Giustizia: indulto e amnistia, quante voci stonate di Giuseppe Mosconi * Il Mattino di Padova, 17 ottobre 2013 C’è decisamente qualcosa di torbido nel modo in cui si sta sviluppando il confronto tra le forze politiche dopo l’appello del presidente Napolitano per superare la situazione delle carceri e rientrare nella legalità richiestaci dall’Europa. Il coro di contrarietà a indulto e amnistia è un insieme di voci stonate. Se da parte del Pdl è evidente l’intento di condizionare il provvedimento all’introduzione di quelle controriforme della giustizia, che da sempre costituiscono il suo progetto, da parte del Pd (specie ala renziana), il riferimento è alle necessarie riforme delle leggi penali (innanzitutto le note leggi carcerogene), senza le quali le misure amnistiali sarebbero un effimero boomerang. Ma le voci si riaccordano attorno alla affermata necessità di rassicurare l’opinione pubblica, di non lasciare i “criminali per strada”, di non dare la stura all’aumento della criminalità. Queste facili retoriche, pur con enfasi diverse, finiscono con concordare su un punto essenziale: dal carcere (almeno per il momento), non deve uscire nessuno, costi quel che costi. Il sospetto che questa improbabile sintonia bipartisan sottenda la corsa all’accaparramento del consenso da parte dell’opinione pubblica è più che legittimo. Al contrario non si possono ignorare alcuni aspetti di assoluta evidenza. L’indulto del 2006, intervenuto a 15 anni da un consimile precedente provvedimento, non ha affatto dato luogo ad un’impennata della criminalità, né tantomeno al dilagare della recidiva. Studi serissimi (Torrente, Jacteau, 2008) hanno messo in luce l’attestarsi della recidività, a due anni dal provvedimento, attorno al 20%, ben al di sotto del 70%, strutturalmente confermato per chi esce dal carcere a pena conclusa. L’impennata di incarcerazioni rapidamente seguita a quell’indulto, a livelli decisamente superiori ai precedenti, non sono dunque riferibili a nuovi comportamenti criminosi da parte dei beneficiari, ma ad una stretta repressiva del tutto indipendente dall’andamento della criminalità, la cui natura strumentale riferita al declamato lassismo di quel provvedimento è più che sospettabile. Di più un indulto che si limitasse ai reati entro i tre anni, con esclusione di alcune fattispecie tra cui, in primis, i reati dei colletti bianchi (quindi nessun cavallo di Troia per Berlusconi libero), altro non farebbe che rendere efficace la normativa in tema di misure alternative, che appunto fissa (abroganda ex Cirielli a parte) entro quel tetto la concedibilità dei benefici. Ora da molto tempo oltre il 60% dei reclusi rientra in quei termini, mentre la sfera di applicazione delle misure si attesta attorno al 20%. Ed è questa strettoia a contribuire al sovraffollamento. A fronte di queste e molte altre simili considerazioni (ad esempio il comprovato calo dell’allarme sociale) c’è un elemento che può costituire la cartina di tornasole per la verifica dell’effettivo intento riformatore da parte di chi sostiene la necessità di introdurre prima le riforme delle leggi penali, abrogando soprattutto le tre leggi carcerogene, per poi eventualmente “festeggiare” con l’indulto. Perché non si cominciano a scarcerare, con un provvedimento amnistiale mirato, proprio quei soggetti che sono detenuti in virtù di quelle tre leggi? Possibile che immigrati irregolari, tossicodipendenti, detenuti per reati bagatellari siano un “insulto alle vittime” (quali?) e una radicale minaccia al “patto sociale” (dov’è nella postmodernità?) se scarcerati in base all’indulto, mentre siano inevitabilmente e legittimamente scarcerabili se si introducessero, come auspicato, le riforme abrogative? Magia delle retoriche e delle immagini! Piuttosto, introdotto questo tipo di indulto, consolidiamone gli effetti prevenendone il prevedibile riassorbimento, attraverso la dimostrazione di una seria volontà riformatrice in materia penale. *Ordinario di Sociologia del diritto e Presidente di Antigone Veneto Giustizia: lo Stato rieduchi prima di punire di Umberto Veronesi* Corriere della Sera, 17 ottobre 2013 Caro direttore, il messaggio alle Camere del Presidente Napolitano sulla situazione umanamente inaccettabile delle nostre carceri e sull’opportunità di adottare provvedimenti d’emergenza è in linea con l’evoluzione civile e il progresso culturale del nostro Paese. Il Movimento Science for Peace - che riunisce intorno all’obiettivo di opposizione ad ogni forma di violenza sull’uomo molte donne e uomini di scienza, fra cui 21 Premi Nobel - appoggia la proposta del nostro Presidente, che va molto al di là di un gesto politico. In primo luogo è un atto di tutela della nostra Costituzione, che all’articolo 27 recita: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” e all’articolo 13 ribadisce: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Ma le nostre carceri traboccano di detenuti costretti a vivere in condizioni disumane e molti di loro sono in attesa di giudizio, quindi soltanto presunti colpevoli. Bisogna chiedersi perché abbiamo uno dei più alti tassi di suicidio in prigione d’Europa. Un Paese civile non può che vergognarsi di questa situazione perché se è legittimo (e costituzionale) togliere ad un uomo la libertà, non è legittimo togliergli la dignità. Se crediamo nella giustizia interpretata dallo spirito costituzionale, allora crediamo in una giustizia non vendicativa ma rieducativa, volta al recupero della persona. Questa è la cultura moderna del Diritto e anche della parola evangelica; mentre la vendetta, che si accompagna al desiderio di violenza e sopraffazione, appartiene ad un principio antico e barbaro che soddisfa un istinto primario e si rifà al concetto della legge del taglione “occhio per occhio, dente per dente”. La scienza ha inoltre recentemente confermato le basi solide della giustizia rieducativa, dimostrando che il cervello dell’uomo è plastico e si rinnova perché possiede cellule staminali proprie; dunque esiste per tutti gli esseri umani la possibilità di cambiare, di ravvedersi come predicava Giovanni Battista sulle rive del Giordano, e la persona che abbiamo messo un giorno in prigione potrebbe non essere più la stessa, cinque o dieci anni dopo, se la sua mente è stata educata. Ma come prendersi cura di una persona in una situazione di sovraffollamento e degrado, denunciata persino dall’Unione europea? Che fare allora? L’amnistia e l’indulto sono soluzioni molto buone e inevitabili. Certo siamo tutti d’accordo che i provvedimenti d’urgenza non risolvono il problema della giustizia alla radice. La soluzione definitiva viene da una svolta culturale descritta molto bene da una frase del filosofo Giuseppe Ferraro, che cito spesso: “Quando le scuole non saranno più carceri e le carceri saranno scuole, potremo dire di vivere in un Paese civile”. Il modello esiste in Europa ed è molto efficace. È il sistema scandinavo che considera il carcere una misura estrema, intesa, appunto, come scuola di recupero, che non ha nulla di punitivo e tantomeno vendicativo. Per la maggior parte dei reati, vengono adottate altre misure, dagli arresti domiciliari, alle sanzioni, ai servizi sociali. Il risultato è un tasso di criminalità e soprattutto di recidiva molto basso. Anche l’Italia, con il suo patrimonio di cultura giuridica e di coscienza civile, può raggiungere questo obiettivo e la proposta del nostro Presidente va in questa direzione. *Direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia e Fondatore di Science for Peace Giustizia: se Renzi getta benzina nel dibattito di fuoco sull’indulto… di Marcello De Angelis Il Tempo, 17 ottobre 2013 Le parole di Matteo Renzi contro la proposta di indulto hanno gettato nuova benzina su una polemica già in corso, trasportandola ancor più profondamente nel foro interno dei singoli partiti. L’indulto, va specificato, è un provvedimento di “clemenza” che applica uno sconto alla pena principale. Solitamente non si applica alle pene accessorie, come l’interdizione dai pubblici uffici. Questa precisazione è necessaria per spiegare ai profani perché si sia aperto un sub - dibattito relativo al sempre presente “caso Berlusconi”. Il ministro della Giustizia, come si ricorderà, a diretta domanda di un cronista, aveva risposto che il provvedimento di amnistia e di indulto “non avrebbe riguardato” l’ex presidente del Consiglio. La dichiarazione era stata rilanciata e amplificata e anche contestata. In realtà ciò che voleva dire la signora Cancellieri è appunto che l’indulto, di per sé, potrebbe - se esteso alla tipologia di reato per cui è stato condannato - cancellare la pena detentiva ma non annullerebbe l’interdizione o il decadimento dalla carica. L’affermazione non era però corretta se estesa al provvedimento di amnistia, che estingue il reato e quindi può avere conseguenze anche sulle pene accessorie. Ma è tutto da discutere. Il provvedimento lo scriverà probabilmente lo stesso ministro e includerà o escluderà le tipologie di reato che riterrà politicamente opportuno. Si è sempre fatto così, d’altronde, escludendo di volta in volta i reati che destavano in quel momento più allarme sociale o scandalo pubblico. Se Renzi si sia schierato contro i provvedimenti di clemenza per opportunità - dopo aver preso visione dei sondaggi (Ispo per il Corsera) che registrano un vastissimo dissenso popolare verso qualunque misura di indulgenza - o perché ne era già convinto è oggetto di discussione. Bisogna però ammettere che le argomentazioni che ha addotto non sono né nuove né peregrine. Indulto e amnistia sono provvedimenti che per loro natura dovrebbero essere eccezionali, nella storia repubblicana invece ce n’è stato in media uno ogni quattro anni. Uno strumento che si usa ogni quattro anni è da considerarsi fisiologico e questo, oggettivamente, non ha senso e risulta incomprensibile. Per quale ragione uno deve riempire le carceri fino al limite della capienza e poi svuotarle a cadenza regolare con provvedimenti “straordinari”? Se il problema è il sovraffollamento - potrebbe obiettare un qualunque cittadino senziente - si costruiscano altre carceri. Se le motivazioni dell’intasamento invece sono altre - e cioè i tempi biblici della giustizia, l’utilizzo abnorme della carcerazione preventiva che troppo spesso risulta in ingiusta carcerazione di innocenti e l’eccessivo numero di fattispecie di reato che “inventiamo” - sarebbe più onesto, responsabile e sicuramente meno ipocrita intervenire con una riforma strutturale della giustizia. Renzi non l’ha detto proprio così, ma il senso era questo e non gli si può dare torto. Non si tratta, come già detto, di una posizione originale. Le stesse cose sono state dette in Parlamento ogni qualvolta sia giunto in discussione un provvedimento di questo tipo. L’ultima volta è stato durante il dibattito sul decreto “svuota carceri” del governo Monti, trasformato in legge appena tre mesi fa. Qualcuno che è contrario alla nuova proposta di amnistia e indulto avanzata da Napolitano per combattere il sovraffollamento, non ha mancato infatti di sottolineare che è stato appena approvato un provvedimento per “svuotarle”. Ma entriamo in uno di quei campi - che in Italia sono veramente troppi - in cui la sola richiesta di approfondire il dibattito può valere la demonizzazione e la scomunica civile. Chi dice no all’indulto - anche se chiede una riforma che non lo renda più necessario - è un forcaiolo. Questo non avviene però se a dirlo non è un leghista o uno di destra bensì il candidato segretario del Pd. A Renzi va dunque il merito se non altro di aver “normalizzato” il dibattito. Dibattito non scevro da dietrologie cospirazioniste, come vuole la tradizione italiota. Non mancano i commentatori e gli esperti di retroscena che assicurano che Napolitano insista con questi provvedimenti non già perché sensibile agli appelli dei radicali per umanizzare la vita detentiva o per i moniti che vengono immancabili da Bruxelles, ma perché così risolverebbe in sordina l’affaire Berlusconi salvando il governo Letta. Questa teoria è ovviamente diventata uno dei cavalli di battaglia dei proclami grillini contro il presidente della Repubblica del quale, per questo e altri motivi, si chiede l’impeachment o addirittura un procedimento giudiziario. In conclusione - se a una conclusione si può ambire - appare evidente che la grande maggioranza degli italiani sia contraria all’idea che delle persone che hanno commesso reati e sono state condannate ad una pena detentiva non la scontino e temono che, una volta usciti grazie ai provvedimenti proposti, gli stessi tornino a delinquere. Non pochi anzi esprimono la certezza che questo avvenga, con conseguente eventuale ritorno in carcere e quindi il riproporsi delle stesse condizioni che renderanno a breve opportuno un nuovo “svuotamento”. La nostra storia, purtroppo, sembra dargli ragione. A questi cittadini non si può onestamente chiedere di prendere in considerazione tutte quelle ragioni, seppur note, che fanno sì che il carcere sia solo la stazione di arrivo di tutti i guasti irrisolti del nostro sistema giudiziario. A quel punto qualcuno potrebbe chiedere allora che la politica intervenga all’origine dei problemi. E chiedersi anche perché, sino ad ora, nessuno lo abbia fatto. Giustizia: sull’amnistia Renzi sbaglia, un provvedimento di clemenza è necessario di Tommaso Ciuffoletti Corriere Fiorentino, 17 ottobre 2013 Cambiare idea è cosa legittima. Renzi lo ha fatto sull’amnistia. Mi limito a constatare che un anno fa il sindaco aderiva al seguente appello di Marco Pannella. “Armati di nonviolenza intraprenderemo uno sciopero della fame, sperando che il Parlamento conceda un provvedimento di amnistia”. Non me ne vorrà il professor Fusaro, che ieri sulle pagine del Corriere Fiorentino contestava la strategia di “svuotare le carceri a colpi d’amnistia”, se rammento che l’ultima amnistia fatta in Italia è quella del 1990 (celebre perché amnistiò i finanziamenti illeciti dei partiti e in particolare del Pci). Rimane vero che da quel 1990 due indulti sono stati concessi in tempi recenti nel 2003 (l’indultino) e nel 2006. Trovo eccessivo parlare di strategia da svuotamento carceri. Anche se è vero che non ha senso continuare se non si sblocca un sistema giustizia che negli ultimi 10 anni, per dirne una, ha mandato in prescrizione circa un milione di processi (altro indulto mascherato che premia chi può permettersi di rallentare un processo). Tuttavia Renzi sostiene che avrebbe difficoltà a spiegare a dei bambini come mai si debba fare un nuovo indulto. Credo non sarebbe difficile spiegare a dei bimbi che nelle celle italiane dove dovrebbero stare 10 persone ce ne stanno 15. Se non capiscono basta far provare loro come si sta in 15 negli stessi banchi in cui si sta seduti in 10. Stretti. Si potrebbe poi chiedere loro di immaginare di passare non una mattinata in quelle condizioni, ma un’intera giornata, la notte. E poi un’altra e un’altra ancora. Credo capirebbero che si tratta di una cosa così disumana che lo Stato italiano per come tratta i suoi condannati (e i troppi che pure in carcere ci stanno in attesa di giudizio) è a sua volta un condannato. Dall’Europa, che ci ha più volte sanzionato per questo. E lo rifarà a breve. Il primo condannato ad aver bisogno di un’amnistia, quindi, non si trova in un carcere. Ma è lo Stato italiano. Renzi cita spesso i grandi della storia durante i suoi comizi. Bene, oggi che tutti sappiamo che indulto e amnistia sono assai impopolari (e sarebbe sorprendente il contrario quando per trent’anni si è pasciuta l’opinione pubblica facendo credere che sbattere qualcuno in carcere sia la madre di tutte le soluzioni), tanto più c’è bisogno di classi dirigenti capaci di dare nuove ragioni ad un’opinione pubblica imbarbarita. E se i partiti sono morti, mi van bene anche i leader. Purché facciano ciò che un leader è chiamato a fare: guidare. Perché Martin Luther King, per citarne uno caro a Renzi, disse “I have a dream”. Non disse “scusate, ma non so spiegare ai bambini come mai un negro non dovrebbe essere trattato da negro”. Giustizia: i sondaggi danno ragione a Renzi… perché Renzi dà ragione ai sondaggi di Massimo Tosti Italia Oggi, 17 ottobre 2013 Trentacinque anni fa, in Ecce Bombo, Nanni Moretti si poneva una domanda esistenziale: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente”. Matteo Renzi è impermeabile a questo genere di dubbi. Ha deciso, da un pezzo, che il presenzialismo paga. Due o tre mesi fa, dopo l’ennesima apparizione televisiva, promise che avrebbe taciuto per tre mesi