Giustizia: dopo Napolitano anche la Corte Costituzionale intima “intervenite, o provvederemo noi…” di Valter Vecellio Notizie Radicali, 13 ottobre 2013 Spacciatore, e non solo: spacciatore di droga “pesante”, eroina, e per di più eroina tagliata con chissà quale porcheria letale: che un disgraziato si era poi iniettato in vena e ne era morto. Per questo A.B. (iniziali fittizie, per ragioni di intuibile riservatezza) era finito in carcere con la pesante accusa di aver provocato la morte di un tossicodipendente. Tutto congiurava contro A.B.: egiziano, dunque già per questo sospetto. E poi perizie e controlli telefonici avevano dato inequivocabile prova: lo spacciatore era proprio lui. Solo che… Solo che non era lui. L’uomo era sì egiziano, ma era innocente. Quel giorno quando l’arrestarono - “era il 3 ottobre del 2009, non lo dimenticherò mai”, dice oggi - A.B. stava semplicemente rientrando a casa dal lavoro. Lavoro peraltro regolare a Milano, perché A.B. risiede in Italia legalmente. E le perizie, i controlli telefonici che l’avevano incastrato? “Purtroppo per A.B. è accaduto che tornando a casa, il suo telefono ha agganciato una cella compatibile con il luogo dello spaccio”, spiega l’avvocato che lo ha difeso. “Ma lui con questa vicenda non c’entra nulla”. E infatti A.B. al termine del processo è stato assolto con formula piena e scarcerato. E quei cinque mesi trascorsi ingiustamente in carcere? Per la quinta sezione penale della Corte d’Appello valgono 35.250 euro per “ingiusta detenzione”, 235 euro per ogni giorno di cella. Una delle tante storie che non fanno né storia né “notizia” in cui si imbatte ogni giorno un cronista giudiziario. Una storia “normale”, che di “normale” non ha proprio nulla, anche se accadono di frequente. Tanto frequenti da riempire le nostre carceri di circa il 40 per cento di detenuti di persone in attesa di giudizio. La metà di questo 40 per cento - ma dopo una lunga detenzione - viene poi dichiarata innocente: un errore, come nel caso di A.B.; scusi tanto, una manciata di euro quando va bene, avanti il prossimo… E non è solo la carcerazione ingiusta patita, ma anche il “come” si viene trattati in carcere: celle sporche, piccole, sovraffollamento… Una situazione intollerabile, come riconoscono un po’ tutti, e come ha denunciato martedì scorso il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con il suo messaggio alle Camere. La questione dell’intollerabile e disumano sovraffollamento delle carceri fa sì che l’Italia sia una sorta di sorvegliata speciale in Europa; e la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (Cedu), con una sentenza storica, la cosiddetta “sentenza Torreggiani” ha imposto al nostro paese di adottare rimedi concreti entro un anno, e di quell’anno sono già trascorsi quasi sei mesi. Un sovraffollamento che frutto e risultato “dell’intollerabile e disumana lentezza dei procedimenti e dei processi”, per i quali la Cedu ripetutamente ci ha condannati. Ecco dunque che della questione è stata investita anche la Corte Costituzionale: chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’articolo 147 del codice penale, laddove non prevede, tra le ragioni che consentono di differire l’esecuzione di una condanna in carcere, le condizioni disumane di detenzione: cioè che la pena debba essere scontata in penitenziari che scoppiano e che non garantiscono al singolo detenuto nemmeno quei tre metri quadrati a testa indicati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. A sollevare la questione i tribunali di sorveglianza di Venezia e Milano, che chiedono alla Consulta quella che viene definita “una sentenza additiva”: cioè di aggiungere il sovraffollamento carcerario tra le cause che permettono di far slittare l’esecuzione della pena. Sono stati i giudici di Venezia a porre per primi il problema: a loro si era rivolto un detenuto del carcere di Padova, ristretto in una cella dove il suo spazio vitale era inferiore ai tre metri quadrati; con la richiesta esplicita di differire l’esecuzione della pena, visto che in queste condizioni era contraria al senso di umanità e al principio di rieducazione, oltre che lesiva della sua stessa dignità. L’istanza presentata ai magistrati di Milano da un detenuto del carcere di Monza è analoga: equipara a tortura le modalità di detenzione subite: in tre erano stipati in una cella talmente piccola da non poter neppure scendere dal letto contemporaneamente; non