perché temono chissà quale aumento dei reati (anche se qualcuno ci sarebbe). Mi preoccupo della tenuta del patto sociale, della crisi della fiducia nelle istituzioni e del senso dello stato, già ampiamente minato per responsabilità altrui. L’amico Mosconi ironizza, chiedendosi dove sarebbe il patto sociale, nella postmodernità. A me sembra una sottovalutazione assai rischiosa: se non c’è, perché gli stessi che vogliono l’indulto dicono che i condoni sono scandalosi, e pagare le tasse invece è giusto? Così come preoccupa la sottovalutazione del sentimento delle vittime di reati, e delle paure, anche talvolta irrazionali, della società. Alla società vogliamo parlare, e convincerla attraverso un percorso intelligente e virtuoso, o imporle le nostre logiche? La certezza del diritto e della pena è un valore in sé o no? Se lo è, bisogna lavorare sul tipo di pene che si comminano e il loro perché, spiegandolo (è inammissibile e non ha paralleli in altre democrazie che il 40% delle persone sia in carcere non dopo essere stata giudicata colpevole, ma prima, in attesa di giudizio), non sul diminuirne surrettiziamente l’entità, perché siamo buoni o, più banalmente, non sappiamo dove mettere la gente. Capisco chi pensa soprattutto al disagio dei detenuti, e ne condivido le preoccupazioni. Ma se pensiamo anche alla società dobbiamo fare un ragionamento complessivo, non lavorare su provvedimenti spot. Giustizia: le carceri e le ipocrisie istituzionali di Maurizio Artale (Presidente “Centro Padre Nostro” di Palermo) Il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2013 La Corte Europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Torreggiani, condanna l’Italia a ripristinare le condizioni di vivibilità nelle carceri italiane, in quanto ha violato l’art. 3 della Convenzione Europea che, sotto la rubrica proibizioni della tortura, pone il divieto di pene e di trattamenti disumani o degradanti. Tutto ciò è avvenuto a causa della situazione di sovraffollamento carcerario. Altri detenuti hanno fatto ricorso alla Corte Europea e quindi vi saranno altre condanne e altri soldi da pagare per indennizzare chi ha vissuto al limite tra l’essere trattato da uomo o da animale. Il nostro Centro, fondato da Padre Pino Puglisi, e la Conferenza Regionale di Volontariato e Giustizia Sicilia hanno sempre cercato di essere vicini ai detenuti e alle loro famiglie, ma con grande difficoltà. Creare dei servizi in cui scontare una pena alternativa, anche se gestita da Associazioni di volontariato, ha dei costi. Per tale motivo avevamo presentato ai due Sottosegretari alla Giunta una riflessione utile all’elaborazione di un disegno di legge che prevedeva degli aiuti alle associazioni come le nostre per continuare a dare la disponibilità all’accoglienza di detenuti in esecuzione penale esterna: si consideri che un detenuto costa alle casse dello stato circa 130,00 euro al giorno, mentre se si facesse ricorso alle pene alternative si potrebbe risparmiare circa 100,00 euro al giorno. Agganciare la questione del sovraffollamento carcerario alle vicende di Silvio Berlusconi sa di ipocrisia istituzionale; tutto l’arco parlamentare era, ed è, a conoscenza di questo atavico problema italiano. Non vorrei che per punire Berlusconi, fuori dalla sua condanna, ci si dimenticasse dei veri detenuti. Giustizia: sovraffollamento carceri, multe da 70 milioni annui, così l’Europa ci castiga di Angelo Perfetti La Notizia, 19 ottobre 2013 Se non fosse tutto terribilmente vero, ci sarebbe da sorridere. Uno Stato alla disperata ricerca di quattrini, sulla strada di nuove tasse, con un’economia a pezzi butta dalla finestra 60/70 milioni di euro l’anno per il solo fatto di non adeguarsi alle prescrizioni che da anni fa la Comunità europea in tema di carceri e giustizia. Non solo, ma si avvita su un dibattito politico-ideologico sull’amnistia quando, ad oggi, è l’unica soluzione possibile per risolvere rapidamente il problema del sovraffollamento e ragionare su come riorganizzare il sistema carcerario. Da 30 anni l’Europa ci richiama sulle condizioni di sovraffollamento delle nostre carceri. “E se a maggio 2014 la sentenza Torreggiani parte - ha detto ieri il ministro Annamaria Cancellieri - bisognerà pagare una penale di “circa centomila euro per ogni sette detenuti che faranno ricorso”, per un totale di “60-70 milioni di euro ogni anno. È un problema serio - ha osservato il ministro - non solo di tipo finanziario, ma anche civile e politico”. “L’amnistia e l’indulto sono scelte del Parlamento - ha sottolineato il ministro - ma se le farà noi saremo contenti, perché questo ci aiuterà. Qualunque sarà la decisione del Parlamento - ha aggiunto - noi andremo avanti e ce la caveremo comunque, metteremo a punto una serie di norme”. Il Guardasigilli ha ribadito di non aver “mai detto che avrei fatto io una legge per amnistia e indulto. E ho detto la cifra di 20mila detenuti parlando delle esperienze pregresse. Il Parlamento può decidere di fare quello che vuole, non siamo contro il Parlamento, né contro un partito o un altro”. Ma per riformare l’ordinamento penitenziario servono interventi organici e coerenti. E la Cancellieri in commissione alla Camera ha sottolineato “la particolare utilità di proporre al Parlamento il varo di una legge di delega al Governo per la composizione di un Testo unico di ordinamento penitenziario che restituisca, anche con opportuni interventi modificativi, organicità alla materia e prepari impegni più ambiziosi, già all’agenda del Governo ma ancora non sufficientemente elaborati”. Le proposte innovative, suggerisce il guardasigilli, “dovrebbero riguardare la riscrittura del sistema sanzionatorio in modo che la sanzione detentiva intramuraria sia contenuta e riservata ai casi in cui effettivamente le finalità rieducativa e retributiva della pena non possono prescindere dalla privazione, in misura così intensa, della libertà dei condannati”. Per ridurre il sovraffollamento, ricorda infine, “sono in avanzata fase di elaborazione alcune proposte di modifica della normativa in materia di espulsioni dei detenuti stranieri autori di reati non gravi”. Ma se i detenuti sono troppi, le guardie carcerarie sono troppo poche. “Sono 39.305 i poliziotti penitenziari in Italia, a fronte di una pianta organica di 45.121. La carenza di organico - ha detto il ministro - è particolarmente grave per i ruoli intermedi dei sovrintendenti e degli ispettori, di minore entità nel ruolo agenti-assistenti”. Per quanto riguarda i dirigenti, “si contano 395” unità, “a fronte di un organico previsto di 441”, mentre “il personale del comparto ministeri conta di 6.107 unità, di cui 2.058 appartenenti all’area del trattamento. Si registrano - ha aggiunto - significative carenze nel profilo professionale degli assistenti sociali e dei funzionari giuridico pedagogici. Ulteriori difficoltà per quanto riguarda la carenza di organico, ha sottolineato Cancellieri, “derivano dall’incidenza dei provvedimenti previsti dalle leggi finanziarie in materia di turn-over del personale di Polizia penitenziaria, poiché solo il 20% delle vacanze che si creano vengono colmate con nuove assunzioni”. “Un’analoga complessità - ha concluso - è determinata dalla mancanza di un contratto della dirigenza penitenziaria e dalla possibile applicazione di ulteriori tagli a seguito della spending review”. Un intervento