interi. Ce l’ha fatta, a mantenere l’impegno, per due o tre giorni. Poi è tornato a comiziare a destra e a manca. I sondaggi gli danni ragione: lo si nota di più se viene e parla di tutto, a ruota libera. Oggi viene data per scontata la sua vittoria al congresso di dicembre del Pd: sarà lui il nuovo segretario del partito, e farà in modo di candidarsi anche a Palazzo Chigi, e magari al Colle (anche se “non ha l’età”). Si adopererà (anche se il suo impegno in questo senso è superfluo) per far cadere il governo Letta il prima possibile, per accelerare i tempi dell’occupazione di Palazzo Chigi, e governare (finalmente) l’Italia intera, uscendo dal guscio di Firenze. Da sabato scorso ha avviato ufficialmente la sua campagna elettorale, partendo da Bari. E ha affrontato molti temi caldi in questi giorni, compreso il messaggio del presidente Napolitano che ha invitato le Camere a votare una legge per l’amnistia e l’indulto. Fiutando l’aria che tira, Renzi si è messo di traverso rispetto alle indicazioni del Quirinale, pronunciandosi contro la legge svuota carceri (offrendo una sponda alla sinistra che teme che il provvedimento possa favorire il pregiudicato Berlusconi. Fino a qualche tempo fa, Matteo era guardato con sospetto dall’apparato del Pd che vedeva in lui un complice di Berlusconi (e di Marchionne). Adesso il Pd si è arreso al suo fascino, e lui ricambia strizzando l’occhio ai compagni di partito che (da vent’anni) hanno un solo obiettivo politico: la distruzione del nemico. I sondaggi danno ragione a Renzi, anche perché Renzi dà ragione ai sondaggi, nel senso che si fa influenzare dai desideri espressi dalla base del suo partito. E questo non è un buon segnale per il futuro di tutti gli italiani, qualora Matteuccio coroni il suo sogno. È fin troppo facile criticare e incalzare il governo “Alfetta”, bloccato dal braccio di ferro fra i ministri dei due partiti che ne fanno parte. Ma Renzi deve chiarire se, rottamando la vecchia classe dirigente del Pd, intende abbracciare un linea riformista e moderata o se, viceversa, vuole avviare una nuova guerra armata contro il centrodestra. Apparire è meglio che essere, questo sembra l’unico programma concreto del sindaco di Firenze. I francesi dicono: “Faire, savoir faire, faire savoire”. Fare, saper fare, far sapere. In questo, lui è bravissimo. Resta il dubbio se saprà anche reggere un partito schizofrenico come il Pd e se saprà governare. In mancanza di meglio, pensa una fetta consistente dell’elettorato, tanto vale metterlo alla prova. I “renzini”, i cioccolatini con le massime dell’ovvio incluse (inventati da Crozza) promettono molto. Si tratta però di vedere se la cioccolata è di prima qualità, o se tutto si risolve nella solita truffa pubblicitaria. Giustizia: l’amnistia non risolve i problemi, bisogna cambiare le leggi criminogene di Stefano Allievi Messaggero Veneto, 17 ottobre 2013 Come sempre, in Italia non si parla del merito, ma di dietrologie, di alleanze, di schieramenti. Ci riferiamo alla proposta di amnistia e indulto. Ventilata dal presidente Napolitano come soluzione al problema del disumano sovraffollamento delle carceri. E a cui oggi, improvvisamente, sembrano tutti - o almeno tutti i sostenitori del governo - assolutamente favorevoli. Il Pdl, che è sempre stato contro ogni forma di amnistia anche quando ha votato a favore, perché non si sa mai che ci si riesca a far rientrare anche qualche reato da colletti bianchi, o almeno a metterlo nel calderone di altre riforme della giustizia che gli stanno più a cuore. E il Pd perché l’ha detto Napolitano, che è il garante della stabilità del governo. Tuttavia crediamo che su questa proposta abbia ragione chi è contrario. E non sia reato di lesa maestà dirlo, anche se la fonte è il presidente della Repubblica. Ecco perché appaiono oblique, e fondate più su logiche di schieramento interne al dibattito congressuale del Pd che sul merito, le critiche a Matteo Renzi e ad altri, che si sono pronunciati contro tale provvedimento. Perché vengono da chi non ha fatto nulla, in passato, e non propone nulla, ora, per risolvere davvero il problema delle carceri. L’amnistia e l’indulto non sono necessari in sé: questo lo dicono tutti. Ma lo diventano - nell’opinione di chi li propone - per risolvere il problema del sovraffollamento e la conseguente inumanità della condizione carceraria: che è un dato di lungo periodo inaccettabile, insostenibile, e che oltre tutto ci costa caro in termini di richiami e di sanzioni europee, oltre che in inciviltà diffusa. Amnistia e indulto, inoltre, sono sempre un insulto alle vittime dei reati. La logica è la stessa dei condoni: un regalo ai furbi, che hanno violato la legge, e un insulto agli onesti, che non l’hanno fatto, e anzi al contrario sono stati vittime di chi ha compiuto dei reati, per i quali alla fine non si paga, o si paga meno. Per i condoni si è sempre detto che l’ultimo sarebbe stato l’ultimo, e così non è mai stato. Per l’amnistia lo stesso: ogni volta si dice che sarà un provvedimento ad hoc per risolvere l’emergenza, che poi non ce ne saranno più. E ogni volta ci si ricasca: e condoni e amnistie diventano alla fine un’abitudine, un abito mentale. Senza accorgersi che tali provvedimenti minano il patto sociale, e la fiducia reciproca su cui si fonda, in maniera radicale. Invece di risolvere i problemi, come al solito, si adottano provvedimenti tampone, sull’onda dell’emergenza o dell’emotività. Perché è più facile, agire così: e pazienza se è un male per la società. E se la società, così facendo, non la si riforma, ma al contrario la si fa sprofondare ulteriormente nei suoi vizi peggiori. Se si vuole davvero risolvere il problema, invece, è più intelligente andare alla fonte, alla radice: chiudere il rubinetto che riempie le carceri, agire a monte, anziché aprire il tappo che le svuota, agendo a valle. Vogliamo fare qualcosa di utile e rapido per ridurre la popolazione carceraria? Depenalizziamo il reato di clandestinità. Cambiamo la logica delle leggi anti - droga. Insomma, cambiamo con un articolo la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi. E qui in contraddizione ci va chi, favorevole all’amnistia e all’indulto, con Giovanardi ci governa, rendendo difficile ogni riforma in materia. Non solo: il 40% dei detenuti si trova in carcere in attesa di giudizio. Vogliamo ragionare anche su questo? E, per esempio, sull’obbligatorietà dell’azione penale: in generale, e in particolare applicata alle leggi di cui sopra? Ecco, se adottassimo questi provvedimenti, e poi ci dessimo seriamente da fare per riformare una giustizia ingiusta, lunghissima, incivile, che ci rende il fanalino di coda dell’Europa e, da sola, ci costa due punti di Pil, allora sì che svuoteremmo rapidamente le carceri e faremmo qualcosa di utile per la società. Migliorando ampiamente la qualità della vita sociale, anziché peggiorarla. E magari, per festeggiare, un anno di indulto, non di più, ci potrebbe anche stare, per ridurre rapidamente la popolazione carceraria. Ma se tutto questo non si fa, è indecente e controproducente parlarne. Giustizia: il Ministro Cancellieri; 30 anni di errori sul carcere, sbagliati anche i dati Dap di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 ottobre 2013 “Sul numero effettivo dei posti letto disponibili in carcere ci siamo sbagliati, aveva ragione Antigone: sono meno di quelli fin qui stimati”. E - secondo errore - anche sulla condizione di illegalità in cui versa tutto il sistema penitenziario e penale italiano c’è stata un’incredibile sottovalutazione da parte dei precedenti ministeri di Giustizia: “Per trent’anni abbiano pensato che le cose si sistemassero da sole”. L’apprezzabile mea culpa del governo - primo nel suo genere - arriva per bocca della ministra Annamaria Cancellieri che, intervenendo al convegno organizzato dall’Università Roma Tre e dalle associazioni Antigone, Progetto diritti e Open society foundation per parlare di “Carcere, immigrazione e diritti umani nello spazio costituzionale europeo” (prosegue questa mattina), assume su di sé la responsabilità istituzionale di un percorso storico sbagliato, che è costato all’Italia la condanna della Corte europea dei diritti umani. “Ho un debito verso Antigone: avete ragione voi, questa storia dei posti letto è tutta vera”. La Guardasigilli finalmente adotta i dati forniti dall’associazione sui posti letto regolamentari nei 206 istituti di pena italiani: sono 37 mila e non 47.615 come sostiene il Dap. Perché, spiega Cancellieri, “alcuni posti sono inutilizzabili per vetustà delle strutture, e allora si determina una discrepanza tra i dati ufficiali e quelli reali”. “Quindi, con i 63.758 detenuti attuali, il tasso di sovraffollamento ha raggiunto il 175% e non il 136%, come calcola l’amministrazione penitenziaria - spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - Rischiamo di essere il peggiore tra i paesi del Consiglio d’Europa, visto che la Grecia si ferma a un tasso del 136,5% e la Francia al 113,2%, mentre la Germania ha meno detenuti che posti letto”. E pensare che ogni recluso costa al giorno 123,78 euro di cui 101,69 per costi di personale e solo 9,26 euro spesi per i pasti, i vestiti, l’igiene e tutte le attività di vita dei reclusi. Una condizione inaccettabile che viola i diritti e mortifica la dignità umana “unico valore non bilanciabile, intangibile, irrinunciabile perfino più del diritto alla vita”, come ha spiegato il presidente della Corte costituzionale Gaetano Silvestri intervenuto al convegno. E il tempo stringe: per effetto della sentenza Torreggiani, a fine maggio 2014 il governo dovrà dimostrare all’Europa di aver intrapreso la via delle riforme “strutturali” per risolvere il problema. Solo pochi giorni dopo l’Italia sarà chiamata al semestre di presidenza del Consiglio europeo. Mentre ad aprile prossimo ci sono altre due scadenze imposte da leggi italiane: la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari e l’adempimento degli obblighi imposti dal Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura ratificato dal governo Monti nell’aprile 2013. “A breve - ricorda ancora Gonnella - si dovrà rivedere anche tutto il sistema di misure alternative al carcere, perché così impone la legge Severino”. Nodi a cui la ministra Cancellieri, che domani sarà ascoltata in commissione Giustizia alla Camera, sta lavorando: “Certo, a maggio non avremo risolto tutti i problemi, nemmeno se fossimo Maga Magò ci riusciremmo, ma stiamo affrontandoli con grande determinazione, a 360 gradi. Abbiamo avviato una grande sfida, che è anche culturale, e a maggio avremo dato almeno un segnale forte di inversione di tendenza”. Ma, riconosce Cancellieri, “dobbiamo ringraziare l’Europa che ci ha fatto sbattere la faccia - noi che siamo il paese di Cesare Beccaria - di fronte al problema, e ci riporta alla nostra coscienza”. “Cos’è Maga Magò? Forse l’amnistia?”, scherza Marco Ruotolo, docente di Diritto penitenziario di Roma Tre. Ma sui provvedimenti di clemenza Cancellieri tace. Malgrado anche ieri Schifani sia tornato a insistere sul punto ritenendo “inammissibile che in uno Stato di diritto si parli di leggi contra personam”, per la ministra l’amnistia è proprio l’ultima ratio. Giustizia: Ucpi; ddl su misure cautelari “timidi”, no custodia cautelare come anticipo pena Ansa, 17 ottobre 2013 La custodia cautelare continua a essere utilizzata, non come extrema ratio, ma “alla stregua di una incostituzionale anticipazione di pena”, il ddl Ferranti è “un punto di partenza, ma rischia di essere insufficiente”. Questo il parere espresso dalla delegazione dell’Unione Camere Penali, guidata dal presidente Valerio Spigarelli, in un’audizione alla Commissione Giustizia della Camera, che ha in esame due disegni di legge, uno della presidente della stessa Commissione, Donatella Ferranti, e uno a prima firma del deputato Pd Sandro Gozi, sulla riforma della custodia cautelare e della disciplina dei reati concernenti gli stupefacenti. Le Camere penali hanno chiesto di modificare quelle norme che “permettono un giudizio troppo discrezionale riguardo il pericolo di reiterazione del reato, poiché attraverso questa ampia discrezionalità si è prodotta la distorsione dell’istituto della custodia cautelare, trasformato in una anticipazione di pena”. E per far questo occorre “incidere sulle norme di riferimento riservando la custodia cautelare in carcere solo a ipotesi eccezionali di rilevante pericolosità sociale. Viceversa, bisogna rafforzare - ha aggiunto Spigarelli - le misure interdittive e i poteri di controllo nel caso di privazione della libertà”. Il ddl Ferranti, dunque a suo parere, deve essere ampliato, in base alla proposte della commissione ministeriale presieduta dal presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio. La politica - ha concluso il leader dei penalisti - però “deve avere il coraggio di affrontare la questione senza inseguire le paure e le insicurezze che serpeggiano nella società su questo tema” e svolgere quella funzione di “orientamento della pubblica opinione che compete alla funzione legislativa”. I ddl inerenti le misure cautelari personali non sono sufficienti per affrontare il problema. Ne è convinto il presidente dell’Unione nazionale delle camere penali, Valerio Spigarelli, ascoltato oggi in audizione dalla commissione Giustizia della Camera. “Ancora è troppo poco - ha detto - vanno ritoccate non solo queste norme, ma tutto il sottosistema delle misure cautelari. È ottima l’idea di rinforzare le misure interdittive, ma questo non è sufficiente”. Secondo i penalisti, “la custodia cautelare continua ad essere utilizzata non come extrema ratio ma alla stregua di una incostituzionale anticipazione della pena”. Dunque, ha ribadito Spigarelli, “occorre incidere sulle norme di riferimento riservando la custodia cautelare in carcere solo a ipotesi eccezionali di rilevante pericolosità sociale”. La politica, concludono i penalisti, “deve avere il coraggio di affrontare la questione senza inseguire le paure e le insicurezze che su questo tema serpeggiano nella società”. Giustizia: il Magistrato; l’attuale situazione delle carceri limita possibilità di riabilitazione di Nadia Scappini Il Trentino, 17 ottobre 2013 L’Associazione Antonio Rosmini e la Società Dante Alighieri hanno aperto la stagione degli incontri culturali aperti alla cittadinanza con un incontro dedicato al tema della legalità dal titolo “Sicurezza sociale, repressione penale e carcere” a cura di Enrico Borrelli, giudice presso il tribunale di Trento dal 2009. Al dottor Borrelli chiediamo un approfondimento sui temi oggetto della sua conversazione, indubbiamente di scottante attualità sia nella realtà sociale sia nel dibattito politico e dei media, e un chiarimento sulle funzioni del magistrato. Spesso, parlando con le persone comuni, si coglie un’idea confusa tra le diverse funzioni del magistrato, forse anche a causa della nostra confidenza con i telefilm americani che, ovviamente, riproducono una situazione diversa dalla nostra. In breve qual è il ruolo del pubblico ministero e quale quello del giudice? Il nostro sistema prevede le due diverse funzioni; il pubblico ministero è destinato a esercitare l’azione penale, a coordinare le indagini, a sostenere la pubblica accusa nei processi penali ed a svolgere funzioni sollecitatorie e di controllo in alcune categorie di processi civili; il giudice è destinato a condurre i processi e ad emettere decisioni, provvisorie o definitive. Ogni PM e ogni giudice è anche un magistrato, che è una figura unitaria (con le caratteristiche di indipendenza, autonomia, terzietà, imparzialità), con identici e comuni sistemi di reclutamento e formazione. Queste garanzie, riconosciute dalla Costituzione, sono indefettibili. Parlare di sicurezza sociale che cosa implica in una società in costante e rapida trasformazione come la nostra investita in questi giorni, purtroppo, anche dalla tragedia dei migranti a Lampedusa? La “insicurezza” percepita può divergere notevolmente da quella reale, essendo influenzata da fattori culturali, ambientali e mediatici. Anche l’individuazione delle cause dell’insicurezza sconta valutazioni soggettive. Un rapporto proporzionale tra migranti e criminalità è smentito da più dati statistici: 1) le aree a maggiore tensione criminale nel Paese sono anche quelle nelle quali il numero dei migranti è minore; 2) nell’ultimo ventennio, nel quale il numero dei migranti è costantemente aumentato, il numero dei reati è costantemente diminuito. È noto che su questi temi esistono sensibilità e posizioni