Lettera aperta alla Ministra della Giustizia Annamaria Cancellieri di Carmelo Musumeci (Detenuto nel carcere di Padova) Ristretti Orizzonti, 18 ottobre 2013 Signora Ministra, sono ininterrottamente detenuto dal ventuno ottobre 1991, in esecuzione della pena dell’ergastolo. Sono entrato in carcere con la quinta elementare, mi sono laureato in Scienze Giuridiche prima, in Giurisprudenza dopo. Attualmente sono iscritto alla Facoltà di Filosofia di Padova (in sei mesi ho dato cinque esami, con voto: ventisette, ventisette, trenta, ventotto, trenta e lode). Ho ricevuto tre encomi, in data 24 maggio 2010, 19 maggio 2011 e 20 giugno 2012. Ho pubblicato quattro libri: “Zanna Blu: Le avventure”, Gabrielli Editore, 2012; “Undici ore d’amore di un uomo ombra”; Gabrielli Editore, 2012; “Gli uomini ombra e altri racconti” Gabrielli Editore, 2010; ed è appena uscito “L’urlo di un uomo ombra” Edizioni Smasher, 2013. Inoltre sono tra i 20 finalisti del concorso “Racconti dal carcere”, patrocinato dal DAP, e i cui racconti sono stati pubblicati da Arnaldo Mondadori Editori. Ho usufruito di un permesso di necessità da uomo libero, maggio 2011, e sono regolarmente rientrato in carcere. Collaboro attivamente da tanti anni con l’Associazione Antigone e la Comunità Papa Giovanni XXIII. Sono detenuto a Padova dal 30 luglio 2012 e da quasi un anno faccio parte della Redazione di Ristretti Orizzonti, diretta da Ornella Favero, e collaboro con il progetto “Scuola - Carcere”, con frequenti incontri con i ragazzi delle scuole. Da tanti anni scrivo per l’abolizione dell’ergastolo, in particolare quello ostativo, che chiamiamo “La Pena di Morte Viva”, (vedasi www.carmelomusumeci.com curato da alcuni volontari). Prima del mio trasferimento qui dal carcere di Spoleto, la Direzione di quell’Istituto, Dottor Ernesto Padovani e Dottor Pantaleone Giacobbe, di propria iniziativa, aveva proposto richiesta di declassificazione, in seguito confermata dal parere favorevole anche del Direttore del carcere di Padova, Dottor Salvatore Pirruccio. Inoltre in una richiesta di permesso premio il Dottor Ernesto Padovani del carcere di Spoleto si era così espresso: “Parere favorevole sull’affidabilità individuale anche esterna”. Ciò nonostante sono classificato AS1 (E.I.V.) da circa diciassette anni. In questi anni di carcere ho dimostrato il mio cambiamento e la mia crescita con fatti concreti, eppure non sono riuscito a essere declassificato in media sicurezza e neppure, in subordine, conoscere i motivi della necessità di continuare ad essere detenuto in circuiti AS1. Signora Ministra, spogliarsi della subcultura di tutta una vita non è facile. Poi quando uno ci riesce rimane deluso se scopre che i “buoni” sono più cattivi di lui. E non Le nascondo che, sinceramente, stavo meglio quando pensavo che il cattivo ero io, perché migliorare una persona e continuare a tenerla all’inferno è una contraddizione che sa di punizione un po’ vendicativa. Signora Ministra, mi sento di non appartenere più a questo mondo dei circuiti di Alta Sicurezza, a questo tipo di cultura. Per questo motivo Le chiedo di togliermi da questo circuito AS1 ed essere finalmente declassificato, oppure mi spieghi che senso hanno avuto tutti questi anni per la mia “rieducazione”. Buon lavoro. Giustizia: le carceri reali e quelle che si vedono in tv di Ascanio Celestini Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2013 In Italia ci sono due tipi di carcere. Uno è quello di cui si parla in televisione e sui giornali, in rete a al bar. L’altro è quello reale. Il primo è composto da sette lettere, il secondo da 65mila detenuti. Anche se si chiamano alla stessa maniera sono due luoghi diversi. Il primo è spesso associato al nome di qualche famoso politico. Quando si parla di quel tipo di carcere è quasi sempre con un certo astio nei confronti di una parte della classe dirigente. Molte persone vorrebbero che ci finissero deputati e senatori per poi buttare la chiave della cella. Nel carcere vero invece i politici ci finiscono raramente. In quel posto è pieno di stranieri, tossicodipendenti e ladruncoli che hanno reiterato piccoli reati. Ci stanno grazie a tre leggi recenti: la Bossi - Fini, la Fini - Giovanardi e l’Ex - Cirielli. Ogni tanto il carcere di sette lettere e quello di 65mila detenuti si avvicinano al punto di diventare una sola cosa. Accade quando le chiacchiere si trasformano in leggi. Per un attimo abbiamo l’impressione di parlare veramente dei nostri istituti di pena. Ci sembra che non sia soltanto una parola di sette lettere. Ma è un’impressione perché tutti quei detenuti che compongono la popolazione carceraria sono muti e invisibili. Si parla di loro e del loro destino, ma mai con loro. Così quando sono entrato a Rebibbia per fare un incontro coi detenuti gli ho fatto una domanda: cosa devo dire al mio vicino di casa quando parlo di voi? Le proposte che leggiamo sui giornali in questi giorni spaziano dalla costruzione di nuovi carceri, la riapertura di istituti che sono più fatiscenti di quelli attivi, la revisione o azzeramento di qualche legge, l’espulsione dei detenuti stranieri (quelli per i quali Alfano non voleva più pagare vitto e alloggio) fino all’indulto e all’amnistia. I detenuti che ho incontrato ieri non hanno parlato di nessuno tra questi argomenti. Un signore anziano molto calmo mi dice: “al tuo vicino di casa puoi dirgli che anche suo figlio un giorno potrebbe finire in carcere. Sia perché potrebbe commettere un reato, sia perché potrebbe essere accusato ingiustamente. Quasi la metà di noi è in attesa di giudizio e molti risulteranno innocenti”. Un uomo coi capelli bianchi un po’ lunghi ha un tono e un volume di voce entrambi molto alti e con una parlata romana e molti gesti mi dice che è colpevole del reato per il quale è stato condannato e se anche non fosse così sarebbe la stessa cosa. Mi dice “sto in galera perché ci devo stare, non mi lamento di questo, ma perché devo dormire coi topi in cella? Perché devo cucinare a pochi centimetri dalla turca? L’articolo 27 della Costituzione dice che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”“. Accanto a lui c’è uno straniero che aggiunge “e gli affetti? Posso vedere i famigliari per pochissimo tempo e senza un minimo di intimità. Persino in Croazia e Albania è possibile passare alcune ore con la propria compagna!” Un siciliano che parla a voce bassa mi dice “sono costretto a comprare il cibo perché quello dell’istituto e scarso e immangiabile. Devo acquistare i prodotti che fanno parte del listino a prezzi da negozio di lusso e non mi permettono di lavorare. In molti istituti stai in cella anche per 22 ore su 24 e spesso non puoi scendere dal letto perché non c’è spazio sufficiente per tutti. Non voglio uscire un giorno prima. Voglio una detenzione dignitosa”. Qualcuno mi suggerisce l’idea per un’istallazione. “Monta una cella in qualche piazza al centro di Roma” dice “ma una vera, con lo spazio che ci mettono a disposizione. Deve essere sporca e fatiscente, gelida d’inverno e bollente d’estate, pranzo e cena con la sbobba della casanza e ogni tanto qualcuno che si taglia sulle braccia, si ingoia le lamette, infila la testa in un sacchetto di plastica e sniffa dalla bombola del gas, e magari anche qualcuno che si impicca”. “Anche gli agenti si impiccano” mi dice serio un altro mentre il poliziotto in piedi accanto alla porta mi guarda e annuisce. È proprio quell’agente che uscendo mi dice senza giri di parole “come si fa a parlare di rieducazione in un posto così? E Rebibbia non è il peggiore. In Italia la recidiva è quasi al settanta per cento, ma scende al venti tra quelli che godono di misure alternative almeno nella parte finale della pena. Più stanno chiusi qua dentro e più peggiorano. E noi con loro”. Mentre scrivo queste righe mi vado a leggere qualche articolo sulla stampa on line e inevitabilmente mi casca l’occhio sui commenti. “Le istituzioni europee condannano continuamente l’Italia per ogni virgola fuori posto che mette” scrive qualcuno senza rendersi conto che le “virgole” sono 66 mila esseri umani. Uno propone “le frustate: le applicano gli Islamici e nessuno dice nulla. Ma che la frusta sia un gatto a nove code”. Qualcuno dice che “questa sinistra da barzelletta sa solo svuotare le carceri, aprire le frontiere ed in genere elogiare l’illegalità” condendo il giustizialismo con un po’ di razzismo. Uno sostiene che “il carcere non deve essere bello e invitante o faremmo a gara per entrarci invece di pagare mutui di 30 anni” dimenticando l’articolo 27, ma anche che la pena consiste nella privazione della libertà e non nella tortura. C’è chi vorrebbe l’istituzione di carceri privati, chi manderebbe i detenuti all’estero dicendo che in Cina se li prenderebbero e ci costerebbero meno che in Italia. Chi parla di lavori forzati, chi metterebbe tutti al muro e chi evoca corda e sapone. Con questo clima sarà difficile migliorare le nostre galere con la speranza che diventino luoghi di rieducazione, superare leggi inique e magari pensare ad una serie legge contro la tortura. Giustizia: troppe polemiche strumentali sull’amnistia, la realtà delle carceri è drammatica di Francesco Palermo Alto Adige, 18 ottobre 2013 Sono tanti, troppi i motivi per cui in Italia le riforme sono quasi impossibili. Uno di questi è la strumentalizzazione preventiva delle idee, con le sue conseguenze di dietrologia, banalizzazione e conflittualità pregiudiziale. Si tratta di un fenomeno perverso, alimentato dal circolo vizioso tra politica e comunicazione, che premia i politici che parlano per slogan, sotto la spinta di messaggi banali e ideologici, e abbassa drammaticamente la capacità critica della società tutta. Un esempio emblematico è l’attuale dibattito sull’ipotesi di una legge di amnistia e/o indulto. La questione è stata portata all’attenzione del Parlamento da un messaggio formale del Presidente della Repubblica (il primo in sette anni di Napolitano), stimolato a sua volta da alcune importanti sentenze delle corti europee dell’ultimo anno. Tra queste, in particolare, quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ritenuto degradanti le condizioni delle carceri italiane.Come quasi sempre accade nel Paese dei veti, si sono subito create fazioni ideologiche contrapposte. Terreno di battaglia in un caso i principi (è giusto un provvedimento che faccia uscire un buon numero di detenuti?), nell’altro la solita contingenza politica (ne beneficerebbe Berlusconi?). Problemi seri vengono così banalizzati prima di essere affrontati e possibili soluzioni sono vanificate a priori, perché qualsiasi decisione si prenda ci si trova di fronte all’impossibilità di ragionare con distacco. E infatti piovono dichiarazioni da ogni parte senza che esista ancora alcun testo su cui pronunciarsi... La sindrome di Berlusconi che in un senso o nell’altro affligge il Paese da vent’anni fa amaramente riflettere sulla sua maturità collettiva. Il fatto che qualsiasi azione, qualsiasi iniziativa legislativa, qualsiasi riflessione relativa al complesso mondo della giustizia venga automaticamente rapportata ad una sola persona (per attaccarla o difenderla poco importa) è l’indice di un paese impaurito, fragile, perennemente arrabbiato. Quando ci sarà un testo su cui discutere, che indichi anche i reati o le pene che si vorranno estinguere col provvedimento, si potrà eventualmente ragionare dei possibili effetti sulla condanna di Berlusconi, prima è solo speculazione. Per di più fatta sulla pelle di migliaia di persone che vivono in condizioni degradanti in strutture carcerarie indegne degli standard minimi imposti dall’appartenenza alla famiglia europea ma anche della tradizione giuridica italiana. Prima di parlare converrebbe visitare un po’ di carceri, specie quelle in cui sono rinchiusi detenuti che scontano pene (relativamente) brevi, e ci si renderebbe conto di quale posta sia in gioco. Ma anni di leggi ad personam (riuscite), contra personam (che hanno funzionato meno), e comunque lette e interpretate intuitu personae (avendo cioè riguardo alle caratteristiche di una sola persona, sempre la stessa) impediscono di guardare anche a un tema serissimo come i diritti umani perché tutto è distorto da una sindrome collettiva. Se mai il Paese riuscirà ad affrontare la questione come problema generale, occorrerà poi porsi una domanda fondamentale: quale deve essere la finalità di un provvedimento di clemenza collettivo? Se fosse solo svuotare le carceri che scoppiano per ridurre il rischio di nuove condanne in sede internazionale, allora sarebbe un giochino miserabile, che “premierebbe” tra l’altro i detenuti di oggi e non quelli di ieri o di domani puniti per gli stessi reati. Se fosse un escamotage imposto dalla condizione economica (‘vorremmo in realtà carceri più numerose e più attrezzate, ma non abbiamo soldi allora facciamo posto in quelle che ci sonò) sarebbe una cinica sconfitta per lo stato di diritto. Invece si tratterebbe di una misura importante e necessaria se fosse accompagnata da modifiche ad alcune delle leggi responsabili del sovraffollamento carcerario, e che tra l’altro non hanno affatto risolto ma anzi aggravato il problema che volevano affrontare. Tra queste in particolare la legge sulle droghe (cd. Fini - Giovanardi) e in generale l’impianto proibizionista che riempie le carceri di poveracci facendoli spesso uscire più disperati di prima; e la legge sull’immigrazione (cd. Bossi - Fini) che non limita affatto l’afflusso di migranti, ma li rende quasi sempre clandestini, spingendo molti alla delinquenza. Ma questo è il Paese degli slogan, dell’emergenza e della dietrologia. Quello che non a caso presenta (dati OCSE della scorsa settimana) la più alta percentuale di analfabeti funzionali nel mondo sviluppato. Un Paese che troppo spesso si nutre di semplificazioni e dell’illusione che un finto pugno di ferro risolva i problemi, quando purtroppo li aggrava. Giustizia: amnistia e indulto… perché le carceri restano un inferno di Tommaso Cerno e Giovanni Tizian L’Espresso, 18 ottobre 2013 Con il provvedimento del governo Prodi del 2006, la popolazione carceraria si dimezzò. Ma durò poco. Oggi abbiamo superato la soglia dei 65mila detenuti, che vivono in condizioni critiche; le guardie carcerarie sono poche e mal pagate. Gli istituti scoppiano. Ma ripartiamo da lì, senza mettere mano a quel che non va nel sistema Un film già visto. Un film destinato a ripetersi come un sequel. Carceri stracolme, amnistia e, dopo pochi mesi, tutto come prima. Basta tornare indietro di pochi anni. Correva l’anno 2006. Oltre 36 mila carcerati riabbracciavano la libertà grazia all’indulto del governo Prodi. La popolazione carceraria si dimezzò, le celle tornarono a svuotarsi, i carcerati smisero di vivere in 3 metri quadrati, ammassati fra degrado, puzzo e sporcizia. Ma quanto durò? Un anno. Dopo un