solo: il bagno era senza porta, privo anche di acqua calda. Istanze ritenute meritevoli dai giudici che però si sono ritrovati con le mani legate: attualmente l’articolo 147 del codice penale consente di spostare l’esecuzione della pena solo in casi specifici: gravidanza, puerperio, Aids conclamata o altra malattia particolarmente grave. Come ha sciolto il nodo la Corte Costituzionale? In modo interlocutorio: ha ritenuto inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate, perché ha ritenuto “di non potersi sostituire al legislatore essendo possibili una pluralità di soluzioni al grave problema sollevato dai rimettenti, cui lo stesso legislatore dovrà porre rimedio nel più breve tempo possibile”. E però pone dei paletti: nel caso di inerzia legislativa, avverte, la Corte “si riserva, in un eventuale successivo procedimento, di adottare le necessarie decisioni dirette a far cessare l’esecuzione della pena in condizioni contrarie al senso di umanità”. Parlamento e forze politiche sono dunque avvertite: o provvedono in tempi rapidi, oppure scenderà in campo la Consulta. E dopo non ci si lamenti denunciando invasioni di campo e interferenze. Giustizia: politica incapace di risolvere il problema carceri, indulto ultima spiaggia di Giovanni Mastrobuoni www.lavoce.info, 13 ottobre 2013 A sette anni dall’ultimo indulto l’affollamento delle carceri è ulteriormente peggiorato. Il riproporsi del dramma sancisce, come ha rimarcato Giorgio Napolitano, l’incapacità della politica di risolvere il problema. Eppure le soluzioni ci sarebbero. Con un atto formale di estrema rarità e forza, un discorso diretto alle Camere, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha chiesto al parlamento di affrontare e risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri. Questo atto inusuale è anche dovuto alla sentenza della Corte di Strasburgo che invita il governo Italiano a porre rimedio alla situazione carceraria entro il 28 Maggio 2014, poco più di 7 mesi da oggi. Con 65 mila presenze di detenuti, a fronte di una capienza “regolamentare” di 47 mila, la situazione è effettivamente drammatica, così come lo era anche nel 2006, poco prima dell’ultimo indulto. Allora i detenuti erano 61 mila e la capienza di 43 mila. Il riproporsi dello stesso identico problema sancisce l’incapacità della politica di risolvere il problema delle carceri. All’epoca l’indulto sancì la fine dell’emergenza e quindi, in un paese come il nostro, la fine della spinta riformatrice per risolvere il problema alla radice. Ad esempio, ai proclami di massicci piani di edilizia carceraria con copertura finanziaria seguì l’opera di un lento e silenzioso cannibalismo dei fondi spinto dalla necessità di reperire denari per le casse dello stato. Sette anni dopo, la capienza delle carceri risulta essere aumentata di sole 4 mila unità, meno del 10 percento, mentre i proclami di allora parlavano di 37 mila nuove unità. Indulti e amnistie oltre a non risolvere i problemi che sono alla radice della questione del sovraffollamento uccidono qualsiasi spinta riformista. Quindi, il primo errore da evitare è quello di incominciare ad affrontare la questione del sovraffollamento con atti come l’indulto o l’amnistia. Sarebbe molto più utile condizionare tali atti ad una seria riforma carceraria. Fatta una riforma sistematica, se ce ne fosse ancora bisogno, per risolvere il problema delle carceri e, in secondo luogo, per evitare le sanzioni della Corte di Strasburgo, si potrebbe passare ai rimedi straordinari previsti dalla nostra Costituzione, come l’indulto o l’amnistia. Per fortuna il Presidente ha fornito tutti gli elementi che una riforma sistematica dovrebbe contenere: un maggiore utilizzo della messa in prova; l’utilizzo di pene alternative al carcere; un minor utilizzo della custodia cautelare; l’espiazione della pena nei paesi di origine per chi è immigrato; una depenalizzazione di alcuni reati; un piano carceri. Il Presidente conclude l’elenco dei rimedi possibili con l’indulto e l’amnistia, ma ad una lettura distratta potrebbe essere sfuggito un importante distinguo rispetto a come venne organizzato l’indulto del 2006. Il Presidente riconosce infatti che tale indulto fece aumentare i reati, e quindi si augura che questa volta vengano adottate idonee misure finalizzate al reinserimento dei detenuti. Come ciò possa avvenire con un numero finito di operatori quando si liberano 24 mila