differenziate; a mio parere, sul tema delle migrazioni la questione dell’ordine pubblico non può essere né prevalente né esaustiva. La prospettiva è l’effettiva realizzazione dell’arricchimento culturale, dell’integrazione consapevole, dell’accoglienza e dell’attuazione di un’esistenza libera e dignitosa per tutti. Resta compito (esclusivo) dello Stato, nelle sue articolazioni, l’attuazione di ogni strumento democratico di prevenzione, accertamento e repressione dei fatti di reato. Repressione penale e riabilitazione sociale dei carcerati. Possono le due cose andare d’accordo? Nel nostro sistema costituzionale la reazione dell’ordinamento alla commissione dei reati ha come aspirazione quella di tendere alla rieducazione del condannato e di favorire la riabilitazione sociale. La rieducazione sconta i limiti della struttura carceraria; la riabilitazione, a sua volta, pone questioni culturali della società di riferimento. In quest’ottica, la logica carceraria, probabilmente inevitabile per determinati reati, può essere superata (in una prospettiva di leggi future) da tipi di pena più efficaci e diversificate in virtù del reato compiuto. Sappiamo delle condizioni quantomeno difficili, in alcuni casi disumane, in cui sono costretti i detenuti in alcune carceri italiane. Autorevoli interventi per segnalare la cosa sono stati fatti da più parti. Come vede Lei la situazione e quali le prospettive e le soluzioni auspicabili? Il magistrato applica la legge tempo per tempo vigente; esistono fatti che, in tempi diversi, per il legislatore divengono (o cessano di essere) meritevoli del carcere. Oggi, per tipologia di reato, la maggior parte dei detenuti è reclusa per piccoli reati contro il patrimonio e per piccolo spaccio di droga; per caratteristiche, la maggior parte è costituita da persone senza fissa dimora, non in grado di poter accedere a misure alternative, per esempio non avendo né un domicilio né la possibilità di trovare lavoro. Una delle vie di riforma è costituita dalla limitazione del carcere a reati di effettivo allarme sociale e dall’inserimento nel nostro sistema di misure nuove diverse da quella carceraria ma egualmente idonee. Un’altra via, all’interno della struttura carceraria, dimostrata da positive esperienze sul territorio nazionale, è costituita dall’accesso al lavoro e dalla formazione scolastica e professionale, che per ragioni strutturali ed economiche sono di fatto limitati ad un numero ridotto di detenuti. Giustizia: i ministri a Berlusconi; ci sono margini perché Napolitano conceda la grazia di Mario Ajello Il Messaggero, 17 ottobre 2013 La rottura è fatta. Rottura tra Berlusconi e Alfano. Rottura tra Forza Italia che bombarda il governo e Pdl che lo protegge dalle ire del Cavaliere. Il quale ieri a Palazzo Grazioli, nella sua girandola di incontri con Fitto, Verdini, Bondi e altri, è sbottato così: “Questa legge di stabilità è una manovrina da governicchio balneare democristiano”. E però, oggi a pranzo, vedrà Alfano - con cui l’altra notte non è riuscito a trovare un accordo: “Se state con i miei nemici, non posso più considerarvi mie amici”, “Ma Silvio, non è così” - e i quattro ministri alfaniani per convincerli sulla sua linea. E per dire loro: “Un minuto dopo il berlusconicidio faremo cadere l’esecutivo. State con me o contro di me?”. Il problema è che i numeri per fare la crisi, nonostante le rassicurazioni di Verdini, potrebbero non esserci nella tasca del Cavaliere. Il quale deve anche considerare, a suo svantaggio, la determinazione con cui ministri e big come Quagliane) lo, Cicchino, Giovanardi, Sacconi e Formigoni sono pronti a staccarsi in caso di insistenza berlusconiana sulla linea dura. E anche un altro ministro di peso, Lupi, sarebbe della partita e in ogni caso ieri era irritatissimo e ragionava così: “Ma come? Noi mandiamo avanti il governo per il bene del Paese e anche del Pdl, e dal nostro partito ci sparano addosso? Serve un chiarimento immediato”. Oggi ci sarà, nel pranzo a Palazzo Grazioli. Prima di recarsi stamane dal Cavaliere, Alfano ha ospitato ieri sera a Palazzo Chigi il gruppo dei senatori “diversamente berlusconiani”, alcuni dei quali premono per lo formare subito un gruppo autonomo e la conta è in corso, ma in questa situazione logoratissima e forse irrecuperabile uno spiraglio dì mediazione sì è faticosamente aperto ieri. E riguarda il Quirinale. Renato Brunetta si è recato sul Colle. E ne è sceso portando un barlume di speranza: “Ci sono margini perché Napolitano faccia un atto di clemenza”. Ovvero: se Berlusconi dopo il verdetto dì Palazzo Madama non farà cadere il governo, un atto di clemenza presidenziale potrebbe partire dal Quirinale e atterrare nella valle di lacrime e angoscia che è diventata la reggia berlusconiana, sia quella di Roma sia quella di Arcore. Questa ultima carta di “disperata mediazione”, come la definiscono tutti, Alfano e i ministri se la giocano oggi nel pranzo con il Cavaliere. Il quale resta scettico pur cercando di non volersi negare la speranza e insomma: “Il Quirinale mi ha già deluso troppe volte. E poi, io sono innocente: che cosa mi dovrei far perdonare? Sono solo una vittima a cui bisognerebbe chiedere scusa”. Ammesso che sia davvero spendibile, la carta clemenza è circondata da scetticismo e probabilmente destinata al nulla. In questa situazione di scontro totale - così negativamente descritta da Renata Polverini, lealista: “I rinvii sulla decadenza stanno servendo ad allungare il brodo, e in questa maniera gli alfaniani restano saldi al governo e alla guida del partito” - c’è la colomba Giovanardi che assicura: “Il Pdl non c’è più. Anzi, ce ne sono già due”. Quello di Verdini sta nei numeri: “Quando si tratterà di tradire in aula Berlusconi, non più di dieci dei 23 alfaniani del Senato avranno il coraggio da sicari”. Berlusconi ieri ha pranzato con Alfano e con Mario Mauro, ministro della Difesa e ex berlusconiano molto stimato dal Cavaliere ma anche in ottimi rapporti con il Quirinale. Sul piatto, le (esilissime) speranze relative alla clemenza. Ma anche il tentativo, da parte di Alfano, di convincere il Cavaliere con l’aiuto del collega di Scelta civica che, smorzando la furia berlusconiana e favorendo la nascita del Ppe italiano con dentro tutti i moderati, “la sinistra si potrà battere quando sarà il momento”. Ma per Silvio, il momento è ora. Giustizia: Tribunale di sorveglianza respinge richiesta revoca 41-bis a Provenzano Agi, 17 ottobre 2013 Il Tribunale di sorveglianza di Roma ha ritenuto inammissibile il ricorso presentato dai legali del capomafia corleonese Bernardo Provenzano per la revoca del regime carcerario del 41 bis in considerazione delle precarie condizioni di salute del boss. Nell’udienza di giovedì scorso dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Roma, competente su tutto il territorio nazionale sulle istanze di revoca del 41 bis, la Direzione nazionale antimafia non si era opposta al procedimento di revoca del regime di carcere duro nei confronti di Bernardo Provenzano. Il collegio, presieduto da Alberto Bellet (relatore Marcella Trovato) ha però deciso per l’inammissibilità del ricorso. Il procuratore generale aveva chiesto una nuova perizia che accerti la “incapacità relativa” o “l’incapacità assoluta” di Provenzano a presenziare ai processi. In subordine il pg ha chiesto la revoca del 41 bis, così come chiesto dai legali di Provenzano, Rosalba Di Gregorio e Franco Marasà. La Direzione nazionale antimafia, con il pm Gianfranco Donadio, aveva aderito alle proposte formulate dal pg. Il mese scorso il Tribunale di sorveglianza di Bologna aveva rigettato l’istanza di sospensione della pena ritenendo Provenzano in grado di esercitare il proprio ruolo di capo di Cosa nostra, riuscendo a far pervenire ordini e disposizioni all’esterno. Il Gup di Palermo, Piergiorgio Morosini, invece, mercoledì aveva ritenuto Provenzano incapace di presenziare consapevolmente al processo per la trattativa Stato - mafia in cui è imputato. Il ricorso è stato ritenuto inammissibile perché agli atti non vi era prova che fosse stato richiesto un parere al ministero della Giustizia. Il Tribunale, dunque, non è entrato nel merito della richiesta ma ha ritenuto di non poterla vagliare in assenza di una presa di posizione del ministero. Cancellieri: su Provenzano decido dopo referti medici “Sto aspettando i referti medici per prendere una decisione seria, con molta attenzione”. Così il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, risponde ai cronisti, a margine di un’iniziativa del ministero, in merito alla richiesta di revoca del 41 bis, avanzata dai legali del boss Bernardo Provenzano. “Seguo molto la situazione riguardante la salute” di Provenzano, ha aggiunto il guardasigilli. Il boss di Cosa nostra, gravemente malato, è detenuto nel carcere di Parma, dove, però spesso deve essere ricoverato per brevi periodi in ospedale. Legale Provenzano: decisione tribunale sorveglianza si commenta da sola “Per la prima volta mi rifiuto di commentare un provvedimento come questo. Il provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Roma si commenta da solo”. Così l’avvocato Rosalba Digregorio, l’avvocato del capomafia Bernardo Provenzano, commenta con l’Adnkronos la decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma che ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dai legali del boss che chiedevano la revoca del 41 bis per il capomafia per motivi di salute. Secondo i giudici il potere di revoca del 41 biso spetta al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. Giustizia: tortura di stato, il modello italiano di Francesca Morese Il Manifesto, 17 ottobre 2013 Assolto dal reato di calunnia l’ex brigatista Enrico Triaca, condannato nel 1978. Assolto perché il fatto non sussiste e revoca della condanna per calunnia. Si è concluso così ieri a Perugia il processo di revisione sollecitato dai difensori dell’ex brigatista Enrico Triaca, gli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo. La corte ha anche deciso la pubblicazione della sentenza su la Repubblica. Triaca, “il tipografo romano delle Brigate rosse”, venne arrestato il 17 maggio del ‘78 nel corso delle indagini sul sequestro Moro. In aula dichiarò di essere stato picchiato e torturato con la pratica del water boarding da una squadra speciale dell’Antiterrorismo. Fu condannato a un anno e quattro mesi di carcere e a una multa di 150.000 lire per calunnia. Trentacinque anni dopo, il suo torturatore ha però deciso di parlare, confermando il suo racconto al giornalista Matteo Indice, del Secolo XIX e poi al responsabile del TG3 Lazio, Nicola Rao, che ne ha tratto il libro Colpo al cuore, dai pentiti ai “metodi speciali”: come lo stato uccise le Br. (Sperling & Kupfer). È pugliese come il suo prigioniero di allora, ha quasi 80 anni e si chiama Nicola Ciocia, ex funzionario dell’Ucigos, al secolo “Professor De Tormentis”: un soprannome ricevuto dal suo capo Umberto Improta e rivendicato con orgoglio durante un’intervista rilasciata al giornalista del Corriere Fulvio Buffi. Ciocia era a capo di una squadretta creata dopo il sequestro Moro (ma già entrata in azione nel ‘75) e rimasta attiva negli anni seguenti: fino a tutto il 1982, il “periodo sudamericano” delle torture ai brigatisti, seguito al sequestro del generale Usa James Lee Dozier. “Sì, sono anch’io responsabile di quelle torture”, ha confessato l’ex commissario Digos Salvatore Genova, condannato a brevi pene insieme ad altri quattro per aver torturato il brigatista Cesare Di Lenardo: con l’acqua e sale ma anche con gli elettrodi, come la picaña in Cile e in Argentina. Genova, presente alle sedute di De Tormentis, ne ha raccolto per primo le confidenze e ieri ha deposto al processo. “La squadretta - dice al manifesto l’avvocato Romeo - agiva per conto degli alti vertici della polizia. Lo racconta anche Giuliano Amato nel libro Grandi illusioni, conversando sull’Italia, edito dal Mulino, che abbiamo portato come prova. Rognoni negò l’esistenza delle torture durante un dibattito in parlamento, nell’82, ma i vertici delle forze dell’ordine e anche un ristretto numero di magistrati sapevano”. La Corte - aggiunge il legale - “ha trasmesso gli atti alla Procura perché proceda contro Ciocia. Ma in Italia non c’è il reato di tortura e i fatti sono stati prescritti”. “Rompiamo il silenzio, la tortura è di stato” diceva però lo striscione fuori dall’aula, dove un gruppo di ragazzi ha svolto un presidio. Giustizia: giornalisti condannati al carcere, il Parlamento è fermo e l’Europa condanna di Ignazio Ingrao Panorama, 17 ottobre 2013 Segnali contraddittori per la libertà di stampa. Perché basta scrivere su un giornale che un magistrato ha un “ego ipertrofico” per essere condannati: si sarebbe esercitato il diritto di critica “oltre i limiti della continenza”. È scritto così nelle motivazioni, appena depositate, con le quali il Tribunale di Milano in luglio aveva condannato per diffamazione Maurizio Tortorella a causa di un articolo pubblicato su Panorama. L’articolo esprimeva critiche a un libro scritto da un pubblico ministero romano, dove si leggeva che la Fininvest aveva avuto legami con la mafia. L’accusa contro Tortorella aveva chiesto una pena blanda: 2 mila euro di multa sia per lui sia per il direttore di Panorama Giorgio Mule, per omesso controllo. Colpisce la sproporzione della pena decisa dal tribunale: a Tortorella 800 euro di multa (meno di metà della richiesta), a Mule 8 mesi di carcere senza la condizionale. A quest’ultimo non sono state concesse le attenuanti, a causa di precedenti condanne. Così, per un articolo che criticava un libro, Mule rischia 8 mesi di carcere più 8 (tutti senza condizionale) relativi a un’altra condanna. In tutto 1 anno e 4 mesi di prigione. Due anni di galera sono invece quelli che intanto ha iniziato a scontare il giornalista calabrese Francesco Gangemi (80 anni il prossimo settembre), condannato per diffamazione e recluso per alcuni giorni. Il tribunale di sorveglianza si è accorto dell’assurdità di tenere in prigione un anziano, per di più gravemente malato, e gli ha concesso gli arresti domiciliari. Troppo tardi: Gangemi era già caduto in cella ed è tornato a casa in “evidente stato di shock”, racconta a Panorama il figlio Maurizio. Sembrano storie che appartengono ad altre epoche e ad altri regimi, invece sono il presente dell’Italia e rischiano ancora di ripetersi. In questo sembrano restare inascoltati i segnali positivi che invece arrivano attraverso i duri richiami della Corte europea dei diritti dell’uomo, che in questo stesso mese di ottobre ha già sanzionato due volte l’Italia, risarcendo prima Maurizio Belpietro e poi Antonio Ricci di Striscia la notizia che erano stati condannati al carcere per il loro lavoro giornalistico. Da tre mesi, in Parlamento, i partiti avrebbero anche trovato un accordo per modificare la normativa sulla diffamazione: abolire il carcere, rendere più efficace la rettifica, sanzionare la querela temeraria. La discussione del progetto di legge è di nuovo in calendario questa settimana alla Camera. Peccato, però, che prima si dovrà discutere di finanziamento ai partiti e Imu. Tanto basta per rinviare ancora la votazione su una legge praticamente già pronta, che l’Europa da anni ci chiede a gran voce. Lettere: io, ex detenuto, vi racconto che cosa ho visto in carcere Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2013 Gentile Galimberti, sono un ex detenuto. Non ho vergogna a dirlo perché, dopo 7 mesi di detenzione, è stata riconosciuta la mia piena innocenza e sono stato scarcerato. Quel “soggiorno” mi ha aperto gli occhi. Non posso che sottoscrivere le cose che ha detto il presidente Napolitano, specialmente sul sovraffollamento delle prigioni e sulle condizioni di detenzione, non rispettose della dignità umana. Vorrei dire, a proposito di quel che ho visto, che in teoria la pena dovrebbe essere non solo punitiva ma portare alla riabilitazione, mentre la situazione è tale che chi è stato dentro ne esce, se ne esce, solo con un ribrezzo del sistema e magari con una voglia di vendicarsi che è il contrario della riabilitazione. Se c’è sovraffollamento, perché non si costruiscono più prigioni? Lettera firmata Risponde Fabrizio Galimberti Caro lettore, innanzitutto le vorrei esprimere lamia solidarietà per la brutta esperienza in cui è incappato. Nel merito, bene ha fatto, come lei dice, il presidente Napolitano a tuonare contro ruminante situazione delle carceri italiane. Il messaggio di Napolitano è stato però volto da ognuno a proprio uso e consumo, letto volta a volta come critica al sistema giudiziario (che fa un uso troppo disinvolto della carcerazione preventiva) o come una via surrettizia di “aiutare” Berlusconi Napolitano poneva un problema vero, e la risposta a questo problema deve basarsi su una analisi dei fatti che troppo spesso manca nel dibattito, dove invece si preferisce fare processi alle intenzioni o teorizzare complotti. Se le carceri sono troppo affollate ci sono due soluzioni. Mandare a casa un po’ di detenuti oppure costruire più carceri. Naturalmente, le due soluzioni sono molto diverse, nel senso che la prima può risolvere il problema in tempi brevi, mentre la seconda abbisogna di tempi lunghi (o lunghissimi, come ci ricordano i “piani di spesa carcerari” del passato, mai realizzati). Per scegliere fra le due soluzioni bisogna prima di tutto guardare ai fatti: nella fattispecie, ai dati sul tasso di incarcerazione (detenuti per 100 mi - la abitanti). Fortunatamente, non siamo ai livelli dell’America (716) e sfortunatamente non siamo ai livelli del Giappone (54). L’Europa è più vicina al Giappone che agli Usa: la media per i 27 Paesi della Ue è 139 e per 17 dell’Eurozona è 122. E l’Italia? 