Giustizia: Associazioni di Volontariato verso una proposta di legge sulle pene alternative Ristretti Orizzonti, 15 ottobre 2013 Per combattere il sovraffollamento delle carceri e incentivare trattamenti rispettosi del senso di umanità e dei diritti, il Centro nazionale per il volontariato avanza una proposta di legge per istituzionalizzare le pene alternative e i percorsi di rieducazione del detenuto. “Rafforzare la via delle pene alternative significa poter arrivare a un risparmio di oltre un miliardo di euro l’anno, cui si aggiunge l’abbattimento della recidiva di oltre sessanta punti”, spiega Edoardo Patriarca, presidente del Cnv: “Oggi un detenuto costa circa 150 euro al giorno. In comunità, se introdotto in percorso alternativi di recupero, il costo scende a 50 euro. Un risparmio di 36.500 euro l’anno per ciascun detenuto”, prosegue Patriarca. “Ebbene, istituzionalizzando le pene alternative, con il coinvolgimento di trentamila detenuti attualmente reclusi si arriverebbe a risparmiare oltre un miliardo”. In questo contesto si abbatterebbe anche la recidiva. “In assenza di misure alternative il tasso di recidiva nel primo triennio è dell’80 per cento, ma quando si adottano misure alternative la percentuale scende al 20. Riconoscere questo percorso significa quindi abbattere la recidiva di 60 punti. L’obiettivo che ci poniamo - spiega il presidente Cnv - è di mettere a sistema proposte, saperi ed esperienze. L’unione di azioni virtuose permette di favorire l’accoglienza, l’educazione e il reinserimento. Limitarsi a sottrarre i detenuti al sistema penale non ci permetterebbe di guardare oltre. Per questo è necessario investire nelle esperienze alternative. Tutto questo risolverebbe anche i problemi legati alla polizia penitenziaria, che oggi lamenta di essere in sotto organico”. Cnv, Seac e Conferenza nazionale volontariato e giustizia, insieme alle associazioni e alle organizzazioni non profit che operano nel settore carcere, hanno avviato un percorso comune per arrivare alla redazione di una proposta di legge. Per raggiungere questi obiettivi, con percorsi condivisi e partecipati, è stato avviato un percorso già nel luglio scorso con la tavola rotonda “Carcere, gestire l’alternativa. Istituzioni e terzo settore a confronto” organizzata presso la Camera dei Deputati di Roma. Cui è seguito un incontro a Rimini, nelle comunità dell’associazione Papa Giovanni XXIII (“Dalla certezza della pena alla certezza del recupero”). Mentre a fine ottobre è già in programma un nuovo incontro a Firenze. “È quindi necessario ribadire il principio del finalismo rieducativo della pena, che noi interpretiamo come un concetto di relazione. È in questa direzione che si muovono le comunità di accoglienza e tutti quei volontari che operano dentro e fuori dalle carceri. Queste azioni sono destinate al ritorno del detenuto nella comunità. Perché rieducare significa appunto rispettare i valori fondamentali della vita sociale”, aggiunge Patriarca. Del resto i dati fotografano una situazione apparentemente contraddittoria: se da una parte si certifica la diminuzione progressiva di reati dal dopoguerra ad oggi, dall’altra ci troviamo di fronte all’aumento fuori misura dei detenuti all’interno degli istituti penitenziari. “Un incremento dovuto anche agli effetti di norme come la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e la ex Cirielli. Leggi che ‘producono’ carcere senza rispondere ai reali bisogni. È anche per questo - spiega Patriarca - che è necessario rivedere sia queste norme sia il catalogo dei reati”. Nel commentare il messaggio del Presidente della Repubblica e la prospettiva di un nuovo indulto, Patriarca ricorda i vincoli imposti all’Italia dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. “Con la sentenza Torreggiani del gennaio scorso - conclude - ci è stato dato un anno di tempo per porre rimedio alla violazione dell’articolo tre della convenzione europea dei diritti dell’uomo, pena il pagamento di cifre ingentissime, stimate sui 50 milioni di euro, per indennizzare i detenuti che si troverebbero a vivere con meno di tre metri quadrati a testa. La scadenza è a maggio. In questo contesto il messaggio di Napolitano sulla situazione disumana in cui versano le nostre carceri è un testo che andava letto con attenzione. Non mi è parso intelligente interpretare quelle parole come una proposta di amnistia per Silvio Berlusconi. Né penso sia stato utile da parte di Matteo Renzi liquidare con una battuta la riflessione del Presidente. Piuttosto vale la pena raccogliere la sfida e approntare una soluzione degna di un paese come il nostro: investire sull’edilizia carceraria, attivare le pene detentive alternative, depenalizzare alcuni reati”. Ed è proprio sui costi del carcere che è dedicata il 46esimo convegno nazionale del Seac, che si terrà a Roma l’8 e 9 novembre 2013. Giustizia: nelle carceri 142 detenuti ogni 100 posti letto, con una recidiva del 70-90% Ansa, 15 ottobre 2013 Sono 65.701 i detenuti nei 206 istituti previdenziali per una capienza regolamentare di 46.995 al 31 dicembre 2012. Il dato è emerso in un convegno a Padova su “emergenza lavoro nelle carceri”, a cui partecipa il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. La presenza effettiva dei carcerati supera così del 42% la capienza regolamentare, quindi ogni 100 posti disponibili sono sistemati 142 detenuti. Non molti, 2.251, sono i detenuti che lavorano non alle dipendenze del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) 807 sono i semiliberi, 524 lavorano all’esterno del carcere, altri 714 lavorano nei penitenziari per cooperative sociali e altri 206 sono impiegati sempre nell’istituto per altre imprese. è del 3,45% la percentuale dei detenuti lavoranti rispetto ai presenti nelle carceri; il tasso di disoccupazione è del 96,55%. La recidiva reale si attesta al 70/90% per i detenuti che non svolgono alcuna attività lavorativa vera. Tra i detenuti che seguono invece un percorso di reinserimento lavorativo per cooperative sociali e imprese la recidiva scende al 1/2% quando i percorsi di reinserimento lavorativo cominciano all’interno del carcere e proseguono all’esterno in misura alternativa. Il costo di ogni detenuto, complessivamente, non solo il costo a carico del Dap, è di circa 250 euro giornalieri. Giustizia: il modello inglese per il reinserimento sociale dei detenuti può insegnare di Giovanna Melandri Europa, 15 ottobre 2013 Proprio in questi giorni, a seguito del lucido messaggio che il presidente Napolitano ha rivolto alle camere, è riemersa con forza la tragica condizione delle carceri in Italia. La drammaticità della questione è da tempo denunciata anche all’estero. Dal 2009, la Corte europea dei diritti dell’uomo, condanna sistematicamente l’Italia per le condizioni in cui versano istituti di pena. L’indulto e l’amnistia sono certamente il primo passo, necessario, ma non possono essere l’ultimo. Al contrario, bisogna avviare una riflessione più ampia, il carcere può diventare un settore in cui sperimentare modelli di innovazione sociale. Partiamo da uno dei nodi dei percorsi di reinserimento dei detenuti: il lavoro, o meglio l’assenza di lavoro. Il tasso di disoccupazione all’interno delle carceri è del 96,55% e il tasso di recidiva oscilla tra il 70 % e il 90%, eppure tra i detenuti che seguono percorsi di inserimento lavorativo all’interno di imprese sociali, la recidiva scende all’1-2%. Senza creare lavoro, viene meno il dettame costituzionale sulla natura rieducativa della pena. Perché allora non intervenire con un’azione istituzionale proprio finalizzata al reinserimento sociale dei detenuti? In Inghilterra, nel 2010, si sono interrogati su come rafforzare i modelli di intervento, ed il ministero di giustizia ha promosso la costituzione di un social impact bond (Sib) nel carcere di Peterborough. Proprio di questo modello, abbiamo discusso, martedì scorso, nell’evento annuale di Uman Foundation, a cui hanno preso parte gli amici di Social Finance, che, per conto del ministero della giustizia inglese, hanno costruito il Sib di Peterborough. La nostra proposta, nella sostanza, è quella di seguire il modello inglese e costruire un Sib pilota, qui in Italia, per il reinserimento sociale dei detenuti. L’idea è stata accolta con grande interesse dalla ministro Cancellieri, presente anche lei al convegno di martedì, che ha espresso la volontà di impegnarsi in questa direzione, per creare uno strumento di contrasto all’alto tasso di recidiva delle nostre carceri. Nei Sib tipicamente gli attori coinvolti sono cinque: una pubblica amministrazione, i fornitori di un servizio (di solito operatori del Terzo settore), gli investitori sociali, l’intermediario specializzato nell’emissione di un Sib e nella raccolta del capitale, un soggetto indipendente incaricato della valutazione del raggiungimento del risultato finale e del suo impatto. Secondo alcune stime, il costo di ogni detenuti è di 250 euro al giorno: oltre 90 mila euro all’anno. Un modello di intervento, “preventivo” come quello dei Sib, consente alla pubblica amministrazione di generare un risparmio: meno reati, meno detenuti, meno processi. Una parte delle risorse che provengono da questo risparmio, viene utilizzato per remunerare gli investitori, che hanno nella fase iniziale messo le risorse per l’avvio degli interventi. Il ritorno è proporzionale all’impatto sociale prodotto. Il meccanismo del Sib si basa, quindi, su una solida partnership tra pubblico-privato, dove il welfare statale si arricchisce di nuove forme di finanziamento, e incentiva coloro che erogano i servizi a lavorare sempre di più nella prospettiva di ottenere risultati misurabili, in termini di efficienza ed efficacia. In America ed in Inghilterra, dove questo strumento è chiamato anche pay for success o pay for result bond, il Sib sta dimostrando di essere uno degli strumenti più interessanti per riarticolare le politiche di inclusione nelle società avanzate. Perché non sperimentarlo anche in Italia? Giustizia: Cancellieri; da qui a maggio dobbiamo “cambiare passo” per presentarci all’Ue Asca, 15 ottobre 2013 “Noi dobbiamo presentarci in Europa a maggio dimostrando che abbiamo cambiato passo”. Lo ha detto, a proposito della situazione delle carceri in Italia, il ministro della giustizia Anna Maria Cancellieri, concludendo a Padova un convegno sui detenuti al lavoro organizzato dalla cooperativa Giotto. Il passo è da cambiare non solo dal punto di vista delle condizioni in carcere, ma anche per quanto riguarda il lavoro che interessa “una percentuale minima”, intorno al 3,4% della popolazione che vive dietro le sbarre. Eppure, ha riconosciuto la rappresentante del Governo, “il lavoro dà dignità alle persone, permette che si realizzino”. Il problema, come ha osservato Cancellieri, è anche quello di poter confezionare “prodotti che possano stare sul mercato”, come quelli presentati a Padova. “Mi impegno a portare questi modelli anche altrove” ha concluso il ministro. Caserme dismesse per detenuti reati minori Il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, ha ricordato che si stanno costruendo nuove carceri “e naturalmente non ci fermeremo, nel senso che è comunque importante modificare l’indirizzo penitenziario, oltre ad aumentare i posti, anche rendere diversi i luoghi che li ospitano”. “E su questo - ha aggiunto - stiamo lavorando coi mezzi finanziari di cui disponiamo che non sono eccezionali. Però alla data del 2015 avremo 10 mila posti in più”. Il ministro, oggi a Padova, ha poi osservato che sulla legge di stabilità “non c’è nulla che riguardi questo settore perché stiamo utilizzando i mezzi che abbiamo”. Una soluzione questa che, ha sottolineato il ministro Cancellieri, “ci comporta esattamente il dimezzamento della spesa, il netto risparmio almeno del 50%. Tutto quello che sarà di nuovo - ha aggiunto - non saranno altre costruzioni, a meno che non siano ampliamento di padiglioni interno alle carceri, ma utilizzo dei beni demaniali pubblici perché è un modo per non costruire più oltre quello che già c’è spendendo sicuramente meno”. “Faremo il punto della situazione - ha concluso - fra un anno per vedere che cos’altro si può fare”. Solo 