giudicato da più parti coerente nei numeri ma troppo timido nelle ipotesi di soluzione del problema. Giustizia: Silvestri (Consulta); sulle carceri la politica decida, oppure la Corte interverrà di Eva Bosco Ansa, 19 ottobre 2013 Gaetano Silvestri si è insediato un mese fa come presidente della Consulta, l’organo “giudice delle leggi” che sempre più spesso è chiamato a risolvere questioni che la politica non risolve. Oggi a Padova per il convegno annuale dell’Associazione costituzionalisti, Silvestri ha richiamato l’attenzione sui rischi posti dalla necessità di fare riforme in tempo di crisi economica: “nuovi centralismi”, “compressione dei diritti fondamentali”, “condizionamenti che arrivano dall’Europa e pesano su governi e maggioranze parlamentari”. C’è poi, su un altro piano, la riforma delle riforme che attende l’Italia: quella della legge elettorale. Proprio quello con il cosiddetto Porcellum è l’appuntamento più importante in agenda per la stessa Corte Costituzionale, dopo che la Cassazione ha sollevato dubbi di costituzionalità sulla norma: il 3 dicembre ci sarà l’udienza. Molti gli scogli, a partire dall’ammissibilità del quesito. Anche qui l’intervento del legislatore potrebbe offrire una soluzione. Riuscirà la politica a dare risposte prima dell’intervento dei giudici costituzionali? Silvestri è prudente e non si sbilancia: “Queste sono valutazioni rimesse alle forze politiche e non posso in alcun modo anticipare valutazioni che sono rimesse al collegio”, afferma in un’intervista all’Ansa. Parole che richiamano la politica al suo ruolo. Del resto il giorno dell’elezione, Silvestri aveva sottolineato come spesso, non solo in Italia, ci sia “una tendenza a scaricare sul potere giudiziario decisioni che la politica non riesce a prendere”. È di pochi giorni fa una sentenza della Corte su uno dei temi più caldi del momento: le carceri. La Consulta ha giudicato inammissibile un ricorso sulla possibilità di chiedere il differimento della pena quando le strutture carcerarie sono sovraffollate ed espongono a condizioni disumane. Ma non si è limitata a questo: ha anche lanciato un monito a chi le leggi è chiamato a farle. Fino a che punto, però, nel dibattito in corso si colgono i segnali di un’inversione di tendenza? “È ancora troppo presto per dirlo - risponde Silvestri . La Corte rispetta la priorità del legislatore nel disciplinare materie importanti e delicate come quelle riguardanti la condizione dei detenuti. Tuttavia un’eventuale protrarsi dell’inerzia costringerebbe il giudice costituzionale a intervenire, mantenendosi naturalmente nei rigorosi limiti delle proprie attribuzioni”. Se, quindi, in assenza di provvedimenti normativi, la materia fosse riproposta alla Corte, quest’ultima potrebbe formulare una sentenza additiva che colmi la lacuna. In tempi di spending review, c’è chi ritiene che la Consulta costi troppo. “La Consulta - assicura Silvestri - sta procedendo a ridurre le spese, come dimostrato dal recente provvedimento che ha abolito le autovetture di servizio per i giudici emeriti e dal blocco della dotazione, che la Corte riceve dallo Stato, ferma ai valori dei 2009”. Anche il contenzioso è, per alcuni, troppo alto e genera costi. Ma “la Corte ha il dovere di decidere tutte le questioni ritualmente sottoposte al suo giudizio. Sarebbe ben strano che rifiutasse la propria decisione su alcune questioni per risparmiare sul tempo e sulla carta”. La Consulta ha anche assunto decisioni fortemente impopolari, come la bocciatura del ricorso sul contributo di solidarietà sulle pensioni d’oro. Tutela della casta o la legge era fatta male?. “La norma impugnata - spiega Silvestri - violava l’articolo 3 della Costituzione sul principio di uguaglianza, giacché i prelievi che si impongono ai cittadini devono rispettare il criterio che ad eguale reddito venga applicato eguale prelievo”. Giustizia: Scaglia (Fastweb); in cella a Rebibbia meno spazio che a maiali, troppe sofferenze Ansa, 19 ottobre 2013 “Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell’arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall’esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all’inverosimile. C’è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali” ma la privazione più dura, “più ancora della libertà, delle umiliazioni è il senso di impotenza, l’impossibilità di difendersi”. Lo racconta a Repubblica Silvio Scaglia, fondatore di Fastweb, dopo l’assoluzione con formula piena nell’inchiesta sull’azienda. “Dopo cinque giorni di isolamento - continua, venne il giudice per l’interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l’interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un’azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire”. “Avverto l’urgenza di dire forte - sottolinea Scaglia - che queste cose non dovrebbero più succedere”, “il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio”. “Le eterne polemiche italiane sulla giustizia - aggiunge - mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico. Non risolvono i problemi reali”. Giustizia: Sappe; falsi dati forniti dal Dap sulla capienza delle carceri, è gravissimo Comunicato stampa, 19 ottobre 2013 “Trovo gravissimo quel che è emerso dall’intervento del Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri nel corso di un convegno, e cioè che l’Amministrazione Penitenziaria ha fornito e fornisce dati falsi sulla reale capienza regolamentare degli Istituti penitenziari. Li ha forniti a Ministri, Sottosegretari, Sindacati, opinione pubblica. Si sono inventati, per mesi ed anni, una capienza regolamentare delle carceri pesantemente sottostimata rispetto alla realtà, anche per fronteggiare le costanti criticità che il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, che ha sottolineato più e più volte la drammaticità delle nostre galere e le gravissime criticità operative delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria, che lavorano nella pericolosa prima linea delle sezioni detentive con grande professionalità e senso del dovere ma con pesanti rischi per la loro stessa incolumità fisica. Il primo responsabile è il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tamburino. Non avvicendarlo vorrebbe dire essere corresponsabili di questa grave ed inaccettabile mistificazione”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria. “Diffondere dati falsi, gonfiati, non veri vuol dire tentare di nascondere sotto lo zerbino dell’ingresso principale del palazzo che ospita l’Amministrazione Penitenziaria a Roma i veri e reali problemi che questa gestione del DAP non è in grado di risolvere: sovraffollamento, carenza personale di Polizia, automezzi dei Nuclei Traduzioni fermi nelle officine perché non ci sono i soldi per ripararli. Ed ora persino i dati falsi per ingannare l’opinione pubblica e nascondere i veri drammi delle carceri italiane, quelli con i quali hanno quotidianamente a che fare i poliziotti. Mi auguro che il Ministro della Giustizia Cancellieri adotti provvedimenti davvero severi verso i vertici del Dap, primi responsabili di questa figuraccia”. Lettere: il carcere da umanizzare Mattia Testa Il Manifesto, 19 ottobre 2013 Il sovraffollamento di detenuti (circa sessanta quattro mila) in strutture penitenziarie, capaci di accoglierne quarantamila al massimo, determina situazioni igienico- sanitarie precarie, violenze