solo anno l’effetto svuota carceri si esaurì. Ricominciò il solito trend. E nel 2011, le galere erano peggio di prima. Sul punto di esplodere, dopo avere superato la soglia - considerata critica - di 60 mila detenuti. Una bomba a orologeria. Fra suicidi, malattie, condizioni ai limiti dell’umano, carenza di fondi, carenza di spazi, pochi progetti di rieducazione. Un incubo che l’Europa ha sanzionato. Un incubo che riguarda i carcerati ma anche gli agenti di polizia penitenziaria. Troppo pochi. Poco pagati. E costretti a ritmi di lavoro enormi. Eppure l’Italia riparte da lì. A distanza di altri due anni, quando ormai le celle esplodono, superando i 65 mila detenuti, si riparte per l’ennesima volta da amnistia e indulto. Fra polemiche politiche, divisioni a destra e a sinistra, appelli del Capo dello Stato, accelerazioni e frenate. Il problema è che, come sempre è avvenuto, svuotare le carceri con provvedimenti di grazia è solo un provvedimento tampone. All’emergenza si risponde con misure di urgenza. Poi tutto resta come prima. Anzi, nel silenzio della politica, le poche cose che basterebbe fare per invertire la tendenza che sta trasformando le prigioni italiane in discariche sociali, non vengono mai messe all’ordine del giorno: le comunità terapeutiche che potrebbero ospitare migliaia di detenuti per la Fini - Giovanardi (detenzione e piccolo spaccio) sono sottofinanziate; si continua a stipare in celle sempre più piene decine di migliaia di persone che non sono ancora state processate; si utilizza la carcerazione preventiva più che nel resto d’Europa; si mandano in carcere tossicodipendenti ed extracomunitari, sulla base di leggi ideologiche, che non hanno in questi anni risolto alcun problema. Ecco perché il ministero della Giustizia da un anno sta lavorando a un progetto per svuotare le carceri italiane. Linee guida al vaglio del ministro Anna Maria Cancellieri, che intendono partire dalla depenalizzazione di alcuni reati minori. Primo punto del piano del pool di esperti di via Arenula e della commissione incaricata di studiare una via d’uscita dall’emergenza. Meno penale più sociale Quello che tutti sanno, ma la politica fatica ad accettare è che ci sono leggi sbagliate, che mandano in carcere persone che non dovrebbero trovarsi lì. Ed è per questo che la depenalizzazione dei reati che creano meno allarme sociale è allo studio della squadra del ministero della Giustizia. Con l’ipotesi che gli interventi tocchino anche la legge Fini - Giovanardi, da tempo sul banco degli imputati del sovraffollamento strutturale delle carceri italiane. Basta leggere qualche dato. Nei penitenziari italiani più di un terzo dei detenuti(25.076) è dentro per la violazione del testo unico sugli stupefacenti, modificato nel 2006 dai ministri del secondo governo Berlusconi. Lo stesso che ha varato un’altra legge “riempi carceri”: il testo sull’immigrazione firmato da Umberto Bossi e Gianfranco Fini. Gli stranieri rappresentano il 36 per cento degli oltre 65.800 detenuti. Il 2,9 per cento, secondo i dati Istat del 2011, è dentro per violazione della legge sull’immigrazione. Ci sono i trafficanti e gli scafisti, certo. Ma anche chi non ha rispettato l’ordine di espulsione. Molti di questi infatti vivono in Italia da anni. Da regolari sono diventati irregolari. Licenziati dalle aziende in crisi, dopo sei mesi senza contratto(così prevede la legge) i documenti non vengono rinnovati. E per lo Stato diventano clandestini. Degli oltre 25mila reclusi per droga, ci sono ben 18.753 che hanno violato l’articolo 73, cioè piccoli spacciatori e consumatori beccati con quantità al dì sopra di quella ritenuta per uso personale. Di questi 3.278 sono in attesa di giudizio e 12.131 condannati in via definitiva. Le persone rinchiuse per il reato più grave, l’articolo 74 che punisce le grandi organizzazione che trafficano droghe, sono appena 843, 180 aspettano di essere giudicate. Sono i dati più recenti - aggiornati a ottobre - del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che l’Espresso è in grado di anticipare. Ma nella storia della nostra Repubblica fatta la depenalizzazione si è provveduto subito a rimpolpare il codice di nuovi reati: dal 1999 a febbraio 2012 sono state introdotti nel nostro ordinamento circa 310 reati, 23 all’anno. Reati che intasano procure e tribunali, sommersi da fascicoli destinati il più delle volte all’archiviazione. Reati che in qualunque paese europeo sono considerati illeciti amministrativi e che, in Italia, rischiano invece di portare altra gente in carcere. Magari per poche ore. Svuota carceri Anche quando le leggi ci sono, spesso in Italia è difficili o impossibile applicarle. Prendiamo il caso delle pene alternative, previste e regolate, ma sotto finanziate. Tanto che il secondo punto del piano del ministero è proprio applicare in pieno il decreto “svuota carceri”: limitazioni agli arresti preventivi; potenziamento delle misure alternative al carcere che potranno essere applicate anche ai recidivi tossicodipendenti o legati a contesti di marginalità sociale; maggiore utilizzo dei lavori di utilità sociale; sgravi fiscali e contributivi per le imprese che assumono detenuti o ex detenuti. I dati sulle pene alternative parlano chiaro. Il picco (23.394) è stato raggiunto tra il 2005 l’inizio e del 2006. Prima dell’introduzione della Fini - Giovanardi. A maggio 2013 invece, dopo 5 anni in cui il numero di casi ha oscillato dai 5 mila del 2007 ai 19 mila dello scorso anno, le misure alternative concesse sono state 22.244. In larga parte arresti domiciliari. Il problema si pone soprattutto per i tossicodipendenti (più di 15mila) e i consumatori finiti dentro con l’accusa di spaccio. Tra questi la percentuale di stranieri è in costante aumento. La maggior parte di loro non ha alternative alle galere. Sono soli. E non hanno una rete familiare che garantisce per loro o un domicilio preciso. Il dipartimento che amministra i penitenziari lo denuncia da diversi anni. Lo scrive anche nell’ultima relazione inviata al Parlamento: “Il numero di tossicodipendenti in affidamento definitivo o provvisorio continua a essere assai modesto”. Le motivazioni? Si va da questioni burocratiche spicciole a questioni ben più serie come le difficoltà economiche per le Regioni che con i pochi soldi a disposizione per la Sanità non riescono a pagare le comunità terapeutiche. Che a loro volta non hanno risorse per accogliere chi chiede le misure alternative. Un detenuto ristretto in comunità costerebbe molto meno allo Stato. La retta giornaliera oscilla dai 27 euro ai 50 euro al giorno. Un bel risparmio rispetto ai 116 euro che spendono ogni giorno gli istituti di pena. Eppure molte strutture d’accoglienza soffrono i tagli. Vivono alla giornata. Non riescono a pagare i dipendenti. I tagli lineari al sociale e alla sanità hanno messo in crisi il sistema delle alternative al carcere. Per esempio nel 2012 la Regione Emilia Romagna ha ricevuto dal governo centrale 7milioni di euro destinati al fondo sociale. Nel 2008 la cifra era dieci volte superiore. Una situazione diffusa in tutte le regioni d’Italia. Nel suo ultimo rapporto al Parlamento il dipartimento delle politiche antidroga segnala una diminuzione del 21 per cento dei finanziamenti destinati a progetti di reinserimento sociale degli ex tossicodipendenti detenuti. E le cronache sono piene di denunce da parte dei direttori delle comunità che lamentano mancanze di risorse. A Bronte, in provincia di Catania, un condannato per droga a cui la Corte d’Appello aveva concesso i domiciliari in una struttura protetta è stato costretto a tornare in carcere. Il Comune non era in grado di sostenere la spesa. Dati che mostrano una verità difficile da ribaltare. Anche da chi sostiene che, al contrario, il problema del sovraffollamento vada risolto aumentando i posti nelle carceri. La strategia del ministro Cancellieri prevede anche questo aspetto. Sono già in cantiere l’inaugurazione di nuovi istituti e la ristrutturazione di altri. Due, quello di Sassari e Arghillà (RC), sono stati aperti e il terzo, a Cagliari, aprirà a breve. L’obiettivo è arrivare nel 2016 con 12 mila posti in più. Vuol dire passare dai 45.647 posti totali a 57.647. Da sola però questa misura non basterebbe a pareggiare gli oltre 65mila detenuti. All’appello mancherebbero comunque 8mila posti. E, cifre alla mano, è evidente che nemmeno questo basterebbe. E che il trend di crescita della popolazione carceraria negli ultimi anni riaprirebbe in poco tempo la questione. Con un nuovo allarme. Giustizia: Lady Amnistia, ora Annamaria Cancellieri deve sbrigare la pratica più calda di Denise Pardo L’Espresso, 18 ottobre 2013 Tra le dita, il ministro della Giustizia non ha solo la pallina da tennis con cui esercitarsi di continuo dopo essersi fratturata l’omero. Ha anche il cerino acceso che si sapeva le sarebbe finito in mano: ovvero il problema della riforma del sistema giudiziario e soprattutto la questione più infiammabile della fine del ventennio, l’amnistia e l’indulto, un primo passo per alleggerire e affrontare il dramma dell’emergenza delle carceri. Una svolta di civiltà chiesta dall’Europa. Ma contaminata dal legittimo sospetto di un utile salvacondotto per Silvio Berlusconi. Sondaggi alla mano, quanto di più impopolare e rischioso per un qualunque politico. Non per lei, Anna Maria Cancellieri che non lo è, scelta anche per questo, per non aver né clientele né serbatoi di voti, per aver sciolto 34 comuni per infiltrazioni mafiose, per essere una tecnica inossidabile che da tempo ha superato l’età della pensione (ha settant’anni). In epoca di rottamazione, una nonna di ferro, una sceriffa, una Marianne italiana con il mito di Luigi Einaudi seduta alla scrivania di Palmiro Togliatti. Soprattutto un prefetto di grande carriera, cinque città da Vicenza a Genova, commissario a Bologna e a Parma, catapultato in un recinto di magistrati. Come dire infilare la mano coperta di miele in un vespaio. Per fortuna da ragazza non giocava con le bambole ma preferiva il calcio e il ruolo da portiere. Al momento, ha mostrato di saperci fare ancora nel parare i colpi. Anche nell’avanzare come un carro armato. Nei confronti degli avvocati, per esempio, che rumoreggiavano contro di lei in un convegno: “Ora me li tolgo dai piedi”, ha detto più Bud Spencer che Ban Ki-Moon. Così in uno strepitoso “Faccia a faccia” con Giovanni Minoli a Radio 24, ha dichiarato che indulto e amnistia (“Un vero imperativo categorico”) non contemplano il caso Berlusconi (“Penso proprio di no”). Poteva essere un modo per vedere l’effetto che faceva. Ecco qua, invece, una bagarre infernale, Gaetano Quagliariello arruffato come una iena, Matteo Renzi in versione Savonarola della giustizia. E lei, iceberg prefettizio dal viso di miss Marple, come se nulla fosse, come se il disagio di Angelino Alfano, e le pressioni dei falchi non rendessero l’aria pesante in Parlamento e a palazzo Piacentini, si è messa a placare animi: un complimento a Quagliariello, un omaggio al Parlamento sovrano (“il governo si limita a esprimere un parere, a decidere sono le Camere con i due terzi”) - La sua posizione ha sollevato qualche mugugno tra i ministri, lato Pd, santo cielo un po’ di sensibilità politica, si è messo le mani nei capelli qualcuno. D’altra parte non è che il suo arrivo al ministero, voluto dal presidente Giorgio Napolitano conosciuto quando lui era ministro dell’Interno, sia stato accompagnato da squilli di fanfara. Sopravvissuta al fallimento dei tecnici di Monti e spostata dall’Interno, casa sua, dove è entrata per concorso nel 1972, la Cancellieri due figli, quattro nipoti, un marito paziente e farmacista che la trova splendida, beata lei, ha sgominato Piero Grasso, Maurizio Lupi, Michele Vieni, ed è approdata alla poltrona più complicata del governo di Enrico Letta. Appena insediata ha ingaggiato un braccio di ferro con il Csm durato un mese per avere il via libera alle nomine di Renato Finocchi Ghersi a capo di gabinetto e Domenico Carcano a capo dell’ufficio legislativo, magistrati che non avrebbe potuto scegliere avendo tutti e due oltrepassato il limite dei dieci anni fuori ruolo. Per non parlare del fatto che si tratta va di toghe di Magistratura democratica, corrente di centro - sinistra, particolare non di secondo piano per quelle di Magistratura indipendente, corrente di centro - destra, placate poi con la provvidenziale nomina di Simonetta Matone, magistrato vicina al Pdl, per il vertice del Dag, il Dipartimento per gli affari della giustizia. Quasi in contemporanea ha scelto Roberto Rao, ex deputato Udc alter ego di Pier Ferdinando Casini, come consigliere per le tematiche sociali (traduzione: è consigliere politico), inserendolo nella Commissione ministeriale sul sovraffollamento degli istituti penitenziari con la radicale Rita Bernardini (“Bisogna rispettare i referendum”, ha detto il ministro) e dopo aver chiamato come presidente Mauro Palma che già presiedeva il Comitato europeo contro la tortura. Nomine avvedute, tenendo ben presente le larghe intese, da prefetto accorto che deve gestire un territorio e i suoi centri di potere. In questo è una maga, dicono nell’entourage. Meno in Parlamento dove “non coltiva nessun rapporto” (il decreto salva carceri, raccontano, glielo stavano svuotando di significato sotto al naso, è stato salvato in extremis). In un ministero molto tecnico dominato da uomini di giustizia forti come Luigi Birritteri, capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, Cancellieri è stata vissuta come un’aliena alla quale però non si riesce a rallentare il passo. I magistrati, ha detto, non conoscono gerarchie. Solo indipendenza e autonomia e allora come si fa a organizzare un lavoro di squadra? Intanto, si è messa a girare il Paese e le sue prigioni in lungo e in largo, puntando su misure alternative per risolvere il sovraffollamento, facendo partire il piano dei nuovi carceri, Cagliari, Sassari, e pensando al possibile utilizzo delle ex caserme. Gli obiettivi da raggiungere, alcuni già toccati, sono precisi: una nuova geografia giudiziaria, l’abbreviazione del processo civile e penale, il ruolo dei mediatori civili che ha aperto lo scontro con gli avvocati. Un pacchetto ambizioso che è sicura di realizzare in poco tempo: più o meno due mesi, servendosi anche di leggi delega, ha affermato nell’intervista - bagarre a Minoli senza usare un politichese fumoso. “Sono un’ottimista”, ha detto. “Si vede”, ha commentato ironico il conduttore. Pur camminando nel vero terreno di scontro di questo governo, la giustizia al tempo delle condanne e del redde rationem giudiziario del Cavaliere, fin dall’insediamento, Cancellieri si è tenuta ben lontana da questioni scortanti e politiche, a partire dal suo silenzio sulle intercettazioni. A chi le chiedeva come stava affrontando il nuovo ruolo, ha ammesso: “Sto studiando”. Non ama i giri di parole. “Ha subito pressioni quando ha sciolto i comuni in odore di mafia?”