3,45% detenuti al lavoro è ridicolo Il dato che stima nel 3,45% il numero di detenuti nel complesso delle nelle carceri italiane impegnato in un lavoro è per il ministro Anna Maria Cancellieri una “percentuale ridicola”. “Bisogna fare un salto di qualità e cerchiamo di invertire i numeri portando al 96,55% gli occupati - ha detto - E incominciamo a dire che all’interno delle carceri si produce e si fa impresa”. “Cerchiamo - ha aggiunto Cancellieri - di cambiare mentalità, di far comprendere ai detenuti che lavorando che fanno anche un atto utile alla società, oltre che guadagnarne personalmente; che attraverso il lavoro realizzano sé stessi”. Il tema del lavoro per i detenuti è basilare anche alla luce del dato della bassa recidività (1/2%) per i detenuti che seguono percorsi di reinserimento lavorativo. Ed è stato anche questo risultato che ha portato il ministro a pensare alla “nomina di un Commissario al Lavoro delle carceri; attraverso questo modo - ha detto - riusciremo a cambiare modo e passo”. Il ministro ha poi citato come esempi di penitenziari dove il lavoro è parte integrante della rieducazione dei detenuti il carcere di Bollate e quello di Padova, al quale ha fatto visita proprio oggi. “Mi ha fatto un immenso piacere - ha affermato - vedere come un carcere enorme, perché enorme è anche l’affollamento esistente, sia tenuto molto bene, pulito, organizzato e soprattutto con una straordinaria capacità di lavoro cha fa di Padova un modello”. “Vorrei che i modelli come quello di Padova - ha osservato - venissero sfruttati anche in tutte le carceri italiane”. Anna Maria Cancellieri ha ricordato infine che le occasioni di percorso lavorativo sono molteplici, sia all’interno del carcere, dove l’occupazione riguarda i vari servizi ma anche la digitalizzazione degli atti penitenziari, sia all’esterno: come la pulizia dei torrenti e molti altri lavori socialmente utili. “Ognuno sa quello che riesce a fare. Facciamo - ha concluso - in modo che si rispetti l’Articolo 27 della Costituzione”. Ipotesi commissario per il Lavoro Il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri sta lavorando per istituire la figura di Commissario del Lavoro per le carceri e giudica interessante la realizzazione del ‘Social Impact bond’, prodotto finanziario che alla scadenza darà un certo profitto agli investitori privati, in relazione sia ai servizi svolti che alla recidività dei detenuti. Una realtà già esistente in alcuni Paesi come gli Usa e la Gran Bretagna. I due temi sono emersi a Padova nel convegno su “Emergenza lavoro nelle carceri”, a cui ha partecipato anche il Capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziario, Giovanni Tamburino. “Il problema del sovraffollamento delle carceri - ha detto il ministro - non è il solo. C’è anche quello della vita negata ai detenuti, che invece la devono avere”. Per il ministro “è una battaglia culturale per cambiare atteggiamento nei confronti dei detenuti”. Detenuti potrebbero pulire torrenti o digitalizzare “A chi è nelle carceri e non ha possibilità di fare impresa dobbiamo consentire di fare lavori di utilità pubblica, dentro o fuori le carceri: abbiamo sempre più bisogno di qualcuno che vada a sradicare l’erba sui torrenti che nessuno pulisce o di un mondo che nelle carceri possa fare delle attività di digitalizzazione di atti, con una pubblica amministrazione sempre in affanno e comuni in difficoltà”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, intervenendo a Padova alla presentazione del primo dei Quaderni su Carcere e Giustizia dal titolo “Emergenza lavoro nelle carceri”. Per Cancellieri “nelle carceri sicuramente c’è un problema di sovraffollamento, ma il problema più importante è che nelle nostre carceri non diamo agli uomini la dignità che devono avere. Anche se non è così dappertutto e ci sono in Italia delle situazioni nelle quali questo miracolo avviene, non riusciamo a consentire a queste persone di realizzare a pieno la loro dignità di vita. Abbiamo una grossissima battaglia culturale da fare per cambiare l’atteggiamento nei confronti dei detenuti: a parte l’applicazione dei regolamenti, che non sempre vengono rispettati, la chiave di lettura di tutto questo e la vera svolta è nel lavoro, che nelle carceri tocca una percentuale minima e ridicola di detenuti. Occorre fare un salto di qualità e cambiare mentalità e cambiare pagina. Cerchiamo di cambiare mentalità e chiedere alle persone nelle carceri di svolgere anche lavori importanti e utili e che diano risposte alla società”. “Occorre che tutto il mondo nelle carceri possa trovare in un modo o nell’altro l’esperienza del lavoro, retribuito o no, socialmente utile o meno, ma che tutti con il lavoro possano realizzare se stessi”, ha continuato il ministro, per il quale è necessario dare una “possibilità di lavoro a più piani, dall’imprenditoriale al socialmente utile: ognuno ha diritto a fare quello che può, secondo le sue capacità. Dobbiamo dare a tutti un’opportunità per potersi realizzare. È una bella impresa, ma credo che si possa fare e dobbiamo farlo dappertutto”. In questo senso, ha concluso Cancellieri, “la proposta di nominare un commissario al lavoro nelle carceri è interessante: forse occorre una capacità di coordinamento e di indirizzo più forte, occorre un’accelerata su questi temi, perchè solo in questo modo riusciremo a cambiare passo e mentalità”. Giustizia: Gozi (Pd): Italia “delinquente abituale”, da sola ha 11% condanne Corte europea La Presse, 15 ottobre 2013 “L’Italia è un delinquente abituale, basti guardare le ripetute condanne ricevute per le stesse problematiche, in primis sovraffollamento delle carceri e lentezza dei processi. Su 47 Paesi del Consiglio d’Europa, noi “produciamo” l’11% delle condanne corte, dietro solamente a Russia (22%) e Turchia (13%)”. Così Sandro Gozi del Pd, neo vicepresidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, con delega alle carceri e relatore di una delle proposte di legge sull’amnistia e l’indulto, che verranno discusse nei prossimi giorni dal Parlamento, intervenendo in apertura del convegno “Emergenza lavoro nelle carceri” tenutosi oggi a Padova. “I costi di questa realtà - prosegue Gozi - sono altissimi: solo per la lentezza dei processi, infatti, dobbiamo alla Corte ancora 500 milioni di euro. Inoltre, se entro maggio 2014 non risolveremo l’emergenza carceri, la ripresa dei processi contro l’Italia ci costerà altre centinaia di milioni di euro. Una manovrina, questa, che i contribuenti italiani sarebbero obbligati a pagare per l’illegalità dello Stato”. Il convegno ha visto la partecipazione, tra gli altri, del Ministro della giustizia Anna Maria Cancellieri, del Ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato e del Presidente del gruppo editoriale L’Espresso Carlo De Benedetti. “è quindi urgente - prosegue Gozi - una seria riforma della giustizia che trovi i suoi obiettivi chiave nei processi rapidi e nella certezza della pena. In parallelo, occorre un’amnistia capace di decongestionare le carceri e soprattutto i tribunali, oberati dai processi”. Uno Stato illegale non è credibile nel momento in cui chiede ai suoi cittadini di rispettare la legalità. Purtroppo, dobbiamo constatare che il primo esempio negativo per i giovani italiani oggi viene proprio dallo Stato”, conclude Gozi. Giustizia: Comitato Nazionale Bioetica; cure e condizioni di vita accettabili per i detenuti Adnkronos, 15 ottobre 2013 Ancora molti ostacoli per la tutela del diritto alla salute in carcere, dove si registrano tra l’altro, ritardi nelle cure e differenze di assistenza a livello regionale. A rilevarli il Comitato nazionale per la bioetica ha pubblicato il parere “La salute dentro le mura”, un documento elaborato da Grazia Zuffa, coordinatrice del gruppo di lavoro, che indica anche le aree di intervento necessarie. Diverse le problematiche aperte: dalla carente programmazione sanitaria in base alle peculiarità della popolazione detenuta, ai differenti livelli di prestazioni sanitarie fra regione e regione che inficiano il diritto del detenuto alla continuità delle cure, quando sia trasferito da un carcere all’altro; alle carenze nel rapporto col medico di base o di reparto; all’inadeguata informazione al paziente e ai suoi parenti; al rispetto della privacy, non sempre assicurato”. “Ancora più grave - dice il Cnb - il fatto che si registrano ritardi nelle visite specialistiche e negli interventi che devono essere eseguiti fuori dal carcere, fino a casi di persone con gravi patologie cui non viene riconosciuta, o viene riconosciuta troppo tardi, la incompatibilità con la detenzione”. Per ciò che riguarda i detenuti e le detenute, il diritto alla salute, sottolinea il comitato, “acquista rilievo etico particolare, per molteplici ragioni: in primo luogo, perchè questa popolazione rappresenta un gruppo ad alta vulnerabilità bio-psico-sociale, il cui livello di salute, ancor prima dell’entrata in carcere, è mediamente inferiore a quello della popolazione generale. Inoltre, il principio della pari opportunità (fra detenuti e liberi) nell’accesso al bene salute da un lato incontra ostacoli nelle esigenze di sicurezza, dall’altro entra in contraddizione con una pratica di detenzione che produce sofferenza e malattia”. Ad avviso del Cnb “ne consegue per tutte le autorità competenti, ad iniziare da quelle sanitarie, un dovere di sorveglianza e verifica dell’effettivo rispetto del diritto alla salute dei detenuti. In linea con gli organismi internazionali e col dettato della riforma sanitaria in carcere del 2008, il diritto alla salute, anche e soprattutto in carcere, non si esaurisce nell’offerta di prestazioni sanitarie adeguate: particolare attenzione deve essere prestata alle componenti ambientali, assicurando alle persone in carcere condizioni di vita e regimi carcerari accettabili, che permettano una vita dignitosa e pienamente umana. Perciò, problemi quali il sovraffollamento, l’inadeguatezza delle condizioni igieniche, la carenza di attività e di opportunità di lavoro e di studio, la permanenza per la gran parte della giornata in cella, la difficoltà a mantenere relazioni affettive e contatti col mondo esterno, sono da considerarsi ostacoli determinanti all’esercizio del diritto alla salute: il servizio sanitario dovrebbe farsi carico di questi aspetti, al fine di combatterli in un’ottica preventiva”. Il passaggio della sanità penitenziaria al servizio sanitario nazionale ha rappresentato, secondo il Cnb, “un passo importante verso l’obiettivo del raggiungimento della parità dei livelli di salute fra detenuti e liberi. Tuttavia, a distanza di cinque anni, diverse problematiche rimangono aperte”, come già accennato. Queste le aree chiave di intervento individuate dal Cnb: “l’istituzione di una cartella sanitaria nazionale informatizzata; lo sviluppo della telemedicina; la salute mentale (garantendo non solo personale sanitario specialistico adeguato, ma la riduzione dei fattori di stress ambientali); la prevenzione del suicidio e dell’autolesionismo; una maggiore attenzione alle donne detenute, sotto l’aspetto della differenza di genere; il completo adeguamento dei programmi in carcere agli standard dei servizi sul territorio per le persone dipendenti da sostanze psicoattive; la prevenzione della trasmissione della infezione Hiv e il trattamento adeguato delle persone sieropositive; la parità di trattamento per i migranti; la chiusura dei Centri di identificazione ed espulsione, o quanto meno la loro riduzione a misura eccezionale, con prestazioni sanitarie erogate a cura del Ssn”. Nelle raccomandazioni, il Cnb, prendendo spunto dalla condanna dell’Italia a causa del sovraffollamento carcerario da parte della Corte europea di Strasburgo del gennaio 2013, ribadisce il valore della prevenzione, affinché sia assicurato ai detenuti e alle detenute un ambiente rispettoso dei diritti e dei principi di umanità. Infine, invita a sorvegliare affinché un settore come il carcere, che necessita di molti sforzi per raggiungere standard accettabili di vivibilità, non abbia al contrario a soffrire per la contrazione delle risorse. Giustizia: riforme o clemenza, una falsa alternativa