detenuti da un giorno all’altro non ci è dato sapere. Il secondo errore da evitare è quindi quello di replicare il metodo di scarcerazione dell’indulto del 2006. Ad esempio, si potrebbe prendere in considerazione lo scaglionamento nel tempo delle scarcerazioni, iniziando dai detenuti più anziani (che sappiamo essere quelli meno propensi alla recidiva). Andrebbe anche presa in considerazione l’opportunità di escludere non solo chi commette “reati particolarmente odiosi ,” ma anche chi tende a commetterne molti e a intervalli ridotti, come d’altronde previsto dalla legge. Il presidente Napolitano, nel suo discorso alle Camere, ha messo in dubbio l’efficacia deterrente delle sanzioni penali. Non è affatto chiaro a quale dottrina penalistica egli faccia riferimento, dato che esiste evidenza empirica del contrario (si veda l’articolo di Drago, Galbiati e Vertova “The Deterrent Effects of Prison: Evidence from a Natural Experiment” apparso sul Journal of Political Economy). Ancora una volta è bene ricordare e sottolineare che, prima di qualsiasi decisione volta a riformare il sistema sanzionatorio, occorrerebbe fare una seria valutazione, basata su solide analisi empiriche, della recidiva. Un segnale molto forte, in tale direzione, è arrivato dal Ministero della Giustizia e dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, che hanno messo a disposizione di alcuni ricercatori molti dati sui detenuti al fine di poter fare delle analisi di natura quantitativa che possano aiutare ad individuare quali potrebbero essere le riforme più appropriate. Giustizia: droga e clandestini, gli “sforna detenuti” di Francesco Bonazzi Secolo XIX, 13 ottobre 2013 L’offerta crea la propria domanda. Se si guardano i numeri della consueta “emergenza carceri”, e soprattutto se si analizzano le scelte politiche che l’hanno generata e che vengono riproposte anche in questi giorni per risolverla, viene da pensare che anche il sistema punitivo italiano sia governato dalla Legge di Say. Sempre nuove celle e sempre nuovi reati, insieme al giochetto di introdurre aggravanti specifiche sull’allarme del momento (violenza negli stadi o sulle donne, protezione dei cantieri o “incidenti del sabato sera”) finiscono per produrre sempre più detenuti. E svuotare ogni tanto le prigioni con un’amnistia o con un indulto, come i partiti stanno per fare ancora una volta, è come ripianare i debiti all’Alitalia ogni cinque anni. Tampona, ma non risolve. In Italia, la parola “sovraffollamento” è quasi venuta a noia. Il nostro paese, in Europa, è al terzo posto dietro Serbia e Grecia: prevede 47.615 posti letto, ma allo scorso 30 settembre avevamo ben 64.758 persone dietro le sbarre. Siamo ai limiti della tortura. Ma dentro ci vanno solo i delinquenti matricolati? No, perché nelle prigioni italiche ci sono ben 24.600 detenuti in attesa di sentenza definitiva. Addirittura la metà di loro, per la precisione 12.333, aspetta ancora una sentenza di primo grado. Gli immigrati “vengono in Italia a commettere reati”, come recita un luogo comune razzista? Se si guardano le statistiche delle condanne si scopre che la propensione a delinquere non ha nazionalità. Ma se si guarda il passaporto di chi sta dietro le sbarre, gli stranieri sono 22.770: oltre un terzo del totale. Il detenuto medio è un duro tutto muscoli e tatuaggi? Tatuaggi forse sì, ma la salute è un’altra cosa. In carcere il consumo di psicofarmaci è altissimo e quello di metadone anche. Il 23% ha problemi di droga. È questa la “macchina sforna-detenuti”. E le misure di clemenza, presto o tardi, finiscono per non funzionare. Basti guardare il “flop” del 2006. Da noi servirebbero 50 nuovi penitenziari da 400 posti, ma per il famoso “Piano carceri” non ci sono i soldi. Le riforme costano, si dirà, mentre un indulto no. Vero. Ma è solo una prova ulteriore che la differenza tra giustizia e clemenza è innanzitutto una questione di serietà. Giustizia: Renzi (Pd); amnistia e indulto un autogol di Emilia Patta Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2013 C’è il tempo dei sindaci che devono decidere sul momento e c’è il tempo di Roma, che rinvia rallenta rimanda. La corsa di Matteo Renzi verso la segreteria del Pd comincia da qui, dal concetto di tempo. Semplificazione dello Stato, occupazione giovanile, competitività delle imprese: “Negli ultimi 20 anni l’Italia ha perso tempo. Abbiamo avuto discussioni continue senza risolvere i problemi