. “No!”, taglia molto corto. Ora al ministero ora hanno scoperto il lato umano, la porta è aperta per (quasi) tutti ed è arrivata a sorpresa nella sala Livatino nel mezzo di una festa grande a base di porchetta per la pensione di uno storico impiegato, sconvolgendo tutti che non avevano mai visto un ministro affacciarsi in un’occasione simile. Uno di quei gesti di cortesia araba, è nata a Roma ma passava l’estate a Tripoli dove suo padre faceva l’imprenditore (ha speso parole dolenti per i profughi e per la tragedia di Lampedusa),che ne hanno fatto un’icona a Bologna dove è arrivata da commissario dopo che uno scandalo che aveva travolto il sindaco Flavio Delbono. All’epoca al Viminale c’era Roberto Maroni sordo ai nomi preferiti da Pier Luigi Bersani e Vasco Errani, ras della città, e che sapeva di non poter osare qualcuno in quota Lega. Furono le strutture interne a segnalare il prefetto ormai pensionato. Per lei fu la svolta: allora Bologna era politicamente il centro del mondo. Ora, c’è l’Europa che l’aspetta, a Strasburgo, a inizio novembre per ascoltare come si sta affrontando l’emergenza carceraria, emergenza da sanare entro maggio 2014 pena una multa pecuniaria spaventosa. Sul tema, il ministro è assai protetto, in totale sintonia con Napolitano e già basterebbe. Ma tempo fa, in una lettera ha ricevuto altre parole d’incitamento e di fiducia. Sulla busta c’era scritto: mittente, Francesco, casa santa Marta, Città del Vaticano. Giustizia: Cancellieri; l’amnistia ci serve contenere l’eccesso di misure cautelari di Liana Milella La Repubblica, 18 ottobre 2013 Cancellieri ne fa una questione di “onore”. “Sacro”, ovviamente. Di Guardasigilli, di ex prefetto, di donna e madre. “Onore “ rivendicato a voce alta quando - in commissione Giustizia a Montecitorio, chiamata dalla presidente Pd Donatella Ferranti, per fare il punto sulle carceri e sugli effetti di (assai futuribili) amnistie o indulti - si arrabbia contro M5S. Le chiedono se non si potrebbero verificare “eventuali speculazioni edilizie” per la vendita di alcune carceri. Anna Maria Cancellieri non si tiene il dubbio: “Avete avuto strane informazioni sul piano carceri, ma sono notizie false. Avete mai visto un provvedimento dove diciamo di vendere San Vittore? State agli atti, ai fatti”. Ampia camicia rosa fucsia, più fili di perle, Cancellieri è battagliera e puntigliosa. Ha con sé un’ampia relazione di 15 pagine più tabelle per rendere trasparente il dramma delle carceri su cui grava la minaccia di una pesante sanzione Ue e su cui c’è l’invito di Napolitano a intervenire con la clemenza. Le prime stime del direttore delle carceri Giovanni Tamburino dicono che “se si facesse un indulto di tre anni uscirebbero 18mila persone”. Calcolo basato sui detenuti che oggi hanno un residuo pena di uno, due o tre anni. Circa 23mila, dai quali bisogna scremare i reati esclusi. Il governo proporrà una sua legge? Cancellieri lo esclude: “Sono scelte del Parlamento: se riterrà di farle, “chapeau”, non possiamo che essere contenti perché ci aiutano, altrimenti faremo la nostra parte fino in fondo”. Porta l’esempio della spesa per un pranzo: “Certo, la carne mi fa comodo, ma se non si può comprare io lo faccio lo stesso con le uova”. Tanti numeri utili. Con l’indulto 2006 sono uscite 26mila persone, ma celle di nuovo piene nel 2009 (69mila). Dal 2010 s’inverte la tendenza. Al 14 ottobre sono detenute 64.564 persone, 24.744 in custodia cautelare, 38.625 definitive. È il primo numero che deve calare. I posti letto effettivi sono 47.599, ma su 4.500 non si può far conto per lavori vari. La lista dei reati dice chiaro dove tagliare. Per droga 23.094 persone in cella, il bubbone è lì, dove pure i servizi di assistenza esterna sono numericamente inesistenti. Per rapina 9.473. Per omicidio volontario 9.077. Per estorsione 4.238. Per furto 3.853. Per violenza sessuale 2.755. Un drammatico - 71% nei fondi per il lavoro dei detenuti. Le ultime leggi svuota - carcere approvate da Alfano, Severino e Cancellieri - detenuti ai domiciliari se rimangono 18 mesi da scontare, anche se recidivi, no agli ingressi solo per l’arresto - registrano un significativo calo di persone. Donatella Ferranti, che ha lavorato alla legge su domiciliari obbligatori e messa alla prova (ora al Senato) e ora sulla stretta per la custodia cautelare, è convinta che le misure, se attuate, “darebbero buoni risultati”. Niente indulto e amnistia? Il Pd pone due condizioni, niente sconti per Berlusconi o per i delitti gravi come la rapina. Alla fin fine non resta granché. Giustizia: senza amnistia e indulto rischio di multe dall’Europa per 60-70 milioni l’anno di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2013 L’audizione del ministro Cancellieri. Multe pesanti per l’Italia se l’emergenza carceraria non sarà risolta entro maggio 2014. “Abbiamo voglia di dare ai detenuti una vita più civile. Il presidente della Repubblica ci ha dato una serie di indicazioni e io farò fronte ai miei compiti indipendentemente dal Parlamento. Amnistia e indulto sono scelte delle Camere: se le Camere decideranno di non farle, noi faremo comunque la nostra parte; se decideranno di farle, saremo contenti. Chapeau!”. Bisognava vederla, Annamaria Cancellieri, di fronte alla commissione Giustizia della Camera. E soprattutto sentirla. Sentirla raccontare, fin nel dettaglio, l’emergenza carceraria che, se non sarà risolta entro maggio 2014, costerà all’Italia multe per 60-70 milioni di euro l’anno. Sentirla spiegare, svestendo i panni del ministro della Giustizia e indossando quelli della “semplice casalinga”, perché gli attacchi sul piano - carceri e sulla clemenza poggiano su informazioni “strane e false”. “Il mio è un ragionamento da casalinga - ha detto alzando il tono della voce, rivolgendosi in particolare ai grillini - abbiamo 40mila posti effettivi nelle carceri e un range di 20 - 23mila detenuti in più. Con i finanziamenti che abbiamo ne avremo 12mila, di posti, quindi ne ballano 10 - 13mila. Ce la caveremo comunque anche senza l’aiuto del Parlamento. Mi farebbe comodo? Certo!”. Poi, con accento romanesco: “È come se dice a una madre di famiglia: “Devo andare a pranzo, se ti compro un chilo di carne ti fa comodo?” ‘A bello mio, certo che mi fa comodo. Poi lei mi dice che non c’ha i soldi per la carne. E non si preoccupi, faremo con le uova!”. Quindi: “Se il Parlamento ce lo fa (l’indulto, ndr), chapeau; se non ce lo fa non si preoccupi, mangeremo le uova”. Chapeau al ministro, è il caso di dire. Ha rivendicato di non aver mai annunciato un provvedimento di clemenza. “Io tengo a poche cose, ma il mio onore è più sacro di tutto il resto”. Ha chiesto a tutti di “lavorare insieme per questo Paese”. Ha invitato i deputati, soprattutto i 5 Stelle, a farsi un giro per le carceri. “Se lei va in un carcere - ha detto ad Alfonso Bonafede - vedrà 5 - 6 detenuti che dormono uno sopra l’altro nei letti a castello. Ha mai pensato che cosa vuol dire? Io morirei. Non abbiamo fini ideologici. Io mi sento male per quei detenuti!”. Poi ha fotografato la situazione reale delle patrie galere dall’indulto del 2006 ad oggi, spiegando che il grosso della popolazione carceraria sta dentro per tre tipologie di reato: produzione e spaccio di stupefacenti (23.094 detenuti, di cui 14.378 condannati definitivamente), rapina (9.473, di cui 5.801 i definitivi), omicidio volontario (9.077, di cui 6.049 i definitivi). Seguono estorsione, furto, violenza sessuale, ricettazione. I mafiosi sono 1.424 e 500 i detenuti per sequestro di persona, associazione per delinquere, violenza privata, maltrattamenti in famiglia, atti sessuali con minori. Nel corso dell’audizione il ministro ha fornito i dati sugli effetti delle cosiddette svuota carceri e ipotizzato l’entità (contenuta) dello sfollamento se e quando sarà approvato il Ddl all’esame del Parlamento sulla messa alla prova. E ha annunciato un pacchetto di misure in cantiere, che arriverà presto all’esame del Consiglio dei ministri: riforma delle misure cautelari, per eliminare automatismi e ampliare la discrezionalità del giudice, evitando l’eccessivo ricorso al carcere preventivo; ampliamento delle misure interdittive; introduzione della “particolare tenuità del fatto”, naufragata nella scorsa legislatura ma necessaria a contenere il numero de processi eliminando quelli che, per la modestia degli interessi in gioco, producono un inutile dispendio di energie, non giustificato; riforma delle impugnazioni per restituire al processo una ragionevole durata, in particolare dell’appello; un testo di legge delega sull’ordinamento penitenziario, massacrato negli ultimi decenni da spinte securitarie e controspinte deflazionistiche; la riscrittura del sistema sanzionatorio per riservare il carcere soltanto ai casi in cui la finalità rieducativa e retributiva della pena non può prescindere dalla privazione, così intensa, della libertà dei condannati; modifica della normativa sulle espulsioni dei detenuti stranieri, autori di reati non gravi, per semplificare le procedure, attraverso una rapida identificazione da avviarsi già al momento del loro ingresso in carcere, in vista di una sollecita adozione del decreto di espulsione da parte della magistratura di sorveglianza. Per il Pd, il pacchetto è “timido”, per la Lega “è zero”. Intanto l’emergenza continua: 64.564 i detenuti presenti al 14 ottobre 2013: 22.500 in più dei posti regolamentari, che non sono i 47.599 ufficiali, ma 43.099, perché 4.500 sono di fatto inagibili o inesistenti. Giustizia: sovraffollamento della carceri, non fare l’amnistia può costarci caro di Orlando Sacchelli Il Giornale, 18 ottobre 2013 A quanto ammonteranno le sanzioni dell’Europa per il sovraffollamento delle carceri? Per il ministro Cancellieri 60 - 70 milioni di euro all’anno. La radicale Bernardini: “Calcoli difficili”. Quanto costerebbe all’Italia non risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri? Tanto, soprattutto in termini di credibilità e civiltà. Ma potrebbe costarci caro anche da un punto di vista economico. Il gruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera parla di circa 2 miliardi di euro, tenendo conto della multa che l’Unione europea potrebbe comminare all’Italia a partire dal prossimo 28 maggio. “Sul Paese - dice il M5S - pende la minaccia di migliaia di ricorsi alla Corte europea per le condizioni inumane in cui versano le carceri”. Ma com’è stata calcolata la cifra di due miliardi di euro? “Sono tra 15 e 20 mila i reclusi che potrebbero chiedere un indennizzo allo Stato e, stando alle ultime sentenze, si tratta di circa 100mila euro a detenuto. Ecco quanto ci costa l’inefficienza”, denuncia il gruppo parlamentare pentastellato. La stima, a onor del vero, è da prendere con le molle. Con la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’8 gennaio 2013, la famosa “Causa Torreggiani e altri contro Italia”, il nostro Paese è stato condannato a pagare centomila euro, ma per sette detenuti. E, tra le altre cose, per un calcolo esatto bisogna tenere conto del tempo in cui si è costretti a vivere in condizioni carcerarie disumane. Sull’argomento interviene anche il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri: “Da 30 anni l’Europa ci richiama sulle condizioni di sovraffollamento delle nostre carceri”. Se a maggio 2014 la sentenza Torreggiani parte “bisognerà pagare una penale di “circa centomila euro per ogni sette detenuti che faranno ricorso”, per un totale di “60 - 70 milioni di euro ogni anno. È un problema serio - ha osservato il ministro - non solo di tipo finanziario, ma anche civile e politico”. Tuonano i parlamentari del Movimento 5 Stelle, contrari a ogni ipotesi di amnistia e indulto: “È con questa spada di Damocle sulla testa che si chiede l’amnistia e l’indulto - continuano i deputati. Il M5S ha una soluzione che evita provvedimenti inutili e dannosi”. E per evitare di pagare cosa propongono i grillini? “Il ministro Cancellieri deve chiedere all’Europa una proroga di almeno un anno per evitare le migliaia di ricorsi, presentando alla Cedu un effettivo piano di rientro che preveda l’immediato avvio della ristrutturazione delle carceri attuali e il recupero di tutte le migliaia di posti inutilizzati, in modo tale da rendere accettabili le condizioni di vita dei detenuti”. Il M5S denuncia poi che il bilancio 2012 del “Piano Carceri” gestito dal commissario straordinario e voluto da Napolitano non è ancora disponibile. “Perché? Come vengono spesi i soldi?” chiedono i deputati pentastellati, e denunciano come “dietro il piano carceri in realtà si cela una gigantesca operazione finanziaria dai contorni per nulla chiari”. Molto infastidita per la proposta dei Cinque stelle è l’esponente radicale Rita Bernardini. Quando le leggiamo il dispaccio di agenzia in cui si legge che i grillini invitano il governo a chiedere una proroga per non pagare la multa, ci risponde così: “Guardi, mi ha rovinato la giornata”. E aggiunge: “Mica ci stanno loro in quelle condizioni disumane”. Nel ribadire che “non è facile quantificare con esattezza il risarcimento che l’Italia sarebbe chiamata a pagare”, la Bernardini ci fornisce altri spunti interessanti. I ricorsi pendenti a Strasburgo, dai circa 600 che erano prima della “sentenza Torregiani”, ora sono circa 2500. C’è stata, dunque, un’impennata. Cosa ampiamente prevedibile. Ma bisogna tenere conto anche di un altro aspetto: “Ci sono due categorie di detenuti: gli sprovveduti, che non saprebbero nemmeno come fare il ricorso e neanche si pongono il problema. Ma ci sono anche quelli che hanno paura. E non sono pochi”. Paura di cosa? “Delle conseguenze che potrebbero derivare loro dal presentare un ricorso. E per questo preferiscono non farlo, pur vivendo in condizioni pessime”. Diceva Voltaire: “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Visitando molte delle nostre carceri l’illuminista francese si metterebbe le mani nei capelli. Resta il fatto che il problema sovraffollamento si può risolvere in diversi modi. Ad esempio costruendo (o aprendo) nuove prigioni. L’importante è che si faccia. Giustizia: amnistia difficile e il ministro Cancellieri prepara il “Piano B” di Francesco Grignetti La Stampa, 18 ottobre 2013 Sull’ipotesi di un’amnistia con indulto si addensano in Parlamento più dubbi che certezze. E così la ministra della Giustizia, Annamaria Cancellieri, pur non disperando in un colpo di scena, di fronte a un sovraffollamento straordinario delle carceri, e sentendo il fiato sul collo della Corte di Strasburgo, si prepara a un Piano B. Se non verrà una legge di clemenza straordinaria che porterebbe fuori dal carcere 23 mila detenuti d’un colpo - ipotizzando il classico indulto che cancella tre anni di pena - al Guardasigilli non resta