fisiche e psichiche intollerabili tanto che all’Italia è arrivata la condanna della Corte europea dei diritti umani. Un numero consistente di carcerati è costituito da consumatori di droga e da migranti vittime di leggi anacronistiche ed inique, senza contare, poi, i tanti in attesa di giudizio, vittime della lentezza dei processi. Il ministro Cancellieri ha riconosciuto la responsabilità dei precedenti ministeri di Giustizia che negli ultimi trent’anni hanno sottovalutato l’illegalità in cui versa il sistema penitenziario e penale italiano. Umanizzare il carcere, oggi ancora luogo di supplizio, significa modernizzarne strutture, metodi detentivi, creare opportunità concrete e diffuse di riabilitazione e rieducazione dei detenuti fino al loro reinserimento nel mondo del lavoro e nella società, senza discriminazioni. Il provvedimento di clemenza, legato all’amnistia ed all’indulto, benché sia criticabile, nell’attuale situazione di emergenza, diventa necessario. Le condizioni disumane dei reclusi non possono attendere i tempi lunghi della riforma della Giustizia. L’atto di clemenza, tuttavia, non può, non deve comportare la cancellazione di reati gravi, come la frode fiscale. Lettere: l’ultima amnistia risale a 24 anni fa e non a 7 anni fa, come dice Renzi di Gianni Di Capua www.formiche.net, 19 ottobre 2013 Troppi svolazzano come avvoltoi sull’amnistia cercando di usarla come concausa di uno sfascio della dodicesima legislatura. Capofila di tali volatili (nel senso di soggetti adusi alla volubilità di pensiero nel volgere di pochi mesi, passando da un eccesso di fervore per un atto di clemenza ad un rigetto totale) è Matteo Renzi. Che non sa più cosa inventarsi per richiamare sul suo nome il clamore dei media e l’attenzione del ventre del complesso popolo protestatario: piddino, grillino, viola, nichilista o soltanto confusionario. Colpiscono, in questo giovane già promettente, il suo vezzo di raccontar fole giocando sui significati dei diversi atti di clemenza sollecitati dal capo dello Stato ai parlamentari; e quel suo insistere nel ricordare che l’ultima clemenza è parecchio recente (sette anni), quand’invece l’amnistia è purtroppo vecchia di circa venticinque anni, uno stacco generazionale e ben vedere. Quell’ultima amnistia non servì ad aprire le porte al cosiddetto “ventennio berlusconiano”, come Renzi ripete. Venne introdotta su perorazione speciale dei postcomunisti. E non ebbe effetti su Craxi, benché la Camera gli avesse accordato un salvacondotto mentre gli inquirenti milanesi si erano presentati all’ingresso principale di Montecitorio nella presunzione di penetrare impunemente nel palazzo ed andare a rovistare nei conti del Psi, come si trattasse di uno studio privato e non il luogo di rappresentanza del popolo italiano. L’amnistia, peraltro, fu preparata prima del 2 giugno 1946 e varata da Togliatti il 18 giugno non solo per una pacificazione nazionale dopo la guerra civile e l’abbattimento democratico della monarchia. Cioè non servì solo (come si continua ad accreditare) come un salvacondotto per i fascisti repubblicani, bensì per comprendervi anche gli assassini comunisti del capitano Neri, capo partigiano di Como che voleva consegnare allo Stato l’oro di Dongo da lui raccolto e catalogato; e di don Pessina, parroco di una piccola comunità del Reggiano, reo soltanto di non essere disposto a subire l’animosità e la violenza di un Pci estremista e che aveva operato per trasformare l’Italia in una repubblica sovietista. Pesaro: dopo suicidio detenuto, dirigente Sindacato Polizia penitenziaria in sciopero fame Il Resto del Carlino, 19 ottobre 2013 Detenuto si suicida al carcere di Villa Fastiggi di Pesaro. Aveva 33 anni ed era di origini marocchine, si è impiccato stringendosi il collo con i lacci delle scarpe. Lo ha reso noto Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato di polizia penitenzia (Spp). Il giovane era stato condannato a 7 anni di carcere. Di Giacomo si dice “molto dispiaciuto” per l’episodio. “Purtroppo la responsabilità è di tutti, ma in particolar modo della politica che si è disinteressata di un problema così importante come il sovraffollamento delle carceri arrivando alla situazione di oggi”. Di Giacomo fa sapere che “erano diversi anni che non capitava un suicidio a Pesaro. Il carcere ospita circa trecento detenuto rispetto a circa 200 posti disponibili. È un caso di sovraffollamento importante”. E ha annunciato di aver “ripreso lo sciopero della fame, per scongiurare il ripetersi di casi come questo. Serve una riforma strutturale, complessiva della giustizia. È uno sciopero per far capire alla politica che non ha senso avere leggi punitive e riempire le carceri se poi si procede con indulti e amnistie sistematiche. È una giustizia malata che va rivista. Servono riforme per depenalizzare i reati in modo da ridurre i processi e avere meno persone in carcere. La Giustizia ha tempi particolari e ogni anno abbiamo 178 mila prescrizioni”. Lo sciopero, fa sapere Di Giacomo, “durerà a oltranza finché qualcuno non si accorgerà”. Ma intanto ieri ha ricevuto le prime chiamate. “Mi ha contattato Antonio Di Pietro e il responsabile della Giustizia per il Partito Democratico Danilo Leva. Con l’ex ministro Di Pietro stiamo organizzando una conferenza stampa mercoledì alla Camera dei Deputati per sensibilizzare tutto il mondo della politica e portare alla ribalta questo tema. Non possiamo far finta di niente, bisogna intervenire con riforme strutturali al più presto”. Trieste: suicidio in carcere; nessuna omessa vigilanza, un gesto studiato nei minimi dettagli di Piero Rauber Il Piccolo, 19 ottobre 2013 Come s’aprirà, così poi pure si chiuderà. Questione di ore e, nel momento in cui verrà depositata dalla polizia penitenziaria la relativa segnalazione, in Procura ci sarà un fascicolo sulla morte in cella di Giulio Simsig. Ma si tratterà di un atto dovuto. Destinato, in tutta probabilità, ad essere archiviato a stretto giro come un cosiddetto “modello 45”, quello del “registro degli atti non costituenti notizia di reato”. Antonio Miggiani - il pubblico ministero che giovedì mattina ha fatto un lungo sopralluogo nel carcere del Coroneo non appena gli è stato comunicato che un detenuto si era tolto la vita - non avrebbe in effetti ravvisato, nel corso dei suoi accertamenti, gli estremi di un’eventuale responsabilità colposa per omissione di vigilanza a carico delle guardie carcerarie e, più in generale, dei vertici della casa circondariale triestina. Il gruista 49enne in carcere dall’11 settembre di due anni fa - giorno in cui aveva ucciso a coltellate l’ex convivente Tiziana Rupena, e condannato in secondo grado a 16 anni e otto mesi- è riuscito evidentemente a compiere senza destare il minimo sospetto, né tra i compagni di cella né nelle maglie della struttura carceraria (i medici e persino il cappellano, padre Silvio Alaimo, al quale s’era molto legato) il suo terribile disegno. Un disegno mirato a levargli il peso, divenuto insostenibile, del rimorso e della sofferenza. Il sostituto procuratore, di turno nella tragica mattinata di due giorni fa, ha ispezionato appunto il luogo del suicidio. Una cella a “elle”, piuttosto ampia rispetto ad altre, “casa” quotidiana per quattro ospiti, tra cui Simsig. Due letti a castello a fianco di altrettante pareti opposte, e poi il bagno, non a vista, con