108. Come si vede, non c’è un’esagerata propensione da noi a metter gente in gattabuia. Se c’è un sovraffollamento, dunque, è perché non abbiamo speso abbastanza per costruire carceri. Quando si parla di ridurre la spesa pubblica si pensa alla spesa che c’è ma non ci dovrebbe essere. E ci si dimentica della spesa che non c’è ma ci dovrebbe essere. Lettere: la “civiltà” del carcere… e la tortura del regime di 41-bis di Pasquale De Feo (Detenuto nel carcere di Catanzaro) Una Città, 17 ottobre 2013 All’inizio dell’estate la ministra della giustizia Cancellieri ha dichiarato ai giornalisti che il sistema del carcere di Bollate bisogna esportarlo in tutta l’Europa. Ormai i proclami sono diventati patrimonio di tutti i politici; Berlusconi ha fatto scuola, come bravi studenti se ne sono un po’ tutti appropriati nell’emanare proclami e nel creare emergenze. Sono vent’anni che la Corte Europea emana sentenze contro la barbarie delle carceri italiane, nulla è stato fatto nel senso dell’umanità e del rispetto della Costituzione. Ancora oggi l’orrore regna sovrano nella maggioranza dei penitenziari della penisola, le baronie sono padrone delle Direzioni delle carceri che interpretano i regolamenti invece di applicarli. Su tutto ciò l’omertà impera come nelle sette segrete, con la complicità di tutti, nessuno escluso. L’arbitrio in assoluto è nel regime di tortura del 41 bis; la cosa più strana è che la ministra Cancellieri ha puntualizzato che la tortura del 41 bis non si tocca. Lei vorrebbe esportare la civiltà del carcere di Bollate (Milano) in tutta Europa, qualcuno dovrebbe dirle che prima bisogna esportarlo su tutto il territorio nazionale, iniziando ad aprire il carcere di Laureana, l’unico che competeva con Bollate e che alcuni mesi fa è stato chiuso. Forse si vuole che in Calabria, o nel Meridione in generale, si rimanga sempre sporchi, brutti e cattivi. Il carcere di Bollate è riuscito a portare la recidiva al 10%. Neanche i norvegesi ci sono riusciti, che spendono gli stessi soldi dell’Italia, ma hanno solo 5.000 detenuti, e si sono fermati al 20%. A livello nazionale la recidiva è del 70%, con punte del 90% in molti luoghi del Meridione; ogni punto di percentuale di recidiva costa allo Stato 51 milioni di euro (forse oggi anche di più), se la recidiva venisse portata ai livelli di Bollate, sarebbe il 60% in meno, che tradotti in cifra sono oltre tre miliardi di euro, la metà del budget stanziato per la giustizia, che è all’incirca di sette miliardi di euro. Con i soldi risparmiati si potrebbe creare un sistema penitenziario tra i più avanzati del mondo, con il recuperare - rieducare - reinserire, che darebbe la possibilità di trasformare i detenuti in cittadini consapevoli e migliori di quando sono entrati; anche perché la maggioranza non sa cosa sia essere un cittadino. Il problema maggiore è il cambio della mentalità: fino a quando l’orientamento è la pena punitiva e la brutalità della repressione come controllo, l’ottusità genererà questo sistema barbarico. Se a costo zero si possono fare queste riforme e non vengono fatte, ci deve essere qualche motivo che lo impedisce. Credo che non venga fatto perché in questo marasma ci sguazzano e ci mangiano un po’ tutti, pertanto è interesse che tutto rimanga così. Per questo motivo Bollate è rimasto un carcere pilota da oltre 10 anni. La pena è solo punizione e afflizione. Bisognerebbe trasformarla in responsabilità e reinserimento con il lavoro e la cultura. Nessuno nasce delinquente, lo si diventa quando intorno a te c’è il deserto, né si può esserlo per sempre, sarebbe da criminali pensarlo. Se fossi nato a Parma, non credo mi sarei trovato in carcere e con l’ergastolo, perché c’è un’Italia, quella del Nord, in cui lo Stato concede tutte le opportunità, e un’Italia colonia del Sud dove le opportunità si possono avere solo emigrando. In caso contrario, le scelte si riducono al lumicino e la strada più facile per raggiungere il benessere diventa usare le scorciatoie. Fino a quando nel Meridione l’unica industria che si sviluppa e non conosce flessioni è quella della repressione, non cambierà mai niente e, di generazione in generazione, migliaia di ragazzi meridionali alimenteranno il tritacarne dell’apparato industriale della repressione. D’altronde le leggi repressive sono state emanate per il Meridione e applicate per i meridionali. Questo si evince dai numeri: nel regime di tortura del 41 bis sono al 100% meridionali; il 90% dei reclusi italiani sono meridionali; gli ergastolani ostativi sono al 100% meridionali. Pertanto, questo mastodontico apparato della repressione è usato al 90% contro il Meridione e per i meridionali. Credo che se tutti questi miliardi di euro usati per la repressione fossero adoperati per creare infrastrutture e un tessuto economico, la devianza sarebbe ridotta a livelli fisiologici. Non si vuole questo, perché se anche l’Unione europea con una commissione ha stabilito che l’Italia è uno dei Paesi più sicuri d’Europa e che in questo momento ha il più basso indice di reati della sua storia, i mestieranti della paura danno fiato alle trombe per infondere insicurezza nella gente, in modo da poterli indirizzare anche politicamente. Purtroppo queste cose le ho capite tardi, dopo avere trascorso oltre trent’anni in carcere. Ma se un giorno avrò la possibilità di uscire, non sarò più lo strumento di questo sistema criminale che ha ridotto lo Stato a una congrega del malaffare, e indirizzato tutte le frustrazioni sulle vittime designate dalla creazione di questo Paese: i meridionali. Noi meridionali non paghiamo solo il reato come succede nel resto del Paese, ma paghiamo in quanto meridionali, pertanto noi stessi siamo un reato. Il sistema culturale razzista di Cesare Lombroso ormai è una realtà codificata dalle leggi e metabolizzata dalla società. La nostra pena non finisce neanche allo scadere, ma continua anche dopo, con misure di sicurezza detentive e libere. Insomma, la nostra pena non ha mai fine. Anche per questo non è cambiato il codice penale di Mussolini, essendo più funzionale al potere per allargare la forbice della repressione, eppure si sta avvicinando al secolo, sono ottantacinque anni. Credo il più vecchio del mondo. L’Ordinamento Penitenziario fu emanato nel 1975, costretti dalle rivolte quotidiane nelle carceri, con tanti morti. Ma dopo tanti anni dalla fine della guerra tutti i codici sarebbero dovuti essere conformati alla Costituzione emanata nel 1948, invece ancora oggi le leggi fasciste imperano in tanti settori. Se le leggi sono di una dittatura, possiamo chiamare democrazia il sistema del Paese? In questi giorni non fanno altro che parlare di disegno di legge presentato per alleggerire il sovraffollamento nelle carceri, costretti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma, nonostante tutto, è un guscio vuoto. Come ha detto un Presidente di un tribunale di Sorveglianza: “è una truffa”. Queste parole bastano a comprendere la natura del provvedimento. Non c’è bisogno di emanare nuove leggi, basta abrogare le leggi delle perenni emergenze, che soffocano non solo la giustizia, ma anche le libertà civili. La domanda sorge spontanea: perché non vogliono riportare la civiltà nella giustizia? Ormai siamo diventati lo zimbello del mondo occidentale, retrocessi dietro i Paesi africani. Personalmente penso che la politica sia ostaggio della dittatura della magistratura. Principalmente delle procure che dettano legge e condizionano la vita del Paese. Fino a quando non viene superato questo scoglio nulla cambierà. Lettere: affidamento ai “servizi sociali” o al “servizio sociale”? di Maria Chiara Sicari Ristretti Orizzonti, 17 ottobre 2013 Ultimamente si sente parlare nei telegiornali e si legge sui giornali online, la misura penale che gli avvocati del cavaliere Silvio Berlusconi vogliono richiedere per il loro assistito. Si tratta dell’affidamento in prova al servizio sociale e non “ai servizi sociali” come erroneamente detto. L’ufficio sociale in questione è uno solo: UEPE Ufficio Esecuzione Penale Esterna. Purtroppo non sono solo avvocati ad sbagliare la dicitura, ma anche Magistrati e Giudici. La forma “servizi sociali” fa intendere lavori socialmente utili o lavori umili perché “sociali”, infatti, sui social network sono uscite numerose immagini cui compare il volto del cavaliere che pulisce strade, che trasporta cibo da distribuire agli anziani, che lava i vetri, che assiste gli anziani in una clinica, etc. con scritto: affidato in prova ai servizi sociali; un’altra vignetta, ad esempio, raffigura un’aula di giustizia in cui i giudici sghignazzando tra loro affermano: “ma ve lo immaginate voi Silvio Berlusconi affidato ai servizi sociali per un lavoro utile?”. Non voglio entrare nel merito della strategia degli avvocati dell’ex premier né dell’ironia delle vignette elencate, ma sottolineare la realtà e l’importanza della misura in questione: la sua finalità è quella del reinserimento socio-lavorativo del condannato che ha un medio o breve termine di fine pena. Con il termine “servizi sociali” si intendono i servizi territoriali mentre il servizio a cui viene demandata la gestione della misura è quello del Ministero della Giustizia. L’affidamento in prova è la migliore misura penale esterna al carcere che possiede il nostro Ordinamento Penitenziario (art. 47). Nonostante le gravissime carenze dell’organico penitenziario dell’Uepe, viene riscontrato che circa l’80% dei detenuti torna a delinquere se non usufruisce di misure alternative (come l’affidamento in prova); nel caso in cui il condannato ne usufruisca, il tasso di recidiva è circa del 20%. In confronto ad altre misure alternative (come ad esempio la detenzione domiciliare), l’affidamento in prova al servizio sociale è la più importante perché si svolge direttamente sul territorio con professionisti che si occupano di aiuto e controllo: gli assistenti sociali penitenziari. Si ribadisce che la misura dell’affidamento in prova è molto importante, è la migliore che abbiamo e non prevede esclusivamente lavori di “pubblica utilità” o umili verso categorie svantaggiate, ma mira ad aiutare la persona in esecuzione penale priva di lavoro e rete sociale ad avere un’opportunità per non tornare a delinquere. Lettere: così non è possibile rieducare i detenuti di Roberto Segre (Ex direttore della Casa di Reclusione di Saluzzo) La Repubblica, 17 ottobre 2013 Sono stato nella mia vita lavorativa anche direttore di un carcere e vorrei unire la mia voce al dibattito in corso per dare un parere “tecnico” sul discusso tema dell’ amnistia. Premesso che anche durante il mio periodo di servizio si poneva il problema del sovraffollamento delle carceri, a mio avviso è attualmente urgente concedere un’ amnistia (non un indulto). Se si tiene presente il dettato costituzionale che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, il Parlamento potrà modulare l’ amnistia per ragioni di politica criminale e di allarme sociale da valutare attentamente. In ogni caso, è bene che voti la legge al più presto, consentendo così possibilità effettive di reinserimento sociale di detenuti autori di reati meno gravi e di imputati in attesa di giudizio, e, parallelamente, un trattamento appropriato e condizioni di detenzione conformi al rispetto dei diritti fondamentali della popolazione carceraria residua. Lettere: carceri tra dignità e giustizia di don Marco Pozza (Cappellano della Casa Circondariale di Padova) Corriere delle Alpi, 17 ottobre 2013 Accade come nel gioco del ping-pong all’oratorio. Quando la partitella sembra mettersi male, c’è sempre uno dei due giocatori che estrae la vecchia soluzione: “Ancora due tre palleggi di riscaldamento, poi iniziamo a giocare sul serio”. In realtà la partita era già iniziata, ma siccome s’era messa male ben venga la soluzione più antisportiva: “Facciamo finta non fossimo in partita”. Un po’ come quando torna alla ribalta l’accoppiata amnistia - indulto: tutti sanno che tale gesto di clemenza non risolve nulla, eppure lo si gioca sempre volentieri per cercare di fare finta che la partita vera - quella che mette in palio il grado di civiltà di uno stato - debba ancora iniziare. È l’aria che si respira in questi giorni, dentro e fuori le mura delle patrie galere: chi è dentro la decanta come fosse una litania che procura la salvezza a basso prezzo, chi è fuori la taccia come una delle bestemmie più ataviche. In realtà nessuna delle due voci sembra poter arbitrare imparzialmente la partita di civiltà: chi è dentro perché spesso dimentica che la misericordia non cancella la giustizia, chi è fuori perché sovente ama scordarsi che al condannato è sospesa la libertà ma non la dignità. Stavolta, però, l’Europa si è stancata di vedere sempre e solo gli “allenamenti”: da maggio 2014 non si scherza più. In realtà è da dodici anni che l’Italia è sorvegliata speciale (nonché pluricondannata) a causa dei suoi trattamenti disumani: non basta possedere una giurisdizione sublime, occorre farla propria nelle scelte del quotidiano. Che senso ha, dunque, da parte dello Stato continuare a parlare di “rieducazione” quando lui per primo è recidivo nelle sue inadempienze? La gestione di un’amnistia è un esame per l’intera società, non solo per la parte politica: se è vero che la concessione della clemenza spetta al Parlamento, è alla società intera che spetta la parte più difficile, ovverosia fare in modo che tali gesti di clemenza non alimentino ulteriormente il senso di insicurezza della popolazione. Ecco, dunque, l’inaffidabilità (che non è sinonimo di inutilità) di tali proposte: senza un’adeguata preparazione - che significa una rieducazione di entrambe le parti - rischia di essere l’ennesimo “compitino per casa” che l’Italia fa per non prendere una nota sul registro dalla maestra Europa. Con la conseguenza che fra tot anni si ripartirà daccapo. Forse tra le due - amnistia e indulto - anche stavolta c’è la terza che gode: il lavoro. È stata la parola chiave della visita del ministro Cancellieri: l’ha toccato con le sue mani, l’ha visto con i suoi occhi, l’ha sentito con le sue orecchie. Fare lavorare un detenuto - dentro e fuori il carcere - è forse la soluzione che riaccende la dignità di chi è dentro senza mettere a repentaglio la sicurezza di chi è fuori. Anche qui, però, la società intera è chiamata a mettersi in gioco, perché il modo di ragionare che permea una comunità è la discriminante nella realizzazione o meno di un’idea. Quando Jeff Bezos iniziò a immaginare l’avventura di Amazon (il più grande sito di e - commerce mondiale), si trovava nella città di New York. Riflettendo capì che per renderla possibile doveva spostarsi dall’altra parte dell’America: fu in un garage nei sobborghi di Seattle, infatti, che diede vita alla sua creatura. Bezos intuì ciò che era necessario per avere le condizioni giuste per partire: un modo di ragionare diverso da quello che respirava a New York. Non basta dunque nemmeno il lavoro: è necessario un sussulto di umanità da entrambe le parti per favorire un modo di ragionare che permetta di salvaguardare la giustizia senza umiliare l’uomo. Impedendo all’Europa di tirarci le orecchie: quello era il tempo dell’asilo. Sardegna: Sdr, ancora no a trasferimento in una struttura penitenziaria dell’isola di Mario Trudu Ristretti Orizzonti, 17 ottobre 2013 “Ancora un secco inappellabile rifiuto da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria al trasferimento in una struttura penitenziaria dell’isola di Mario Trudu. Un accanimento immotivato considerando che il Tribunale di Sorveglianza di Perugia aveva sottolineato in un’ordinanza che “la territorialità della pena sancita dalla legge sull’ordinamento penitenziario è un principio inderogabile”, invitando peraltro la Direzione Generale Detenuti e Trattamento ad “adottare ogni provvedimento amministrativo necessario a tutelare l’esigenza di regolare svolgimento di colloqui con i propri familiari rappresentata da Mario Trudu”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, evidenziando che “il Dap omette dal considerare che, oltre a Bad’e Carros, in Sardegna sono state inaugurate nuove strutture penitenziarie in grado di accogliere l’ergastolano di Arzana, in carcere dal 1979”. “È assurdo inoltre – sottolinea Caligaris – che il Dipartimento non abbia tenuto in alcuna considerazione le osservazioni con cui il legale avv. Pierandrea Setzu ha sostenuto l’infondatezza di qualunque ipotesi di collegamento di Trudu con la realtà di provenienza non solo per l’età e la lunghissima detenzione vissuta fuori dall’isola ma anche per l’impossibilità di avere contatti con le persone conosciute prima dell’arresto. Si ha quindi l’impressione che nei confronti dell’ergastolano sardo non valgano né i principi umanitari né quelli giurisprudenziali. Negare la vicinanza ai propri familiari, impossibilitati per motivi economici e di salute ad affrontare un lungo viaggio per raggiungerlo a Spoleto, significa – conclude la presidente di SdR – non rispettare l’art. 27 della Costituzione e trasformare la pena detentiva in una forma di tortura psicologica ingiustificabile”. Firenze: uscire senza avere qualcosa da fare, là fuori, vuol dire tornare dentro… di Maria Cristina Carratù La Repubblica, 17 ottobre 2013 C’è Ahmed, che dopo due anni poteva andare ai domiciliari, ma qui in Italia non ha nessuno ed è rimasto in carcere, c’è Marco, 58 anni, che deve scontare 6 anni ma già adesso non si fa illusioni, “uscire senza avere qualcosa da fare, là fuori, vuol dire tornare dentro”, e Duccio, fine pena il prossimo giugno, negativo anche lui: “Se non cambia tutto, amnistia e indulto non servono a niente”, si cominci piuttosto, protesta, dalla Bossi Fini, dalla Fini Giovanardi, dall’eccesso di custodia cautelare, “siamo pieni di immigrati che rubano per sopravvivere, di gente trovata con un po’ d’erba o in attesa di un giudizio che arriva dopo secoli”. “PER non parlare di chi entra per aver rubato un salamino alla Coop”. In tanti anni Duccio si è fatto una cultura giuridica, ma ha anche imparato a cantare, e insieme ad altri compagni di sbarre fa parte dell’Orckestra Ristretta di Sollicciano, diretta da Massimo Altomare e oggi protagonista, con un progetto dell’Istituto di ricerca musicale Tempo Reale, di un piccolo open day, tour guidato aperto a tutti (ma i gruppi sono minimi e super sorvegliati) dentro il carcere fiorentino. Un percorso a tappe musicale in alcune zone “sicure”, il teatro la biblioteca la cappella il Giardino degli incontri, scandito dai vocalizzi di Duccio e Ahmed, dalla recitazione di Marco, dalle letture di Agnese, dalle percussioni di Kamel, e dalle voci e dagli strumenti di Stefano e Samir, Vincenzo e Sorin, Pasquale e Armando, Emanuele e Sebastian, i - pochi - “salvati” dalla musica in questo posto di perduti. Nato come carcere di massima sicurezza e diventato casa circondariale (con una impropria sezione penale di condannati per reati gravi), pensato con i “bracci” curvi perché i boss mafiosi, dalle celle, non potessero vedersi e che oggi rendono solo più difficile la sorveglianza dei mille (anziché 450) detenuti, all’80% stranieri, da parte di 600 (anziché 800) guardie carcerarie. “Siamo inversamente proporzionali” sorride amaro l’ispettore Giampaolo Ietro, un altro per niente convinto dell’ipotesi di provvedimenti di clemenza di cui la politica, si immagina, “parla soltanto per montare polemiche, senza curarsi della sostanza”, perché se lo facesse si accorgerebbe di che cosa si tratta: “Lo dico da poliziotto e da cittadino: non mandate nessuno fuori, finché fuori non c’è qualcuno che si occupa di loro”. Altrimenti, l’esperienza dell’indulto del 2006 lo dimostra: “Tempo sei mesi e ce li vedremo tornare quasi tutti, più i nuovi”. A parte il fatto che la clemenza riguarderebbe, al massimo, 200 persone, lasciandone dentro più del doppio del dovuto. In celle “tipo carro bestiame”, racconta Duccio, con tre persone dove c’è posto per una, sei dove ce n’è per tre. Si deve fare qualcosa? Si riducano i tempi dei processi e la carcerazione preventiva, si cambino le leggi riempi - carcere, si facciano case - famiglia per chi esce, si creino occasioni di lavoro, anche minime, si ricorra ai famosi braccialetti “che tanto quei tre - quattro usati in tutta Italia già costano un sacco di canone Gps”. E soprattutto si metta mano all’edilizia: carceri nuove, ristrutturazioni, ampliamenti. Come a Sollicciano: “Venisse la Corte Europea non si fermerebbe alla condanna, ci raderebbe al suolo”. Celle aperte, è stato raccomandato, o più spazio vitale, “ma qui servirebbero le mine”, visto che i costruttori, a suo tempo, risparmiarono su tutto, calcestruzzo, tondini, coibentazioni, e dopo appena trent’anni gli edifici sembra ne abbiano cento, piove da tutti i tetti, gli intonaci vengono giù, l’umidità corrode fondazioni e cemento armato. L’esempio di come in Italia prima di parlare di carcere bisognerebbe venire a vedere, toccare, annusare come si vive nelle celle. Come quelle da dove oggi, quando si accorgono degli ospiti nel Giardino delle rose, i rimasti dentro lanciano grida forsennate, “Amnistia! Indulto! Fuori, fuori!”, “Venite a vedere qui, non il giardino!”, mentre il panneggio impazza, mani e panni roteano sbattono e raccontano, col linguaggio muto del carcere, di esistenze non più umane, e le guardie si preoccupano, “gli animi si sono scaldati, con questi annunci di clemenza”. Perciò, al giro successivo Orkestra e ospiti sono tenuti al chiuso, “meglio non soffiare sul fuoco”. L’elenco di Duccio è preciso come un referto: “I materassi fanno schifo, i lenzuoli li cambiano ogni quindici giorni e tornano pieni di macchie perché i saponi costano, si cucina in cella con fornellini da campo e pentole che quando si rovescia l’olio bollente non c’è spazio per scappare, per fare la doccia nei bagni esterni c’è una sola guardia per 63 persone, la sera si sta al buio perché i lumi sui letti hanno lampadine fuori produzione, i pochi fortunati che hanno un lavoro interno guadagnano 280 euro per otto ore, e, se hanno condanne definitive, il 40% in meno”. Non si chieda a nessuno, qua dentro, di schierarsi con Napolitano o con Renzi, si traduca piuttosto: o si fa presto, o qualcosa esplode, e non sarà solo una percentuale elettorale. Lanciano (Ch): Uil-Pa; un carcere lurido e lercio… con il doppio dei detenuti previsti Il Centro, 17 ottobre 2013 “Un carcere inadeguato, lurido e lercio, a cui è assegnato il doppio dei detenuti che può contenere”. È la fotografia che il segretario nazionale della Uil Penitenziari, Eugenio Sarno, scatta del super carcere di Villa Stanazzo, al termine della visita insieme al segretario di Uil-Pa Abruzzo, Giuseppe Giancola, a quello provinciale, Ruggero Di Giovanni e al delegato di Lanciano, Vincenzo Del Boccio. “Ho trovato corridoi lerci e muffe nei bagni ristrutturati 18 mesi fa”, ha riferito il sindacalista, “c’è una condizione di povertà e scarsa dignità per chi vi risiede. Nelle celle, nate come singole, sono stipate tre persone e il terzo letto a 45 centimetri dal soffitto. La cosa grave non è solo la sporcizia, ma l’assenza di un direttore quotidianamente e che si dedichi alla gestione. Una relazione sarà mandata al ministro Severino”. Sarno ha reso noti anche i dati statistici: “Il carcere è nato per 180 detenuti ma ve ne sono 362, di cui 160 con pena definitiva. I detenuti ad alta sicurezza sono 141, 75 sono i collaboratori di giustizia. Dei 163 agenti di polizia penitenziaria previsti in organico ne sono presenti 145, tra cui 8 donne, ma operativi ce ne sono 100”. Il sindacalista ha ribadito la necessità dell’amnistia. “La visita delle carceri per magistrati e parlamentari dovrebbe essere obbligatoria una volta l’anno, così si renderebbero conto di che tipo di strutture indegne abbiamo”, ha detto Sarno, “con l’amnistia uscirebbero circa 15mila detenuti, per un risparmio di un miliardo che potrebbe essere reinvestito nel sistema giustizia”. Sulmona (Aq): Uil-Pa; un carcere efficiente, anche se non privo di problemi www.quiquotidiano.it, 17 ottobre 2013 Il segretario generale della Uil-Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, questa mattina si è recato in visita alla Casa di Reclusione di Sulmona. Sarno, accompagnato dal segretario regionale Giancola e dal segretario provinciale Nardella, ha visitato i luoghi di lavoro e gli ambienti detentivi del carcere di Via Lamaccio dove sono presenti 450 detenuti a fronte di una capienza massima di circa trecento posti. “Dopo l’esperienza di ieri - dichiara Mauro Nardella - dove Sarno ha preso atto di una realtà degradata e degradante come quella di Lanciano, oggi Sarno ha visitato una struttura efficiente anche se non priva di problemi. Come Lanciano, infatti, anche Sulmona è priva di un direttore titolare e questo impedisce quelle pianificazioni operative che sono necessarie per un buon andamento ed una gestione oculata. In ogni caso - prosegue Nardella - il segretario generale ha potuto prendere atto dell’inadeguatezza del parco automezzi a disposizione di una struttura che ospita 450 detenuti classificati ad alta sicurezza. L’attuale disponibilità di mezzi è pari ad un solo mezzo blindato (in prestito dal carcere di Melfi) e due furgoni non blindati. Ancora peggio per quanto concerne le autovetture deputate al trasporto di detenuti collaboratori di giustizia. In questo caso - rimarca Nardella - siamo praticamente a zero, stante che vi è una sola autovettura disponibile ed ogni servizio, per i collaboratori di prima fascia qui detenuti, ne prevedrebbe almeno tre”. Dopo aver preso atto dell’efficienza operativa della struttura, la delegazione Uil non ha potuto non riscontrare le difficoltà strutturali, soprattutto quelle relative all’impianto idrico e termico, oltre ai “carichi di lavoro aggiuntivi per un personale già oberato e sovraccaricato dalle varie incombenze giornaliere”. Per questo il sindacato non esclude nuove manifestazioni di protesta. “Di fatto l’Abruzzo è privo di un Provveditore regionale stante il silenzio assordante che proviene da Pescara - dichiara Eugenio Sarno. Più volte, sebbene sollecitato e chiamato in causa, il Provveditore non ha fornito alcuna risposta in relazione alle questioni che sono state poste alla sua attenzione. Dai buoni pasto della polizia penitenziaria di Lanciano alla rideterminazione degli organici regionali, tutto è in sospeso e tutto è privo di riscontro. Ciò - conclude il segretario generale - non può non riverberarsi negativamente sulle frontiere penitenziarie che sono già attraversate da tensioni e pulsioni a causa del grave sovrappopolamento. Così come in tema di gestione delle risorse economiche il Provveditore farebbe bene a chiarire alcune movimentazioni di dirigenti che si connotano per una non diligente gestione delle risorse economiche con un, a nostro avviso, ingiustificato aggravio dei costi complessivi. In questa situazione non posso non condividere e sostenere l’intenzione del livello regionale a riprendere un percorso di protesta e sensibilizzazione”. Livorno: “Frescobaldi per Gorgona”, dopo vino c’è il formaggio prodotto dai detenuti Ansa, 17 ottobre 2013 Nuovo traguardo per il progetto sociale “Frescobaldi per Gorgona” che oltre vedere la storica cantina produrre vino in collaborazione con i detenuti del carcere dell’isola toscana, adesso punta anche sui formaggi. La novità è stata presentata oggi all’Enoteca Pinchiorri di Firenze che è partner del progetto. Una produzione limitata, solo 200 forme prodotte con latte vaccino, ovino e di capra, resa possibile dal giornalista e profondo conoscitore delle tecniche casearie Alberto Marcomini, che ha insegnato ai detenuti come realizzare formaggio di qualità. Da ottobre i formaggi di Gorgona si troveranno sulle tavole di alcuni dei migliori ristoranti italiani, in primis l’Enoteca Pinchiorri che all’isola di Gorgona ha anche dedicato un piatto speciale. “Sono convinto - ha detto Lamberto Frescobaldi, presidente dell’omonima azienda toscana - che i formaggi di Gorgona potranno conquistare il cuore di molti consumatori così come il vino e far conoscere al mondo un’isola incontaminata e selvaggia, l’unica rimasta in Italia, un modello da imitare per il recupero e il reinserimento sociale dei detenuti”. Alla presentazione hanno partecipato, tra gli altri, anche l’assessore toscano all’agricoltura Gianni Salvadori, Giorgio Pinchiorri e Annie Feolde dell’Enoteca Pinchiorri, e il capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Giovanni Tamburino. A rendere ancora più unico il prodotto sarà il packaging ideato dallo Studio Doni e Associati che ha anche realizzato l’etichetta del vino Gorgona. Pinchiorri ha spiegato di ritenere “opportuna una maggiore attenzione da parte di tutti verso le condizioni delle carceri in Italia. Dobbiamo essere parte di un movimento per migliorare la qualità della vita nelle carceri ed è anche fondamentale la rieducazione dei carcerati attraverso l’impegno in un mestiere o in un’arte”. Secondo Tamburino “questo è un progetto importante per l’amministrazione penitenziaria perché dimostra che c’è attenzione da parte della società civile verso un compito dello Stato che da solo non può affrontare. L’idea che la rieducazione di un detenuto sia affidata esclusivamente alo Stato è un’idea povera”. Per l’assessore Salvadori “oggi riconosciamo un’esperienza sociale importante che unisce il lavoro agricolo con le problematiche del carcere in un ambiente stupendo. Sono iniziative da tutelare e valorizzare da far conoscere nel mondo perché è un esempio del civismo toscano. La famiglia Frescobaldi è poi un emblema della Toscana nel mondo”. Pavia: in arrivo 300 detenuti da San Vittore, ma mancano psichiatri, medici e infermieri La Provincia Pavese, 17 ottobre 2013 I 300 detenuti che andranno a riempire il nuovo padiglione del carcere di Torre del Gallo arriveranno da San Vittore a fine mese, se verrà rispettato l’ennesimo cambio di data. Ma non ci sono ancora i medici per l’infermeria del nuovo carcere, né gli psichiatri e gli infermieri necessari per la gestione dei 50 detenuti degli ex ospedali psichiatrici giudiziari, malati, che saranno ospitati a Torre del Gallo. Ancpra nessun bando, ancora nessuna previsione dell’organico necessario da parte dell’Azienda ospedaliera che, interpellata sull’argomento, si limita a dichiarare: “L’azienda assicurerà il personale medico e infermieristico sulla base dei nuovi ingressi. Tutto il necessario sarà garantito anche ai nuovi detenuti”. Nella progettazione del nuovo padiglione, non era stata prevista un’infermeria, che dunque è stata ricavata da una cella: nell’idea iniziale bastava quella del vecchio padiglione, e in caso di necessità il medico sarebbe dovuto andare da un padiglione all’altro, col carrello per le cure e i medicinali, dato che la maggior parte dei detenuti fa uso di farmaci antidepressivi e ansiolitici. I medici attualmente in servizio sono 6, gli infermieri 7, alcune se ne sono andate nelle ultime settimane mentre l’utenza supera le 500 unità e in due settimane potrebbe superare le 800 persone. Senza personale, la struttura nuova resterà comunque senza infermeria funzionante, per le assunzioni di medici e infermieri ci vorranno mesi. E al momento, dunque, resterà un unico medico di guardia nel padiglione vecchio. Anche per i pazienti psichiatrici, per i quali è prevista un’assistenza ad hoc: secondo le prime indiscrezioni serviranno almeno 4 psichiatri per coprire i turni di giorno e 6 infermieri per coprire anche la notte. Mantova: carcere di Revere, oggi abbandonato e depredato, sarà restituito al Ministero? di Francesco Abiuso La Gazzetta di Mantova, 17 ottobre 2013 Del carcere di Revere si occuperà nei prossimi giorni anche la trasmissione televisiva “La Gabbia” diretta dal giornalista Gianluigi Paragone sull’emittente televisiva LA7. Ieri mattina una troupe della trasmissione, guidata dal sindaco Sergio Faioni, ha realizzato un servizio sulla struttura abbandonata che finora è costata allo Stato l’equivalente