che incrementare la capienza degli istituti e allo stesso tempo frenare gli ingressi in cella. Ecco perché, ieri, parlando alla commissione Giustizia della Camera, la Cancellieri si è permessa un’illuminante battuta: “Farò fronte ai miei compiti, indipendentemente dalle scelte del Parlamento. Se il Parlamento non sceglierà provvedimenti di indulto o amnistia, troveremo altre soluzioni. È come dire a una madre di famiglia: ti compro un kg di carne, ti fa comodo per cena? Certo che fa comodo. Ma se poi non ci sono i soldi per comprare la carne, non importa. Faremo con le uova, ma faremo”. I numeri del pianeta carcere sono agghiaccianti: a fronte di una capienza regolamentare di 47.599 posti, sono 64.564 i detenuti alla data del 14 ottobre; di questi, i condannati definitivi sono 38.625 e 24.744 i detenuti in custodia cautelare. “Abbiamo letti a castello fino a sei piani. Io morirei all’idea di cadere da così in alto”. La Corte di Strasburgo, però, questa volta intende usare un’arma di pressione molto concreta. “Avremo da pagare 100 mila euro ogni 7 detenuti che fanno ricorso, ossia ogni anno dovremo pagare multe per 60 - 70 milioni. Il problema è grave sotto il profilo civile e politico, la situazione va affrontata”. I detenuti che lavorano sono appena 13.727. Eppure, invoca la ministra, “nell’attuale situazione di grave sovraffollamento e di carenza di risorse umane e finanziarie, garantire opportunità lavorative ai detenuti è strategicamente fondamentale anche per contenere e gestire i disagi, le tensioni e le proteste”. Il punto è che non ci sono soldi. Le alternative all’amnistia e all’indulto stanno per venire allo scoperto. Annuncia la Cancellieri: “Quanto prima saranno portate all’esame del Consiglio dei Ministri per l’approvazione in vista della presentazione al Parlamento”. Il primo provvedimento servirà a restringere l’area della custodia cautelare in carcere in tre mosse: rafforzare l’obbligo di specificare le motivazioni “per richiamare il giudice, specie nel momento dell’applicazione, alla stringente considerazione della residualità della cautela carceraria”; eliminare gli automatismi e ridare maggiore discrezionalità ai giudici; ampliare le misure interdittive al posto del carcere. Secondo provvedimento, diminuire il numero dei processi penali stessi, attraverso depenalizzazione dei reati minori e archiviazione ad opera del giudice quando vi sia particolare tenuità del fatto. La Cancellieri, pur con tutte le cautele, non lesina critiche garantiste al sistema attuale: “Il sistema delle misure cautelari personali sollecita una rinnovata considerazione nella prospettiva di contenere gli eccessi del ricorso a dette misure che, se non adeguatamente calibrate sulle reali ed effettive esigenze legate all’accertamento processuale, rischiano di atteggiarsi a una mera, quanto indebita e quindi odiosa, anticipazione di pena”. Infine la misura cui la Cancellieri confida di più: una seria riforma dei ricorsi in appello e poi in Cassazione. Ovviamente se diminuiscono i ricorsi, si accelerano i tempi dei processi. E il sistema penale diventa più efficiente. A fronte di questa strategia così minuziosa, magari poco eclatante, ma di riforme strutturali, il M5S confidava di fare un gran battage invece sui ritardi del Piano Carceri. Ma la Cancellieri ha risposto a brutto muso: “Non ci saranno speculazioni immobiliari o finanziarie. E non ne sono state commesse. Rifiuto ogni forma di dubbi sulla correttezza del nostro comportamento. Avete mai visto un provvedimento dove diciamo di vendere San Vittore? State agli atti, ai fatti”. Il Pd, a sua volta, chiede più coraggio. Sandro Favi, responsabile per le carceri, vorrebbe una corsia privilegiata: “È responsabilità del governo promuovere le correzioni alle leggi che più hanno concorso a generare l’attuale situazione come la ex - Cirielli, la Fini - Giovanardi e la Bossi - Fini”. Giustizia: Letta nei guai, senza Silvio salta l’amnistia… uscirebbero solo in 3mila di Franco Bechis Libero, 18 ottobre 2013 I tecnici della Giustizia lavorano sul provvedimento di clemenza: perché non abbia un impatto risibile dovrà coinvolgere anche i reati per cui il Cav è stato condannato. La riunione si è svolta mercoledì sera negli uffici del ministero della Giustizia. Alla presenza del ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, e dei suoi principali collaboratori, in primis i massimi dirigenti del Dap, il dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero. Oltre a raccogliere gli ultimi dati sulla popolazione carceraria in vista di un’audizione del ministro che si è svolta ieri in commissione giustizia della Camera, i tecnici di via Arenula hanno portato le prime simulazioni sugli effetti che amnistia e indulto avrebbero sulla popolazione carceraria. Per fare quelle simulazioni naturalmente sono state tenute presente le esclusioni dal perimetro dell’uno e dell’altro provvedimento che le maggiori forze politiche della maggioranza avevano preventivamente ipotizzato. Con la lista dei reati esclusi in mano (con il centro destra che tiene duro su reati droga e immigrazione, e il centrosinistra che ad ogni costo vuole che siano esclusi dai provvedimenti tutti i reati che riguardano condanne e processi in corso di Silvio Berlusconi), il Dap ha allargato le braccia, spiegando al ministro: così probabilmente l’amnistia rischia di non fare uscire nemmeno un detenuto di galera. Allargando per quel che si può le maglie, si riusciranno a fare uscire fra 2 e 3 mila detenuti attuali. Il problema - spiegano i collaboratori alla Cancellieri - è che a forza di escludere ipotesi (piuttosto lunga la lista che riguarda i caveat del Pd su Berlusconi) alla fine l’elenco dei reati amnistiati è solo apparentemente lungo: per la stragrande maggioranza di quelli non si finisce mai in carcere, quindi il provvedimento è inefficace rispetto alle richieste del presidente Giorgio Napolitano e soprattutto rispetto alle contestazioni formali della Unione europea. Un po’ diverso con l’indulto: le maglie lì vengono allargate rispetto all’amnistia e la lista delle esclusioni diventa minore, con la sola esclusione che non sia cumulabile con l’indulto del 2006 (cosa che appunto escluderebbe dall’applicazione Berlusconi). In questo caso i possibili beneficiari delle misure sarebbero 9 mila. Circa la metà di quelli che oggi servirebbero per riportare la popolazione delle carceri alla loro capienza regolamentare. I dati più aggiornati forniti dal Dap al ministro per l’audizione di ieri indicano al 14 ottobre scorso 64.564 detenuti nelle carceri italiane (erano 64.758 al 30 settembre scorso e 65.701 al 31 dicembre 2012). La capienza regolare è di 47.599 posti, quindi l’eccedenza che secondo l’Unione europea espone oggi l’Italia alla violazione sostanziale delle norme internazionali sulla tortura, è di circa 17 mila detenuti. Nel 2006 - quando i detenuti erano in tutto 61.400 - l’indulto liberò in più mesi 26 mila detenuti (22 mila nei mesi successivi). Ma nel 2009 i detenuti erano già diventati 69 mila, più che alla vigilia dell’indulto. Quasi mai quindi questa è la strada per risolvere il problema che improvvisamente sta tanto a cuore di Napolitano. E in ogni caso a forza di togliere dal perimetro i reati per cui più facilmente si finisce in carcere e tutto il cesto di reati che in qualche modo riguarda Berlusconi, l’indulto e l’amnistia non sortiscono alcun tipo di effetto. Per chi spinge su queste misure il vero problema delle carceri sarebbe quello delle leggi di centro - destra. In queste ore si punta il dito sulla Bossi - Fini che c’entra quasi nulla. Per la legge sull’immigrazione clandestina erano in carcere il 31 dicembre 2012 1949 persone, la stragrande maggioranza stranieri. Per il semplice reato di immigrazione illegale nessuno: la norma prevede solo una ammenda. Nella legge si puniscono però lo sfruttamento di quella immigrazione, dagli scafisti a tutti i profittatori. Sono finiti in carcere, ma anche liberandoli tutti non si risolverebbe nulla. La popolazione carceraria oggi legata ai reati di droga è in effetti il 39,81% di quella totale: 26.160 persone alla fine del 2012. Alla fine del 2005, quando non esisteva ancora la legge Fini - Giovanardi, i carcerati per reati di droga erano il 29% dei detenuti. La differenza c”è, ma non è abissale. E in anni precedenti quella percentuale più volte ha superato il 30%. I reati di droga dall’inizio degli anni Novanta in poi sono stati sempre il secondo o il terzo motivo per cui si finiva in prigione. Allora come oggi si finiva dentro per reati contro il patrimonio (34.583 detenuti alla fine del 2012), per reati contro la persona (24.090 detenuti), o per violazione delle leggi sulle armi (10.425 detenuti). Per liberare le carceri si può intervenire sulle novità della Fini - Giovanardi, ma per avere effetti sostanziali bisogna che tutti i reati di droga esistenti da decenni vengano compresi in indulto o amnistia. Facendo uscire anche persone dalla alta pericolosità sociale. È il prezzo da pagare. L’indulto del 2006 - nonostante la leggenda - fece uscire tanta gente (e fu inutile) perché il campo di applicazione fu vastissimo: vennero ricompresi anche i reati di mafia. Per questo fu così impopolare e contestato dopo l’applicazione. Molti dicono che con la clemenza si può fare piazza pulita della custodia cautelare. Anche se la maggioranza assoluta dei detenuti attuali (circa il 59%) è lì per una condanna definitiva, oggi ci sono ancora 24.500 detenuti in custodia cautelare, anche se meno della metà è ancora in attesa di una condanna di primo grado (il resto o è in appello o è in cassazione). Più di 15 mila di questi però sono in carcere per reati contro la persona, contro il patrimonio e contro la legge sulle armi. Qualcuno anche per reati contro l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica, l’associazione di stampo mafioso e contro la famiglia. Senza condanna definitiva, ma pizzicati a compiere reati gravi che creano grande allarme sociale: dalla violenza sessuale, all’omicidio alla rapina a mano armata. Farli uscire per indulto e amnistia non sarà così gradito agli italiani. Giustizia: M5S; il sovraffollamento delle carceri potrebbe costarci circa 2 miliardi Radio Rai, 18 ottobre 2013 La denuncia è del gruppo 5 Stelle alla Camera. “È la stima della multa che l’Ue potrebbe comminare all’Italia a partire dal 28 maggio. Sul Paese, infatti, pende la minaccia di migliaia di ricorsi alla Corte europea per le condizioni inumane in cui versano le carceri. E sono tra 15 e 20 mila i reclusi - conclude la nota dei pentastellati - che potrebbero chiedere un indennizzo allo Stato circa 100mila euro a detenuto”. “Il sovraffollamento delle carceri potrebbe costarci circa 2 miliardi di euro. Questa è la stima della multa che l’Unione europea potrebbe comminare all’Italia a partire dal prossimo 28 maggio. Sul Paese, infatti, pende la minaccia di migliaia di ricorsi alla Corte europea per le condizioni inumane in cui versano le carceri. E sono tra 15 e 20mila i reclusi che potrebbero chiedere un indennizzo allo Stato e, stando alle ultime sentenze, si tratta di circa 100mila euro a detenuto. Ecco quanto ci costa l’inefficienza”. La denuncia è del gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle alla Camera. “È con questa spada di Damocle sulla testa che si chiede l’amnistia e l’indulto - continuano i deputati - Il M5S ha una soluzione che evita provvedimenti inutili e dannosi: il ministro Cancellieri deve chiedere all’Europa una proroga di almeno un anno per evitare le migliaia di ricorsi, presentando alla Cedu un effettivo piano di rientro che preveda l’immediato avvio della ristrutturazione delle carceri attuali e il recupero di tutte le migliaia di posti inutilizzati, in modo tale da rendere accettabili le condizioni di vita dei detenuti”. Si sottolinea, inoltre, che il bilancio 2012 del “Piano carceri” gestito dal commissario straordinario e voluto da Napolitano non è ancora disponibile. “Perchè? Come vengono spesi i soldi?, chiedono i deputati del M5S denunciando come “dietro il piano carceri in realtà si cela una gigantesca operazione finanziaria dai contorni per nulla chiari”. I numeri del ministero Rispetto ai dati ufficiali, i posti effettivamente disponibili nelle carceri italiane sono inferiori di 4.500 unità. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, in audizione davanti alla Commissione della Camera. “Oggi la capienza regolamentare è di 47.599 posti, ma questo dato subisce una flessione abbastanza rilevante per effetto del mancato utilizzo di spazi (quantificabile in circa 4.500 posti regolamentari) - ha sottolineato il ministro - dipendente in massima parte dalle necessità di interventi di manutenzione o di ristrutturazione edilizia”. Il 35% dei detenuti nelle carceri italiane è ristretto per il reato di produzione e spaccio di stupefacenti. Seguono la rapina (14,6%) e l’omicidio volontario (14%), ha quindi spiegato Cancellieri . “Il reato per il quale è ristretto il maggior numero di detenuti è quello di produzione e spaccio di stupefacenti: per tali fattispecie sono ristrette ben 23.094 persone (di queste 14.378 sono condannate definitivamente mentre 8.657 sono in custodia cautelare e 59 internate); il secondo reato è la rapina con 9.473 presenze (5.801 sono i definitivi, 3564 i giudicabili e 108 gli internati); il terzo reato è l’omicidio volontario con 9.077 presenze (6.049 sono i definitivi, 2.792 i giudicabili e 236 gli internati). Il quarto - ha proseguito - è l’estorsione con 4.238 presenze (2.180 sono i definitivi mentre 1.982 sono i giudicabili e 76 gli internati); il quinto reato è il furto con 3.853 presenze (1.952 sono i definitivi, 1.824 i giudicabili e 77 gli internati); il sesto la violenza sessuale con 2.755 presenze (2.001 sono i definitivi, 709 i giudicabili e 45 gli internati); il settimo è la ricettazione con 2.732 presenze (1.897 sono i definitivi, 809 i giudicabili e 26 gli internati)”. I carcerati per associazione mafiosa sono 1.424, un numero basso trattandosi di reato spesso collegato a fattispecie di maggiore gravità come l’estorsione o l’omicidio. Seguono, con circa 500 detenuti, il sequestro di persona, l’associazione per delinquere, la violenza privata, violenza e resistenza a pubblico ufficiale, maltrattamenti in famiglia, atti sessuali con minorenni”, ha continuato Cancellieri. E i detenuti in custodia cautelare sono attualmente 24mila, quelli condannati definitivamente sono 38mila. “Per quanto riguarda i primi - ha detto il ministro Guardasigilli - 12mila sono ancora in attesa del primo grado di giudizio, 6mila in attesa dell’appello”. A partire dal giugno 2009, quando si raggiunse il picco dei 31mila detenuti in custodia, si è registrato un progressivo decremento pari a circa il 20%” di reclusi in custodia cautelare, “con circa 6.500 detenuti in