di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 15 ottobre 2013 Lo scorso 11 di ottobre un pm veneziano ha riferito di avere visitato la cella 408 del carcere di Venezia che è al centro di una inchiesta penale. In quella cella il 5 marzo 2009 si suicidò impiccandosi Cherib Debibyaui. Aveva 28 anni. Ci aveva provato anche qualche giorno prima ma i due compagni di prigionia gli avevano salvato la vita. Pare che il giovane qualche giorno dopo quel tentativo fosse stato trasferito in una cella di punizione. Il giudice quella cella è andata a vederla e l’ha descritta: buia, con un odore forte e nauseante, con escrementi per terra. Era una cosiddetta cella liscia, senza acqua, senza luce, senza riscaldamento, senza letto. La cella di punizione sembra fosse riservata ai detenuti difficili. Un detenuto che tenta di ammazzarsi è per definizione “difficile”, in quanto non capace di farsi la galera. In quella cella di rigore, prima di ammazzarsi, ci sarebbe stato per quasi tre giorni. Le tragedie non finiscono qui. Pochi mesi dopo si suicida anche uno degli agenti coinvolti nell’inchiesta. Si ammazza dopo avere assassinato la moglie. Era stato da poco congedato a causa di problemi psicologici. Che c’entra questa storia con la discussione pubblica intorno all’amnistia, all’indulto e alle riforme possibili? C’entra per tanti versi. Perché la questione carceraria è una questione tragica. Perché Cherib Debibyaui era straniero, come il 35% dei detenuti rinchiusi nelle carceri italiane. Perché era giovane come Daoudí Abdelaziz, morto suicida ad agosto nella casa circondariale di Padova a 21 anni o Mokhar Ahmed Mohamed ammazzatosi a Caltanissetta a 24 anni oppure Octavio Lazala de Los, anche lui ventiquattrenne, suicidatosi a giugno a Poggioreale, il carcere dove il capo dello Stato ha annunciato il messaggio alle Camere. C’entra infine perché la Corte Europea dei diritti umani ci ha detto di diminuire il numero complessivo di detenuti ma ci ha anche imposto di trattarli in modo rispettoso della loro dignità. Se chi ha in mano il pallino della decisione politica si prodigasse nell’andare a conoscere le biografie dei vivi e dei morti in carcere forse deciderebbe meglio e con più cognizione di causa. Si accorgerebbe che il sovraffollamento è sicuramente provocato in via diretta dalle norme populiste e classiste sulla recidiva e dagli eccessi puniti i della legge sulle droghe e in via indiretta dalle scelte proibizioniste e illiberali sull’immigrazione. leggi che vanno abrogate, non tanto perché producono sovraffollamento (non sarebbe motivo sufficiente), ma in quanto penalmente ingiuste, eticamente mal orientate, non ispirate al principio costituzionale di offensività. In questi giorni stiamo assistendo a un brutto gioco sulla pelle di chi è in galera. Chi a sinistra non vuole l’amnistia e l’indulto usa l’argomento che basterebbe cambiare le leggi che hanno criminalizzato consumatori di droghe e migranti. Chi a destra spinge per l’amnistia e l’indulto non si sogna nemmeno di mettere mano a quelle leggi. Eppure i giudici europei ci avevano dato una chance per avviarsi verso una via di uscita corretta dalla tragedia carceraria. Una via di uscita che richiede l’approvazione di tutti i provvedimenti citati e di altri ancora. Richiede che si abbandoni la via dell’emergenzialismo penale, che si universalizzino le misure alternative, che si depenalizzi lo status di consumatore di droghe e di immigrato irregolare, che si tutelino i diritti dei detenuti e si preservi la loro vita e la loro dignità umana, che non si metta in carcere una persona se non c’è posto. La via di uscita europea richiede anche però che si approvi un provvedimento di clemenza, senza il quale si rischierebbe la tragedia umanitaria. Chi ha a cuore la questione penitenziaria deve sottrarsi al gioco riforme o clemenza. Anche di questo discuteremo oggi e domani presso il Dipartimento di giurisprudenza di Roma Tre (info su www.associazioneantigone.it) con il presidente della Corte Costituzionale e il ministro della Giustizia. Una discussione per fare chiarezza e per non trasformare i detenuti e gli immigrati in prigionieri di Berlusconi. Giustizia: celle di tre metri, niente cure mediche.... ecco come torturiamo i detenuti di Fabrizio Gentile www.lanotiziagiornale.it, 15 ottobre 2013 Responsabilità civile dei magistrati, lentezza dei processi, trattamento inumano all’interno degli istituti di pena. Vista dall’Europa la situazione delle carceri italiane, e più in generale della Giustizia, è drammatica. E la pioggia di “infrazioni” sta a testimoniarlo. In realtà lo sarebbe anche vista dall’Italia, se solo la miopia politica negli anni non avesse scientificamente evitato di inforcare gli occhiali che Pannella e i radicali hanno ripetutamente cercato di offrire al Parlamento, arrivando allo sciopero della sete e alla lotta referendaria pur di mettere in agenda il caso-Italia. Nemmeno il primo forte richiamo del presidente della Repubblica è servito a scuotere le coscienze dei parlamentari, se non per le solite generiche pelose (e momentanee) prese di posizione che si sono succedute ovviamente senza portare ad alcunché. Ora però la misura è colma, e una decisione non è più rimandabile. Indulto, amnistia, nuove carceri: oggi ci si concentra su contrapposizioni a volte ideologiche, più spesso di mero botteghino elettorale, e ancora una volta non si fanno i conti con i numeri, che pure sono connaturati al concetto stesso di analisi. I numeri dello scandalo Il rapporto del Ministero della Giustizia aggiornato al 30 settembre scorso ci parla di una capienza regolamentare di 47.615 posti a fronte di una popolazione carceraria di 64.758 internati. E per chi si impressionasse al pensiero che siamo fuori di oltre 15.000 persone (devastante chiamarle “unità”), dobbiamo aggiungere che il dato “regolamentare” è suscettibile di cambiamenti, purtroppo verso il basso; e che comunque una cosa è la capienza in sé, altra è la vivibilità dello spazio definito come “capienza”. Celle buie e sfornite dei minimi servizi, spesso anche di riscaldamento, gli Istituti di Pena del nostro Paese sono attualmente luoghi di sospensione del diritto, che sopprimono ogni possibilità di porre in essere il recupero ed il reinserimento nel tessuto sociale. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia perché nelle sue carceri si violano i diritti dei detenuti, tenuti in celle con a disposizione spesso meno di 3 metri quadri. I detenuti già affetti da malattie al momento della reclusione, non sono curati adeguatamente o, talvolta, non vengono sottoposti ad alcuna terapia. Il sovraffollamento Poi c’è il sovraffollamento: la presenza effettiva dei carcerati supera del 42% la capienza regolamentare, quindi ogni 100 posti disponibili sono sistemati 142 detenuti. L’Ordinamento Penitenziario che regolamenta le condizioni di vita delle carceri italiane afferma, tra gli altri principi, che “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Tuttavia, il sovraffollamento degli istituti di detenzione, il numero elevato dei suicidi e delle morti in carcere dimostrano lo stato di emergenza della situazione penitenziaria italiana. Nell’anno in corso sono già 39 i suicidi in carcere, 123 il numero totale delle morti. In attesa di giudizio Si dirà: sono criminali, se la sono cercata. Le cose non sono esattamente in questi termini. Una cosa è la condanna, altro è il trattamento inumano per chi è stato ristretto in carcere, che assume il contorno di una pena aggiuntiva quando non addirittura di una tortura (perché così viene vista in ambito europeo). E poi per condannare qualcuno a tutti noi sembra ovvio che ci sia un processo, delle prove. Poi però scopriamo che 12.333 persone sono dentro una cella in attesa di primo giudizio, cioè in attesa di sapere se siano o meno colpevoli di qualcosa. Un problema che diventa evidente nella sua gravità solo se per qualche motivo si viene coinvolti nell’ingranaggio tritacarne della Giustizia italia. Il punto dunque non è quello di fare una favore o meno a Berlusconi: il punto è di fare in modo che in galera ci vada chi se lo è meritato davvero, e che i 5 milioni di procedimenti arretrati possano essere eliminati per permettere alla macchina della giustizia di ripartire, su basi nuove e regole certe. Giustizia: vade retro amnistia... dopo Renzi, ecco i “renzini” di Valter Vecellio Notizie Radicali, 15 ottobre 2013 Provate a digitare su Google “patacca” o “pataccata”. Ne ricaverete che, in Romagna in particolare, ha due diversi significati. Lo si usa per indicare una bella donna; oppure, se riferito a un uomo, a un cretino, uno sciocco, un buffone o sbruffone. L’equivalente di quello che in Veneto è un mona, in Toscana un bischero, in Lombardia un pirla. Di sicuro né Domenico Petrolo (che oggi impariamo essere nientemeno che componente del Dipartimento cultura e informazione del Partito Democratico; e questo chiarisce tante cose), e il senatore, sempre del Pd, Lodovico Sonego, non sono belle donne. Resta dunque l’altro significato. Non erano sufficienti le bischerate demagogiche di Matteo Renzi (Emanuele Macaluso ha detto sul suo conto qualcosa di definitivo: non risolverà i problemi del Pd, ne procurerà, piuttosto: “Ragiona per sondaggi, per puro calcolo utilitaristico. Si preoccupa di acchiappare il massimo consenso possibile, da qualunque parte provenga, ma poi se ne frega delle conseguenze sulle persone”); ecco subito dei “renzini” che provano a imitarlo. Che cosa fa Petrolo, del Dipartimento cultura e informazione del Pd? Scrive una noticina sul “Huffington Post”; argomenti davvero originali, per sostenere che il NO all’amnistia è cosa di sinistra, e che piuttosto occorrono - grande! - le riforme. “Se il grado di civiltà di una società si misura dalle sue prigioni come affermava Dostoevskij allora il grado di civiltà dell’Italia è veramente basso”, riconosce Petrolo, dotta citazione (è o no del Dipartimento cultura?), accompagnata dalla “notizia” che il livello civile del nostro paese è basso (è o no del Dipartimento informazione?). Sempre per non smentire d’essere uomo di cultura e informazione, ecco altre “notizie”: i detenuti in Italia al 31 ottobre 2012 erano 66.685 a fronte di una capienza regolamentare dei 206 penitenziari italiani di 46.795 posti; che sono indice di “un disastro che rende disumane le condizioni di vita dei detenuti e trasforma questi luoghi deputati alla riabilitazione in vere e proprie università del crimine”; infine la rivelazione: “Non ci sono dubbi: esiste da anni una questione carceri in Italia”. A questo punto, che ne ricava un esponente del Dipartimento cultura e informazione del Pd come appunto Domenico Petrolo? Che non è detto “che l’unica soluzione sia aprire le porte ogni 7 anni? L’ultimo provvedimento è del 2006 ed oggi ci ritroviamo da capo a dodici. E probabilmente ci ritroveremmo cosi anche fra 7 anni”. Capito l’argomento cultural-informativo di Domenico Petrolo, del Dipartimento Cultura e informazione del Pd? Certo, conviene: “Non possiamo accettare che i detenuti vivano nelle condizioni attuali”. Non possiamo. Perché non possiamo? Ma perché “siamo al limite del rispetto dei diritti umani”. Al limite. Ma non è un limite sufficientemente limite, per Domenico Patrolo, del Dipartimento Cultura e informazione del Pd. Anzi, non è un limite per nulla. Anzi, quello che non è “accettabile” è che la politica, non riuscendo a produrre soluzioni strutturali, proceda con le solite soluzioni tampone che lanciano sempre lo stesso messaggio: il rispetto delle regole in questo Paese è un’opzione possibile ma non necessaria. “Solite”. Ogni sette anni, sono “solite”. E il rispetto delle regole… Passa mai per la testa di Domenico Petrolo del Dipartimento cultura e informazione del PD che il primo a violare le regole, le leggi, in questo Paese è proprio lo Stato? Che al rispetto delle regole, delle leggi, ci richiama la Cedu e ci ha dato ancora solo qualche mese, per provvedere? Che rispetto delle regole, delle leggi significa uscire dalla flagranza di reato in cui siamo immersi da anni, e che il problema è l’intollerabile durata dei processi, non solo la situazione delle carceri? Domenico Petrolo, del Dipartimento cultura e informazione del PD si è occupato, dice, per qualche anno di sicurezza per il comune di Roma. Anche questo spiega qualcosa. Occupandosene ha visto “sul campo quanto la “Legalità” sia naturalmente un valore di sinistra. Una comunità si fonda sul rispetto delle regole che si è data e quando non c’è il rispetto di tali regole a farne le spese sarà sempre il più debole. E la famosa “Sinistra” con la S maiuscola non dovrebbe stare dalla parte dei più deboli?”