la porta richiudibile dall’interno, ma con la sola maniglia e non con la chiave, come d’altronde qualunque porta del Coroneo a portata di detenuto. Al mattino - mentre in cella si trovavano solo Simsig e un altro, perché altri due erano stati accompagnati fuori per una delle varie attività previste dai protocolli del carcere - il gruista è andato in bagno e si è fatto una lunga doccia. Solo che, senza farsi notare, ha portato dentro un piccolo sgabello e un laccio di canapa, di quelli usati per confezionare pacchi. È diventato la sua chiave, perché l’ha usato per bloccare la maniglia dall’interno. Il resto, com’era già trapelato 24 ore prima, l’ha fatto con la cintura dell’accappatoio, agganciata alla cerniera superiore della porta stessa. È salito col cappio al collo e ha mollato lo sgabello da sotto i piedi. Ed è rimasto lì. Nell’unico stretto angolo cieco del bagno rispetto alla vista che dà su di esso lo spioncino esterno, dal quale le guardie possono controllare, sempre, i detenuti. Il compagno rimasto in cella, dato il protrarsi della permanenza di Simsig in bagno, s’è insospettito. L’ha chiamato. Niente. La porta bloccata. Ha dato l’allarme e l’intervento dei poliziotti penitenziari ha scoperchiato la cruda verità. Erano le dieci meno un quarto. L’omicida della sua ex aveva messo fine alle sue sofferenze così. Nel luglio del 2012 aveva tentato di gettarsi nella tromba delle scale di Palazzo di giustizia, mentre lo stavano accompagnando al Tribunale del riesame, ma le guardie lo avevano afferrato in tempo per i piedi. Da allora non aveva - da quanto si apprende - sparso altri sintomi di volerla chiudere per sempre. L’episodio del tentato suicidio di quasi un anno e mezzo prima era finito nelle motivazioni con cui era stata respinta la richiesta di domiciliari del suo avvocato, Sergio Mameli. Nulla aveva potuto fare, evidentemente, per placargli il rimorso, nemmeno il suo avvicinarsi - convinto, pieno - alla fede. Accanto al posto di Sismig in cella, infatti, da qualche tempo c’erano attaccate varie immagini di Papa Francesco, di Giovanni Paolo II, di Giovanni XXIII. Le aveva messe lui stesso, che era diventato uno dei principali collaboratori di padre Silvio, il cappellano gesuita del Coroneo. Lo aiutava a dire Messa, la domenica. Ci parlava. Si confidava. Una cosa sola, però, la più inconfessabile, se l’è tenuta per sé fino all’ultimo. Pescara: al carcere San Donato attivato il primo corso per ragionieri, 35 iscritti www.ilpescara.it, 19 ottobre 2013 Nella struttura di San Donato è stato attivato un corso di Ragioneria per 35 detenuti inserito nel corso serale per lavoratori dell’Itc Aterno-Manthonè denominato Sirio. L’Istituto tecnico Aterno-Manthonè di Pescara “entra” nel carcere del capoluogo adriatico con un progetto all’avanguardia e unico in Abruzzo. Nella casa circondariale è stato attivato un corso di Ragioneria per 35 detenuti (inserito nel corso serale per lavoratori dell’Aterno-Manthonè denominato Sirio) e questa mattina si è svolta la cerimonia di consegna dei computer e del materiale didattico agli studenti. C’erano il direttore del carcere Franco Pettinelli, la dirigente scolastica Donatella D’Amico, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per l’Abruzzo, Bruna Brunetti, il presidente della Provincia Guerino Testa, il vicepresidente Fabrizio Rapposelli e il presidente del consiglio di quartiere, Piernicola Teodoro. Con loro, ovviamente, gli studenti detenuti e i docenti del corso Sirio (da 18 anni all’istituto pescarese), con la responsabile del corso, Marina Di Crescenzo, e i professori Antonella Di Muzio, Gianni Iovacchini, Antonio Procaccini, Rosalba Savini, Adele Telli. “Quella che forniamo ai nostri detenuti - ha esordito Pettinelli - è una scuola di vita perché ci rivolgiamo a persone che hanno sbagliato e ora stanno scontando una pena per gli errori commessi, ma evidentemente vogliono reinserirsi nella società. In sei anni che sono a Pescara questa è l’ iniziativa che ha visto il maggior numero di partecipanti”. “Quest’anno, con il corso serale Sirio, che ormai è un punto di riferimento, abbiamo voluto offrire un’opportunità in più per chi è detenuto - ha spiegato D’Amico. Non è stato facile anche per motivi organizzativi, ma ci siamo riusciti e siamo felici anche del risultato. Gli iscritti alla prima B ragionieri corso Sirio sono 35 ma abbiamo fatto una selezione rispetto alle tante domande arrivate”. Significativo l’intervento di un recluso che parteciperà al corso: “Veniamo a lezione volentieri anche perché ci teniamo a cercare, una volta usciti da qui, di reinserirci nel mondo del lavoro”. Pescara: “Liberi di Ri-uscire”, percorsi alla riscoperta della città per i detenuti www.newsabruzzo.it, 19 ottobre 2013 Sono 30 i detenuti condannati che stanno scontando la pena con affidamento in prova ai Servizi sociali e che a partire da domani, sabato 19 ottobre, verranno coinvolti in un progetto culturale teso alla conoscenza dell’ambiente in cui viviamo e di quel patrimonio che appartiene alla collettività. Tre tappe in cui i detenuti, accompagnati anche dalle proprie famiglie, effettueranno visite guidate presso l’Aurum, nell’antica piazzaforte o nella chiesa della Madonna del Carmine, all’interno della Questura, o anche nei palazzi delle Istituzioni, come la Prefettura e il Comune, per riscoprire la propria appartenenza al territorio per il recupero della propria dignità di cittadini. È questo il progetto Liberi di Ri-uscire - percorsi alla riscoperta della città’ che prenderà il via domani, sabato 19 ottobre, e proseguirà ancora il 16 e 23 novembre, tre giornate confezionate grazie alla collaborazione del Comune di Pescara, Aurum, Archivio di Stato e l’Ufficio Esecuzione penale esterna dell’amministrazione penitenziarià. Lo ha detto il vicesindaco di Pescara Berardino Fiorilli nel corso della conferenza stampa odierna convocata per illustrare i tre appuntamenti, alla presenza di Antonello De Berardinis, Direttore dell’Archivio di Stato, accompagnato da Angela Appignani, da Mariantonietta Cerbo, Direttore dell’Ufficio Esecuzione penale esterna dell’amministrazione penitenziaria, e di Annarita Della Penna, Direttore dell’Aurum. “Il progetto Liberi di Ri-uscire - ha spiegato Cerbo - è destinato a persone condannate che stanno però scontando la pena fuori dalle mura carcerarie con modalità alternative alla detenzione. Con l’Aurum e con l’Archivio di Stato abbiamo quindi pensato e predisposto un percorso per la riscoperta dei luoghi più significativi della città per favorire la conoscenza dell’ambiente e promuovere una nuova e diversa sensibilità verso il territorio tra le persone che si sono viste comminare una condanna sino a 3 anni, ma con una seconda chance, ossia la possibilità di scontare la propria pena fuori dalle mura di un penitenziario, quindi con l’affidamento ai servizi sociali, la detenzione domiciliare o la semilibertà. Per il nostro progetto abbiamo pensato di coinvolgere per ora solo gli utenti che sono in affidamento-prova ai servizi sociali, vogliamo che il loro periodo di recupero e di reinserimento sociale preveda anche un percorso di avvicinamento alla cultura per sensibilizzarli, per dare loro uno strumento che permetta loro di approfondire le proprie problematiche interiori e promuovere una rinascita che dev’essere vera, autentica, profonda, ossia non solo un