meno” - aggiunge Annamaria Cancellieri, Invece “vi è stato nello stesso periodo un aumento consistente dei detenuti definitivi che nel giugno del 2009 erano 30.549 ed in 4 anni sono aumentati di quasi 10mila unità”. Giustizia: Sappe; la Legge di stabilità penalizza il Corpo di Polizia Penitenziaria Comunicato stampa, 18 ottobre 2013 “Se il Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri non è in grado di tutelare e far rispettare gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria (che da Lei dipendono) nell’ambito del Governo è meglio che rimetta il mandato istituzionale. Nella legge di stabilità sono palesi le sperequazioni in danno dei Baschi Azzurri rispetto agli Corpi di Polizia e alle Forze Armate, sintomo palese di questo disinteresse nonostante la gravissima situazione delle carceri nelle quali i nostri poliziotti lavorano 24 ore al giorno. E nonostante questo ci vengono impedite nuove assunzioni ed una riorganizzazione complessiva dei ruoli con gli altri Corpi che oggi ci penalizza. Basta! Manifesteremo a Roma il nostro disagio e sciopereremo nelle grandi carceri. Così si capirà che la Polizia Penitenziaria merita rispetto!” Parole di fuoco quelle di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, il primo e più rappresentativo della Categoria, sul testo della legge di stabilità varata dal Governo Letta. “Con il Ministro Cancellieri siamo tornati ad essere la Cenerentola delle Forze di Polizia, com’eravamo trent’anni fa. Con la legge di stabilità c’è chi ha preso milioni di euro per gli incentivi e chi garanzie normative ed economiche importanti. Noi nulla, zero, nonostante avessimo chiesto una deroga per assumere nuovi Agenti in base al turn over che garantisce assunzioni rispetto ai colleghi andati in pensione o cessati dal servizio ed una concreta equi ordinazione dei vari ruoli del Corpo rispetto ai colleghi delle altre Forze di Polizia. Non abbiamo visto nulla, e nell’attuale situazione delle carceri è uno schiaffo inaccettabile. Tanto più che si parla di sovraffollamento, indulto ed amnistia ma si continua ad ignorare che nelle carcere, in prima linea, ci stanno i poliziotti, spesso aggrediti, offesi, umiliati dai loro stessi vertici. Per questo, proclamando lo stato di agitazione della categoria, sciopereremo nelle grandi carceri e manifesteremo davanti al Ministero della Giustizia per avere quel rispetto e quella considerazione istituzionale che con l’attuale Guardasigilli non abbiamo”. Giustizia: per reato diffamazione stop al carcere, multe fino a 60 mila euro e rettifica di Marco Livi Italia Oggi, 18 ottobre 2013 Mai più carcere per i giornalisti in caso di diffamazione, ma solo pene pecuniarie. In compenso, obbligo di rettifica senza commento a favore dell’offeso. Ieri la camera ha approvato il ddl sulla diffamazione con 308 voti a favore, 117 contrari e 8 astenuti. Contro hanno votato Sel e Movimento 5 Stelle. Il testo ora passa all’esame del senato. La novità più importante è l’abolizione del carcere, mentre la multa, in caso di attribuzione di un fatto determinato, va dai 5 mila ai 10 mila euro. Se il fatto attribuito è consapevolmente falso, la multa sale da 20 mila a 60 mila euro. Alla condanna è associata la pena della pubblicazione della sentenza. In caso di recidiva, vi sarà anche l’interdizione da uno a sei mesi dalla professione. La rettifica, comunque, sarà valutata dal giudice come causa di non punibilità. In ogni caso, secondo il testo le rettifiche delle persone offese devono essere pubblicate senza commento e risposta menzionando espressamente il titolo, la data e l’autore dell’articolo diffamatorio. Il direttore dovrà informare della richiesta l’autore del servizio. In caso di violazione dell’obbligo scatta una sanzione amministrativa da 8 mila a 16 mila euro. Nella legge sulla stampa rientrano ora anche le testate giornalistiche online e radiofoniche. Soprattutto per le testate online si presentava infatti il problema della mancanza di una norma sulla diffamazione, spesso risolto dai giudici applicando comunque le stesse norme dei giornali cartacei. Nella diffamazione a mezzo stampa il danno sarà quantificato sulla base della diffusione della testata, della gravità dell’offesa e dell’effetto riparatorio della rettifica. L’azione civile dovrà essere esercitata entro due anni dalla pubblicazione. Fuori dei casi di concorso con l’autore del servizio, il direttore o il suo vice rispondono non più “a titolo di colpa” ma solo se vi è un nesso di causalità tra omesso controllo e diffamazione, la pena è in ogni caso ridotta di un terzo. È comunque esclusa per il direttore al quale sia addebitabile l’omessa vigilanza l’interdizione dalla professione di giornalista. Le funzioni di vigilanza possono essere delegate, ma in forma scritta, a un giornalista professionista idoneo a svolgere tali funzioni. In caso di querela temeraria, il querelante può essere condannato al pagamento di una somma da mille a 10 mila euro in favore delle casse delle ammende. Una novità riguarda anche la protezione delle fonti: non solo il giornalista professionista ma ora anche il pubblicista potrà opporre al giudice il segreto sui propri informatori. Anche per l’ingiuria e la diffamazione tra privati viene eliminato il carcere ma aumenta la multa (fi no a 5 mila euro per l’ingiuria e 10 mila per la diffamazione) che si applica anche alle offese arrecate in via telematica. La pena pecuniaria è aggravata se vi è attribuzione di un fatto determinato. Risulta abrogata l’ipotesi aggravata dell’offesa a un corpo politico, amministrativo o giudiziario. L’approvazione della nuova disciplina della diffamazione a mezzo stampa è “un primo passo, importante ma non conclusivo”, secondo Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Iacopino critica quanto previsto per le querele temerarie, presentate per intimidire i giornalisti, che “non può considerarsi risolto prevedendo un’ammenda che va da 1.000 a 10 mila euro”. Così come l’obbligo della rettifica da pubblicare senza commento perché sembra sparita la possibilità di replicare nel caso la stessa contenga elementi falsi, come era previsto nel testo della commissione. “Così come è sbagliato”, ha aggiunto il presidente dell’Ordine, “aver modificato in uno dei passaggi l’esimente per il giornalista che chiede al direttore di pubblicare una rettifica su un suo errore, trasferendone la responsabilità al vertice del giornale, e che ora è chiamato ad avviare un’azione davanti al magistrato per ottenere il ristabilimento della verità. Un meccanismo che espone a grandi rischi soprattutto i giornalisti più deboli, quelli che vengono retribuiti con poche euro ad articolo”. Abruzzo: a Ripa Teatina struttura sanitaria interregionale destinata a sostituire l’Opg Ansa, 18 ottobre 2013 Sarà realizzata a Ripa Teatina, nella Asl di Lanciano-Vasto-Chieti, la struttura sanitaria interregionale destinata a sostituire l’ospedale psichiatrico giudiziario. Lo ha annunciato l’assessore alla Prevenzione collettiva, Luigi De Fanis, al termine della riunione avuta a Roma con il sottosegretario alla Salute, Paolo Fadda. L’esponente di governo ha infatti incontrato tutti gli assessori regionali chiamati ad illustrare i programmi delle rispettive Regioni. Per l’Abruzzo è stata dunque decisa la sede di Ripa Teatina e la Regione potrà contare su un finanziamento specifico di circa 5 milioni di euro con un programma di realizzazione della struttura che prevede l’avvio dei lavori nel 2014 e la conclusione degli stessi nel primo semestre 2015. Il programma nazionale di chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) prevede anche un finanziamento di 2,5 milioni di euro per i programmi terapeutici e i costi che verranno sostenuti nel primo biennio di attività della struttura. “Si tratta di una decisione importante - ha commentato l’assessore Luigi de Fanis - che conferma come la Regione Abruzzo abbia presentato un progetto definito che andrà a coprire l’area interregionale Abruzzo-Molise. La struttura - prosegue l’assessore - potrà contare su 20 posti letti con personale altamente specializzato secondo il programma nazionale sanitario di chiusura degli Opg. Come sistema delle Regioni abbiamo assicurato di voler serrare i tempi accelerando sugli adempimenti necessari per la conclusione del complesso iter burocratico”. Dal canto suo, il sottosegretario Fadda ha preso l’impegno con le Regioni al fine di accelerare al massimo l’erogazione dei finanziamenti previsti dal programma nazionale. Ha assicurato che la relazione che i ministeri della Salute e della Giustizia presenteranno al Parlamento entro il 30 novembre, sarà redatta di comune accordo con le Regioni. Tale relazione, che il sottosegretario ha definito “operazione Verità”, conterrà un’esatta fotografia dello stato di attuazione dei programmi e degli impegni futuri delle singole Regioni. “La chiusura degli Opg - ha concluso l’assessore Luigi De Fanis - è una battaglia di civiltà non procrastinabile, che deve essere combattuta congiuntamente dal governo, dalle Regioni, dagli enti locali e dal mondo del volontariato, ma è necessario anche realizzare contemporaneamente i percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale delle persone oggi ancora presenti negli Opg”. Trieste: Giulio Simsig si impicca in carcere, era stato condannato per l’omicidio della ex di Laura Tonero Il Piccolo, 18 ottobre 2013 Si è tolto la vita ieri mattina annodandosi la cintura dell’accappatoio intorno al collo e appendendosi alla cerniera della porta del bagno di una cella del Coroneo. Si è suicidato così Giulio Simsig, 49 anni, in carcere dall’11 settembre del 2011 per aver ucciso a coltellate la sua ex convivente, Tiziana Rupena. A scoprire il corpo esanime dell’ex gruista della Fincantieri che stava scontando la condanna di 16 anni e 8 mesi inflittagli dalla Corte d’Appello, sono stati i suoi quattro compagni di cella. Qualcuno si era appena svegliato, altri stavano ancora sonnecchiando. Simsig, come faceva ogni mattina, si è appartato in bagno. Erano le 9.40 quando chi condivideva con lui la cella, dopo che erano passati parecchi minuti, si è insospettito. Lo ha chiamato, poi ha sentito un tonfo ed è corso a vedere cosa era accaduto. Trovandosi di fronte alla terribile scena ha immediatamente dato l’allarme chiamando gli agenti della polizia penitenziaria. “I tentativi di rianimarlo da parte del personale sanitario della casa circondariale e del 118 sono stati tempestivi ma purtroppo sono risultati vani”, spiega il direttore del Coroneo, Ottavio Casarano che non intende rilasciare dichiarazioni specifiche in merito all’accaduto. Una tragedia nella tragedia, dunque. Un suicidio che alle spalle si lascia un tremendo delitto: quello dell’uccisione di Tiziana Rupena, aggredita una domenica mattina nella sua stanza da letto al primo piano della villetta della madre a Patriciano. Il suo ex convivente era salito fino al terrazzo usando una scala a pioli. Stretto nella mano destra aveva il coltello da marinaio con cui ha vibrato sette colpi, uno dei quali ha reciso la carotide della donna che aveva osato lasciarlo. Poi era rimasto sul luogo del delitto, si era costituito. Una volta in carcere è scivolato in un profondo stato di depressione. Si era subito pentito. Già il 24 luglio del 2012 aveva tentato di togliersi la vita gettandosi dalla tromba delle scale del palazzo di Giustizia e solo grazie al pronto intervento di due agenti della polizia penitenziaria quell’episodio non si era trasformato in una tragedia. Ieri mattina la notizia del suicidio dell’assassino di Tiziana Rupena ha fatto subito il giro del carcere. Tutti si erano accorti fin da subito che era accaduto qualche cosa di grave. Il viavai degli operatori del 118, la frenesia con la quale si muovevano gli agenti e le facce sbarrate e attonite di chi viveva con lui nella piccola cella non lasciavano dubbi. Per molti quella di Giulio Simsig era una morte annunciata. E qualcuno si chiede come mai, visto che ai detenuti non è consentito possedere cinture per evitare vengano usate per gesti estremi, a Simsig, che già aveva tentato di uccidersi, era stata lasciata quella dell’accappatoio. “Quando una persona muore in carcere - dichiara Sergio Mameli, l’avvocato che ha difeso Simsig fin dal momento dell’arresto - non possiamo non esimerci dal fare un esame di coscienza. Non vi è dubbio che Giulio Simsig fosse una persona molto depressa, che in carcere aveva perso oltre 50 chili. Viveva in uno stato di prostrazione, era pieno di sensi di colpa per l’omicidio della povera Rupena - continua il legale - e questa sua situazione, forse, non è stata presa in dovuta considerazione “. Viste le condizioni del suo assistito, Mameli aveva più volte chiesto gli arresti domiciliari a casa del figlio che aveva dato disponibilità a ospitarlo e che gli è sempre stato vicino fin dal momento dell’arresto. “Purtroppo - conclude l’avvocato - i domiciliari non gli sono mai stati concessi. E ora è finita”. Giulio Simsig era praticamente morto il giorno stesso in cui ha ucciso la sua ex convivente Tiziana in un mix di disperazione, violenza, amore e follia. Non si dava pace per averla persa, ma aveva agito nel peggiore dei modi. I giudici avevano tenuto conto di questo particolare stato d’animo altrimenti gli avrebbero inflitto l’ergastolo per un delitto che non era proprio frutto di una improvvisa esplosione di rabbia. Era comunque andato a casa sua, a Padriciano, dopo che l’aveva lasciato. Da quel giorno in carcere Simsig ha cominciato a consumarsi lentamente, a espiare la sua colpa. Quando dopo mesi era apparso nei corridoi del Tribunale per il processo sembrava un altro uomo. Emaciato, vistosamente dimagrito, con gli occhi spenti. Aveva tentato anche un plateale suicidio nel Palazzo di Giustizia. Data la sua condizione psichica, tuttavia, si sarebbe probabilmente ucciso anche agli arresti domiciliari, chiesti di recente dal suo avvocato. Portava dentro un grande macigno, ormai impossibile da sopportare in vita. Pesaro: detenuto marocchino di 33 anni si è suicidato, ha usato i lacci delle scarpe Corriere Adriatico, 18 ottobre 2013 Un detenuto marocchino di 33 anni si è suicidato nel carcere di Villa Fastiggi a Pesaro impiccandosi con i lacci delle scarpe. Lo ha reso noto Aldo Di Giacomo, ex sindacalista del Sappe e ora segretario generale del Spp. Sembra che di recente il giovane fosse stato condannato a 7 anni di carcere. Per Di Giacomo, che ha annunciato di aver ripreso lo sciopero della fame, per scongiurare il ripetersi di casi come questo serve una “riforma strutturale, complessiva della giustizia”. Trieste: il direttore del carcere Coroneo “fino a nove persone in spazi destinati a due” Il Piccolo, 18 ottobre 2013 “Recepire i richiami del Papa e di Napolitano”. Il direttore del Coroneo: auspico che chi ha la responsabilità di decidere tenga presenti