. La domanda sorge a questo punto spontanea: c’è, o ci fa? Valga per lui quello che disse Marco Pannella a proposito di Dario Franceschini a “Ballarò”. Il senatore piddino Lodovico Sonego viene avanti, al pari di Walter Chiari quand’era chiamato da Carlo Campanini. Il suo pensiero lo affida al “Messaggero Veneto”: “amnistia o indulto sono una soluzione sbagliata, lo dico avendo ben presente la situazione drammatica dell’amministrazione della giustizia e la condizione inumana delle carceri”. Ha ben presente. Giustizia e organizzazione carceraria, assicura il senatore Sonego “manifestano problemi cui va data una risposta all’altezza di un paese moderno e civile”. E però, anche se “manifestano”, la risposta “all’altezza” non può essere “l’atto di clemenza di cui si parla”; che sarebbe un alzare “bandiera bianca perché in questo modo i problemi si eludono e non si risolvono”. Fissato con questi solidi argomenti che “il presupposto l’indulto o l’amnistia non sono la soluzione e l’esperienza di analogo deliberato parlamentare varato con Prodi e Mastella lo conferma”, cosa propone il senatore Sonego? Tenetevi forte, perché è davvero qualcosa che nessuno avrebbe mai detto: “È dalla riforma e dall’edilizia penitenziaria che si deve iniziare”. Data la risposta, il senatore si pone la domanda: “Ma è pensabile si riesca a fare in tempi brevi una convincente riforma e a migliorare l’ospitalità delle carceri sì da consentire che il dibattito sulla clemenza offra sbocchi ravvicinati? Vorrei dire di sì proprio perché ho in mente le carceri italiane eppure so che se lo facessi sarei ingannevole. Se le cose stanno così, e così stanno, la clemenza non è un problema odierno”. E dunque? E dunque, il senatore Sonego assicura che parteciperà “alla discussione che sull’argomento si svolgerà nel gruppo senatoriale del Pd con queste considerazioni e sollecitando l’inizio di quel cammino di riforme che comunque vanno fatte”. Nel frattempo, una notizia “non notizia”, una decina di righe diffuse dall’”ANSA”: “La testa infilata in un sacchetto e, accanto, il fornellino a gas: è stato trovato morto così ieri dalla polizia penitenziaria, riverso sul pavimento della cella nel carcere di Perugia, il forlivese Davide Valpiani, 49 anni, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Vincenzo Di Rosa, fratello della sua compagna avvenuto nel 2005 a Cervia (Ravenna). Due giorni prima, riferisce il Resto del Carlino, aveva parlato al telefono con il difensore, Gianluca Alni: “Sono innocente. Faccia qualcosa”. Giustizia: contrari alla clemenza sette italiani su dieci e il 63% degli elettori Pdl Ansa, 15 ottobre 2013 Che non fossero provvedimenti su cui creare consenso elettorale era già stato messo in conto, a destra e a sinistra. Pure chi si è schierato a favore di amnistia e indulto, per far fronte all’emergenza di carceri affollate oltre il limite, non ha nascosto di sostenere una scelta «impopolare». I dati della rilevazione condotta da Ispo per il Corriere della Sera lo confermano. E ne danno anche la misura: il 71% degli intervistati è contrario ad amnistia e indulto. Favorevole a questi provvedimenti di clemenza, invece, è il 27%. Una percentuale minima, appena il 2%, non sa: su certi temi le opinioni tendono a polarizzarsi. A sondare l’elettorato dei diversi partiti, poi, a variare è solo la misura della contrarietà, che rimane comunque maggioritaria. Sarà perché «la legalità è di sinistra», come vuole Matteo Renzi, o per le polemiche politiche che riguardano la sorte giudiziaria di Silvio Berlusconi, ma tra chi vota Partito democratico è la maggioranza a essere contraria alla clemenza: il 67% (contro il 32%). Come nell’elettorato del Popolo della libertà, dove, mentre si continua a discutere sul futuro del Cavaliere, è comunque la maggioranza a dire di non volere amnistia e indulto: il 63% degli elettori (contro il 35%). Il picco è tra gli elettori del Movimento 5 Stelle: contrari a questi provvedimenti 3 elettori su 4. È visto invece con favore dalla maggioranza degli intervistati l’altro tema che anima il dibattito politico: la depenalizzazione del reato di clandestinità. Il 62% vorrebbe che non fosse più reato, contro il 35%. E secondo i dati Ispo a volerlo sono, più di tutti, gli elettori del Movimento 5 Stelle, che pure su questo tema si è diviso. Se Grillo e Casaleggio hanno richiamato i parlamentari che, a Palazzo Madama, hanno presentato l’emendamento per abolire il reato di clandestinità, a essere d’accordo con i senatori cinque stelle è il 78% degli elettori del Movimento intervistati, praticamente quattro su cinque, contro il 21%. Più che nel Pd (71% i favorevoli, 28% i contrari). L’elettorato del Pdl, che pur difende l’impianto della Bossi-Fini, è diviso a metà: il 50% vorrebbe che il reato di clandestinità fosse depenalizzato. Giustizia: le carceri inumane e la “pancia” per Paese La Repubblica, 15 ottobre 2013 L’autonomia della politica è cosa buona e giusta, ma da parecchio tempo anche poco praticata. Matteo Renzi, l’uomo nuovo per la sinistra e non solo, ha ben chiaro questo concetto. A ogni passo, a ogni discorso, sembra voler ribadire la necessità di tornare a governare (un partito, un Paese) senza prestare troppa attenzione ai distinguo suggeriti, in qualche caso anche imposti, da poteri più o meno forti, istituzionali, economici o culturali che siano. La politica deve impegnarsi a fare, libera anche di sbagliare ma sciogliendo con decisione lacci e lacciuoli che l’hanno via via ridotta all’angusto compito di amministrazione dell’esistente. Una svolta, questa del sindaco di Firenze, ancora più radicale della rottamazione dei dirigenti di lungo corso e persistente potere. Ma anche la strada buona e giusta dell’autonomia della politica non è priva di insidie. Per esempio, Renzi dice, tra le tante cose, che è contrario a indulto e amnistia. Poi spiega, pungolato dalle critiche, che la sinistra è da sempre per la legalità. Domanda: è legale la condizione delle carceri italiane? Risposta: no per tutti, dal capo dello Stato al più ignoto dei reclusi. Dopo Serbia e Grecia, l’Italia è il Paese del Consiglio d’Europa (47 Stati membri) con il peggiore indice di sovraffollamento: 147 umani dove ce ne dovrebbero stare 100. Terzi, dietro Ucraina e Turchia, anche per detenuti in attesa di giudizio. Una situazione palesemente incivile, e contro i basilari diritti dell’uomo, compreso l’uomo o la donna condannato. Invocare come argomento anti-clemenza il “se sono dentro qualcosa avranno fatto, quindi niente pietismi” equivale a dire che i naufraghi morti a migliaia a Lampedusa e dintorni “un po’ se la sono cercata perché potevano starsene a casa loro”. Questa Renzi finora se l’è risparmiata (Grillo no) ma non è mai troppo tardi. Indulto e amnistia, o amnistia, o indulto, hanno uno scopo che neppure al leader in pectore del Pd e, chissà, di un futuro governo, può sfuggire: sono provvedimenti tampone, pensati e riproposti in queste settimane non tanto per placare l’ira di Berlusconi, che comunque non ne godrebbe, ma per affrontare un’emergenza sociale, che è poi quella di svuotare di un po’ di inumanità le nostre prigioni. L’Italia è specializzata in soluzioni a tempo, anche di questioni meno attinenti ai princìpi base della Costituzione. Basti pensare all’ingresso frettoloso delle Poste per rallentare il tracollo di Alitalia. Ma quello alla gente sembra interessare meno, i conti li pagherà più avanti senza neanche ricordarsi il perché l’Iva sale o spunta una nuova tassa con un acronimo inintelligibile. Alla gente, cioè agli elettori, specie in momenti di spavento come questo, importa solo essere rassicurata. “Fuori i delinquenti dalle galere? Ci manca solo questa”. Ed ecco che Renzi, più attento ai sondaggi che ai valori, liscia il pelo di chi potrebbe votarlo, andando in contromano rispetto ai sentimenti che dovrebbero, sottolineo “dovrebbero”, distinguere una persona di sinistra da una di destra. Fare politica usando come bussola i radaristi dell’opinione pubblica è stato uno dei pilastri della filosofia berlusconiana di governo. Non è vietato. Ma un leader non si fa guidare dalla pancia pigra di un Paese. Un leader guida, anche prendendosi dei rischi, nel nome di un interesse più alto e più grande: la coerenza con i propri ideali, e con quelli della base che si propone di rappresentare. Un leader, un vero leader, non fa il furbo. Giustizia: Matteo Renzi cerca facili consensi… ma noi non possiamo inseguire i leghisti di Umberto Rosso La Repubblica, 15 ottobre 2013 “Un segretario così, che dice cose così sull’ amnistia, non risolverà i problemi del Pd. Glieli procurerà, piuttosto”. Matteo Renzi non va bene come leader dei democratici, senatore Emanuele Macaluso? “Io non sono iscritto al Pd, e non a caso. Ma credo che con lui alla guida il partito non si collocherà più non dico a sinistra ma nemmeno nel centrosinistra”. Lo dice perché ha polemizzato con Giorgio Napolitano? “No, non penso nemmeno che il suo obiettivo fosse il capo dello Stato. Renzi, ecco l’aspetto preoccupante, ragiona per sondaggi, per puro calcolo utilitaristico. Si preoccupa di acchiappare il massimo del consenso possibile, da qualunque parte provenga, ma poi se ne frega delle conseguenze sulle persone”. Sarebbe il motivo della sua uscita contro l’amnistia? “Certo. Ragiona così: legge i sondaggi, vede l’aria che tira, valuta se gli fa gioco o meno mettere in campo una certa posizione. E poi parla alla pancia della gente, asseconda le pulsioni anche più “arretrate” pur di fare cassa “elettorale”. In questo caso, ha rivestito il tutto agitando la bandiera della difesa della legalità, colta addirittura dal punto di vista dei ragazzi. Quanto al resto, non gli importa nulla dei problemi delle persone in carne e ossa coinvolte”. In che senso? “Evidentemente se ne frega della condizione di sofferenza dei detenuti, dello spaventoso sovraffollamento, di come si vive e si muore nelle carceri italiane. Lo ha denunciato, condannando l’Italia, perfino la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Però, se “aprire” le celle non è popolare e non porta audience, chi se ne importa”. Però in effetti il ricorso all’amnistia incontra sempre resistenze molti forti nell’opinione pubblica. “Sì, ma allora la battaglia politica chi la fa? Se basta assecondare i sondaggi e solleticare gli istinti della pubblica opinione, che ci stanno a fare i leader, partiti e movimenti? Il loro compito è aprire la strada al confronto, alla riflessione, far cambiare e maturare le opinioni e il senso comune. Invece, trionfa un modo di far politica che io, francamente, non capisco più”. Un giudizio molto pesante. “Perché penso che questa polemica sull’amnistia riveli molto delle persone e di una certa maniera di intendere l’attività politica. Mi domando: la drammatica situazione delle carceri italiane è un problema solo di Pannella? È una faccenda che riguarda soltanto la sensibilità del capo dello Stato? L’aspirante segretario del Partito democratico che fa, butta la chiave?”