fatto formale per poi tornare alla propria vita abituale non appena si è conclusa la detenzione. Noi siamo convinti che la cultura aiuti la gente a cambiare e a guardare la vita sotto un’altra prospettiva, imparando a riconoscere il valore della propria città, dell’appartenenza a un territorio. Per ora abbiamo predisposto tre giornate, tre incontri della durata di due ore ciascuna, dalle 10 alle 12. Partiremo domani, sabato 19 ottobre, con la visita all’Aurum, che prima era il Kursaal, quindi distilleria e oggi di nuovo Aurum, laboratorio di idee; poi sabato 16 novembre abbiamo programmato la visita a piazza Italia, Palazzo del Governo, palazzo del Comune e Liceo Classico ‘d’Annunziò; infine termineremo il 23 novembre con la visita all’antica Piazzaforte di Pescara, e alla seicentesca chiesa di ‘Santa Maria del Carminè, visita guidata da Licio Di Biase. Le persone in affidamento che parteciperanno all’iniziativa sono 30, di età compresa tra i 30 e 40 anni, e per l’occasione abbiamo invitato anche le famiglie, che sono un elemento importante come mission”. “L’Archivio di Stato - ha detto il Direttore De Berardinis - ha aderito all’iniziativa riproponendo il percorso strutturato in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio del 2012, per contribuire al recupero umano delle persone in esecuzione penale esterna. Per l’occasione mettiamo a disposizione il materiale custodito nell’Archivio di Stato per ripercorrere i momenti salienti della storia dell’Aurum e dell’antico insediamento di Pescara”. “Domani il progetto partirà con la visita guidata all’Aurum - ha detto la Direttrice Della Penna - condotta dalla dottoressa Francesca Martella che sta lavorando a un progetto di recupero storico documentale della Sala Pomilio e concluderemo il giro con alcuni simboli dell’Aurum, tra cui il Parrozzo dedicato a d’Annunzio”. “L’amministrazione comunale - ha sottolineato il vicesindaco Fiorilli - sostiene simili iniziative tese al recupero sociale di utenti che hanno un vissuto più difficile e che vogliamo aiutare nella riscoperta dei luoghi identitari del nostro territorio. Anche la visita ai Palazzi del Governo aiuta il cittadino a scoprire una dimensione diversa del suo rapporto con le Istituzioni”. Frosinone: Cisl; emergenza carceri, a Cassino previsti 172 posti, ma i detenuti sono 312 Il Messaggero, 19 ottobre 2013 Emblematico della situazione in cui versano le carceri italiane è il caso di Cassino che i sindacalisti Cisl hanno voluto ricordare al prefetto Eugenio Soldà. “L’Istituto Penitenziario di Cassino, è al limite della capienza, dove il numero regolamentare dovrebbe essere 172, tollerabile a 285 ma i detenuti presenti risultano essere 312 - spiegano dalla Cisl. A causa della soppressione del Tribunale di Gaeta, nove comuni dell’area meridionale pontina, altre alle isole di Ventotene e Ponza, fanno riferimento, sotto il profilo giudiziario, a Cassino, vale a dire: 54 comuni della provincia di Frosinone, 5 comuni della provincia di Caserta, 9 comuni della provincia di Latina, con un bacino di utenza complessivo di 68 comuni, per un totale di 400.000 abitanti e un carico di 25.000 procedimenti civili e penali”. “Da non sottovalutare - continuano i sindacalisti - anche la grave situazione relativa ai parcheggi non solo per il personale di Polizia Penitenziaria, ma per altri operatori che lavorano all’interno dell’Istituto. L’unico parcheggio viene utilizzato dai dipendenti del supermercato accanto all’istituto, dagli inquilini dei palazzi adiacenti allo stesso e nei giorni di colloquio dai familiari dei detenuti, per tale motivo si registrano molte difficoltà nel trovare un parcheggio auto, il Personale è costretto ad arrivare in servizio con notevole anticipo o lasciare l’auto fuori posto pur di garantire il turno di servizio”. Canicattì (Ag): reinserimento sociale ex detenuti: il Comune avvia i cantieri di Davide Difazio www.canicattiweb.com, 19 ottobre 2013 Per migliorare le condizioni di vita ed agevolare il reinserimento sociale dei detenuti, il comune di Canicattì , grazie al protocollo firmato con il ministero del Lavoro ed il ministero della Giustizia, ha avviato un progetto rivolto a favorire l’attività lavorativa di persone che in passato hanno avuto problemi con la giustizia. Saranno 18 i disoccupati che percepiranno un compenso di circa 400 euro per un periodo di 4 mesi. Non è la prima volta che il Comune si impegna nella promozione di progetti di cooperative sociale per ex detenuti. Le persone selezionate, in base alle attestazioni reddituali, inizieranno a lavorare a partire dal prossimo mese nelle aziende che hanno dato la loro disponibilità all’inserimento lavorativo dei soggetti selezionati. Sono state circa 50 le domande arrivate all’assessorato ai Servizi sociali, presieduto dall’assessore Calogero Capobianco, che ha già espletato una serie di progetti socialmente utili dedicati a categorie particolarmente disagiate. I lavori da eseguire variano in base alle esigenze delle ditte e associazioni che hanno dato la disponibilità. I selezionati sono stati scelti in base ad una graduatoria che ha tenuto conto del reddito. Pisa: a teatro con i detenuti di Davide Guadagni L’Espresso, 19 ottobre 2013 È magro, capelli corti, uno sguardo azzurro mare attraversato da una vivacità insolente che si acquieta solo quando parla della madre. Si racconta pianamente, in un buon italiano infarcito di alcune espressioni tipiche della burocrazia galeotta. Siamo nella sala colloqui del carcere Don Bosco di Pisa, infatti. Qui, quattro mesi fa, ha compiuto trent’anni. In cambio della sua storia, chiede l’anonimato. Lo chiameremo Agim. È nato a Durazzo. “Sentivo dire che in Italia si poteva comprare tutto. In Albania non c’erano negozi, non c’era niente di niente. Dovevo vederlo questo Paese dei balocchi”. A tredici anni ruba 950 mila lire e s’imbarca per Brindisi. Da lì a Roma, da Roma a Pisa dove c’era già il fratello quindicenne: “Viveva con altri minorenni, rubavano. Mi passava tanti soldi per non mandarmi a rubare. Io andavo in giro in motorino”. Ha due incidenti gravi. A 16 anni si mette in tasca anche un milione (di lire) al giorno spacciando cocaina. A 21 ha una storia da cui nasce una bambina che viene alla luce in crisi di astinenza. “Quando è nata io ero in carcere, non l’ho conosciuta né l’ho potuta riconoscere “. Viene data in adozione. Dal maggio 2009 Agim è nel carcere di Pisa condannato a 6 anni e 7 mesi. “Ho cominciato a uscire in permesso a maggio. Mi vedo con una ragazza. In carcere ho preso la licenza media, ho frequentato un corso di cucina, il laboratorio musicale e il coro. Sto imparando a vivere”. Questa è una delle mille storie balorde e disperate che si possono ascoltare in carcere da chi, e sono la maggioranza, vede il Mare Nostrum dalle altre coste. L’abbiamo scelta perché Agim è il detenuto che siederà mercoledì 25 ottobre su una poltrona di prima fila del bellissimo teatro Verdi di Pisa. Quella poltrona l’ha acquistata per lui Enrico Letta che, forse, gli siederà accanto. “L’illogica allegria” è anche questo. Uno spettacolo che ribalta i ruoli. La prima edizione risale al 2005 e vide la partecipazione a titolo completamente gratuito (un letto e una cena) di artisti del calibro di Dario Fo, Franca Rame, Paolo Rossi, Mauro Pagani, Paola Turci e Daria Bignardi (che condusse). In memoria di Giorgio