quelle parole. Il disperato gesto di Giulio Simsig riporta in primo piano il problema del sovraffollamento delle carceri, le precarie condizioni in cui vivono i detenuti e la mancanza di sufficiente personale di sorveglianza anche nel penitenziario triestino. Una condizione estrema denunciata dapprima dall’ex direttore della Casa circondariale, Enrico Sbriglia, e poi dai due direttori che gli sono succeduti: Silvia Della Branca e Ottavio Casarano. Oggi nel carcere del Coroneo sono rinchiuse 240 persone (una trentina le donne) a fronte di una capienza massima di 155 detenuti. Circa un centinaio sono italiani. In un’unica cella destinata a due reclusi sono costretti a vivere in fino a sei persone, e in alcune occasioni anche in nove. Non hanno nemmeno lo spazio per muoversi, per sgranchirsi le gambe o per sistemare i loro effetti personali. E per chi soffre anche di depressione, per chi vive con estrema difficoltà la vita carceraria, una simile condizione di disagio può indubbiamente accentuare il malessere. Da poco tempo, almeno, la tenda che divideva i servizi igienici dalla cella dove i detenuti sono costretti a passare dalle 18 alle 22 ore al giorno è stata sostituita con una porta che consente un minimo di privacy. Ed è alla cerniera di quella porta che Simsig ha agganciato la cinta dell’accappatoio usata a mo’ di cappio. “Auspico - dichiara il direttore del carcere del Coroneo, Ottavio Casarano a fronte della tragica morte di Simsig - che i recenti richiami fatti dal Presidente della Repubblica e dal Papa vengano recepiti da chi ha la responsabilità per decisioni che esulano dalle competenze della sola amministrazione penitenziaria”. Casarano su quanto accaduto ieri mattina preferisce non rilasciare dichiarazioni. È scosso, la situazione l’ha turbato mettendo in evidenza ancora una volta lo stato di precarietà della struttura che trova a dirigere. Negli ultimi anni, per far fronte al sovraffollamento, l’amministrazione penitenziaria del Coroneo è stata più volte costretta a far dormire persone su dei materassi sistemati a terra che la mattina successiva dovevano essere rimossi per permettere un minimo di movimento a chi viveva in quella cella. Una situazione poi insopportabile con il caldo estivo: in questi casi uno o due detenuti rimanevano per tutta la giornata senza un letto, senza un proprio giaciglio dove raccogliersi a pensare, pregare, dormire. E per chi è costretto a trascorrere anni in simili condizioni la vita penitenziaria diventa letteralmente insopportabile, un inferno. Al Coroneo il turnover è elevatissimo: negli ultimi anni sono state accolte in media 1.200 persone, molte delle quali finite in cella per reati legati alla droga. Il report stilato dalla Camera penale della provincia di Trieste riferisce che il corpo della polizia penitenziaria del Coroneo oggi è composto da 113 uomini e 19 donne a fronte di un’esigenza di 159 agenti (139 uomini, 20 donne). Anche gli operatori sono carenti. Ne sarebbero previsti 6 e se ne rileva uno. Per quanto riguarda la parte sanitaria ci sono 5 medici che a turno garantiscono la guardia medica per 9 ore notturne e 4 - 5 ore diurne. Genova: detenuto incendia cella nel carcere di Pontedecimo, quattro agenti intossicati www.primocanale.it, 18 ottobre 2013 Si è sfiorata la tragedia, questa mattina, nel carcere genovese di Pontedecimo dove un detenuto di origine senegalese ha dato fuoco alla propria cella. Le fiamme e il fumo hanno subito creato preoccupazioni tanto che sono dovuti intervenire gli agenti della Polizia Penitenziaria anche prima dell’arrivo dei Vigili del Fuoco: quattro di loro hanno dovuto ricorrere alle cure dell’ospedale per asfissia e sintomi di intossicazione da fumo. Il fatto è stato denunciato da Uil penitenziari che denuncia le gravi difficoltà operative in cui gli agenti sono costretti ad operare. Milano: la Camera Penale contraria alla chiusura del reparto femminile di San Vittore Adnkronos, 18 ottobre 2013 La Camera penale di Milano esprime “preoccupazione” a fronte della notizia della possibile chiusura del reparto femminile del carcere di San Vittore. “La sezione femminile - afferma in una nota l’associazione - è una realtà dove da anni sono portate avanti attività trattamentali efficaci e conformi all’ordinamento penitenziario e al dettato costituzionale”. La decisione di chiuderla, per problemi di sovraffollamento, costituisce “un grave errore che andrebbe a ledere proprio l’esercizio del dovere, costituzionalmente previsto, di rieducazione del reo che il sovraffollamento delle carcere impedisce”. All’interno della sezione si trovano la sartoria, la libera scuola di cucina con percorsi di formazione e anche un centro clinico. Livorno: all’isola di Gorgona, dove vino e formaggio profumano di speranza e libertà di Elisabetta Arrighi Il Tirreno, 18 ottobre 2013 Per una volta gli odori della macchia isolana hanno attraversato il mare e poi la terraferma per posarsi nelle accoglienti stanze di un palazzo nobiliare di Firenze, in via Ghibellina, dove l’Enoteca Pinchiorri fa ristorazione “stellata” e custodisce una cantina con i migliori vini del mondo. Ora di quella cantina fa parte anche un vino che profuma di speranza e libertà, un bianco morbido che sposa vermentino e ansonica, colorandosi di un giallo paglierino con riflessi verdognoli. Basta assaggiare e chiudere gli occhi per essere trasportati fra i profumi della macchia di Gorgona, l’isola carcere dove questo bianco. “Gorgona”, appunto - è nato, cresciuto e si sta sviluppando, lavorato da parte dei detenuti guidati dall’esperienza dei Marchesi Frescobaldi, che di vino si intendono da oltre 700 anni. “Gorgona” è un blend - prodotto in 2.700 bottiglie - che ricorda l’asprezza delle rocce a picco sul mare profondo e la freschezza del salmastro. Da una parte il nettare di Bacco (prezzo circa 25 euro a bottiglia), dall’altra i formaggi: piccole forme da 250 grammi a latte crudo, fatte con latte vaccino, ovino e caprino degli allevamenti isolani. Il formaggio a forma quadrata si chiama “Macchia di Gorgona” e dalla macchia ha preso i sentori del rosmarino selvatico e del mirto, essiccati e frantumati sul tagliere con la mezzaluna. Una doppia essenza forte e penetrante avvolge così queste caciotte che nel piatto si esprimono al meglio abbinandole, ad esempio, a una gelatina di uva fragola. Poi ci sono le caciotte tonde del formaggio “Gorgona lavato”: pasta morbida, da abbinare ad un miele al rosmarino per ritrovare l’essenza dell’isola. Uno scoglio aspro emerso dal mare, trasformato in carcere dalla seconda metà dell’Ottocento, dove è difficile vivere non solo perchè è un carcere, ma anche perché le sue coste - distanti 20 miglia da Livorno - sono muraglioni che si tuffano nel blu e i venti strapazzano questo scoglio senza sosta. Colonia agricola dove i detenuti (niente mafiosi, solo condannati per omicidio e traffico di droga) arrivano se hanno alle spalle un tot di anni di buona condotta in un “carcere chiuso”. Sull’isola, per loro, il carcere si apre (le sbarre chiudono le celle solo durante la notte), permettendo di lavorare la terra, di accudire la vigna - un ettaro impiantato nel 1999, che presto raddoppierà - le mucche della stalla, il gregge di pecore e capre, una sessantina di capi in tutto. Così la pena diventa vera “rieducazione” e apre a queste persone - oggi in gran parte straniere, dai nordafricani ai pakistani ai sudamericani - un futuro di speranza. Ed è qui che si innesta il “progetto Frescobaldi per Gorgona”, un progetto sociale nato ad agosto dello scorso anno, che in ultima istanza prevede, se i detenuti lo vorranno, una volta scontata la condanna, l’assunzione come operai agricoli presso una delle tenute del gruppo. Finanziato dalla Cassa Ammende del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il “progetto Frescobaldi” viene realizzato grazie alla collaborazione fra la direzione di Gorgona e l’azienda vinicola dei marchesi fiorentini. Ieri all’Enoteca Pinchiorri si è così festeggiato l’avanzamento di questo progetto sociale che dopo il vino bianco “Gorgona”, uscito ufficialmente a inizio estate grazie al lavoro dei detenuti impiegati nella vigna e in cantina, ora punta anche sui formaggi. Per adesso una produzione limitata a 200 forme, realizzate dai carcerati nel minuscolo caseificio isolano sotto la guida di Alberto Marcomini, super esperto del settore. “L’idea è quella di produrre formaggio a km zero - dice Marcomini - seguendo antiche tecniche casearie, con l’obiettivo di insegnare i segreti di questa attività ai detenuti per dare loro l’opportunità di imparare un mestiere”. Nei prossimi mesi la lavorazione sarà affinata, ha spiegato ancora Marcomini, e l’obiettivo è quello di arrivare a produrre caciotte da 500 grammi. Nel frattempo anche il caseificio dovrà subire qualche intervento di ammodernamento. Intanto una parte delle caciotte già pronte, troveranno in queste settimane un posto d’onore sulla tavola di alcuni dei migliori ristoranti d’Italia, a partire dall’Enoteca Pinchiorri che nel “progetto Gorgona” ha creduto da subito come sottolineato da Annie Féolde e dal marito Giorgio Pinchiorri. “Dobbiamo essere parte di un movimento per migliorare la qualità della vita nelle carceri - ha detto Pinchiorri - ed è anche fondamentale la rieducazione dei carcerati attraverso l’impegno in un mestiere o in un’arte”. “Sono convinto che questi formaggi di Gorgona - ha sottolineato Lamberto Frescobaldi, presidente dell’azienda omonima - potranno conquistare il cuore di molti consumatori così come il vino e far conoscere al mondo un’isola incontaminata e selvaggia, modello da imitare per il recupero e il reinserimento sociale dei detenuti”. In un momento drammatico come quello che oggi si sta vivendo negli istituti di pena sovraffollati, secondo il capo del Dap della Toscana, Giovanni Tamburino, “questo è un progetto di grande rilevanza e dimostra che c’è attenzione da parte della società civile verso un compito che lo Stato da solo un può affrontare”. “Un’esperienza sociale importante, da far conoscere al mondo - ha detto Gianni Salvadori assessore regionale all’agricoltura - Come Regione non siamo coinvolti direttamente su Gorgona come invece lo siamo in un progetto sociale agricolo che impiega 368 persone con disabilità mentale. L’Europa ci guarda, guarda a queste esperienze che sono uniche in ambito continentale. E ci muoveremo per promuoverle e farle finanziare nell’ambito dei piani di sviluppo rurale”. Lecce: consegna cocaina al marito detenuto 53enne, arrestata dalla Polizia Penitenziaria www.poliziapenitenziaria.it, 18 ottobre 2013 Una 53enne di nazionalità spagnola, ma residente a Veglie, si è recata in carcere, ma è finita ai domiciliari. AngelCinofili 1-3a Robles, moglie di A.T., un detenuto vegliese, ha raggiunto l’istituto penitenziario di Borgo San Nicola, dove è stata però scoperta con un involucro contenente cocaina, assieme a una confezione di compresse, quasi certamente psicofarmaci o sostanze derivanti dagli oppiacei. La merce era destinata al coniuge ma gli agenti di Polizia Penitenziaria di Lecce, coordinati dal commissario Riccardo Secci, hanno fermato la responsabile. Da tempo, la coppia di coniugi era sotto la stretta sorveglianza del personale del carcere. La donna, tempo addietro, era stata sorpresa e deferita all’autorità giudiziaria per aver tentato di introdurre, all’interno della struttura penitenziaria, un flacone contenente metadone. Questa volta, le unità cinofile non le hanno però lasciato scampo e hanno segnalato la presenza si sostanze illecite. Al momento del colloquio con il marito, inoltre, agli agenti non è sfuggito un altro movimento sospetto: con fare repentino, ha ceduto al detenuto un oggetto, estratto dalle tasche di una giacca. Dai controlli eseguiti al termine dell’incontro, i poliziotti hanno rinvenuto il materiale su A.T., il quale lo aveva nascosto in una piega ricavata dagli slip. Per l’uomo è scattata la denuncia, per la consorte, invece, l’arresto in flagranza di reato con l’accusa di detenzione ai fini spaccio di droga, in ambiente carcerario, su disposizione del pm di turno, Giuseppe Capoccia. Ulteriori controlli eseguiti in casa della 53enne, inoltre, hanno consentito il rinvenimento e il sequestro di una modica quantità di hashish, munizioni pe fucile, armi bianche, bilancini di precisione e soprattutto documenti che confermerebbero il reiterato tentativo dei coniugi di introdurre sostanze stupefacenti. Alessandria: detenuti-testimoni sull’ex cappellano “lui portava la droga in carcere” Asca, 18 ottobre 2013 “Lo sapevano tutti i muri che a San Michele circolava la droga”. E come ci arrivava? “Si diceva che poteva arrivare tramite il prete”. Parlano alcuni detenuti al processo in cui l’ex cappellano di San Michele, don Giovanni Sangalli, è accusato di detenzione e spaccio di droga in concorso con altre 8 persone. Pistoia: uno spettacolo sul tema della sicurezza sul lavoro nel carcere di Santa Caterina www.lanazione.it, 18 ottobre 2013 La compagnia Rossolevante ha messo in scena, con la collaborazione della Provincia e della Casa circondariale di Pistoia, uno spettacolo per i detenuti. “Giorni rubati D10, D11” è il titolo dello spettacolo teatrale, che mercoledì 16 ottobre la Compagnia Rossolevante ha offerto ai detenuti del carcere pistoiese di S. Caterina in Brana, grazie alla collaborazione fra l’Assessorato alla Cultura della Provincia, la Casa Circondariale di Pistoia e l’Associazione Teatro Popolare d’Arte (diretta da Gianfranco Pedullà, che dal 2005 cura il laboratorio teatrale rivolto ai detenuti). Da anni lo spettacolo del gruppo teatrale sardo Rossolevante sul tema degli infortuni sul lavoro sta girando il nostro Paese, nei teatri, nei festival, nelle fabbriche, incontrando gli operai, nelle scuole con i giovani, passando dal salone delle feste del Palazzo del Quirinale (lo spettacolo nel 2012 ha ricevuto da Napolitano la Medaglia di rappresentanza del Presidente della Repubblica, in occasione della “Giornata Nazione delle vittime del lavoro”) ai luoghi meno “luminosi”, più marginali e dolorosi, delle nostre città, come le carceri. Nella Casa Circondariale di Pistoia, di fronte agli oltre 70 detenuti presenti nella palestra - teatro della struttura penitenziaria, Giammarco Mereu, ex operaio e grande invalido a seguito di un infortunio, ha raccontato la sua storia. “Il punto di partenza nella creazione di questo lavoro è stato il terribile incidente subito da un giovane operaio nostro amico nel molo di Arbatax che una sera del 2006, a soli 37 anni, è rimasto schiacciato sotto un cancello di 600 chili che gli ha spezzato la schiena e tolto per sempre la possibilità di camminare - spiega Juri Piroddi, regista, insieme a Silvia Cattoi, dello spettacolo - La storia di Giammarco è la storia di tanti (troppi) altri”. Una storia dolorosa, ma piena di forza