. Vede anche una qualche motivazione politica nell’attacco al capo dello Stato? “Non mi pare. Vedo all’opera piuttosto sempre lo stesso schema Renzi: se apro questa polemica qui, funziona, pesco consensi da tutte le parti, finisco su giornali e tv? Se è così, ok, va bene. Anche a costo di prendersela con il capo dello Stato. Con un sovrappiù di protagonismo in questo caso. Perché il sindaco di Firenze si vuol far passare per l’uomo che non guarda in faccia nessuno, il rottamatore che può far polemica con tutti, dal presidente della Repubblica al Papa”. Giustizia: ciò che Travaglio non capisce (e non è neanche in malafede...) di Massimo Adinolfi L’Unità, 15 ottobre 2013 Pensavo fosse malafede, e invece sono proprio limiti di comprensione. Ieri il “giornalista” Marco Travaglio è tornato ad avventurarsi pericolosamente sul terreno dell’argomentazione, a lui totalmente sconosciuto, a proposito dell’indulto. Ci sono tre cose che mi obietta (al netto degli insulti): vediamo se posso aiutarlo su tutte e tre, con parole piane e comprensibili a tutti. La prima: siccome mi ero permesso di scrivere, nella mia breve replica di venerdì scorso, che è meglio un colpevole fuori che un innocente dentro, il “giornalista” mi obietta trionfante che quelli che stanno dentro (e che indulto e amnistia metterebbero fuori) non sono affatto innocenti ma colpevoli. Ma che scoperta! Il fatto è che sono stato cattivo, e gli ho giocato un piccolo tiro. Gli ho nascosto le tre righe - pubblicate solo sul blog - in cui spiegavo di quale innocenza parlassi: qual è infatti la colpa o il reato per cui nelle carceri italiane i detenuti devono subire trattamenti e condizioni al limite della tortura? Non mi sognavo dunque di dire (e non ho detto) che i detenuti sono tutti innocenti, ma solo che non meritano trattamenti disumani. Gliela riformulo così, aiutandolo: meglio un colpevole fuori che un trattamento disumano dentro. Ovviamente, il lettore medio e non prevenuto poteva ben arrivarci da solo, anche senza leggere il blog. Ma Travaglio non ci è arrivato, e le tre piccole righe che gli ho celato hanno potuto dispiegare tutta la loro cattiveria, indicando con esattezza il punto oltre il quale la capacità di comprensione del “giornalista” non può andare. Seconda obiezione: avevo scritto che appoggio la proposta Manconi, che esclude la cumulabilità dell’indulto. Quindi l’indulto non si applica a Berlusconi. Ora, Travaglio obietta anzitutto che Manconi ha un solo voto, al che gli rispondo: bene, ha anche il mio (per quel che vale). In secondo luogo, e soprattutto, il “giornalista” obietta che il nuovo indulto si applicherà a tutte le altre condanne che dovessero piovere sul capo di Berlusconi per gli altri procedimenti in corso. Seguite, se ne avete lo stomaco, come il suo unico e universale principio etico (chi sbaglia paga) si tramuti in una livorosa morale contra personam: Travaglio sostiene che non debbo preoccuparmi delle condizioni dei detenuti e discutere una proposta di indulto e amnistia per non fare che uno, Berlusconi, la sfanghi, se in futuro sarà condannato. “Se”. Posso quindi capire il suo grido di dolore, ma non per questo mi convincerà a infliggere pene supplementari a tutta la popolazione carceraria per quel che in futuro potrà accadere. “Potrà”. Tanto più che, a proposito di futuro, non sempre ci prende, quando si avventura su altri terreni. Aveva scritto che una condanna avrebbe avuto conseguenze fatali sul governo: non è andata così. Aveva scritto che saremmo andati alle elezioni quando Berlusconi avesse voluto staccare la spina: non è stato così. Aveva scritto che l’avrebbe fatta da padrone nel governo di larghe intese: non sta andando così. Aveva scritto che il Cavaliere non uscirà dal Parlamento: non andrà così. Terza obiezione, la più gustosa. Travaglio mi accusa di incoerenza, causata peraltro dalla spiacevole situazione per cui mentre lui è uomo libero io invece, scrivendo su l’Unità, non lo sarei. Sicché avrei prontamente cambiato opinione e da inflessibile difensore del principio della certezza della pena (in agosto, dopo la condanna del Cavaliere), sarei diventato favorevole al suo oltraggio (adesso, a proposito di indulto e amnistia). Ora, lascio perdere quanto Travaglio avrebbe potuto comprendere se solo avesse letto con un po’ di attenzione la mia replica di venerdì, e mi limito a fargli notare che la clamorosa contraddizione che trova nelle mie posizioni sta in realtà in altro luogo: nella Costituzione italiana. Se infatti essere favorevole a un provvedimento di indulto e all’amnistia significasse calpestare il principio della certezza della pena, sarebbe la Costituzione italiana a calpestare il principio, visto che all’articolo 79 prevede la possibilità di atti di clemenza (a certe condizioni). Le lunghe citazioni di cui mi onora dimostrano invece soltanto una cosa, che io non ho mai desiderato che Berlusconi o chiunque altro potesse farla franca, mentre Travaglio, come ho scritto, desidera che, pur di non fargliela fare franca, non importa chi ci vada di mezzo, se uno cento o mille altri detenuti. Concludo per sottolineare l’unico punto che mi sta a cuore, non volendo proseguire oltre con questa polemicuzza. Io non giudico né inaccettabile né vergognoso il parere di chi è contrario a indulto e amnistia. Lo giudico anzi comprensibile, ragionevole, degno di essere discusso, anche se non è il mio. È invece Marco Travaglio che giudica moralmente indecente, supino e prono ai voleri di Napolitano e in siffatte altre maniere il parere di chi non la pensa come lui. Si è impancato a giudice della morale mia personale e del Paese intero, e cade al primo argomento che gli buttano tra i piedi. Giustizia: amnistia anche per il Cav? il dibattito tra i partiti diventa ad alta tensione di Francesca Chiri Ansa, 15 ottobre 2013 Sale la temperatura del dibattito su amnistia e indulto che, dopo i sospetti dei Cinque Stelle, ormai verte apertamente sul tema più scottante: Un eventuale atto di clemenza sarebbe o meno applicabile a Silvio Berlusconi? Sembra pleonastico ma la piega che ha preso lo scontro, ben al di là degli obiettivi del messaggio del Colle, è proprio questa. Il Pdl pretende questo chiarimento preliminare, prima ancora che il dibattito in Parlamento prenda il via. “Nessuno può pensare che una legge possa non essere applicata soltanto ad un cittadino”, ci tiene a precisare il ministro Gaetano Quagliariello. E il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, non può che dargli ragione. Il suo, dice, è “un discorso di grande correttezza: non possiamo pensare a provvedimenti pro o contro”. D’altra parte è anche vero che “i reati finanziari non sono stati mai presi in considerazione nei provvedimenti di amnistia e indulto”. Ma è vero pure che spetta al Parlamento valutare “quali saranno i reati”. E lei, da Ministro, non intende “scippare” prerogative a nessuno. “Non mi permetterei mai”, mette le mani avanti spiegando che il governo sta semplicemente preparandosi a dare il suo parere. Ma a porre i paletti proprio per il dibattito in Parlamento è sempre Quagliariello: “stiamo lavorando per arrivare ad conferenza congiunta in cui riforma dello stato e riforma della giustizia sono due aspetti della stessa medaglia. Riforma entro maggio, questo sono i tempi europei”. Renato Schifani rilancia il concetto: “No a una legge su misura contro il presidente Berlusconi”, dice, mentre Sandro Bondi allarga le braccia. “Tutti sanno che in questa legislatura non vi sono le condizioni per approvare con i due terzi del Parlamento un provvedimento di amnistia”. è la tesi che sostiene anche Luciano Violante quando, in un’intervista ricorda che per aiutare Berlusconi bisognerebbe congegnare amnistia o indulto in modo tale da cancellare sia le pene accessorie (interdizione) sia gli effetti penali (decadenza e la incandidabilità) e approvarli con due terzi dei voti dei parlamentari, articolo per articolo. “Pare possibile?”, Oltretutto, sottolinea una norma del genere “non riguarderebbe il sovraffollamento delle carceri”. Per le quali ricorda, il presidente della Repubblica ha indicato misure strutturali e solo all’interno di queste ha proposto amnistia e indulto”. Concorda la presidente della Camera, Laura Boldrini: “A prescindere dalla vicenda di Berlusconi, una riposta va trovata”. Anche la Cancellieri, che giovedì sarà alla Camera proprio per questo, auspica che “il messaggio del Capo dello Stato abbia il giusto riscontro”. E che si vada, insomma, ad “una legge per la popolazione carceraria”. Per la quale anticipa intanto la possibilità di utilizzare le caserme dismesse. Chiarimenti che non bastano a sedare il caos provocato dal messaggio di Napolitano anche in casa Pd. Renzi conferma la sua linea: “Fare amnistie è il fallimento della politica e un clamoroso autogol”. Ovviamente non perchè ci sia Berlusconi in ballo, ma per i dubbi che suscita “uno Stato che ogni sette anni apre le porte del carcere”. Domani in serata dovrebbe però esserci un incontro tra il segretario e i componenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Il problema di combinare insieme l’istanza posta dall’emergenza carceri e il problema Cavaliere esiste: ma da questo punto di vista l’impuntatura di Quaglieriello potrebbe risultare per il Pd provvidenziale. Intorno ci sono però le altre forze politiche che mettono zizzania: per Casini Renzi “guarda solo ai sondaggi” mentre su provvedimenti di clemenza servirebbe “emanciparsi” dal problema Berlusconi. Anche Mario Monti lamenta una lettura riduttiva del messaggio del Colle ma si conferma contrario a misure come amnistia o indulto e non sfavorevole ad un’eventuale scelta del Colle sulla grazia. Fratelli d’Italia ricorda di essersi sempre dichiarata contraria a provvedimenti di amnistia e di indulto. Giustizia: detenuti andrebbero fatti lavorare obbligatoriamente, riaprire Pianosa e Asinara di Giorgio Ponziano Italia Oggi, 15 ottobre 2013 Quelli che dicono no all’indulto e all’amnistia. Sotto le bandiere di Matteo Renzi ma anche lontani dal sindaco di Firenze tanto che il fronte anti è assai variegato e va dai radical chic di Micromega alla destra di Fratelli d’Italia, passando attraverso 5stelle e Lega. Il botto ovviamente l’ha fatto Renzi e subito i suoi aficionados si sono adeguati, come il sindaco di Bologna, Virginio Merola, uno dei tanti convertitosi al renzianesimo dopo una lunga professione bersaniana. “L’indulto e l’amnistia, come misure emergenziali - dice - non possono risolvere il problema delle nostre carceri, dove ai detenuti devono essere garantite misure detentive dignitose. Abbiamo il difetto di ricorrere sempre a questa logica dell’emergenza per cui non è la prima volta che si parla di amnistia e indulto, nel frattempo non è stata né potenziata la situazione delle carceri né migliorato il trattamento dei detenuti. Ogni 3-4 anni ridursi al fatto che l’unica possibilità è quella dell’amnistia e dell’indulto non è un bel vedere per il nostro Paese”. Così i renziani, allineati. Ma da Napoli è un prete anticamorra a prendere posizione, nonostante Papa Francesco abbia più volte chiesto un atto di clemenza per i detenuti. “Non mi sento- dice don Aniello Manganiello, in prima fila nel cercare di dare ai giovani un futuro non camorristico - di sostenere la richiesta del presidente della Repubblica”. Insieme al leader degli ecorottamatori Verdi, Francesco Emilio Borrelli, ha addirittura fondato un comitato contro l’indulto e l’amnistia. “Dall’indulto di Mastella”, dice il sacerdote, “sono passati pochi anni e i penitenziari sono di nuovo strapieni dimostrando il totale fallimento di questo modus operandi. La verità è che bisognerebbe cambiare il regime carcerario obbligando i detenuti a lavorare per la collettività che hanno danneggiato. Ad esempio molti di quelli campani potrebbero partecipare alla bonifica della Terra dei Fuochi che in parte è stata avvelenata anche per colpa loro. Oppure potrebbero pulire le strade o servire alle mense dei poveri svolgendo dei servizi sociali. Come è successo dopo ogni indulto e amnistia oltre all’aumento di atti criminali si otterrà una sempre maggiore demotivazione delle forze dell’ordine a cui, evidentemente, i vertici istituzionali non stanno pensando adeguatamente. Senza contare il pessimo esempio per le vittime di atti delinquenziali e per l’intero Paese, col messaggio distorto che il crimine conviene e chi delinque alla fine la fa sempre franca”. Una certa sorpresa è il no espresso dai radical chic di Micromega, in dissenso con Sel, coi partiti della sinistra radicale e con la coppia Pannella-Bonino, tradizionali e principali interlocutori della rivista, sulla quale Andrea Camilleri, Roberta de Monticelli, Paolo Flores d’Arcais, Barbara Spinelli firmano un manifesto in cui sottolineano che “la condizione di vita nelle carceri è incivile e indegna di un Paese democratico”. Però poi avvertono: “L’indulto e l’amnistia non risolvono il problema, come già dimostrato da precedenti anche recenti. Per fare uscire migliaia di detenuti basterebbe abrogare la legge Bossi-Fini e la legge Fini-Giovanardi”. “L’indulto e l’amnistia che il presidente Napolitano chiede in toni ultimativi al Parlamento”, continua l’appello sponsorizzato da Micromega, “non risolverebbe nessun problema strutturale e avrebbe come unici effetti più rilevanti quelli di fornire un salvacondotto tombale a Berlusconi, di delegittimare il lavoro della magistratura di contrasto al crimine, di umiliare le vittime e i loro parenti”. Sul fronte della magistratura ad alzare la voce è Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria: “La cosa grave è che si mette nella testa della gente l’idea che alla fine tutto si aggiusta, che non esiste la certezza della pena, che in primo grado, in appello o addirittura dopo la sentenza definitiva qualcosa succede, perchè uno sconto ci sarà sempre per tutti. In Italia nel 2012 c’erano 112,6 detenuti per ogni 100 mila abitanti. La media europea è 127,7. Quindi noi siamo sotto la media: questo ci dice che il problema non è che sono troppi i detenuti, bensì che sono poche le carceri”. Ma il procuratore affonda il suo j’accuse: “Cosa hanno fatto i politici per risolvere il problema delle carceri dopo l’ultimo indulto del 2006? Perché sono state chiuse le carceri di Pianosa e dell’Asinara dove potevano stare i detenuti del 41 bis? Perché in questi anni non sono stati fatti accordi bilaterali con Paesi come la Romania e la Tunisia per trasferire nella galere patrie i detenuti stranieri, che in Italia sono ben 20mila Perché non lo fa domani mattina il ministro della Giustizia?”