Gaber per il carcere. Le “autorità” furono invitate a occupare le prime file come sempre, ma pagando - salato - per sé e per un’altra poltrona da regalare a un detenuto in permesso. Cento poltrone furono vendute a cento euro. Il sindaco fu messo a staccare i biglietti e altri papaveri facevano le maschere. Questo rese possibile il record assoluto di incassi nella storia ultracentenaria di quel teatro e il danaro (oltre 30 mila euro) si trasferì per intero a favore dei detenuti. Quest’anno, su iniziativa dei volontari e degli educatori del carcere (una notazione, la più coinvolta e attiva di loro, incredibile ma vero, si chiama Liberata), che vogliono restaurare e rendere funzionale la sala riunioni e spettacoli della struttura, la storia si ripete e si sta ripetendo anche questo miracolo di generosità. Se vogliamo con una spinta che pare persino superiore alla precedente. Perché forse da quando è arrivato Francesco il bene è diventato contagioso e può creare competizioni virtuose che coinvolgono tutti. Per cui il deputato Paolo Fontanelli si è battuto come un leone e con successo per raccogliere i finanziamenti per l’ospitalità. Per cui gli artisti hanno aderito, sollecitati da Sergio Staino che si è accollato la regia, a costo zero: da Gianmaria Testa a Claudio Bisio (che condurrà) fino a quel Roberto Vecchioni in odore di Nobel. Per cui, sul palco ci saranno anche i detenuti che interpreteranno la celebre “La libertà” gaberiana (ma in arabo) e ci sarà Adriano Sofri, antico inquilino di quel luogo, che reciterà una sua poesia. Per cui, in platea, perfino il prefetto e il questore rinunceranno ai “posti di legge”. Per cui, il governatore Enrico Rossi fa sapere che ambirebbe a stare in biglietteria. Per cui Laura Boldrini, impossibilitata a esserci, fa giungere un messaggio affettuoso e concede il patrocinio della Camera. Per cui il ministro Cancellieri fa sapere che ci sarà. Per cui, quando gli esiti di tutto questo sono arrivati sotto gli occhi del sindaco di Pisa Marco Filippeschi, che a sua volta si è molto impegnato per l’evento, ha esclamato: “Ma questo è il contrario della macchina del fango, è la macchina degli arcobaleni”. Per cui Enrico Letta, messo a conoscenza dell’iniziativa, scrive: “Ottima cosa! Compro sicuramente un posto”. Lo ha fatto, è quello di Agim l’albanese che sta imparando a vivere. Immigrazione: rivolta Cara Bari; testimonianza poliziotta nel processo “fu un inferno” Ansa, 19 ottobre 2013 “Fu un inferno. Le nostre macchine completamente distrutte, decine di uomini feriti, lanci di massi e spranghe di ferro e materassi incendiati”. È il racconto della rivolta al Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Palese del primo agosto 2011, fatto in aula da Rosa Romano, dirigente di polizia alla Questura di Bari che quel giorno era sui binari mentre centinaia di migranti in protesta partecipavano ad una vera e propria guerriglia. “Ad un certo punto - racconta la dirigente, citata come testimone nel processo - ci avevano accerchiati e avevano assediato il modulo di polizia lanciando bottiglie e pietre contro porte e finestre. Un inferno, mentre le famiglie di migranti con bambini che non prendevano parte alla rivolta si riparavano all’interno dei moduli abitativi”. Nel processo in corso dinanzi alla prima sezione collegiale del Tribunale di Bari sono imputate 31 persone, accusate di resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali, blocco ferroviario, interruzione di pubblico servizio, danneggiamenti, incendi e violenza privata. Tra gli imputati uno dei tre presunti capi della rivolta, il 36enneSankara Maliki del Burkina Faso, che risponde anche di istigazione a delinquere. Il processo è stato aggiornato al 7 marzo 2014. Parteciperà all’udienza MadaKabobo, il 31enne ghanese imputato per la rivolta ma l’unico ancora detenuto perché all’alba dell’11 maggio scorso ha aggredito e ucciso a picconate tre passanti alla periferia di Milano. Secondo la ricostruzione degli investigatori, coordinati dal pm Marcello Quercia, circa 300 migranti, istigati da tre ospiti del Cara, organizzarono la protesta con l’obiettivo di accelerare le pratiche per i permessi di soggiorno e il riconoscimento dello status di rifugiati. Con sassi, spranghe di ferro, bastoni, zappe, rastrelli e bottiglie di vetro, danneggiarono la struttura del Cara, auto e mezzi sulla vicina strada ferrata e sulla Statale 16, bloccando il traffico ferroviario e la circolazione stradale per ore e causando anche il ferimento di un centinaio di agenti dello Forze dell’Ordine intervenuti per contenere la rivolta. Dei 300ne furono identificati 45. Nel febbraio scorso altri 14 migranti, cittadini originari di Bangladesh, Pakistan, Costa d’Avorio e Mali, sono stati condannati con rito abbreviato. Gran Bretagna: il 50% degli ex detenuti torna in carcere per reiterazione del reato di Sara Delgrossi L’Indro, 19 ottobre 2013 In prigione non si studia abbastanza. Secondo un report rilasciato in settimana dall’Ofsted - L’Office for Standards in Education, organismo governativo per il monitoraggio della qualità di istruzione nella società- il livello del sistema educativo nelle carceri britanniche è spaventosamente basso. A preoccupare sono i dati appena pubblicati dagli ispettori Ofsted, secondo i quali nemmeno una prigione in tutto il territorio inglese si sarebbe guadagnata il giudizio di “eccellente”, mentre soltanto una ogni tre sarebbe stata giudicata come “buona”. Il che, significa che il 70% delle carceri non garantisce una qualità di istruzione soddisfacente. Alla luce dei giudizi raccolti, l’organizzazione ha lanciato l’allarme criticando aspramente gli standard di istruzione delle carceri e definendo la situazione “inaccettabile”. Matthew Coffey, Direttore nazionale di Ofsted, ha spiegato in un discorso ai carcerati che l’educazione in prigione fa sì che i detenuti siano meno propensi a commettere crimini una volta tornati in libertà. “La nostra associazione si concentra sui possibili interventi per ridurre l’alto rischio di reiterazione del reato, che ad oggi sfiora il 50% dei casi quando si tratta di detenuti adulti e il 72% nel caso di ragazzi. L’obiettivo è quello di ridurre il numero di detenuti che, una volta tornati in libertà, commettono di nuovo un reato. Per fare ciò occorre concentrarsi sulla riabilitazione in carcere facilitando il reintegro degli ex detenuti nel mercato del lavoro e assicurando un miglior sistema di istruzione e formazione durante il periodo di reclusione”. Troppe persone, continua Mattew Coffey “lasciano la prigione senza nessuna capacità lavorativa, ed è quindi molto più difficile che possano trovare un impiego. Tutte le ricerche mostrano come avere un’occupazione sia uno dei fattori chiave nel ridurre il rischio di reiterazione del reato, che scende fino al 50% quando l’ex detenuto trova un lavoro. Eppure, nelle nostre carceri, gli esempi di un buon sistema di formazione sono estremamente rari. È ovvio che ridurre il numero di reiterazioni di reato dopo la scarcerazione sia nell’interesse di ogni singolo cittadino. Basta pensare che ogni detenuto costa ai contribuenti tanto quanto mandare un ragazzo a studiare ad Eton, circa 34 sterline all’anno. Alla luce di questa situazione, occorre concentrarsi sul miglioramento delle capacità tecniche e culturali dei detenuti, per fare in modo che ricevano tutto