e di voglia di di ricominciare è quella che Giammarco Mereu, l’operaio di allora, oggi attore, racconta in questo intenso lavoro, commovente e delicato, da lui scritto e interpretato. “E’ la storia di chi ha dovuto re imparare, rivedere e riscoprire tutto - conclude Piroddi - la storia di una lotta personale che vuole diventare una lotta comune, perché si parli di tragedie che ogni giorno colpiscono il mondo del lavoro, come una sorta di guerra sotterranea che nessuno vuol vedere o di cui vuol sentir parlare”. Insieme ai detenuti, hanno partecipato allo spettacolo anche alcuni rappresentanti della Provincia di Pistoia, Cgil, Inail e Arci. Un pubblico attento e partecipe, che ha ringraziato Giammarco Mereu e il gruppo Rossolevante per il costruttivo messaggio trasmesso, l’invito a trovare la forza di andare avanti e ricostruire la propria vita. “L’iniziativa - dice l’assessore alla Cultura della Provincia Lidia Martini - oltre ad essere importante perché affronta con forza il problema della sicurezza sul lavoro, si colloca all’interno del percorso che il nostro Assessorato ha avviato da anni, in collaborazione con la Casa Circondariale di Pistoia, per offrire a chi vive l’esperienza della detenzione alcune opportunità di crescita e di riflessione culturale. Ringrazio il direttore della Casa Circondariale Tazio Bianchi, che ha accolto con entusiasmo questa proposta, e la compagnia Rossolevante, per aver regalato ai detenuti un intenso momento di teatro e soprattutto uno stimolo ad affrontare con diversa consapevolezza futuri progetti di vita”. “La costante e sinergica collaborazione tra la Provincia di Pistoia e questa Direzione - dice il Direttore della Casa Circondariale, Tazio Bianchi - ha permesso, fin dall’allestimento dello spettacolo teatrale messo in scena dai detenuti lo scorso 26 giugno all’interno dell’ Istituto, di poter rendere visibili le costanti e preziose attività svolte da questa struttura e tese al reinserimento ed alla rieducazione dei detenuti. Il contatto con la realtà del mondo esterno, portate all’interno anche attraverso il mezzo dello spettacolo, sono sicuramente fonte di stimolo per una revisione del vissuto di ogni ristretto spettatore. Per questo sono grato alla Provincia, che nei percorsi trattamentali si inserisce con valide iniziative. La regia di “Giorni rubati” è stata curata da Juri Piroddi e Silvia Cattoi; sulla scena insieme a Giammarco Mereu, autore dei testi e interprete, Silvia Cattoi, Juri Piroddi, Antonio Sida e il musicista Simone Pistis, che ha eseguito dal vivo le musiche dello spettacolo. L’iniziativa, grazie alla collaborazione del Teatro popolare d’arte, si inserisce in una serie di appuntamenti teatrali rivolti ai detenuti di Pistoia facenti parte del programma presentato nell’ambito del Progetto regionale “Teatro in Carcere” promosso dalla Regione Toscana. Viareggio: il Carnevale in carcere, l’esperto Maggini insegna arte cartapesta ai detenuti www.versiliatoday.it, 18 ottobre 2013 Impastare la carta dei giornali, impugnare un pennello inzuppato nella colla, modellare con creta e giunchi non è certo una novità per Libero Maggini, mascheratista del Carnevale: è il suo mestiere. Però poi succede che si ritrova ad insegnare l’arte della cartapesta a un gruppo di detenuti. E il giovane artista viareggino vive un’esperienza nuova, insolita e ricca di insegnamenti. Il progetto si chiama “Liberi in carta” e ha preso il via la scorsa settimana presso l’istituto penitenziario “Mario Gozzini” di Firenze, casa circondariale a custodia attenuata per tossicodipendenti nota anche come “Solliccianino”, sotto l’egida della Caritas. Ad accompagnare Maggini c’è anche un’assistente, Aurora Zanetti. I due insegnano a un gruppo di dieci persone l’arte della cartapesta e della ceramica. “Un’esperienza molto emozionante, forte, toccante”, racconta un Maggini comprensibilmente emozionato. “E appagante: questi ragazzi si affezionano facilmente, ti danno tutto quello che hanno.” I lavori realizzati dai partecipanti saranno poi esposti dal 16 al 27 novembre alla Libreria delle Donne in Via Fiesolana a Firenze, a due passi dal duomo. Libero Maggini “Da tempo cullavo l’idea di fare dei laboratori all’interno di un carcere, ma poi avevo lasciato perdere”, rivela Maggini. “Troppe carte da firmare, troppi permessi da ricevere. Per fortuna, nell’iter burocratico, mi ha aiutato Aurora: senza di lei non avrei mai cominciato. “Siamo partiti da nemmeno due settimane, è prematuro stilare un bilancio. Ma è come me l’aspettavo, anzi, pensavo fosse più atroce. Ma è ugualmente toccante: quando abbiamo fatto la prima lezione, ero emozionatissimo. Pensavo di trovarmi di fronte persone diffidenti, sulla difensiva. Invece l’accoglienza è stata calorosa. Avevano realizzato degli oggetti in creta ricoprendoli, poi, con della carta da cucina: non appena ho mostrato loro come si fa uno stampo, mi guardavano meravigliati.” Il progetto andrà avanti “fin tanto che ci saranno i fondi. Anzi, colgo l’occasione per ringraziare del loro aiuto la Croce Verde, l’associazione Carnevaldarsena e il bar del Bagno Balena nella persona di Alessandro Santini.” Potenza: i detenuti possono diventare allenatori, con la “regia” di Renzo Ulivieri di Pietro Scognamiglio www.ilquotidianodellabasilicata.com, 18 ottobre 2013 Il progetto dell’Aiac lucana è stato realizzato con la regia di Renzo Ulivieri, che spiega: “In Basilicata hanno dimostrato una sensibilità da prendere a modello, in carcere verrò anche io a tenere qualche lezione”. “Verrò anche io a tenere qualche lezione, ho già visitato il carcere di Potenza e ho conosciuto la professionalità e la sensibilità di chi ci lavora”. Renzo Ulivieri, presidente dell’Aiac (Associazione Italiana Allenatori) e direttore della Scuola di Coverciano, ha lavorato molto dietro le quinte per un progetto affascinante. Quello di portare nella casa circondariale del capoluogo un corso per allenatori destinato ai detenuti. Sua emanazione sul territorio (oltre che amico di lunga data) è Gerardo Passarella, numero uno degli allenatori lucani che già dalla passata stagione ha avviato l’iter burocratico e organizzativo per riuscire nell’impresa di farsi aprire le porte del carcere di via Appia. A supportare Passarella in questa idea, che sembrava all’inizio difficilmente realizzabile, il presidente della Figc di Basilicata Piero Rinaldi e Rocco Galasso che ha curato l’area comunicazione. “E’ una sensibilità particolare quella dell’Aiac lucana - continua Ulivieri nella nostra chiacchierata telefonica - che mi auguro venga presa ad esempio anche a livello nazionale. C’è chi pensa che quando una persona finisce dietro le sbarre vada buttata via la chiave, noi la pensiamo diversamente”. L’attestazione di stima del presidente degli allenatori italiani ha dato certamente forza a chi materialmente darà il via alle lezioni il prossimo 21 ottobre, per un totale di 146 ore (spalmate su due appuntamenti settimanali) che ripercorranno fedelmente il programma del corso Uefa B, pur non dando per il momento accesso all’esame. “Ma stiamo lavorando per la predisposizione di un protocollo d’intesa con il settore tecnico - spiega Passarella - affinché l’attestato che consegneremo alla fine del corso possa portare al conseguimento del patentino”. Si tratta di un progetto unico in Italia, come accennato, che verrà realizzato anche grazie alla grande disponibilità del direttore della casa circondariale di Potenza Michele Ferrandina, del commissario Rocco Grippo (Polizia Penitenziaria) e di Sonia Crovatto, responsabile dell’Area trattamentale, che si occupa di portare i detenuti su percorsi di riabilitazione alla legalità. “E lo sport - spiegano i professionisti del settore presenti in sala - è forse lo strumento più incisivo per riuscirci”. Immigrazione: la notizia della riapertura del Cie di Bologna è inaccettabile di Elisabetta Laganà* Ristretti Orizzonti, 18 ottobre 2013 La chiusura della struttura disposta nel marzo scorso da parte della Prefettura era stato un atto inevitabile e necessario date le condizioni del Centro, che evidenziavano un drammatico stato di fatiscenza ed incompatibilità con condizioni di vita rispettose dei diritti umani. L’ipotesi della riapertura va nella direzione contraria di tutte le autorevoli voci che si sono levate, in questi mesi, in difesa dei diritti umani dei migranti e sulle loro condizioni di trattenimento. I Cie dovrebbero essere chiusi su tutto il territorio nazionale, e non invece riaprire, con costi insostenibili sul piano umano ed economico. Le immutate cifre previste per la gestione del trattenimento dei migranti, risultanti di gare effettuate al ribasso su questi centri, non possono garantire condizioni di vita dignitose. La direzione da intraprendere senza esitazioni è quella della revisione complessiva della normativa sui migranti. È evidente come l’attuale sistema dei Cie e delle espulsioni producano sistematiche violazioni dei diritti fondamentali dei migranti. È quindi necessario ed auspicabile che, senza indugio, il Governo si impegni ad affrontare una seria e improrogabile riforma dell’intera normativa in tema d’immigrazione. Auspichiamo che, anche a livello cittadino, si levi alta la voce di dissenso e di mobilitazione di tutti coloro che ritengono inaccettabili queste strutture, e che il Cie di Bologna non riapra mai più. *Garante per i diritti delle Persone private della Libertà personale del Comune di Bologna Russia: caso Greenpeace; 11 Premi Nobel scrivono a Putin “gli attivisti non sono pirati” Adnkronos, 18 ottobre 2013 Undici Premi Nobel per la pace hanno scritto una lettera congiunta al presidente russo Vladimir Putin per sostenere i 28 attivisti di Greenpeace e i due giornalisti freelance trattenuti per due mesi in custodia cautelare dalle autorità russe con l’accusa di pirateria. Lo comunica Greenpeace. Nella lettera i Nobel (l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, la guatemalteca Rigoberta Menchu, l’ex presidente del Costa Rica Oscar Arias Sanchez, le pacifiste nordirlandesi Betty Williams e Mairead Maguire, la pacifista statunitense Jody Williams, la liberiana Leymah Gbowee, la yemenita Tawakkol Karman, l’avvocato e pacifista iraniana Shirin Ebadi, l’ex presidente di Timor Est Jose Ramos Horta e l’argentino Adolpho Perez Esquivel) chiedono al President Putin “di fare tutto il possibile per assicurare che cada l’accusa di pirateria, eccessiva, nei confronti dei 28 attivisti di Greenpeace e dei due giornalisti freelance, e che ogni accusa contestata trovi riscontro nel diritto internazionale e nella legge russa”. Descrivendo l’Artico come “tesoro prezioso dell’Umanità”, i firmatari sostengono gli sforzi per proteggere questa Regione dallo sfruttamento petrolifero e dal cambiamento climatico. “Le trivellazioni petrolifere nell’Artico sono un’impresa ad alto rischio. Una fuoriuscita di petrolio in queste acque avrebbe un impatto catastrofico su uno degli ultimi ambienti integri del Pianeta, sulle comunità che vi abitano e su specie animali già minacciate d’estinzione. I rischi di simili incidenti ci sono sempre e i piani di risposta dell’industria petrolifera sono totalmente inadeguati. I cambiamenti climatici ci minacciano tutti, ma sono i più vulnerabili del Pianeta che pagheranno i costi maggiori se i Paesi più sviluppati non agiscono ora”. Intanto sono quasi 1 milione e mezzo le firme della petizione rivolta alle ambasciate russe per richiedere il rilascio degli attivisti. L’equipaggio dell’Arctic Sunrise, gli attivisti e i due giornalisti freelance a bordo della nave sono nelle mani delle autorità russe da giovedì 19 settembre, quando la Guardia Costiera ha abbordato e sequestrato la nave rompighiaccio di Greenpeace in acque internazionali. Dal 24 settembre sono detenuti in strutture di detenzione preventiva intorno alla città di Murmansk. Svizzera: internet in carcere? troppo pericoloso, i detenuti esclusi dall'accesso al web www.info.rsi.ch, 18 ottobre 2013 Il direttore generale delle strutture carcerarie ticinesi, Fabrizio Comandini, ci spiega perché ai detenuti nelle carceri chiuse non è permesso accedere al web. La cronaca lo dimostra: internet è un mezzo poco sicuro, soprattutto se ad utilizzarlo sono persone con scopi poco onesti. Sempre più spesso infatti si sente parlare di maniaci o pedofili che riescono ad adescare le loro vittime in rete. O, come nel caso di Adeline, il suo presunto omicida avrebbe cercato sul web, dal centro di reinserimento dove si trovava, alcune informazioni che gli sono state utili per fuggire una volta uccisa la sua terapeuta. Ma è raccomandabile lasciare a un detenuto la possibilità di accedere ad internet? “Da quanto mi risulta lui era in una struttura molto particolare, non gestita dal penitenziario e sotto un altro dipartimento. Poteva accedere alla rete, ma solo sotto controllo”, ci risponde Fabrizio Comandini. Ma per il direttore generale delle strutture carcerarie ticinesi il problema nel cantone non si pone, dato che non esistono dei centri uguali a La Pâquerette. In Ticino vi sono infatti quattro strutture carcerarie, due chiuse (il carcere giudiziario della Farera e quello penale della Stampa) e due aperte (lo Stampino e il Naravazz). “E nelle due prigioni chiuse accedere ad internet non è permesso”, spiega ancora Comandini, precisando che si evita così che un detenuto possa commettere reati via web o, se è il caso, che possa mettersi in contatto con la sua vittima. E per quelle persone che sono sistemate nelle strutture aperte? “Il Giudice dei provvedimenti coercitivi colloca in questi centri le persone che devono scontare una pena breve (ad esempio per reati legati alla circolazione stradale o per multe non pagate) o quelli che stanno finendo di espiare una condanna dopo aver trascorso un lungo periodo nella struttura chiusa”, chiarisce il direttore, aggiungendo che “loro di giorno possono uscire per svolgere delle attività, perché non sono considerati un pericolo per la collettività; devono solo rientrare la sera”. E allo Stampino o al Naravazz viene collocato solo chi non presenta un rischio di fuga o di recidiva. Detto questo, bisogna però spiegare che ai prigionieri non è comunque vietato informarsi. “Loro possono abbonarsi a giornali o riviste, ovviamente pagando di tasca loro. Possono possedere una radio e possono anche avere la TV, se hanno i soldi per il noleggio”. Iran: da Amnesty un appello per Alireza M., scampato alla morte dopo impiccagione Ansa, 18 ottobre 2013 “L’Iran fermi l’esecuzione del condannato a morte sopravvissuto alla forca”. E’ questo l’appello inoltrato da Amnesty International alla luce della decisione dei giudici iraniani di giustiziare una seconda volta il 37enne Alireza M., sopravvissuto incredibilmente all’impiccagione, a cui era stato destinato lo scorso 9 ottobre. “L’orribile prospettiva di questo uomo che deve