. Infine Gratteri fa due esempi di mala gestione del problema: in provincia di Cagliari c’è un carcere quasi finito, costruito appositamente per i 41-bis, mai utilizzato per mancanza di personale mentre in provincia di Nuoro un’intera sezione dedicata ai 41-bis è vuota. Gli fa eco, da Brescia, il sindacato della polizia di Stato, Ugl: “Tralasciando l’aspetto puramente politico della vicenda”, è scritto in un documento ufficiale, “rimangono indelebili le sicure lacerazioni all’ormai devastato tessuto sociale e giuridico cui già si assistette nei precedenti indulti e amnistie che furono elargite con tanta benevolenza dai nostri parlamentari qualche anno fa. In realtà, con l’indulto del luglio 2006, uscirono circa 25mila condannati ma un anno dopo le carceri erano strapiene perché circa un terzo degli indultati sono tornati in carcere. Ancora una volta, un atto di umanità ai delinquenti si tradurrà in un peso sociale che dovrà essere assorbito e pagato dai già martoriati cittadini”. Pure il Coisp, altro sindacato di polizia, fa sentire la sua voce di dissenso: “Già nel 2006”, afferma Giuseppe Raimondi, del direttivo Coisp, “allorquando fu adottato il medesimo provvedimento di indulto, i fatti diedero ragione a chi come noi non era d’accordo, difatti dopo lo “svuotamento delle carceri” ci fu il successivo “riempimento delle stesse”, ove in tantissimi casi, trovarono nuovamente alloggio le stesse persone che ne avevano beneficiato e che avevano commesso nuovi reati. Non possiamo permettere che il lavoro certosino fatto dagli uomini e le donne della polizia di Stato e delle altre forze di polizia vada al vento, troppo spesso si vedono in circolazione personaggi che con non poca fatica erano stati tratti in arresto”. Nel cocktail politico troviamo (oltre a Matteo Renzi) Lega e 5stelle a fare da battistrada. Matteo Salvini, vicesegretario della Lega sostiene che “in un Paese civile, se le carceri sono sovraffollate, ne costruisci altre, non depenalizzi e apri le porte”. Aggiunge Lorenzo Fontana, capodelegazione Leganord al parlamento europeo: “Qui si sta invertendo la logica dello Stato di diritto. Qualsiasi provvedimento di clemenza è inutile, come dimostra l’indulto del 2006, anch’esso firmato da Napolitano. Facciamo un indulto ogni tot anni per poi trovarci da punto a capo?”. Non usa termini molto difformi Beppe Grillo, che dopo avere scomunicato i suoi parlamentari che si erano espressi a favore, se la prende col presidente della Repubblica: “Le lacrime napulitane versate per coloro che sono detenuti - ha scritto il leader 5 Stelle sul suo blog - sono sospette da parte di chi è parte fondante di questa classe politica. E il sospetto che l’appello avvenga per salvare Berlusconi e una miriade di colletti bianchi è lecito”. Al coro si unisce Fratelli d’Italia. Secondo Barbara Benedetelli, responsabile dell’area tutela vittime della violenza di Fdi: “In Itali vi sono decine di carceri finite e inutilizzate, costate non poco ai contribuenti, e altre semivuote. In più ci sono caserme abbandonate che possono essere adibite a carcere senza spendere denaro per costruirle. Poi il 40 % dei detenuti sono stranieri: vadano a scontare la pena nel Paese d’origine, si riprendano gli accordi bilaterali in questo senso, avviati nel 2010 da Alfano. Guai a sbiadire il principio della certezza della pena”. Sulla certezza della pena è intransigente anche una voce fuori dalle diatribe politiche, quella di Rosanna Zecchi, vedova di Primo, assassinato dalla banda della Uno bianca perché prendeva il numero di targa dell’auto in fuga dopo una rapina, coordinatrice dell’associazione che raggruppa i parenti delle vittime della banda che vent’anni fa insanguinò l’Emilia-Romagna e le Marche: “Ci sentiamo delle sentinelle - dice - vigiliamo affinché le condanne processuali non vengano disattese nell’esecuzione della pena. Se arrivassero sconti sarebbe uno schiaffo inaccettabile dopo tutto quello che abbiamo sofferto”. Giustizia: sentenza Mori; nessun accordo tra Stato e mafia per lasciare libero Provenzano Ansa, 15 ottobre 2013 “Condotte opache” e “scelte operative discutibili”, ma nessun accordo per lasciare libero e impunito per anni il boss Bernardo Provenzano. I giudici della quarta sezione del tribunale di Palermo che, a luglio, hanno assolto l’ex vicecomandante del Ros, il generale Mario Mori, e il colonnello, Mauro Obinu, dal reato di favoreggiamento alla mafia, in 1322 pagine di motivazione della sentenza smontano il teorema dei pm che vedeva nei due ufficiali gli intermediari, presso Cosa nostra, di esponenti delle istituzioni intenzionati a scendere a patti con i boss per fare cessare la stagione delle stragi. Anche attraverso concessioni come, appunto, l’impunità del padrino di Corleone e la revoca di centinaia di provvedimenti di carcere duro. Nodo centrale di un processo diventato l’atto d’accusa a una classe politica, colpevole d’aver trattato, era il mancato blitz che, per i pm, nel 1995 avrebbe potuto portare alla cattura di Provenzano e che fu stoppato dagli imputati. Una delle prove dell’accordo, secondo gli inquirenti. Ma i giudici, pur ravvisando delle opacità nelle condotte investigative dei due ufficiali escludono che il boss corleonese restò libero grazie a uno scellerato patto tra la mafia e lo Stato. “Non può che ritenersi priva di ogni riscontro - scrivono - e perfino contraddetta da inoppugnabili dati di fatto l’affermazione secondo cui, grazie all’accordo concluso con esponenti delle istituzioni, Provenzano era sicuro da ogni ricerca”. Nella sentenza, che, dunque, sostanzialmente nega l’esistenza di una trattativa si smentisce anche che lo Stato abbia ceduto davanti a Cosa nostra. “La cattura di Riina - si legge - ha costituito una svolta che ha ridato fiducia e slancio all’azione di contrasto all’associazione mafiosa, che da lì in poi ha conosciuto una ragguardevole continuità. E se anche nell’autunno del 1993 si scelse di lanciare a Cosa Nostra un segnale di distensione, non rinnovando, per alcune centinaia di detenuti, il regime differenziato previsto dall’articolo 41 bis, dovrebbe, comunque, ritenersi che tale momentaneo cedimento, che, per quanto rilevante, sembra essere stato eccessivamente enfatizzato dall’accusa (non vennero concessi particolari benefici ai mafiosi, ma si applicò a parecchi esponenti della criminalità organizzata - di cui solo limitata parte appartenenti a Cosa Nostra - un regime restrittivo meno rigoroso), sia avvenuto anche per cercare di evitare i colpi di un terrorismo mafioso che sembrava, in quel momento, incontrollabile”. I giudici smontano anche la tesi che voleva la sostituzione alla guida del Viminale di Vincenzo Scotti con Nicola Mancino come uno dei favori fatti dallo Stato alla mafia: una ricostruzione che poggiava sull’assioma che Scotti era stato strenuo avversario dei boss. Nella sentenza l’avvicendamento si riconduce tutto a motivazioni politiche. Il dialogo intrapreso dal Ros con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, dunque, sarebbe stato un’iniziativa personale degli ufficiali che si mossero “autonomamente” e non “su precisa sollecitazione politica e con il sostegno del gruppo dirigente della Democrazia Cristiana”. Particolarmente duro il giudizio sull’impianto probatorio della Procura, definito “contraddittorio e confuso” e su uno dei principali testi del processo, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco, stroncato e definito incline a vanterie e a manipolazioni di documenti. Nella sentenza si esclude, poi, che il giudice Paolo Borsellino sia stato assassinato perché aveva saputo dei contatti tra il Ros e Ciancimino senior e quindi della trattativa. “Un’ipotesi - scrivono magistrati - rimasta senza riscontri”. Giudizi che certamente avranno un peso sul processo sulla trattativa in corso davanti alla corte d’assise di Palermo. Abruzzo: toppi detenuti in cella, situazione difficile in particolare a Teramo e Sulmona Il Tempo, 15 ottobre 2013 Carceri sovraffollate, personale sotto organico. La situazione in Abruzzo è di quelle problematiche. Soluzioni all’orizzonte non sembrano esserci e l’ipotesi di svuotare le celle con l’amnistia rappresenta solo un palliativo ai tanti problemi che ci sono. La punta dell’iceberg la si vive nella casa circondariale di Castrogno, a Teramo. Un carcere dove ci sono 430 detenuti, sezione femminile compresa, nonostante sia stato realizzato negli anni Ottanta per accoglierne al massimo 245. Situazione impossibile che è stata più volte segnalata dai radicali. Il teramano Marco Pannella è tornato nella sua città in occasione di tante festività per trascorrerle visitando i detenuti. “Non è una situazione tollerabile - ha esordito Giuseppe Pallini del Sappe - i problemi sono tanti e il sovraffollamento serve solo a mettere in evidenza tante altre carenze a cui non si riesce a far fronte”. Teramo è un carcere particolare, unico in Abruzzo e Molise ad avere una presenza del medico 24 ore su 24. “Un aspetto di non poco conto - aggiunge Pallini - che comporta un forte aggravio di lavoro. Basti pensare che tutti i soggetti che hanno problemi sanitari vengono dirottati a Teramo proprio per la presenza fissa del medico. Se uno ha disturbi cardiologici deve per forza essere detenuto a Castrogno. Il medico spesso non basta e il personale di vigilanza è costretto continui viaggi verso l’ospedale. A Teramo abbiamo la presenza di un medico specialista in psichiatria venti ore alla settimana. Ecco, quindi, che in carcere arrivano tutti i detenuti con problematiche gravi. Aumenta il rischio suicidi. In questo momento abbiamo due detenuti che devono essere sorvegliati a vista. Ciò comporta che otto unità sono destinate in un giorno esclusivamente a quel servizio. E la questione del personale è un altro capitolo senza soluzioni. “A Teramo - sottolinea l’esponente del Sappe - in pianta organica, sono previsti 229 agenti, ce ne sono 180 sulla carta. poi i riposi, i giorni di malattia, lo smaltimento delle ferie che risalgono ancora al 2010/11 riducono all’osso il personale. L’età media aumenta e chi va in pensione non viene rimpiazzato”. Il direttore del carcere non sarebbe riuscito a ottenere nulla dal Provveditorato regionale. “Ci siamo lamentati spesso come sindacato - ha aggiunto - anche della situazione del carcere. Serve manutenzione urgente, ci sono locali con infiltrazioni d’acqua, a rischio corto circuito”. E non viene smentita la voce che dà fuori uso alcuni sistemi di videosorveglianza e alcuni allarmi. Da Teramo ad Avezzano il risultato cambia. Al “San Nicola” un centinaio di celle da due posti. I detenuti normali hanno la possibilità di effettuare attività lavorative e di carattere culturale. Il numero di detenuti ospitati rientra nei parametri e, al momento, è uno dei pochi che non è in sovraffollamento. Dopo una serie di brutti episodi, come il suicidio in carcere di un marocchino giovanissimo ritrovato impiccato, il carcere di Avezzano è rimasto chiuso per oltre due anni per lavori di ristrutturazione. Da quattro anni la situazione è più vivibile. La situazione si complica a Sulmona. Un carcere sovraffollato da tempo. 