il supporto necessario nel loro tragitto dalla prigione alla vita civile e lavorativa, e riescano a rompere il circolo della reiterazione di reato”. Nonostante il costo di ogni singolo detenuto, il problema dell’efficacia delle carceri nel riabilitare e preparare i detenuti al ritorno in società è da sempre un argomento ai margini delle cronache d’oltre Manica. “L’educazione nelle carceri non ha mai avuto un’elevata priorità”, ci spiega David Wilson, Professore di Criminologia e scienze sociali alla City University di Birmingham, “Anzi, è spesso percepita come un privilegio, piuttosto che come una legittima attività quotidiana. I detenuti che lavorano nel sistema educativo, inoltre, vengono pagati meno rispetto a quelli che scelgono di lavorare nei laboratori”. In Inghilterra il sistema carcerario è gestito da organizzazioni private selezionate tramite appalti pubblici. Il Ministro per le prigioni Jeremy Wright ha spiegato alla ‘BBC’ che il Governo è consapevole del fatto che le percentuali di reiterazione di reato siano state troppo alte per troppo tempo, ed è impegnato a riformare il sistema di riabilitazione dei detenuti attraverso l’innalzamento dei livelli di istruzione nelle prigioni. “Gli educatori delle carceri”, spiega il Professor Wilson, “lavorano in una situazione estremamente frustrante: sono costretti ad affrontare quotidianamente ostacoli istituzionali che il loro lavoro diventa estremamente difficile”. Nella stragrande maggioranza dei casi il livello di istruzione dei detenuti è molto più basso della media della popolazione: ricevere una buona formazione durante il periodo di reclusione diventa dunque fondamentale per assicurare ai detenuti buone probabilità di trovare un lavoro e tornare ad una vita lontano dal crimine. “Una lunghissima serie di studi accademici ha dimostrato”, prosegue il Professor Wilson, “che una buona formazione e un adeguato apprendistato riducono le probabilità che gli ex detenuti tornino nuovamente in carcere per reiterazione del reato. Potenzialmente ogni persona che oggi si trova in carcere, un giorno verrà rilasciata. Aiutare quella persona a leggere e scrivere è spesso la chiave per consentirgli di trovare un lavoro una volta fuori. In cambio, ciò contribuirà all’arresto del processo di reiterazione di reato di cui beneficia tutta la società”. Numerose associazioni, come Prisoners Education Trust, investono risorse ed energie nell’educazione volontaria dei detenuti, per cercare di migliorare il sistema educativo nelle carceri inglesi. “Siamo convinti”, spiega Rod Clark, direttore di Prisoners Trust, “che l’educazione impedisca alle persone di commettere crimini. Ogni giorno ascoltiamo le storie di detenuti ed ex detenuti che ci raccontano di come l’istruzione abbia cambiato la loro vita. In un periodo storico in cui il Regno Unito viene criticato aspramente all’estero per i suoi basi livelli di alfabetizzazione tra gli adulti, pensare alla situazione delle carceri deve essere una priorità. Il Governo ha fatto sapere che la reiterazione di crimini già commessi costa allo stato 13 miliardi di sterline all’anno. Per dare ai detenuti una possibilità concreta di rompere il ciclo del crimine, essi hanno bisogno di istruzione. La formazione deve essere una priorità nella quotidianità delle prigioni: i detenuti devono essere avvicinati allo studio e la qualità dell’educazione offerta deve cerscere”. La spirale di reiterazioni in cui si ritrovano i detenuti pare inarrestabile: da una situazione di scarsa educazione in partenza segue il circolo del crimine, dal quale pare estremamente difficile uscire senza migliorare il proprio livello di formazione, e di conseguenza le proprie chance di trovare un lavoro e un nuovo equilibrio sociale. Eppure, quello delle carceri resta un problema nascosto agli occhi della società. “Solitamente la maggior parte della popolazione”, ci dice Wilson, “non si interessa di cosa succede nelle prigioni, perché le prigioni stesse sono nascoste, le alte mura che le circondano non tengono solo i prigionieri incarcerati, ma bloccano lo sguardo e l’interesse del pubblico. Non ci sono segni che indichino che le carceri siano oggi più in alto nelle agende dei politici, né tantomeno nell’interesse della popolazione. Eppure, l’educazione dietro le sbarre deve migliorare, e perché ciò accada occorre pagare chi studia tanto quanto chi lavora; occorre valorizzare gli educatori delle carceri e il lavoro che svolgono. Infine, occorre riconoscere che dove i normali sistemi formativi hanno fallito, è indispensabile trovare nuovi metodi di insegnamento, tentare un approccio diverso”. Colombia: il direttore dal carcere La Picota di Bogotá “viviamo in un cimitero umano” www.pane-rose.it, 19 ottobre 2013 Da alcuni giorni i prigionieri dei bracci 10, 11, 13 e 15 del Centro di Reclusione Nazionale e Internazionale (Eron) del carcere La Picota di Bogotá stanno portando avanti uno sciopero della fame per protestare contro le terribili condizioni in cui sono costretti a vivere. L’Agenzia di Notizie Nuova Colombia, Anncol, ha realizzato un’intervista al proprio direttore, il giornalista Joaquín Pérez, prigioniero politico del regime colombiano, per comprendere le ragioni della protesta. “Viviamo in un cimitero umano”, ha sintetizzato Joaquín. L’episodio che ha scatenato l’ennesima protesta carceraria, nella settimana di solidarietà con i prigionieri politici, è stato il cambio della ditta appaltatrice delle mense nelle carceri: “Lo Stato vuole farci morire di fame”, denuncia “Joaco”, mentre l’impresa “Servialimentaria” lucra sulla pelle di 130.000 carcerati. “La Picota è un carcere nuovo, costruito sul modello nordamericano nel quadro del Plan Colombia. Però non funziona niente!”, prosegue il giornalista, indicando che “l’acqua è disponibile solo 3 volte al giorno”, e che l’Inpec, il corrottissimo Istituto Nazionale Penitenziario e Carcerario, ha sospeso la distribuzione di diete particolari per carcerati con esigenze mediche specifiche, come i diabetici, mettendo a rischio la vita di queste persone. La mancanza di cure mediche porta alla morte di molti prigionieri, come costantemente denunciato da associazioni che si occupano di Diritti Umani. La lotta del popolo colombiano prosegue nelle forme più diverse e non si ferma nemmeno all’interno delle carceri; e di questa lotta inarrestabile un chiaro esempio è lo stesso Joaquín, da consigliere comunale nel Cauca a sopravvissuto al genocidio della Unión Patriótica, da leader popolare in esilio a portavoce dei reclusi di “La Picota”. Russia: caso Greenpeace, 85 eventi nel mondo per chiedere liberazione attivisti Adnkronos, 19 ottobre 2013 Mentre gli “Arctic 30” (i 28 attivisti di Greenpeace e i due giornalisti freelance trattenuti per due mesi in custodia cautelare in Russia) sono al loro trentesimo giorno di arresto, quasi 10 mila persone hanno preso parte a 85 eventi in tutto il mondo per chiederne l’immediata scarcerazione. In particolare, a piazza Dante a Napoli, città natale dell’attivista italiano degli Arctic 30 Cristian D’Alessandro, da stasera tutti sono invitati a unirsi a un sit-in al quale domani sono attesi anche i familiari. La scorsa notte, intanto, a Murmansk, dove sono detenuti gli Arctic 30, sei uomini incappucciati sono penetrati nell’edificio che ospita l’ufficio di Greenpeace. E scomparsa una gabbia che sarebbe servita