affrontare una seconda impiccagione dopo aver già vissuto l’intera vicenda già una volta evidenzia la crudeltà e l’inumanità della pena di morte”, è la denuncia di Philip Luther, a capo della direzione Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty. “Portare una seconda volta ala forca un uomo che è riuscito a sopravvivere a 12 minuti di impiccagione è semplicemente agghiacciante e tradisce la mancanza di umanità che sorregge tristemente gran parte del sistema giudiziario iraniano”, sottolinea ancora Amnesty ricordando come nel 2011 sia stato lo stesso Segretario Generale dell’Alto Consiglio per i diritti umani della magistratura iraniana, Mohammad Javad Larijani, ad esprimere dubbi su quanto l’applicazione della pena capitale riduca i reati legati al traffico di droga. Alireza M. è stato condannato a morte perché trovato in possesso di 1 Kg di droghe sintetiche nel carcere di Bojnord. Impiccato il 9 ottobre e dato per deceduto, il giorno seguente in obitorio era stato scoperto che in realtà l’uomo respirava ancora e ora si troverebbe in condizioni “soddisfacenti”. Ma i giudici del Tribunale Rivoluzionario hanno in seguito precisato che Alireza sarà nuovamente giustiziato non appena le sue condizioni lo consentiranno. Egitto: lo stato rimanda nell’inferno della guerra i rifugiati siriani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 ottobre 2013 Intercettati, uccisi, detenuti a tempo indeterminato, separati dai familiari, rimandati in mezzo alla guerra dalla quale cercavano di fuggire. L’Egitto dei militari, coi rifugiati siriani si comporta così. Invece di offrire aiuto a chi ha perso tutto (parenti, casa, beni di sussistenza) in guerra, le autorità egiziane portano avanti da mesi una prassi inumana che colpisce persone in particolari condizioni di vulnerabilità. Di fronte all’alternativa tra carcere in Egitto e morte certa in patria, sempre più siriani scelgono l’opzione della morte solo possibile, pagando i trafficanti fino a 3500 dollari per salire su un’imbarcazione pericolante e pronta al naufragio, e prendono il mare. Destinazione Europa, quando ci arrivano vivi. Solo nell’ultimo mese, la marina egiziana ha intercettato 13 imbarcazioni con a bordo rifugiati siriani diretti verso l’Europa. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati, le autorità egiziane hanno arrestato 946 persone, delle quali 724 (tra cui donne e bambini) sono tuttora in stato di detenzione. Una delegazione di Amnesty International è appena rientrata dall’Egitto. I rifugiati siriani arrestati hanno due destini davanti a sé: rimanere detenuti a tempo indeterminato o essere rimandati in Siria. Spesso, il primo precede il secondo. Gli avvocati, cui è stato impedito di assumere la difesa dei rifugiati siriani detenuti nelle stazioni di polizia delle città costiere, hanno denunciato che in almeno due casi vi sono state espulsioni collettive di rifugiati siriani verso Damasco. Nel corso di una visita a una stazione di polizia di Alessandria, l’organizzazione per i diritti umani ha trovato circa 40 rifugiati siriani detenuti illegalmente e a tempo indeterminato, compresi 10 bambini tra cui due gemellini di un anno, in cella dal 17 settembre. Nella maggior parte dei casi, i rifugiati arrestati vengono trattenuti in carcere su decisione dell’agenzia per la sicurezza nazionale, persino dopo che il procuratore ha ordinato il loro rilascio. Parecchi rifugiati hanno detto ad Amnesty International di non avere altra scelta se non lasciare l’Egitto a causa delle condizioni ostili che stanno incontrando nel paese. Non va meglio ai rifugiati palestinesi provenienti dalla Siria. Il 4 ottobre un gruppo di 36 persone, in buona parte palestinesi, è stato espulso verso Damasco. Molti si troverebbero da allora detenuti nella sezione Palestina dei servizi segreti militari. I rifugiati siriani e palestinesi in Egitto sono stati accusati di sostenere la Fratellanza musulmana e di aver preso parte alle violenze successive al 3 luglio, giorno della deposizione del presidente Mohamed Morsi. Sono vittime di un profondo stigma e subiscono attacchi xenofobi da parte dei mezzi d’informazione egiziani. Negli ultimi mesi, le autorità egiziane hanno introdotto nuove restrizioni per i cittadini siriani che entrano in Egitto, tra cui l’ottenimento di un visto e una verifica di sicurezza precedente al loro arrivo. Amnesty International ha chiesto ai paesi della regione di tenere aperte le frontiere a coloro che fuggono dal conflitto siriano e alla comunità internazionale di aumentare le possibilità per i rifugiati più vulnerabili di essere reinsediati fuori dalla regione. Libia: ex capo spionaggio Gheddafi chiede processo all’Aia Ansa, 18 ottobre 2013 Abdullah Senussi, ex capo dei servizi segreti libici del regime Gheddafi, chiede di essere processato all’Aia nonostante la Corte Penale internazionale vi abbia rinunciato venerdì scorso. “La Libia non ha ne le capacità ne la volontà di tenere un processo equo contro Senussi”, ha dichiarato il legale di Senussi Ben Emerson in un comunicato specificando che Senussi è detenuto da 13 mesi a Tripoli senza mai aver avuto accesso legale nonostante le ripetute richieste o contatti con la famiglia. La Cpi ha riconosciuto venerdì che, in rispetto al principio di complementarità, Senussi non può essere processato all’Aia, sebbene incolpato per crimini contro l’umanità, poiché sarà giudicato per gli stessi reati in Libia. Il processo di Senussi, come quello di Saif Al Islam, secondogenito di Muammar Gheddafi, sono tra i due più importanti che si devono svolgere contro alti funzionari dell’ex regime e che potrebbero svelare retroscena della dittatura. Abdullah Senussi è ritenuto coinvolto in violazioni dei diritti umani commesse negli ultimi 40 anni, tra cui l’esecuzione extragiudiziale di oltre 1.200 prigionieri del carcere di Abu Salim, nel 1996. Le organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International denunciano la possibilità di centinaia di condanne a morte per i sostenitori del colonnello. Accusato di incitamento alla discordia e alla guerra civile l’ex Ministro dell’Istruzione, Ahmed Ibrahim, è stato già condannato a morte lo scorso 31 luglio insieme ad altre 5 persone. Usa: due condannati per omicidio rilasciati per errore da un carcere in Florida La Presse, 18 ottobre 2013 Due condannati per omicidio sono stati rilasciati per errore da un carcere della Florida e le autorità stanno ora tentando di rintracciarli. E’ successo, spiega l’ufficio dello sceriffo di Orange County, perché i detenuti hanno presentato ai giudici documenti falsificati allo scopo di ottenere il rilascio. I due sono stati scarcerati alla fine di settembre e all’inizio di ottobre, ma le forze dell’ordine si sono accorte dell’errore solo martedì. Charles Walker scontava una pena all’ergastolo per omicidio di secondo grado, mentre Joseph Jenkins era detenuto per una condanna per omicidio di primo grado. Procura Florida verifica documenti Gli uffici della procura della Florida stanno controllando la documentazione di tutti i detenuti dopo che due uomini condannati per l’omicidio sono stati rilasciati nelle scorse settimane per errore, in base a documenti falsificati. Lo ha fatto sapere il segretario del dipartimento delle carceri dello Stato, Michael Crews. Charles Walker scontava una pena all’ergastolo per omicidio di secondo grado, mentre Joseph Jenkins era detenuto per una condanna per omicidio di primo grado. Per il momento non è chiaro chi abbia preparato i documenti presentati dai due uomini negli ultimi mesi, con firme falsificate di procuratori e del giudice Belvin Perry. Il deputato democratico della Florida Darryl Rouson ha chiesto che la questione venga sottoposta al Congresso. “È una cosa immorale, quasi impensabile”, ha detto Rouson. Entrambi i detenuti avevano presentato documenti falsi, secondo cui la procura aveva chiesto di correggere le sentenze “illegali”, nonché ordini di ridurre le condanne a 15 anni, emessi dal giudice Perry. Etiopia: Human Rights Watch denuncia torture a detenuti, il governo smentisce accusa Tm News, 18 ottobre 2013 Le autorità etiopi torturano e maltrattano i detenuti politici per estorcere confessioni. Lo ha denunciato Human Rights Watch. Il gruppo con sede negli Stati Uniti ha riferito che gli ex detenuti nel principale centro di detenzione ad Addis Abeba hanno raccontato di essere stati picchiati e presi a calci nel corso degli interrogatori. Ha inoltre accusato il Paese di utilizzare le leggi antiterrorismo per reprimere il dissenso. Il governo ha smentito il contenuto del rapporto, giudicato di parte e sprovvisto di prove credibili. Il rapporto di Human Rights Watch afferma che gli inquirenti al centro di detenzione di Maekelawi utilizzano metodi illegali, trattengono le persone in condizioni insufficienti di detenzione e negano spesso loro l’accesso a un avvocato. Giappone: lacrime per fioritura ciliegi, ma da 45 anni detenuto attende condanna morte Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2013 Non c’è bisogno di guardare i capolavori horror di Takashi Miki (penso che solo i giapponesi, geneticamente e genuinamente laici, sappiano oramai produrre film davvero raccapriccianti e diversamente immorali), le disperate tragicommedie di Shion Sono, o leggere i devastanti - spesso deprimenti - romanzi di Emi Yamada o di Randy Taguchi per cogliere le profonde, insanabili e al tempo stesso vitali contraddizioni del Giappone. Basta viverci per un pò. Un paese capace di commuoversi, compatto e convinto, per la fioritura dei ciliegi in primavera e la caduta delle foglie in autunno (eventi spesso seguiti in diretta dai network Tv) ma che massacra i delfini, alleva, sevizia e droga polli, maiali e quant’altro si riesca a produrre e riprodurre lontano dagli occhi, e obbliga per anni e anni i condannati a morte a dormire in posizioni designate e a restare in silenzio, seduti al centro della cella, per il resto della giornata, sino a quando verranno chiamati per essere impiccati. Una chiamata che arriva all’improvviso, un paio di ore prima dell’esecuzione, senza avvertire nessuno, neanche la famiglia o gli avvocati. Molti hanno aspettato più di trent’anni, un paio, come Sakae Menda (che anni fa è stato invitato in Italia dalla Comunità di Sant’Egidio, per portare la sua drammatica testimonianza) sono stati addirittura scagionati, nel frattempo. Uno, per il quale proprio in questi giorni è partita l’ennesima, probabilmente inutile, campagna di Amnesty International e di altre associazioni che lottano per l’abolizione della pena di morte, aspetta da 45 anni. Si chiama Iwao Hakamada. Non ci sta più, e vorrei vedere, con la testa: ma il sistema carcerario giapponese, immortalato nella sua crudele quanto ridicola rigidità nel capolavoro di Nagisa Oshima Koshikei (“L’impiccagione”, presentato a Cannes nel 1968, introvabile in Giappone) continua ad imporgli, ogni giorno, di aspettare, seduto immobile al centro della del “suo” impero, l’eventuale chiamata. Il tutto avvolto nel mistero, nel silenzio, nel buio e nell’ignoranza - cullata e alimentata dalla dolosa omertà dei media - della gente comune. Sì, perché mi rifiuto di credere che i giapponesi, sensibili, gentili, colti e “civili” come poche altre popolazioni, seguaci, sia pure spesso solo formalmente, di religioni che riconoscono un’anima anche agli animali (il buddismo) e addirittura agli essere inanimati (lo shintoismo) possano condividere, approvare e addirittura apprezzare, queste barbarie. Non è per caso, evidentemente, che per un giornalista - e non solo straniero - sia difficilissimo, se non impossibile, visitare non solo il braccio della morte (interdetto persino ai parlamentari), ma anche mattatoi e allevamenti “ad alta intensità produttiva”, che in Europa, grazie al cielo, stanno pian piano scomparendo, grazie alle sempre più rigorose direttive comunitarie. Quelli dove i polli vengono nutriti con frattaglie di pesce, carne macinata di squalo e di cetacei (delfini compresi), penne e piume varie: roba insomma geneticamente incompatibile, e che se potessero ruspare, i polli eviterebbero con cura. Per non parlare delle galline da uova, imprigionate sin dalla nascita (e dopo aver provato l’esperienza del sessatore, un uomo che riconosce “al tatto” il sesso dei pennuti) in gabbie di 15 per 20 centimetri, dove non possono muoversi né aprire le ali e dove vengono “sbeccate”, appena capaci di deporre, con una fresa incandescente per evitare che danneggino le uova. Stesso discorso per i maiali, esseri pare intelligenti quanto o più dei cani (se non ci credete andate a leggervi la bellissima, commovente novella di Kenji Miyazawa, purtroppo non tradotta in italiano, “Il maiale della Scuola di Agricoltura Frandon” che è un vero e proprio inno all’identità e sensibilità suina, capace di provocare immediate conversioni vegetariane), che in Giappone vengono ancora comunemente allevati al chiuso, in celle di cemento, provocando enorme sofferenza alle bestie e, paradossalmente, abbassandone la qualità delle carni. Che infatti continuano, nonostante gli enormi investimenti, ad essere considerate, a differenza di quelle bovine, di pessima qualità. Spesso mi chiedo, quando vedo i giapponesi che nei supermercati selezionano con estrema cura i prodotti -e non solo in questi ultimi tempi, per via del rischio radioattività - leggendo le etichette e prestando attenzione alla scadenza, se si rendano conto della “negatività” che vanno a masticare, inghiottire e infine metabolizzare, loro che per l’affetto e la cura buddisticamente dovuta agli animali hanno persino un termine specifico, aigo: “amore e protezione”. Una “compassione” che purtroppo la maggior parte dei giapponesi concepisce oggi solo nei confronti degli animali domestici, divenuti comodo - ma altrettanto oneroso - surrogato, nell’impossibilità, o nel rifiuto, di far figli. Ma quello che più colpisce, aldilà delle inevitabili differenze culturali (siamo più barbari noi che imbottiamo le oche per ingrossarne il fegato o alleviamo i vitelli sospesi dal suolo per mantenere teneri i muscoli, o loro che sgozzano i delfini a sangue freddo, dopo averli storditi con rumori per loro atroci, mica per mangiarseli: per evitare che mangino tutto il plankton, di cui vanno ghiotti ) è la latitanza della compassione, l’incuranza per la sofferenza. Eppure, per il buddismo, la sofferenza di un uomo è identica a quella di un animale. Dopo tanti anni che vivo qui, non riesco ancora a capire come possano accettare che un uomo, fosse anche il peggiore dei criminali, possa attendere per 45 anni, accovacciato al centro di una stanza, che qualcuno lo “liberi” mettendogli un cappio attorno al collo. Bisogna trovare il modo di farlo capire, ai giapponesi, che non c’è diversità culturale che tenga. Certe cose, certe pratiche, certe torture non sono accettabili. Punto.