del Paese e delle persone. Abbiamo perso tempo e occasioni”. E ancora: “In questi 20 anni un intero establishment politico ha fallito. Ora noi siamo qui per dire che cambiare è l’unica soluzione. Dobbiamo restituire una speranza”. Cambiare verso, appunto, come recita lo slogan della campagna renziana. Roma che rimanda e rinvia, e il fallimento di un intero establishment: qualcuno ha voluto vedere in questi accenni una pungolatura verso Enrico Letta. Ma dai tempi della rottamazione pura e dura è cambiato quasi tutto, ed è cambiato anche Renzi: quello di ieri a Bari è stato un discorso pacato nei toni ma forte nei contenuti politici. Sul governo poche parole, a ribadire la “tregua” armata siglata a Palazzo Chigi nei giorni difficili del voto di fiducia: “Noi non facciamo un congresso per capire quando dura il governo. Il governo si caratterizza dalle cose che fa. E se fa cose utili al Paese, siamo a fianco del governo. Se non lo fa, noi lo diremo. Ma senza mettere bandiere alla Brunetta, bensì dicendo cosa si può fare”. Lui, il premier, riconosce da Venezia al sindaco di Firenze di essere stato in queste settimane “solidale” e di aver avuto un atteggiamento “utile” per il Paese: “Difendo quello che stiamo facendo convinto che sia la cosa giusta per il bene dell’Italia”, ribadisce Letta. Ma l’ex rottamatore già parla da segretario eletto quando avverte che il “suo” Pd non voterà amnistia e indulto: un segnale forte al premier e al governo delle larghe intese, certo, ma anche al Capo dello Stato che nel suo messaggio alle Camere ha invitato il Parlamento ad esaminare la questione. “Affrontare così il tema è un clamoroso errore, un autogol - dice Renzi. Come facciamo a spiegare ai ragazzi il valore della legalità se poi ogni sei anni, quando le carceri sono troppo piene, buttiamo fuori un po’ di gente”. Per Renzi il problema si risolve rivedendo due leggi che hanno contribuito a riempire le carceri di immigrati e di persone con problemi di tossicodipendenza: la Bossi-Fini e la Giovanardi. “Basterebbero i nomi per cancellarle - dice con una delle poche battute che si concede. Ma dobbiamo cambiarle perché non hanno funzionato. E va rivista anche la custodia cautelare”. Renzi sa che sulla questione dell’amnistia ha dietro di sé buona parte del Pd, che non può permettersi cedimenti sulla giustizia con il Cavaliere ancora in campo (non a caso il segretario uscente Guglielmo Epifani ha usato ieri concetti simili). E ad allontanare sospetti di “inciucio” interviene su questo punto lo stesso Letta: “Non sono d’accordo perché il messaggio del Capo dello Stato chiarisce che non c’è nessuna ambiguità, che la vicenda Berlusconi non c’entra”, dice sempre da Venezia il premier difendendo “il miglior presidente della Repubblica che possiamo avere”. Altro tema caldo la legge elettorale. E anche qui il sindaco di Firenze parla già da segretario: contro ogni tentazione di rendere permanenti le larghe intese arriva l’annuncio di un’iniziativa parlamentare entro novembre. “No al grande accordo che dura per sempre - scandisce Renzi -. Perciò iniziamo col dire che queste primarie non servono per definire chi è più simpatico o bravo, ma per dire chiaramente che saremo le sentinelle del bipolarismo”. Il sistema elettorale del “sindaco d’Italia” diventerà dunque proposta nelle prossime settimane alla Camera. Bisogna togliere la legge elettorale dal Senato per iniziare dalla Camera, dove “i numeri con Scelta civica e Sel ce li abbiamo”, dice Renzi senza giri di parole. Ed è chiaro il riferimento alla proposta di sistema spagnolo (un proporzionale corretto) depositata in Senato da Pdl (Donato Bruno) e Pd (Doris Lo Moro). E la legge del “sindaco d’Italia”, spiega il deputato Dario Nardella presente a Bari al fianco di Renzi, altro non è che il doppio turno di lista o di coalizione, ossia la proposta D’Alimonte - Violante suggerita anche dal rapporto dei 35 saggi nominati da Letta. A scanso di equivoci... “Un discorso corretto verso il governo”, ammette a fine giornata il lettiano Francesco Boccia, sostenitore di Renzi ma ieri assente da Bari per altri impegni. Boccia crede, e non da ora, che un segretario forte in un Pd forte non può che giovare allo stesso Letta: “Renzi indica la strada dicendo correttamente che non sarà una passeggiata. Iniziamo a spingere tutti insieme il carro, il resto verrà”. Già, perché la vera sfida per la premiership del centrosinistra è solo