di 2,5 milioni di euro. Le telecamere hanno potuto quindi riprendere lo stato di forte degrado in cui si trova l’edificio realizzato lungo la Statale dell’Abetone del Brennero. Il servizio potrebbe essere trasmesso già nella puntata di domani. Già nel 2007 erano arrivate le telecamere: quella volta furono quelle inviate dalla trasmissione “Striscia la Notizia” di Canale 5, con l’inviato Moreno Morelli. Purtroppo, le numerose denunce di livello nazionale non hanno finora portato alla soluzione del problema. Portare e termine i lavori di costruzione? Non se ne parla: ci vorrebbero almeno due milioni e mezzo. Tanti quanti ne sono stati già spesi. Abbatterlo, allora? Nemmeno questo: servirebbero lo stesso cifre a sei zeri. E allora per l’eterna incompiuta di Revere, ovvero l’ex carcere mandamentale in costruzione dal 1988 - 89, non resta che il limbo in cui si trova da circa 25 anni. Sommo esempio di spreco di Stato. Piccolo orrore di cui ogni tanto ci si ricorda e che continua a richiamare inviati e troupe televisive. Al sindaco Sergio Faioni il poco gradito compito di fare gli onori di casa. È lui il formale proprietario della struttura da quando, nel 2011, il ministero della Giustizia ha ceduto la struttura al Comune. Apre la cancellata che in questi anni ha cercato di limitare le scorribande di razziatori di rame e pezzi da rivendere all’edilizia. Fa da cicerone in un viaggio spettrale tra tombini divelti e porte sganciate, controsoffitti crollati a terra e ogni testimonianza di ruberia. Gli è toccato ripetersi anche di recente, ora che si torna a parlare di sovraffollamento delle carceri, e l’ipotesi di nuovo indulto e amnistia infiamma il dibattito politico. E allora ci si ricorda di quella quarantina di carceri non finiti sparsi dal Piemonte alla Sicilia. “È vero che finora il nostro Comune non ci ha rimesso, ma si tratta comunque di fondi pubblici” considera Faioni nel suo ufficio. Aperta sulla scrivania c’è la mappa di un progetto attorno al quale si erano radunate le sole speranze di rinascita, con la riconversione del carcere in un mix di edifici a uso socio - sanitario e di attività commerciali. Cuore del piano, la trasformazione delle celle in alloggi protetti per disabili, o anche (visto che a pochi metri c’è l’ospedale di Pieve) in miniappartamenti per infermieri fuori sede. Un albergo low cost da 660 metri quadrati. Accanto, ecco attività commerciali la cui apertura avrebbe aiutato a sostenere l’operazione: 380 metri quadrati di centro food (ristoranti o simili), altrettanti di palestra con centro fitness e benessere, un bar, una farmacia e un’altra zona destinata a scopi sanitari. Il progetto, abbozzato dallo studio dell’architetto Alessandro Cabrini di Ostiglia, sembrava avviato verso un buon esito dopo l’interessamento di un cordata di imprenditori emiliani. Ma poi tutto è sfumato: sarebbe stato economicamente sostenibile solo con l’accreditamento di alcuni posti da parte della Sanità regionale, il che avrebbe garantito entrate certe. Ma finora non c’è stata alcuna apertura in questa direzione (di questi tempi, semmai, il trend è quello di limare). Ipotesi alternative? Negli anni non sono mancate: prima da parte del governo (una struttura a custodia attenuata per tossicodipendenti, una detentiva per la giustizia minorile) poi da parte di privati (un albergo). Più di recente, si sono fatte avanti una cooperativa di recupero di tossicodipendenti e persino una società che avrebbe voluto trasformarlo in un centro di addestramento per cani da soccorso: “Io non avrei detto di no, ma a condizione che garantiscano la messa in sicurezza” dice Faioni. Il limbo continua, e lui confessa: “Se lo Stato volesse riprenderselo, nulla in contrario”. Cantiere fermo dal Duemila regno dei ladri La storia del carcere incompiuto di Revere comincia negli anni Settanta. In paese esiste una vecchia struttura penitenziaria, collegata con la locale pretura. Si trova in via Pellico. Il ministero avvia la progettazione di una nuova struttura, più ampia e moderna, fuori paese. Passano oltre 15 anni, e nel 1988 si avvia la costruzione. Ma l’avanzare del cantiere si rivela incerto e frammentato, tra stanziamenti che finiscono e vari ostacoli di natura burocratica. Intanto anche le Giustizia cambia strategie e inizia a tagliare e razionalizzare. Spariscono le preture, sostituite dai giudici di pace. Per alcuni reati minori non servono più le carceri perché non si va più dentro. Nel 2000 un documento del ministero conferma l’impegno a mantenere la struttura. Ma è proprio quello l’anno in cui il cantiere si arresta per non proseguire più. Nel 2007 il carcere è inserito nella lista Mastella delle strutture incompiute da recuperare per sopperire al sovraffollamento. Nel 2010, stessa emergenza, ma il piano del ministro Alfano preferisce realizzare 47 padiglioni accanto ai maggiori istituti penitenziari piuttosto che sistemare i 40 carceri lasciati a metà. Per anni il Comune chiede allo Stato le chiavi della struttura. Nel 2011 l’ottiene. Roma risponde a Revere “Faremo un sopralluogo” Angelo Sinesio, commissario straordinario all’emergenza carceri e il sottosegretario alla Giustizia, Giuseppe Berretta promettono massima attenzione alla situazione del carcere di Revere. Ieri il deputato mantovano del Pd, Marco Carra, ha incontrato entrambi. “Mi hanno assicurato - spiega il parlamentare - che una delegazione della commissione verrà a Revere nelle prossime settimane per un sopralluogo. L’intenzione è quella di riutilizzare la struttura e mettere fine ad una situazione imbarazzante”. Da Roma, dunque arrivano rassicurazioni su quello che può essere definito un tipico esempio di spreco di Stato. La struttura è infatti in pieno degrado da 13 anni, non è mai stata terminata e ad al momento è in gestione al Comune, che però non ha risorse nemmeno per tenere lontani i ladri e i vandali che periodicamente si rendono protagonisti di raid all’interno del carcere fantasma. Sulla Gazzetta di ieri il sindaco Sergio Faioni, ormai esasperato, ha dichiarato che il Comune è pronto a ridare le chiavi della struttura a Roma. Perché per terminare il carcere servono la bellezza di due milioni e mezzo di euro e anche nel caso si decidesse per la demolizione della struttura si dovrebbero sborsare cifre a sei zeri. Dal 2011, cioè da quando il Comune è entrato in possesso del carcere, si sono susseguite voci su vari progetti di riqualificazione che però non sono mai decollati a causa del mancato interesse dei privati per il progetto. Ciò che è chiaro è che da solo il Comune non può garantire un futuro al carcere fantasma. “In questo senso non ci dovrebbero essere problemi - spiega Carra - perché lo Stato potrebbe riprendersi la struttura in tempi brevi, nel caso in cui fosse approvato un piano di recupero e di riqualificazione”. Non è ancora stata fissata una data, ma l’impegno preso da Sinesio e Berretta rappresenta l’unica speranza a cui i cittadini di Revere si possono aggrappare. L’acceso dibattito di queste settimane sulla possibilità che il governo metta in campo misure come amnistia e indulto, unito al continuo richiamo alle forze politiche da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sull’affollamento dei penitenziari, sembrano aver riacceso i riflettori sulla questione carceraria. La speranza di Faioni è che l’accresciuta sensibilità per il tema possa in qualche modo smuovere anche la questione Revere. Pescara: l’Istituto Tecnico Aterno-Manthoné porta la scuola nella Casa circondariale Il Centro, 17 ottobre 2013 Il progetto, che si inserisce a pieno titolo nell’ampio quadro dell’espiazione della pena sarà presentato venerdì alle 10,30 all’interno della casa circondariale. Il dirigente dell’Istituto tecnico commerciale e per geometri Aterno - Manthoné, Donatella D’Amico, e il direttore della Casa circondariale di Pescara Franco Pettinelli, illustreranno venerdì alle 10,30 nella sede dell’Istituto di pena, l’attività finalizzata al recupero dei detenuti: l’istituzione di una prima classe di scuola superiore, indirizzo Ragioneria. Un’iniziativa inserita nelle attività del corso serale per studenti lavoratori Sirio, da 18 anni presente nell’Istituto tecnico Aterno - Manthoné che quest’anno ha aggiunto alle sette classi già esistenti una classe prima specifica per i detenuti. Il progetto Sirio è un corso di studi per ragionieri, e ragionieri programmatori, esattamente uguale a quello attivato per i ragazzi al mattino ed è specificamente rivolto agli adulti, in generale, e ai lavoratori in particolare. All’incontro di venerdì saranno presenti il funzionario giuridico pedagogico, Rina Pisano, la responsabile del corso serale Sirio, Marina Di Crescenzo, i docenti della classe attivata Anna Caruso, Antonella Di Muzio, Cristina Ortolano, Antonio Procaccini, Rosalba Savini, Maria Daniela Sfarra, Stefania Silvano, Adele Telli. Invitati all’incontro, il sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri Giovanni Legnini, il presidente della giunta regionale Gianni Chiodi, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per l’Abruzzo, Bruna Brunetti, il direttore scolastico regionale per l’Abruzzo, Ernesto Pellecchia, l’assessore regionale alla Pubblica istruzione, Paolo Gatti; il presidente della Provincia di Pescara, Guerino Testa; l’assessore provinciale alla Pubblica istruzione, Fabrizio Rapposelli; il sindaco di Pescara, Luigi Albore Mascia; l’arcivescovo di Pescara - Penne, Tommaso Valentinetti. L’istruzione in carcere, come sottolineano gli organizzatori del progetto, “rientra nel programma di interventi che l’istituto e gli operatori devono attuare, ispirandosi al criterio di individualizzazione. Il fine ultimo dell’educazione è quello di promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale”. Il progetto educativo e formativo diretto ai detenuti della casa circondariale si inserisce a pieno titolo nell’ampio quadro dell’espiazione della pena, influendo in maniera decisiva sull’eventuale adozione di misure come permessi premio o riduzioni di pena. Oltre alla presentazione del progetto, è prevista una cerimonia di consegna dei computer ai 35 studenti iscritti al primo anno di Ragioneria. Quanto ai corsi serali previsti dal progetto Sirio, sono almeno 200 gli iscritti tra lavoratori, disoccupati e stranieri, sette classi in tutto. Corsi rivolti a chi ha solo la licenza media, a chi ha interrotto qualsiasi corso di studi e a chi vuole riqualificare il proprio titolo di studio. Caserta: carceri sovraffollate, l’Osapp denuncia disagi anche a Santa Maria Capua Vetere www.interno18.it, 17 ottobre 2013 Allarme lanciato dall’Osapp: “Il ministro Cancellieri pensi anche ad una nuova amministrazione penitenziaria”. “La discussione in corso riguardo a provvedimenti di clemenza per risolvere il grave sovraffollamento penitenziario non tiene in considerazione il fatto che problemi gravi per le carceri italiane derivano molto spesso anche da una gestione approssimativa e tutt’altro che trasparente delle strutture e del personale penitenziario, come ad esempio accade in Campania”. Ad affermarlo è Pasquale Montesano, segretario generale aggiunto dell’Osapp, organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria. “Negli istituti penitenziari della Campania - prosegue Montesano - è superata qualsiasi capienza tollerabile: 8.040 detenuti presenti a fronte di 5.627 posti disponibili e con un istituto come Napoli Poggioreale in cui su 1614 posti sono ristretti 2571 detenuti, pari quindi al 160% della capacità ricettiva, e Santa Maria Capua Vetere con circa 1.000 detenuti, i carichi di lavoro da stress e disagio per il personale e l’assenza di risultati, sono strettamente connessi ai gravi errori gestionali dell’amministrazione, nell’ambito particolarmente di una regione con così ingenti e annosi problemi organizzativi, dalla gravissima carenza degli organici strumenti, mezzi e risorse economiche che l’attuale politica non tiene affatto conto. L’occasione data per l’apertura del nuovo reparto a Santa Maria Capua Vetere non può distogliere la nostra attenzione dai gravissimi disagi della Polizia Penitenziaria. L’invito che quindi rivolgiamo alla Guardasigilli Cancellieri - conclude Montesano - è di immaginare, oltre a provvedimenti di clemenza, una nuova amministrazione penitenziaria, favorendo percorsi per il raggiungimento di risultati in favore sia del personale che dell’amministrazione penitenziaria”. Savona: nuovo carcere? in città o a Cairo Montenotte… purché venga realizzato al più presto La Stampa, 17 ottobre 2013 L’ex convento medievale di Sant’Agostino continua ad ospitare il doppio dei detenuti previsti. La vicenda del carcere di Sant’Agostino è stata affrontata ieri in Regione nell’ambito di un vertice cui hanno preso parte i Comuni di Savona e Cairo Montenotte. Un incontro che è servito a fare il punto sulle condizioni disumane in cui si trovano i detenuti delle carceri liguri. Il problema riguarda Savona ma anche e soprattutto Marassi, dove mediamente sono ospitati il doppio dei detenuti ammessi. Il sovraffollamento delle carceri è un tema “caldo” anche a livello nazionale, con il presidente Napolitano che ha invitato il Parlamento a prendere in considerazione le ipotesi di amnistia o indulto per ridurre la popolazione carceraria ed evitare che l’Italia venga punita dalle sanzioni dell’Unione europea. Il sovraffollamento delle carceri, infatti, rende inumane le condizioni in cui i detenuti scontano la pena, facendo venire meno la funzione di rieducazione e recupero che sta alla base della concezione moderna delle pene detentive. Le condizioni del carcere di Sant’Agostino sono note da decenni e per questo erano stati presi in esame progetti per la costruzione di nuove strutture. Il Comune aveva messo a disposizione le colline di Passeggi e Albamare e l’ex Metalmetron. Il ministero aveva scelto Passeggi ma dopo aver stanziato circa 40 milioni, il progetto era naufragato per le difficoltà di realizzare opere di urbanizzazione. Nel frattempo i Comuni di Cairo e Cengio hanno offerto la propria disponibilità ad ospitare il carcere. “La Regione ha voluto fare il punto della situazione - ha detto l’assessore di Savona Jorg Costantino dopo la riunione - . Noi abbiamo ribadito la nostra disponibilità sia per l’ipotesi Passeggi, sia per altre soluzioni che vedano il trasferimento in Valbormida. L’importante è che il problema venga affrontato e risolto una volta per tutte”. La Regione affronterà il tema con il governo ma difficilmente si troveranno soluzioni strutturali in tempi rapidi. Per evitare le sanzioni dell’Unione, resta in campo solo la soluzione politica. Volterra (Pi): tornano le cene “galeotte”, chef fianco a fianco con i carcerati www.intoscana.it, 17 ottobre 2013 Tutto pronto per l’appuntamento numero otto con “cene galeotte” (www.cenegaleotte.it), iniziativa unica capace di coniugare i piaceri della tavola con un progetto di fortissima valenza sociale. Dopo il successo crescente registrato nella passate edizioni – e gli oltre 1.000 partecipanti dello scorso anno, ben 10.000 dalla sua “prima” - Venerdì 22 novembre si ricomincia: lo staff della Casa di Reclusione di Volterra accoglierà il pubblico per un altro indimenticabile momento di solidarietà, con i detenuti impegnati al fianco di chef professionisti nella preparazione di otto cene con cadenza mensile fino a giugno 2014. Un evento dall’anima anche benefica, visto che il ricavato (il costo di ogni cena è di 35 euro a persona) sarà come sempre integralmente devoluto ai progetti umanitari sostenuti dalla Fondazione Il cuore si scioglie onlus (www.cambiala.it/fondazione), che dal 2000 vede impegnata Unicoop Firenze assieme al mondo del volontariato laico e cattolico. Si rinnova dunque la possibilità di un’esperienza irripetibile per i visitatori, ma anche un momento vissuto con grandissimo coinvolgimento da parte dei detenuti, che grazie al percorso formativo in sala e cucina vanno acquisendo un bagaglio professionale che in ben sedici casi si è tradotto in vero impiego presso ristoranti locali, secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. Nuovi chef - toscani e non - coinvolti nel progetto, nuove emozionanti serate, ma formula vincente che resta invariata. La splendida Fortezza Medicea che ospita la Casa di Reclusione, esempio fra i più suggestivi e meglio conservati di architettura militare rinascimentale, aprirà alle ore 19.30 le proprie porte per l’aperitivo, allestito nel cortile interno sotto le antiche mura. A seguire la cena (ORE 20.30), servita nella vecchia cappella dell’Istituto trasformata per l’occasione