450 detenuti a fronte dei 280 scritti sulla carta. Tra questi collaboratori di giustizia, ex 41 bis declassificati e infine, mafiosi e terroristi nazionali ed internazionali. E sono proprio loro, ad occupare le 300 celle adibite all’interno della struttura carceraria. Troppo poche e troppo piccole per ospitare, un numero così elevato di detenuti. Ecco perché, da qualche giorno, si è cominciato a realizzare il nuovo padiglione che ospiterà altri 200 detenuti. Attualmente, la sorveglianza, viene effettuata da 246 agenti a fronte dei 310 del 2010. Milano: San Vittore perde pezzi, trasferite a Bollate le prime dieci detenute di Rosario Palazzolo Il Giorno, 15 ottobre 2013 Sul vecchio carcere milanese voci insistenti di dismissione: potrebbe essere trasferito fuori dal centro città. L’idea di chiudere il carcere di San Vittore e di trasferirlo altrove, fuori dal centro città, è sempre tornata a galla ogni qual volta si è parlato di sovraffollamento e di malessere del sistema carcerario. Oggi, per la prima volta si fa sul serio. E nel bel mezzo del dibattito politico su carceri e amnistia, prende corpo la decisione di chiudere quanto meno la sezione femminile della casa circondariale milanese. La notizia non è ufficiale, ma da giorni le voci si rincorrono e dal provveditorato alle carceri è partito un primo provvedimento concreto che va in questa direzione: a breve le 10 detenute in via definitiva, saranno trasferite al penitenziario di Bollate, dove continueranno a scontare la pena in un carcere più moderno. Tutte le altre circa 100 detenute in attesa di giudizio dovrebbero avere la stessa sorte, ricollocate in diverse strutture penitenziarie del milanese. In questo caso, l’indicazione privilegiata è il trasferimento nel penitenziario di Monza, dove però la situazione non è migliore. Il 13 settembre scorso una delegazione della Uil Penitenziari ha relazionato sull’ultima visita definendo la sezione femminile monzese “il vero scandalo del penitenziario”. E per molti la soluzione trasferimento appare un po’ come il gioco delle tre carte. “Si spostano le detenute da un luogo all’altro, ma senza risolverne i problemi, anzi peggiorandoli”, interviene Fabrizia Berneschi, avvocato e Difensore civico della Provincia di Milano, che da oltre un anno si occupa di carceri per conto della Provincia. “Oggi, un provvedimento di trasferimento rischia di produrre solamente danni - afferma la Berneschi -. Le detenute non sono pacchi, sono persone che devono scontare una pena e che si sforzano per essere rieducate e trovare una nuova strada. Trasferirle significa interrompere i percorsi che hanno cominciato. Significa strapparle dalla rete di psicologi e volontari che le sta seguendo”. Un giudizio pesante che non vuole sembrare un’assoluzione per San Vittore, dove la situazione rimane grave: le detenute le hanno scritto a inizio estate chiedendo un aiuto per migliorare le condizioni di detenzione. “I problemi sono di vita quotidiana - spiega -, mi dicono che la carta igienica viene distribuita ogni 15 giorni e le lenzuola vengono cambiate ogni 30 giorni. Mi parlano di materassi che si disintegrano per vecchiaia e di celle che, nate per ospitare uomini, non hanno bidet, ma solamente una turca, posta accanto al tavolo su cui mangiano. Questo è un tema di inciviltà”. Grazie alla collaborazione con la direttrice del carcere, sono stati compiuti diversi passi positivi. È arrivata l’autorizzazione all’uso degli i-phone e alla riapertura della palestra. Mentre la Provincia di Milano ha acquistato stendini da inserire nelle celle. Genova: istantanee dalle celle di Marassi, viaggio nel carcere che scoppia di Alessandra Ballerini La Repubblica, 15 ottobre 2013 Ci sono i numeri, che già parlano da soli, ci sono le immancabili sbarre, ovunque, gli inconfondibili odori: di umidità, chiuso e miseria, ci sono i volti e le emozioni, le loro e quelle che smuovono, tutte diverse. Il carcere è un mondo a sé. Entrarci è sempre un viaggio. Il direttore della casa circondariale di Marassi, disponibile e preciso, mi fornisce i dati utili a capire perché la detenzione in carcere costituisca di per sé il trattamento inumano e degradante, condannato recentemente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. A fronte di una capienza massima di 450 persone oggi ne sono detenute 775. Ma è solo un caso. Alla mia scorsa visita come osservatrice di “Antigone” i ristretti erano 803 e ci sono stati in queste ultime settimane anche picchi di 821 detenuti. Se anche non li vedi, ma solo immagini di vivere settimane, mesi o anni rinchiuso con altri sette sconosciuti, disteso su brande impilate per tre, con neanche un palmo d’aria tra il naso e il soffitto, per venti ore al giorno, in balia della rabbia, degli abusi, del panico, della miseria, dell’assoluta solitudine, senza alcuna più traccia d’intimità, decenza, né legalità, allora, se si sopporta l’oppressione di questo sforzo empatico, parole come libertà, pena, colpa, dignità, acquistano un nuovo significato. E così la parola “amnistia”, che si solleva come una preghiera dalle labbra degli imprigionati e dei loro familiari. Sento e leggo in questi giorni molti intellettuali opporsi alle sollecitazioni del presidente Napolitano, invocando il principio della certezza della pena. E perché non si riflette anche sul più cogente imperativo costituzionale della certezza della colpa? Uno dei dati che più indigna il direttore Mazzeo, è la percentuale di detenuti che scontano il carcere da presunti innocenti, ovvero in attesa (e dunque in assenza) di sentenza definitiva di condanna. Oggi in carcere a Marassi ci sono 398 persone che scontano una pena inumana senza che vi sia certezza giuridica della loro colpa. E non possono bastare gli sforzi, seppure notevoli, del direttore, del comandante, dei tantissimi volontari e operatori, a rendere questo posto vivibile. Il carcere modello, come sostiene Norberto Bobbio, non può esistere “perché i due fini della reclusione, l’intimidazione e l’emenda sono incompatibili”. L’amnistia (e ancor più l’indulto) è ovviamente solo una toppa, necessaria anche per evitare allo Stato italiano la vergogna ed i costi di ulteriori condanne europee. Non costituisce la soluzione. È uno strumento legale per decongestionare provvisoriamente le nostre carceri, evitare altri morti (al 9 settembre erano 123 i decessi nel 2013 tra i detenuti) e quotidiane torture. Come riassumono perfettamente i detenuti che incontro: “Ci guardi, guardi questo posto, abbiamo meno di4 metri quadri a disposizione, questa è tortura. È lo Stato che viola la legge, come si può pretendere che noi la si rispetti?”. Accanto all’amnistia sono necessarie evidentemente altre modifiche strutturali del nostro sistema penale (e delle nostre coscienze). La popolazione carceraria a Marassi è composta da 300 tossicodipendenti, oltre 400 stranieri, moltissimi malati nonostante un’età media di 33 anni, tutti o quasi emarginati. Le stesse percentuali valgono nelle altre carceri italiane. La soluzione al sovraffollamento la offre la Corte Europea dei diritti dell’uomo e la indicano da tempo le associazioni e istituzioni che si occupano del tema: depenalizzazione dei reati a modesto allarme sociale (come i reati attualmente previsti in tema di stupefacenti e di immigrazione), riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare, incentivazione dell’applicazione di misure alternative alla detenzione, ricorso al carcere come extrema ratio solo per reati gravissimi. Sabato a Roma grandi giuristi e ottimi cittadini sono scesi in piazza in difesa della nostra Costituzione. Nella stessa Carta che ci rende così fieri è contenuto il principio di uguaglianza, la dignità è tutelata come bene inviolabile, vengono sanciti la presunzione d’innocenza ed il divieto di pene contrarie al senso di umanità. Chi oggi giustamente difende la Costituzione lo fa anche per gli oltre 66 mila detenuti che non possono andare in strada a manifestare. Visito il centro clinico, fiore all’occhiello del carcere genovese. Molti detenuti soffrono di malattie cardiovascolari, tra loro alcuni sono a rischio di infarto. La settimana scorsa un signore cinquantenne è morto in cella per arresto cardiaco. La stessa sorte era toccata sei mesi fa a un altro giovane ristretto. In alcuni casi, mi spiega la dottoressa, la patologia dei detenuti è evidentemente così grave che viene dichiarata la non idoneità alla vita carceraria. Penso a voce alta che non c’è cuore di alcun essere umano che potrebbe essere valutato idoneo al carcere. Non il mio, che si contorce a ogni visita. Pavia: area verde per i detenuti del carcere di Vigevano, l’inaugurazione ai “Piccolini” La Provincia Pavese, 15 ottobre 2013 Un’area verde destinata ai colloqui tra familiari e detenuti. È stata inaugurata alla casa circondariale dei Piccolini: un piccolo giardinetto attrezzato per ospitare circa venti famiglie alla volta, dotata di tavoli con ombrellone, gazebo e giochi per bambini. Al taglio del nastro hanno partecipato anche il vescovo Maurizio Gervasoni e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Aldo Fabozzi, con il direttore del carcere Davide Pisapia e gli “Angeli Colorati” membri della omonima onlus che vestiti da clown, hanno intrattenuto alcuni bimbi in visita ai genitori carcerati. Monsignor Gervasoni ha benedettogli spazi, sottolineando la vicinanza della Curia all’istituzione carcere. “L’occasione dell’inaugurazione - ha detto Pisapia - coincide con l’avvio del regime aperto nelle sezioni detentive di media sicurezza”. “Un evento in linea con il nostro impegno - ha aggiunto Fabozzi - per avviare una cultura più moderna del carcere, e rendere meno afflittiva la pena”. “L’area verde - ha poi annunciato Pisapia - vedrà ovviamente la sua massima utilizzazione in primavera ed estate”. In futuro si potrà pensare di allestire nell’area anche un punto di ristoro. Pisa: Osapp; aggressioni a poliziotti penitenziari, faremo ricorso a Corte europea Ansa, 15 ottobre 2013 L’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, prospetta anche il ricorso alla corte europea dei diritti dell’uomo dopo le aggressioni da parte di detenuti nei confronti di agenti di polizia penitenziaria, l’ultimo dei quali avvenuto a Pisa. Al carcere Don Bosco un agente, rende infatti noto l’Osapp, è stato aggredito da un detenuto italiano dopo un battibecco con un altro detenuto. “La sezione detentiva presso la casa circondariale di Pisa in cui si è svolta l’aggressione, come molte altre sul territorio nazionale - spiega il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduce - è priva di allarmi e di strumenti di comunicazione con l’esterno, per cui solo la destrezza dell’agente, che ha riportato lesioni guaribili in alcune settimane, ha evitato più gravi conseguenze. Ma a Pisa, come in altri istituti, di episodi simili ne accadono a decine senza che si assumano i debiti correttivi da parte dell’amministrazione penitenziaria. Abbiamo veramente raggiunto il limite e questa volta - conclude Beneduce - alla corte europea dei diritti dell’uomo saremo noi a denunciare la colpevole assenza della guardasigilli Cancellieri e del capo del Dap Giovanni Tamburino nei confronti della polizia penitenziaria”. Roma: “4 X Kids”, campioni di calcio del passato in campo per figli disabili detenuti Il Velino, 15 ottobre 2013 Quattro squadre di calcio - una rappresentativa Vaticana, una di magistrati italiani, le Fiamme Azzurre della Polizia penitenziaria e la World Stars for Charity - scenderanno in campo a Roma per aiutare bambini particolarmente svantaggiati. È 4 X Kids, iniziativa di