oggi per un’iniziativa di solidarietà verso gli attivisti. Lo sdegno per la repressione violenta delle proteste pacifiche di Greenpeace sta facendo il giro del mondo: uno striscione è stato aperto alla base del monte Everest, mentre a Città del Messico gli attivisti di Greenpeace hanno costruito una cella attorno al monumento a Gandhi. Nel centro di Groningen (Olanda), città natale di uno degli attivisti imprigionati e città gemellata con Murmansk, è stata eretta una gabbia gigantesca. A Bangkok la gente si è radunata al tempio di Wat Phra Kaeo e ha composto con i fiori la scritta Free the Arctic 30. La stessa scritta è stata proiettata sull’Alahambra, a Granada, in Spagna. In India, a Bangalore, il raduno è stato indetto a Freedom Park, dove una volta c’era una prigione, mentre in Germania da settimane si svolge una lunga e partecipata veglia. “Sono passati 30 giorni da quando la nostra nave è stata sequestrata e gli attivisti arrestati con quest’assurda accusa di pirateria che potrebbe costare loro fino a 15 anni di carcere” afferma Kumi Naidoo, direttore internazionale di Greenpeace. Gli Arctic 30, aggiunge, “erano lì per difendere un ambiente fragile per tutti noi, e ora dobbiamo sostenerli. La loro detenzione è un attacco a chiunque chieda un futuro migliore per sè e per i propri figli. Non pensiamo di essere al di sopra della legge, ma i nostri attivisti non sono pirati e quest’accusa è un chiaro tentativo di soffocare una protesta pacifica. Per questo chiediamo il loro immediato rilascio”. Si moltiplicano le richieste al presidente Putin di riconsiderare le accuse di pirateria mosse nei confronti degli Arctic 30. Il primo ministro tedesco Angela Merkel lo ha chiamato personalmente, mentre 11 Nobel per la Pace gli hanno rivolto un appello, rilanciato in Italia anche da Dario Fo. La prossima settimana il Parlamento britannico discuterà la questione e deciderà come intervenire. Greenpeace ha inviato una lettera a Paolo Scaroni, Ad di Eni per ringraziare dell’iniziativa che ha voluto prendere, nel rispondere a un appello dei parlamentari Anzaldi, de Petris e Mollea, a favore degli attivisti detenuti in Russia. “Il suo gesto è importante proprio perché viene da un partner industriale di Gazprom, azienda russa di cui contestiamo i progetti industriali nell’Artico” afferma Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace. Nelle prossime settimane, su proposta di Eni, si terrà un incontro per aggiornare l’azienda sulla situazione degli attivisti arrestati e sugli aspetti ambientali dei progetti di Eni, nell’Artico come nel Mediterraneo, per i quali Greenpeace vede le maggiori criticità. Questa mattina il presidente del Board di Shell, altro partner strategico di Gazprom nell’Artico, ha dichiarato in Finlandia che l’attivista finlandese Sini Saarela dovrebbe essere liberata. “Ci auguriamo ora che l’Ad di Shell, Peter Voser, rompa con Gazprom e faccia il possibile per la liberazione degli Arctic 30” commenta Greenpeace. Russia: caso Pussy Riot; Nadezhda Tolokonnikova vince sua battaglia e cambia carcere Ansa, 19 ottobre 2013 Nadezhda Tolokonnikova, la leader delle Pussy Riot, è riuscita a piegare le autorità russe con l’annuncio di un nuovo sciopero della fame, ottenendo di essere trasferita in un carcere diverso da quello che aveva dipinto come un gulag sovietico, con anche minacce di morte del vicedirettore. Ieri era stata fatta tornare al campo numero 14, in Mordovia, 500 km a est di Mosca, dopo quasi tre settimane di ospedale per il digiuno con cui aveva accompagnato la sua lettera-denuncia. Oggi aveva ripreso a non alimentarsi in segno di protesta, riscuotendo in particolare il sostegno del delegato russo per i diritti umani Vladimir Lukin, “scioccato” per lo sviluppo della situazione. “Purtroppo devo constatare che le autorità carcerarie mi hanno ingannato, non hanno mantenuto la propria parola”, aveva accusato, ricordando la loro promessa di un trasferimento di Nadezhda in un altro carcere in cambio della sospensione dello sciopero della fame. “Preoccupata” anche Liudmila Alexeieva, veterana russa nella lotta per i diritti umani: “La mia opinione è che lo sciopero della fame è una scelta grave ma, evidentemente, non ne ha altre”. Nel giro di poche ore il servizio penitenziario federale ha fatto retromarcia, annunciando che la detenuta sarà trasferita “in un’altra colonia penale in seguito alla sua domanda per motivi di incolumità personale”. I familiari, in base alla legge, saranno informati entro dieci giorni dal suo arrivo nel nuovo carcere. “Una grande vittoria”, ha commentato il marito di Nadezhda, l’artista Piotr Verzilov. In mattinata Maria Aliokhina, la seconda Pussy Riot che sta espiando in un diversa colonia penale due anni di reclusione per la preghiera anti Putin nella cattedrale ortodossa di Mosca, aveva rinunciato a chiedere una pena più mite per solidarietà con Nadezhda. “Penso di non avere il diritto morale di partecipare oggi all’udienza in tribunale quando la mia compagna non ha questa opportunità, sia che si trovi in ospedale sia in quel carcere di cui ha raccontato cose orribili”, aveva spiegato. “Se le autorità russe sono pronte a rilasciarmi anticipatamente, lo facciano nell’ambito di una larga amnistia, insieme ad altre donne condannate che hanno figli piccoli”, ha aggiunto. In questi giorni si sta discutendo in Russia il varo di una amnistia per i 20 anni della Costituzione, di cui potrebbero beneficiare anche le due Pussy Riot dietro le sbarre (una terza ha ottenuto subito la sospensione condizionale della pena) in quanto madri di bambini in tenera età. Pare una ipotesi molto concreta. Ci si interroga se potrebbe essere applicata anche al blogger anti Putin Alexiei Navalni, verso il quale nei giorni scorsi la giustizia ha mostrato una certa clemenza: 5 anni ma con la condizionale. Difficile invece che possa essere estesa all’ex patron di Yukos, e bestia nera di Putin, Mikhail Khodorkovski, che comunque dovrebbe uscire dal carcere nel 2014. Con l’amnistia il leader del Cremlino potrebbe voler lanciare un messaggio di distensione, anche per evitare eccessive polemiche in Occidente sui diritti umani alla vigilia dei Giochi Olimpici di Soci. Ma resta aperto il problema dei 30 attivisti di Greenpeace detenuti con l’accusa di pirateria: al momento non si profila nessuna exit strategy. Stati Uniti: due ergastolani scarcerati per errore, caccia uomo in Florida Ansa, 19 ottobre 2013 È caccia all’uomo in Florida, dove due assassini sono stati incredibilmente rilasciati per errore dal carcere Franklin Correctional Institution di Carrabelle, dove erano detenuti. I due, di nome Charles Walker e Joseph Jenkins, entrambi 34 anni, sono stati liberati separatamente: il primo l’8 ottobre e il secondo il 27 settembre. Gli uomini sono apparentemente usciti dal carcere regolarmente, ma entrambe le procedure di rilascio erano basate su “false modifiche alle ordinanze del tribunale”, secondo quanto dichiarato da Michael Crews del Department of Corrections. In particolare, è stata contraffatta la firma del giudice Belvin Perry nell’ordinanza di rilascio. “Verrà condotta una revisione accurata e approfondita per verificare che altri detenuti non siano stati rilasciati per errore”, ha assicurato Crews. Walker e Jenkins stavano scontando la condanna all’ergastolo senza possibilità di condizionale per omicidio.