in sala ristorante con tanto di candele, camerieri/detenuti in divisa e, nel piatto, un ricco menu preparato dai carcerati con il supporto di uno chef professionista che metterà a disposizione - gratuitamente - tutta la sua esperienza. Ad accompagnare le portate una selezione di etichette fornite, anche in questo caso a titolo gratuito, da un’azienda vinicola. Le Cene Galeotte sono possibili grazie all’intervento di Unicoop Firenze, che oltre a fornire le materie prime necessarie alla realizzazione dei piatti assume i detenuti retribuendoli regolarmente. Il progetto è realizzato con la collaborazione del Ministero della Giustizia, la direzione della Casa di Reclusione di Volterra, la supervisione artistica del giornalista e critico enogastronomico Leonardo Romanelli, che provvede a individuare gli chef coinvolti nell’evento, e il supporto comunicativo di Studio Umami. Un ruolo fondamentale è inoltre ricoperto dalla Fisar - Delegazione Storica di Volterra, che oltre ad offrire durante l’anno ai detenuti un percorso formativo professionale attraverso un calendario di lezioni, si occupa del servizio e della selezione delle aziende vinicole via via coinvolte. Per informazioni: www.cenegaleotte.it. Per prenotazioni (a partire da lunedì 28 ottobre): Agenzie Toscana Turismo, Argonauta Viaggi (gruppo Robintur), Tel. 055.2345040. Roma: Progetto “4 X Kids”, ex campioni di calcio in campo per figli disabili detenuti Ansa, 17 ottobre 2013 Le “vecchie glorie” del calcio in campo a sostegno dei figli di detenuti affetti da disabilità: è “4 x kids”, un’iniziativa di solidarietà promossa dalla fondazione Raphael, in collaborazione con il Ministero della Giustizia, che domani mattina a Roma vedrà schierate, in un quadrangolare, una rappresentativa Vaticana, una di magistrati italiani, le Fiamme azzurre della Polizia penitenziaria e la World Stars for Charity. Tra le star, Roberto Bettega, Antonio Cabrini, Giovanni Galli, Damiano Tommasi, Dino Baggio, Pedro Pablo Pasculli, Francesco Graziani. Della situazione nelle carceri italiane e dei problemi che ne derivano “si parla molto”, ha osservato il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, durante una conferenza stampa al Ministero, è un tema che “vogliamo affrontare con forza. Siamo felici di questa iniziativa che va nel senso della solidarietà, verso chi ha bisogno”. Attraverso quest’iniziativa, hanno spiegato gli organizzatori, si intende promuovere un “osservatorio nazionale” per i figli di detenuti affetti da disabilità, “a favore dei quali è previsto l’accompagnamento psicologico e sociale e il loro inserimento in famiglie o in strutture di adeguato riferimento”. “Vogliamo essere attenti a chi è più debole e fragile - ha aggiunto il presidente della fondazione Raphael, monsignor Giovanni d’Ercole - cominciamo con l’Osservatorio e speriamo che da lì nascano iniziative che oggi sono solo idee e progetti”. Cancellieri: favorire sport, al via verifica impianti Portare più sport nelle carceri: è l’impegno a cui vuol tenere fede il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, che in questi giorni ha dato l’incarico a Marcello Tolo, responsabile delle Fiamme Gialle, di “verificare la condizione degli impianti sportivi nelle carceri, per indicarci cosa manca”, con l’obiettivo di favorire la pratica dello sport negli istituti penitenziari. “Oltre la salute, nelle carceri vanno garantiti lavoro e sport”, ha sottolineato il ministro Cancellieri, a margine di un incontro al Ministero. Il monitoraggio delle Fiamme Gialle, ha aggiunto il ministro, “è appena partito” e l’obiettivo è portare più sport nelle carceri perché l’attività fisica “fa scaricare”, permette la socializzazione e consente anche agli atleti di entrare negli istituti penitenziari e diventare un “modello” per i detenuti. Lucca: Sappe; detenuto tenta suicidio, in due mesi già quattro casi sventati dagli agenti Ansa, 17 ottobre 2013 Un detenuto del carcere di Lucca ha tentato il suicidio ieri mattina. Lo rende noto il sindacato Sappe. Il recluso, di origine straniera, detenuto nella 3/a sezione, ha tentato di impiccarsi nella propria cella: solo grazie all’intervento del personale di polizia penitenziaria, spiega il Sappe, è stato evitato il peggio. Il detenuto è stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale di Lucca per accertamenti clinici. Negli ultimi due mesi, afferma ancora il sindacato, sono quattro i reclusi del carcere di Lucca ad aver tentato il suicidio, salvandosi “grazie alla professionalità della polizia penitenziaria che nonostante si senta abbandonata dai vertici della direzione locale e dall’amministrazione regionale continua la propria attività con abnegazione e sacrificio”. Milano: processo per abusi dell’ex cappellano San Vittore, sei detenuti ammessi come parti civili Corriere della Sera, 17 ottobre 2013 Sono stati ammessi come parti civili i detenuti che, mercoledì, hanno fatto richiesta nel processo con rito abbreviato a carico di don Alberto Barin, l’ex cappellano del carcere milanese di San Vittore, arrestato nel novembre 2012 per violenze sessuali e abusi su 12 immigrati rinchiusi nella casa di reclusione. Il giudice Luigi Gargiulo ha ammesso sei dei sette detenuti che hanno intenzione di chiedere i danni all’ex cappellano. A un immigrato, infatti, a causa di questioni tecniche, è stata data la possibilità di presentare l’istanza alla prossima udienza. Inoltre, anche un altro detenuto, da quanto si è appreso, vorrebbe costituirsi parte civile. Il processo è stato aggiornato al 10 dicembre quando, dopo le questioni preliminari della difesa, parleranno l’accusa e il legale Mario Zanchetti. In quella data, potrebbe arrivare anche la sentenza. Arezzo: Lega Internazionale per i Diritti dell’Uomo, domani convegno sull’emergenza carceri www.informarezzo.com, 17 ottobre 2013 Il 18 ottobre la Sezione Toscana Lega Internazionale per i Diritti dell’Uomo (Lidu - Toscana, Arezzo) organizzerà un Convegno dal titolo “L’emergenza carceri - Prospettive e soluzioni di un’anomalia tutta italiana: Il caso Aretino”. Il Convegno si terrà ad Arezzo alle ore 16,30 presso la Sala dei Grandi della Provincia di Arezzo con la presenza delle autorità cittadine e con il patrocinio della Regione Toscana, dell’Amministrazione Provinciale, Del Comune di Arezzo e dell’Ordine degli Avvocati di Arezzo. I temi relativi al sistema processuale ed a quello penitenziario, alle misure alternative al carcere ed ai suoi percorsi evolutivi, saranno trattati da importanti relatori impegnati nell’Ordinamento Giudiziario toscano ed in quello degli Istituti di Pena regionali e cittadini. Il convegno è accreditato quale evento formativo per gli avvocati dell’Ordine Forense Aretino. Il dibattito sarà aperto al contributo di idee dei cittadini ed alla loro augurabile partecipazione. La partecipazione rappresenta un’occasione per affermare l’impegno sui Diritti civili ed umani per il cittadino, conseguente alla storia della L.I.D.U. costituitasi nel 1922 a Parigi. Il convegno sarà un’occasione per approfondire i temi connessi alla riforma dell’Ordinamento giudiziario, per affermare “ una giustizia giusta”in grado di tutelare l’uguaglianza tra i cittadini, la libertà, la sicurezza nella società. La LIDU è da sempre impegnata al superamento delle anticostituzionali ed “inumane condizioni” esistenti nelle carceri italiane . Condizioni originate da un sovraffollamento anche a causa dei ritardi processuali, dall’uso improprio della carcerazione preventiva, dal mancato uso di altre forme di sconto della pena. In questi giorni si sono concluse la raccolta firme per i referendum radicali. Alcuni di essi vertono sul sistema carcerario. La L.I.D.U. li ha sostenuti; il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 7 ottobre ha inviato un importante appello, si è rivolto al Parlamento per affermare la necessità , l’urgenza d’ interventi contro il sovraffollamento, per realizzare i contenuti della riforma dell’Ordinamento, per evitare un pesante giudizio negativo, la condanna della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Trieste: scuola di cinema, così i detenuti del carcere Coroneo diventano attori e registi Il Piccolo, 17 ottobre 2013 Chiede ai cittadini di raccontare l’Italia il concorso “Italy in a day”, esperimento di cinema collettivo prodotto da RaiCinema, Indiana e Scott Free, con un selezionatore d’eccezione quale Giuseppe Tornatore. Ma l’Italia è anche quella delle carceri, così ai docenti e agli organizzatori del corso di “Tecniche di ripresa audio e video” dentro al Coroneo è venuta un’idea: perché non partecipare con un filmato che racconti un giorno all’interno di un carcere italiano? Pare che la cosa si farà, così il 26 ottobre a uno degli allievi del corso sarà consegnata una telecamera, con l’invito a filmare la propria quotidianità all’interno della Casa Circondariale. Il tutto sarà poi caricato sul sito dedicato e, se il filmato sarà selezionato, entrerà a far parte di un film collettivo montato da Tornatore. Per l’autore ci sarà la gloria di essere citato, insieme al grande regista, nei titoli di coda del film, entrando a pieno titolo nella storia del cinema italiano. di Giulia Basso Hanno quasi completato le 300 ore globali del corso di “Tecniche di ripresa audio e video”, dedicato ai mestieri del cinema e tenuto da esperti del settore e a novembre affronteranno gli esami finali. Ma gli studenti che hanno partecipato a questa full immersion di cultura cinematografica, impegnati in nove ore a settimana di lezione dalla fine della scorsa primavera, non sono ragazzi che si possono vedere per strada o al bar: se ne stanno tutti rinchiusi al Coroneo, a scontare pene più o meno lunghe. Sono studenti - detenuti che hanno dai 30 agli oltre 70 anni e alle spalle storie personali delle più diverse, con problemi con la giustizia di ordine differente: c’è lo spacciatore che ha preso quattro anni di carcere, l’omicida che ne rischia molti di più, lo scafista che ha girato le carceri da Sud a Nord del Paese per poi finire a Trieste. Ora sanno usare una telecamera per effettuare delle riprese, sanno cos’è una sceneggiatura, sanno cosa s’intende quando si parla di fonico di presa diretta, hanno imparato a recitare e a montare. L’impresa è stata possibile grazie alla direzione del carcere, alla collaborazione del personale di polizia e all’Enaip Fvg, che insieme al festival Maremetraggio ha organizzato questo corso. All’interno del Coroneo per le lezioni è stata messa a disposizione una stanzetta. Il corso, che si avvale della direzione artistica del regista Davide Del Degan e della direzione organizzativa di Chiara Omero, presidente di Maremetraggio, ha visto alternarsi in cattedra nel corso delle lezioni Giordano Bianchi per le tecniche di ripresa, Ivan Gergolet per i fondamenti di sceneggiatura, il fonico Francesco Morosini e Lorenzo Acquaviva per la recitazione. Per il festival Maremetraggio si tratta dell’ennesimo progetto per portare il cinema all’interno del carcere: è iniziata nel lontano 2009 “Oltre il muro”, la sezione di concorso del festival dedicata ai cortometraggi italiani, che si è svolta fin dalla prima edizione dentro il Coroneo, con la proiezione dei corti e una giuria di detenuti appositamente formata per giudicare il miglior lavoro di questa sezione. Dall’anno scorso “Oltre il muro” grazie a Enaip Fvg è diventato molto più di un evento che accade una volta all’anno. Si è trasformato in un corso di formazione strutturato, che ha dato i suoi primi risultati già dopo poco più di un mese di lezione: la sigla dell’anno scorso di Maremetraggio, “Il cinema rende liberi”, è stata realizzata proprio dagli studenti - detenuti del corso. Certo, la classe durante l’anno si è un po’ assottigliata: da 18 studenti ne sono rimasti 8. Tra loro ci sono Roberto, Cristian, Jonatha, Franco detto “il foggiano”, Nazi e Libero. Tutte persone che il loro entusiasmo per questa iniziativa te lo raccontano: “Ho imparato a usare la telecamera, cosa che da piastrellista e muratore qual’ero non avrei mai immaginato possibile. Grazie ad attività come queste ho potuto conoscere gente nuova e non stare rinchiuso 20 ore al giorno in cella, con il tempo che non passa più”, racconta uno di loro. “Abbiamo visto Taxi Driver e Forrest Gump, imparato come si fanno e come si montano le riprese - dice un altro - . Certo, tre ore per tre volte alla settimana sono un po’ poco - spiega con l’entusiasmo negli occhi - perché per il resto del tempo si sta in cella, c’è chi fa le flessioni e chi si limita a vegetare”. “L’obiettivo ora, visto l’entusiasmo con cui il corso è stato seguito - conclude Chiara Omero - è di poterlo ripetere anche il prossimo anno. Senz’altro ripeteremo la sezione “Oltre il muro”, per la quale ora abbiamo una giuria davvero qualificata”. Mantova: concorso letterario promosso dalla San Vincenzo… il detenuto che studia la speranza di Paolo Boldrini La Gazzetta di Mantova, 17 ottobre 2013 Capita in certi luoghi che il tempo rallenti e un mattino sembri un’eternità. Nel carcere di via Poma, ad esempio, può succedere che il rumore del cancello di ferro che si chiude alle tue spalle provochi un senso di angoscia. Temporanea, perché sai che durerà solo qualche ora, ma comunque interminabile. Mentre divampa a Roma la polemica su indulto e amnistia sì o no, la Gazzetta racconta uno scandalo mantovano: il carcere di Revere costruito e abbandonato, saccheggiato degli arredi. Nelle celle i detenuti di tutt’Italia vivono come bestie e i nuovi istituti non vengono utilizzati. I soldi dei contribuenti buttati dalla finestra. Una contraddizione che è ancora più pesante oggi, pensando a quanto visto e sentito ieri. I calzini e le ciabatte messi ad asciugare sulle grate delle finestre, la difficoltà di dare un senso alle giornate. Una lezione di dignità è arrivata dai detenuti che hanno partecipato al concorso letterario promosso dalla San Vincenzo De Paoli intitolato “Ce l’hai una famiglia?” La premiazione si è svolta a Mantova e ha dato l’opportunità agli esterni di conoscere un mondo nuovo, fatto di uomini come Gianluca Migliaccio, che ha vinto il primo premio. Studia Dante e Virgilio con il suo professore e scrive nel racconto “I miei week end con mamma e papà” del figlioletto di un anno morto per una malformazione cardiaca. “L’avevamo chiamato Ciro, io e la mia compagna d’allora. Poi ci lasciammo. Ciro viene spesso a farmi visita la notte. Come s’è fatto grande! Mi racconta della scuola, degli amichetti, della sua fidanzatina, mi racconta quello che vorrà fare un giorno. Io ho fiducia in lui, non diventerà come me, ma poi scompare e non lo vedo più per molto tempo”. Gianluca Migliaccio, napoletano, è in carcere ad Ascoli Piceno. In questi giorni è impegnato in un’impresa che gli sembra colossale: recitare da solo la Metamorfosi di Kafka in una libreria, fuori dalla prigione. “Non so perché abbiano scelto proprio il sottoscritto per questo spettacolo, forse perché vedono qualcosa di buono tra le mie colpe e i mie difetti. Forse non sono del tutto irrecuperabile”. Libri: l’umanità segregata dietro le sbarre di Stefano Anastasia Il Manifesto, 17 ottobre 2013 Volti e maschere della pena”, a cura di Franco Corleone e Andrea Pugiotto per Ediesse. Un volume prezioso per comprendere la situazione delle carceri e delle altre istituzioni del rifiuto. Oggi se ne discute a Roma Stefano Anastasia. I volti e le maschere della pena, l’ultimo volume pubblicato con Ediesse (pp. 244, euro 16) da La Società della Ragione e curato ancora una volta da Franco Corleone e Andrea Pugiotto, contiene - tra le molte altre e pregevoli cose - una piccola, ma significativa testimonianza di prima mano, e qualche informazione che fa giustizia di alcune della grida che si sono levate contro il messaggio di Giorgio Napolitano sullo stato delle carceri e la necessità di provvedimenti urgenti per ricondurle entro i parametri costituzionali e della Convenzione europea per i diritti umani. I curatori, come ben sanno i lettori di questo giornale, non sono degli olimpici e distaccati osservatori del sistema penitenziario, ma sono e sono stati protagonisti di iniziative per il mutamento del degrado esistente nelle nostre carceri ben prima che il circuito politico - mediatico venisse scosso dal discorso presidenziale. Della coerenza e della determinazione del Capo dello Stato già si è detto in questi giorni: non è che sia stato morso dalla tarantola la scorsa settimana, neanche a immaginare che la tarantola avesse l’aspetto di un ex - presidente del consiglio prossimo all’esecuzione della pena. L’impegno pubblico