solidarietà promossa dalla Fondazione Raphael in collaborazione con il Ministero della Giustizia, che sarà presentata alla stampa domani, mercoledì 16 ottobre, alle 15.30 presso la Sala Livatino del Ministero della Giustizia in via Arenula, alla presenza del ministro Annamaria Cancellieri. Il progetto è finalizzato a sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi dei figli di detenuti affetti da disabilità fisiche e psichiche. In questo senso i fondi raccolti saranno destinati alla creazione del primo “Osservatorio nazionale” per i figli di detenuti affetti da disabilità, a favore dei quali è previsto inoltre l’accompagnamento psicologico e sociale e il loro inserimento in famiglie o in strutture di adeguato riferimento. Numerosi i grandi calciatori del passato coinvolti nell’iniziativa 4 X Kids che saranno in campo per la solidarietà il 17 ottobre prossimo nel “Centro sportivo di Casal del Marmo”: Roberto Bettega, Antonio Cabrini, Giovanni Galli, Damiano Tommasi, Dino Baggio, Pedro Paolo Pasculli, Francesco Graziani, Giuseppe Galderisi, Sebastiano Nela, Bruno Giordano, Massimo Bonini, Thomas Berthold, Vladimir Liutyi, Antonio Manicone. Mercoledì 16 ottobre, in mattinata, i partecipanti al quadrangolare saranno inoltre ricevuti in udienza da Papa Francesco. Libri: “Ne vale la pena”, le mille storie della Gorgona isola-carcere di frontiera La Repubblica, 15 ottobre 2013 Un detenuto che scappa senza lasciare alcuna traccia dietro di sé. Un carcerato che, pur avendo scontato la pena, decide di trattenersi altri tre giorni per terminare il lavoro di amministrazione che gli era stato assegnato. E poi: un telegiornale trasmesso su Telegranducato dal nome evocativo, TG Galeotto, per abbattere la distanza che segna il confine fra Gorgona e il resto della Toscana, una piccola impresa di acquacoltura che porta i pesci allevati sull’isola nelle pescherie e nelle Coop toscane, la natura incontaminata, i tramonti, gli ideali, un’isola che fa di tutto per essere autosufficiente, un’isola che prova con difficoltà ad aprirsi al mondo, la voglia di fare bene del suo giovane direttore e due omicidi. L’elenco delle suggestioni, delle domande, delle riflessioni e delle storie a cui Gregorio Catalano, giornalista con un trascorso a Il Messaggero e al Corriere della Sera, ha dato voce nel denso “Ne vale la pena” sarebbe ancora molto lungo, perché la storia di Carlo Mazzerbo, che lavora nell’amministrazione penitenziaria da trent’anni e ventuno ne ha trascorsi sulla più piccola isola dell’Arcipelago Toscano, è impegnativa, zeppa di luoghi, trasferimenti, storie, avventure. La domanda che segna tutto il percorso - fin dal 1984, quando Mazzerbo dalla sua Catania decise insieme all’amico Carmelo Cantone, che per dodici anni ha diretto Rebibbia, di tentare il concorso per diventare “vicedirettore delle patrie galere”- è unica: “Che me ne faccio di un buon detenuto se poi torna ad essere un pessimo cittadino?”. Ed è così che si sviluppa questo racconto biografico, che grazie alla sincerità della testimonianza, capace di affrontare anche gli eventi più drammatici (dal suicidio del giovane detenuto Oscar, ai due omicidi che hanno infranto il mito di Gorgona come esempio di regime detentivo ideale), non si fa mai agiografico. Non mancano gli episodi comici (come il piano di evasione sventato a Patti in collaborazione con un “dirigente della polizia di Stato fanatico”) e le frecciatine alle istituzioni. Una su tutte: “Siamo idealisti frenati dal lassismo, dalla burocrazia tutta italiana”. Mazzerbo, adesso direttore della Casa circondariale di Massa Marittima, non si risparmia e punta il dito verso le carceri dove “è stata buttata la chiave” e dove “ai detenuti, a certi detenuti, non spetta nulla più del vitto e dell’alloggio” perché “la legge è cambiata ma bisogna cambiare la mentalità di chi la applica”. E in questo libro, chea tratti si trasforma in un mea culpa collettivo, si capisce che “l’isolamento ti porta a pensare: o ti suicidi o ti rimbocchi le maniche, rimetti in discussione te stesso, le tue convinzioni, i tuoi errori”. E con “Ne vale la pena” Carlo Mazzerbo non traccia soltanto il profilo dell’isola di Gorgonae del suo penitenziario, non racconta esclusivamente un pezzo della storia carceraria italiana attraverso uno dei modelli più virtuosi, ma mostra con un quadro preciso, a tratti toccante, come sia possibile applicare i propri ideali ogni giorno. Medio Oriente: Hana incinta, l’amore evade da carcere israeliano di Sami al-Ajrami Ansa, 15 ottobre 2013 Eludendo i raffinati controlli del nemico, l’amore è riuscito ad evadere da un carcere israeliano e a raggiungere Gaza. Nelle ultime settimane la popolazione di Gaza si è commossa fino alle lacrime nel seguire la vicenda di Hana al-Zaanin, 26 anni, rimasta incinta grazie allo sperma inviatole per vie occulte dal marito Tamer (28 anni), un militante della Jihad islamica. Da sette anni è recluso in Israele: in questo periodo si sono visti una volta soltanto. I medici che seguono Hana sono soddisfatti per le sue condizioni fisiche, prevedono che partorirà a gennaio. Si attende un maschio, sarà chiamato Hassan. Tamer lo potrà abbracciare comunque solo nel 2018, una volta terminata la pena inflittagli da Israele. Erano sposati da tre mesi appena quando Tamer fu arrestato dall’esercito israeliano. Come molte mogli di palestinesi detenuti in Israele, Hana si torturava al pensiero che non sarebbe potuta diventare madre. Poi però ha appreso che fra le migliaia di reclusi palestinesi alcuni erano riusciti a trafugare il proprio sperma fuori dalle prigioni. Allora ha deciso di giocare d’azzardo. La prima fase è stata di carattere psicologico. Occorreva ottenere la approvazione del marito e poi informare discretamente le rispettive famiglie nonchè i vicini del quartiere di Beit Hanun (a sud di Gaza) che la inattesa gravidanza non era certo dovuta ad un comportamento immorale. Una disseminazione dell’informazione delicata e complessa, perchè non arrivasse tra l’altro a possibili informatori di Israele. In seguito è stato necessario avvalersi del sostegno di un dottore specializzato nell’assistenza a genitori con problemi di fertilità. Di fronte al dramma dei Zaanin, questi ha accettato di abbassare al minimo i costi di laboratorio. Solo allora è scattata la operazione vera e propria: una corsa drammatica contro il tempo perchè il seme di Tamer - in una spericolata gimkana fra le guardie carcerarie, i posti di blocco militari e le talvolta esasperanti code al valico di Erez (fra Israele e Gaza) - raggiungesse entro sei ore il traguardo del laboratorio palestinese dove era atteso. La tecnica utilizzata non è stata divulgata. Forse il liquido prezioso è stato messo in un sacchetto di plastica, custodito nei seni di una palestinese ammessa alle visite dei detenuti. Forse era invece in un bicchiere, affidato ad un avvocato. Una portavoce del servizio carcerario in Israele ha detto di essere molto scettica della fondatezza delle notizie giunte da Gaza. Invece secondo la stampa palestinese, almeno 65 detenuti hanno già trafugato il proprio sperma verso i Territori. In sedici casi si sono avute gravidanze. A Gaza, Hana è comunque la prima donna ad essere riuscita nell’impresa. “Adesso - dice - sono celebre. Mi fermano per strada, mi salutano. Dicono che sono fieri di noi, che per una volta i servizi di sicurezza israeliani sono rimasti con un palmo di naso”. Sta già pensando ad altri figli? “No, per il momento crescerò Hassan. Per un secondo figlio posso ora attendere i cinque anni che mancano alla liberazione di mio marito”. Iran: granata contro carcere per impedire esecuzione di un detenuto, 28 feriti Agi, 15 ottobre 2013 Lanciano una granata per impedire l’esecuzione di un parente condannato a morte: è successo a Ilam, nell’ovest dell’Iran. I familiari di un detenuto hanno attaccato il penitenziario ferendo 28 persone, nel tentativo di liberare il loro congiunto che stava per essere giustiziato per omicidio. Il personale di sorveglianza è riuscito ad arrestare i membri della famiglia prima che lanciassero una seconda granata e poi hanno dato corso all’impiccagione. Secondo Human Rights Watch in Iran quest’anno sono state condannate a morte oltre 500 persone: è il Paese con il più alto numero di esecuzioni dopo la Cina. La pena capitale è usata per punire omicidi, stupri, rapine a mano armata, traffico di droga e adulterio. Nigeria: Amnesty chiede indagine “centinaia membri Boko Haram morti in carcere” Tm News, 15 ottobre 2013 Amnesty International ha sollecitato un’indagine urgente sulla morte di centinaia di persone nei centri di detenzione gestiti dalla Joint Task Force dell’esercito della Nigeria. Un alto ufficiale delle forze armate nigeriane ha riferito ad Amnesty International che solo nel primo semestre del 2013 i morti sotto custodia militare sono stati oltre 950. La maggior parte delle morti sono avvenute nei centri di detenzione in cui vengono portati presunti membri o simpatizzanti del gruppo armato islamista Boko Haram: le basi militari di Giwa a Maiduguri nello stato di Borno, e il Settore Alfa, chiamato “Guantánamo” e la residenza presidenziale (chiamata “Guardaroba”) a Damaturu, nello stato di Yobe. Secondo ex detenuti intervistati da Amnesty International, a Giwa e al Settore Alfa quasi ogni giorno c’è un morto, per soffocamento o per le conseguenze del sovraffollamento, della fame, dei pestaggi, delle sparatorie cui sono sottoposti durante gli interrogatori e del successivo diniego di cure mediche. Sono stati descritti casi di possibili esecuzioni extragiudiziali, in cui i soldati hanno prelevato detenuti dalle celle minacciandoli di ucciderli, a volte non riportandoli indietro. Un altro alto ufficiale dell’esercito nigeriano ha parlato con Amnesty International chiedendo di restare anonimo: “Centinaia di persone vengono uccise nei centri di detenzione: le soffocano o gli sparano. In media, ne uccidono cinque al giorno”. Amnesty International ha sottolineato che tutti i detenuti sono titolari di diritti umani e che questi devono essere rispettati in ogni circostanza. Cina: 6 anni carcere ad attentatore-invalido dopo percosse polizia, rabbia sul web Agi, 15 ottobre 2013 È stato condannato a sei anni di carcere Ji Zhongxing, l’uomo sulla sedia a rotelle che si era auto-immolato al terminal 3 dell’aeroporto di Pechino, il 20 luglio scorso, facendo esplodere un ordigno rudimentale. Lo ha stabilito il Tribunale del Popolo del distretto di Chaoyang, a Pechino. Ji, 34 anni, è paralizzato dal 2005, dopo le percosse ricevute da alcuni membri della Chengguan, il corpo di para-polizia che svolge compiti di mantenimento dell’ordine urbano, mentre era al lavoro come autista di bike-taxi a Dongguan, centro della Cina sud-orientale. L’esplosione all’aeroporto, che gli è costata l’amputazione della mano sinistra, non aveva provocato altri feriti, ma la vicenda aveva scosso l’opinione pubblica che su internet aveva solidarizzato con la sua causa. Anche adesso la notizia della condanna ha scatenato un’ondata di rabbia e solidarietà per la sua quasi decennale battaglia legale. Ji negli ultimi otto anni ha più volte tentato di ottenere giustizia e in un blog aveva raccontato la sua esperienza di postulante presso le autorità centrali per sottoporre il proprio caso agli alti vertici politici cinesi, una pratica molto diffusa in Cina. Dopo il fatto del luglio scorso, l’ufficio per le petizioni di Dongguan ha emanato un comunicato in cui si affermava che nel 2010, come risarcimento per il danno subito, erano stati offerti a Ji e alla sua famiglia centomila yuan, circa 12.000 euro. Alcuni familiari hanno successivamente confermato di avere accettato l’offerta in cambio del silenzio sulla vicenda. I tentativi di ottenere giustizia da parte di Ji non si erano però interrotti, fino al gesto disperato del 20 luglio scorso. La condanna di oggi ha riacceso il dibattito tra gli internauti cinesi, che in diversi post sulla piattaforma di social network Weibo hanno protestato contro la decisione della corte e rinnovato il loro sostegno al trentaquattrenne. In base alla legge cinese, Ji ha dieci giorni di tempo per ricorrere in appello contro la sentenza.