di Napolitano contro le indegne condizioni delle nostre carceri comincia prima dell’ascesa al soglio quirinalizio, quando era ancora un “semplice” senatore a vita, nominato dal suo predecessore. La marcia di Natale per l’amnistia nel 2005; e poi le visite nelle carceri, i discorsi, le prese di posizione; fino al convegno radicale del luglio 2011, quando Napolitano pronuncia un discorso allarmato e allarmante, che fa giustizia di tutte le maldicenze dei commentatori d’occasione. In quelle parole, il sovraffollamento penitenziario “che ci umilia in Europa” veniva qualificato come “una questione di prepotente urgenza”. Non a caso gli ultimi due esecutivi, entrambi di chiara impronta presidenziale, hanno esordito nei loro rispettivi mandati con due decreti - legge dedicati al sovraffollamento penitenziario(non hanno prodotto un granché - come era prevedibile a vedere la composizione delle rispettive maggioranza parlamentari - ma non è questo il punto, non qui almeno). Corleone e Pugiotto, nell’introduzione al libro, ci raccontano dell’incontro con il Presidente, al Quirinale, di una delegazione di costituzionalisti e garanti dei detenuti firmatari di un appello a lui rivolto perché la denuncia abbia un seguito istituzionale. È il settembre del 2011, due mesi dopo il discorso al convegno radicale. Corleone, Pugiotto e gli altri firmatari presenti chiedono al Capo dello Stato un messaggio alle Camere, ai sensi dell’art. 87, comma 2, della Costituzione, perché il problema sia posto formalmente e le forze politiche siano chiamate a rispondervi. “È un’arma caricata a salve”, si schermisce Napolitano: non ha mai funzionato. Ma i delegati insistono e Corleone e Pugiottonel libro rincarano la dose: “anche in ragione di tale omissione presidenziale, il Parlamento ha potuto voltarsi dall’altra parte, fischiettando con sfacciata disinvoltura”. “Scrivendo formalmente ai rappresentanti del popolo”, invece, “il Quirinale parlerebbe a tutti noi. E come non mancherebbero deputati e senatori che tenterebbero di dare sostanza normativa alle sue parole, così - fuori dalle mura di Palazzo Madama e di Montecitorio - saremmo in tanti a non farle cadere nel vuoto. E a farle rimbalzare dentro le Aula parlamentari moltiplicandone la forza d’urto”. Anche a questa pressione civica e civile Napolitano ha risposto con il suo messaggio, con buona pace di ogni genere di complottisti, arrivati fino a dar per certa la premeditazione pluriennale del sovraffollamento affinché si giungesse allo scandalo e alla condanna della Corte europea dei diritti umani nel momento esatto in cui Berlusconi dovesse essere salvato da una condanna che non prevede un solo giorno di pena detentiva. Un libro, dunque, questo curato da Corleone e Pugiotto, conficcato nel presente. Eppure non occasionale, né cronachistico. Piuttosto: utile a capire quel che ci accade intorno (e a non parlare a vanvera). Certo, c’è anche la sentenza della Corte europea sul caso Torreggiani, e “le buone ragioni di una battaglia per la riforma della giustizia penale e del suo precipitato in corpi umani nell’inferno delle carceri”, fatta di depenalizzazioni, decriminalizzazioni e anche di provvedimenti eccezionali previsti, in caso di necessità, dalla stessa Costituzione repubblicana. Ma c’è anche il pregresso e il contorno, articolato su quattro temi decisivi: la pena nascosta negli ospedali psichiatrici giudiziarii, la pena estrema del 41bis, la pena insensata senza prospettive di reinserimento e di riconciliazione e la pena rinchiusa tra muri e in spazi inadeguati. Volti e maschere di un rancoroso codice della paura e della vendetta che ha preso il posto dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione e che ci ha portati dritti dritti fin qui, all’incapacità di amministrare la giustizia senza confliggere con i diritti umani delle persone (detenute), quegli stessi diritti in nome dei quali li condanniamo. Con quale legittimità? La presentazione di due libri alla Galleria Colonna di Roma Il volume “Volti e maschere della pena” sarà presentato oggi da Giuliano Amato e Luigi Manconi nella libreria Feltrinelli della Galleria Colonna di Roma (ore 18.30). Oltre questo volume sarà discusso il saggio di Caterina Mazza. Quest’ultimo è un’analisi critica verso i Cie, ritenuti un’edilizia monumentale minore destinata a celebrare le politiche del rifiuto. Questo sono, a conti fatti, i Centri di identificazione e di espulsione. Macinano ogni anno meno di 8000 persone irregolarmente soggiornanti in Italia: trattenute e in gran parte non identificate né espulse, inutilmente. 8000 su più di 300mila immigrati senza titolo di soggiorno valido: nulla, una mera esibizione di forza, il necessario complemento simbolico delle porte chiuse all’immigrazione. Le origini, il funzionamento, l’efficienza e l’efficacia dei Cie nel panorama europeo sono quindi ricostruite da questo “La prigione degli stranieri” (Ediesse, pp. 186, euro 14). “Sin quando continueremo ad avvalercene - scrive Giuliano Amato nella prefazione - non cesseranno di essere quella sfida alla nostra coscienza e alla nostra stessa Costituzione, con la quale conviviamo da quando decidemmo di non poterne fare a meno”. Cinema: il docu-film su Tortora scartato dal festival di Roma di Dario Rossi L’Opinione, 17 ottobre 2013 Un documentario commovente, pieno di ritmo, con interviste ai protagonisti dell’epoca che ancora oggi piangono Enzo Tortora e la “ferita italiana” non ancora rimarginata. Ma gli spettatori della sezione documentari del “Festival del cinema di Roma”, quasi tutti prodotti da “Rai cinema” e quindi super sponsorizzati a prescindere, non potranno vederlo. Forse perché il regista Ambrogio Crespi non è abbastanza raccomandato. O forse perché dato il livello apparentemente non straordinario degli altri titoli in concorso, e fuori, almeno a giudicare dalle trame, non ci sarebbe stata storia nell’assegnazione dei premi. Il livello della sezione documentari in effetti sembrerebbe troppo basso per un docu-film del genere. Che anzi a dirla tutta non poteva davvero confondersi con titoli come “Fuoristrada” di Elisa Amoruso, cioè la storia di un pilota e meccanico di macchine da corsa che diventa donna e si sposa in nozze gay con Marianna, una badante rumena. O con la solita polpetta indigeribile sul movimento dei pastori sardi, oltretutto ambientata nel 2010 ai tempi della loro protesta ormai rientrata, così come ce la propone Paolo Carboni con il suo “Capo e croce, le ragioni dei pastori”. Per non parlare di ben due documentari fuori concorso su Federico Fellini che vanno a intasare le commemorazioni per i vent’anni dalla morte del grande regista italiano. In pratica dei dieci documentari, sette in concorso e tre fuori, che verranno visti dai soliti quattro gatti amanti del genere al Festival del cinema di Roma, ben sette sono stati prodotti da “Rai cinema”. Ma ci sono seri dubbi che possa parlarsi di una produzione d’essai e che questi titoli abbiano un destino nelle sale. Appaiono in realtà destinati alla seconda serata su canali tematici come “Rai movie” e nella migliore delle ipotesi chi non li vedrà a Roma dall’8 al 17 novembre potrà forse sperare di ripescarli per caso in orari per insonni nei prossimi due anni. Rimane invece il mistero sul perché dell’esclusione del documentario su Tortora, basato su interviste e testimonianze dei protagonisti di quel fatto di malagiustizia italiana di cui peraltro proprio quest’anno ricorre il trentennale. E sono passati anche 25 anni dalla morte tragica di un uomo che rappresentò con la propria icona il degrado del diritto in Italia, di cui ancora molto si parla in questi giorni nei dibattiti politici sull’amnistia e sulla responsabilità civile dei magistrati. Ma queste commemorazioni non hanno fatto breccia su Muller e su chi decide quale minestra si debbano sorbire i romani notoriamente di bocca buona, dato che in genere tutto il Festival è sempre stato di serie B. Forse non è piaciuto “politicamente” che il docu-film di Crespi sia pieno delle testimonianze dei radicali vecchi e nuovi, da Pannella a Mauro Mellini, da Rita Bernardini a Giandomenico Caiazza? O forse ha dato fastidio la figura dell’ottimo giurista ed ex primo presidente della prima sezione penale della Cassazione, Corrado Carnevale, la cui giurisprudenza salvò in secondo grado Tortora dalla conferma dell’infame condanna subita in primo grado? Vallo a sapere. Ma probabilmente non tutto il male viene per nuocere. Perché il documentario su Enzo Tortora, se pure non sarà visto nella sezione documentari del Festival del cinema di Roma, avrà sicuramente un destino migliore in sala. E chi lo ha visto come il sottoscritto non ha dubbi che qualche produttore lungimirante lo comprerà e qualche esercente di sala correrà il rischio di metterlo in programmazione. Iran, detenuto sopravvive all’impiccagione, sarà messo a morte di nuovo appena starà meglio di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 17 ottobre 2013 Salire sul patibolo deve essere terrificante ma farlo due volte è disumano. Alireza M., 37 anni, rischia di dover ripetere l’esperienza in Iran dopo essere sopravvissuto alla sua prima impiccagione. Mercoledì 9 ottobre l’uomo, condannato a morte per reati legati alla droga, era stato dichiarato morto nella prigione di Bojnourd, nel nordest del Paese, ed era stato portato in obitorio. Nel rapporto si leggeva che il condannato “era terrorizzato mentre camminava verso il patibolo”. Il mattino dopo, che ironicamente coincideva con la Giornata Mondiale contro la pena di morte, la famiglia è andata a prelevare il corpo per poter celebrare il funerale ma ha notato che il congiunto respirava ancora. L’immensa gioia delle figlie è durata però molto poco. Le autorità hanno sì soccorso il detenuto ma hanno anche subito disposto che fosse piantonato in ospedale in attesa di una nuova esecuzione. “La condanna a morte è stata emessa dalla Corte rivoluzionaria e sarà eseguita non appena l’uomo sarà in condizioni migliori” ha detto il giudice Mohammad Erfan. Come dire guarire per poter morire. Una mazzata per i familiari: “Non possiamo credere che sia di nuovo vivo - ha detto un parente - , le figlie erano così felici della notizia”. Amnesty International ha chiesto alle autorità iraniane di sospendere immediatamente l’esecuzione: “L’orribile prospettiva di quest’uomo che affronta una seconda impiccagione dopo essere sopravvissuto alla prima sottolinea ancora una volta la crudeltà e la disumanità della pena di morte” ha detto Philip Luther, direttore del programma per il Medio Oriente e il Nord Africa per Amnesty International. Anche Iran Human Rights (Ihr) ha chiesto alla comunità internazionale di reagire: “Aiutateci a salvare la vita di quest’uomo - ha supplicato Mahmood Amiry - Moghaddam, portavoce di Ihr - Il signor Alireza M. è già passato attraverso il processo disumano di essere impiccato e il mondo non può lasciare che gli succeda un’altra volta”. Finora nel 2013 le autorità iraniane hanno ucciso almeno 508 persone se si contano 221 esecuzioni non confermate ufficialmente, la maggioranza delle persone è stata condannata per reati connessi alla droga. Spesso i verdetti sono frutto di processi viziati, condotti senza le garanzie minime per l’imputato. “È normale che le autorità vogliano combattere i problemi sociali, economici e di sicurezza legati al traffico di droga ma affidarsi alla pena di morte per combattere questi crimini è fuorviante e viola le leggi internazionali. La gente vuole essere protetta dai criminali ma la pena capitale non rende la società più sicura” - ha spiegato ancora Luther. L’Iran, dopo la Cina, ha il più alto tasso di esecuzioni nel mondo. Russia: Navalny e il suo ex socio Ofitserov potrebbero beneficiare dell’amnistia Agi, 17 ottobre 2013 Alexei Navalny e il suo ex socio, l’imprenditore Pyotr Ofitserov, potrebbero beneficiare dell’amnistia che la Duma si appresta ad approvare, probabilmente in occasione del ventesimo anniversario della Costituzione russa, il 12 dicembre. Lo ha dichiarato Mikhail Fedotov, capo del Consiglio Presidenziale per i Diritti Umani che, su richiesta dello stesso Vladimir Putin, ha messo a punto un disegno di legge in materia. Ai due oppositori del Cremlino è stata confermata in appello la condanna di primo grado, ma con la sospensione condizionale della pena per cinque anni: per il popolare blogger dissidente rimarrebbe però ferma l’interdizione dai pubblici uffici che almeno in teoria lo escluderebbe dalla scena politica. L’applicazione dell’amnistia, estinguendo il reato, potrebbe risolvere il problema automaticamente. La proposta elaborata dal Consiglio per i Diritti Umani lo estende a imputati e condannati per reati non violenti e privi di conseguenze gravi. “A giudicare dalla sentenza”, ha osservato Fedotov, “il reato commesso dal signor Navalny non era di natura violenta, né ha sortito ripercussioni gravi e irreversibili, per cui potrebbe essere titolato all’amnistia, che non è un provvedimento individuale e riguarda invece categorie di persone piuttosto che i singoli. Il reato del quale sono stati riconosciuti colpevoli lui e Ofitserov ricade in tale fattispecie”, ha concluso. Per entrambi si tratta di frode e appropriazione indebita. Dal Cremlino è frattanto arrivata una puntualizzazione alle accuse formulate dal blogger al termine dell’udienza davanti al Tribunale Regionale di Kirov, e cioè che “tutte le decisioni non sono certo prese” dai giudici, “bensì da Putin in persona”. Il portavoce di quest’ultimo, Dmitry Peskov, ha infatti replicato a stretto giro: “Si tratta di questioni che non riguardano il presidente”, ha tagliato corto. Siria: proseguono scontri nel carcere di Aleppo, per opposizione 150 detenuti uccisi Nova, 17 ottobre 2013 Sono ancora in corso gli scontri a fuoco all'interno del carcere centrale di Aleppo, assediato da settimane dai ribelli dell'Esercito siriano libero e sotto il controllo delle forze del regime di Bashar al Assad. Secondo quanto riferisce l'Osservatorio siriano per i diritti umani in un report di oggi, i miliziani del Fronte di Salvezza, legato ad al Qaeda, ieri hanno assaltato il carcere, col sostegno del gruppo Ahrar al Sham, conquistando l'edificio dove è dislocata la direzione dell'istituto di pena. Subito dopo però i caccia siriani hanno bombardato l'area circostante all'edificio spingendo i miliziani islamici alla ritirata. Nel carcere di Aleppo prima dell'attacco erano rinchiusi 4.500 detenuti e non è chiaro se siano evasi, come sostengono i ribelli islamici. Fonti dell'opposizione sostengono però che in 150 sarebbero stati uccisi da colpi d'arma da fuoco o sotto tortura da parte degli uomini del regime. Altre decine di detenuti malati sarebbero invece morti per la mancanza di medicine e di cibo. I detenuti possono mangiare solo una volta al giorno e la direzione del carcere ha smesso di distribuire il pane limitandosi a usare l'orzo. Già lo scorso aprile l'Esercito siriano libero aveva assediato il carcere ma a maggio erano stati respinti dalle forze del regime. In quell'occasione oltre 750 miliziani hanno attaccato il carcere, facendo esplodere anche due autobombe davanti la sua entrata, ma sono stati respinti dai soldati dell'esercito regolare siriano. Siria: Amnesty denuncia; l’Egitto arresta e deporta rifugiati… invece di assisterli Aki, 17 ottobre 2013 L’Egitto sta detenendo illegalmente e deportando centinaia di rifugiati siriani, molti dei quali sono donne e bambini in fuga dalla guerra. Questa la denuncia di Amnesty International, che per voce del suo responsabile per i diritti dei rifugiati e dei migranti Sherif Elsayed Ali afferma che “invece di offrire aiuto vitale e sostegno ai rifugiati dalla Siria, le autorità egiziane li stanno arrestando e deportando, violando i diritti umani”. Ali ricorda quindi che “la maggior parte dei rifugiati ha perso le loro case e i loro mezzi di sussistenza quando hanno lasciato la Siria. Non aiutarli e non proteggerli è un colpo alla reputazione dell’Egitto e potrebbe danneggiare seriamente il suo ruolo nella regione”. Insomma, conclude Ali, il Cairo non ha “rispettato i suoi doveri di proteggere i rifugiati più vulnerabili”. Sono centinaia, secondo Amnesty, i rifugiati siriani, tra cui bambini, detenuti in Egitto o deportati. A proposito, l’organizzazione ricorda che la Marina egiziana ha intercettato circa 13 navi con a bordo rifugiati siriani in viaggio verso l’Wuropa. Citando l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, Amnesty afferma che 946 persone sono state arrestate dalle autorità egizian e 742 restano in carcere.