rimandata. Come dimostra il duetto di ieri sulla questione amnistia, che c’è da credere non sarà l’ultimo. Giustizia: Letta replica a Renzi; Napolitano ha fatto bene, nessuna ambiguità nelle parole sull’amnistia di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 13 ottobre 2013 “Difendo quel che stiamo facendo, è la direzione giusta per il bene dell’Italia”. Per Enrico Letta niente è cambiato con la discesa in campo di Matteo Renzi, il presidente del Consiglio resterà concentrato sui problemi del Paese e starà alla larga dalle polemiche, determinato a tagliare il traguardo della primavera 2015: “Per voltare definitivamente pagina l’Italia ha bisogno di persone che ci credono e io ci credo. Quello che stiamo facendo è faticoso e il primo a essere affaticato sono io. Ma è la direzione giusta e permetterà al nostro Paese, nel 2015, di guardare al futuro con maggiore speranza”. Prima, però, bisogna “rendere praticabile il campo da gioco” per il centrodestra e per il centrosinistra, “senza il cappio al collo del debito e del deficit”. Un giro di parole con cui Letta smentisce di voler picconare il bipolarismo per far spazio a un partito dei moderati. Ma c’è un confine che il premier difende come una frontiera dalle incursioni di chiunque e quel confine è il Colle. Letta lo dice con durezza, respingendo il giudizio renziano secondo cui amnistia e indulto rischiano di rivelarsi un autogol. “Non sono d’accordo - replica dal palco del Festival delle idee di Repubblica, rispondendo al direttore Ezio Mauro. Il messaggio di Napolitano sulle carceri, se lo si legge, non contiene ambiguità di nessun tipo e chi ha voluto leggervi ambiguità ha fatto un esercizio sbagliato e di scarsa fiducia nel migliore presidente che potremmo avere”. Renzi sbaglia e Letta non è d’accordo, concetti che più chiari non si può. Per il capo del governo l’inquilino del Quirinale è “un pilastro fondamentale del nostro agire e della nostra azione”, è l’asse portante dell’architettura delle larghe intese e Letta non lascerà che venga anche solo scalfito. Di tutto il discorso di Renzi a Bari, Letta ha respinto al mittente solo il passaggio sulla giustizia: “Napolitano ha fatto bene a porre così la questione carceraria”. E la condanna di Berlusconi? “Per quello che riguarda me, non ha nulla a che vedere con quella vicenda”. Tutto il resto sono interpretazioni non autorizzate. Letta non vuole ogni suo pensiero e parola vengano letti come una replica a Renzi, non vuole che la sfida naturale con il quasi-segretario del Pd si apra prima del tempo, col rischio di terremotare il governo e di privarlo di un alleato fondamentale com’è stato fin qui Epifani. Si è parlato di un patto tra il pisano e il fiorentino, ma in realtà il massimo di intesa che Enrico e Matteo hanno suggellato con una (non calorosissima) stretta di mano a Palazzo Chigi, dieci giorni fa, ruotava attorno a una “civile convivenza”. Rispetto reciproco e niente colpi bassi. Al sindaco Letta riconosce di aver svolto “un ruolo molto positivo”, anche nella risoluzione della crisi innescata dal Pdl. In quei giorni cruciali Renzi non ha soffiato sul fuoco e il premier gli rende il merito di “essere stato solidale”, di aver sostenuto il governo con una scelta “giusta e utile”, per l’Italia e “anche per il suo percorso” personale. Dal “cul de sac” della crisi si esce solo così, pensando e agendo in positivo, altrimenti non vi sarà altra uscita che il populismo. Per lui è un’autentica ossessione, che anche ieri il capo del governo ha messo al centro del dibattito con Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo. Ha detto che il grande tema del congresso del Pd dovrà essere “cambiare l’Europa e sgonfiare il populismo” e che il Pd, per non essere asfittico, “deve saper parlare alla pancia e al cuore e non solo alla testa” della gente: “Se parliamo solo alla testa non vinceremo mai”. E se molti vi hanno letto un messaggio in bottiglia per Renzi, che sull’Europa è stato molto critico, si tratta di interpretazioni non autorizzate: “Non voglio minimamente essere frainteso”. Giustizia: intervista a Umberto Ambrosoli (Pd) “sull’amnistia… è meglio non accelerare” di Francesco Pacifico www.lettera43.it, 13 ottobre 2013 La priorità della giustizia? “Risolvere il nodo carceri”. Un problema che va “oltre il Cav”. E sui reati finanziari “l’Italia ha fatto passi avanti”. Ma per il leader del Pd lombardo “è ora di cambiare marcia”. Umberto Ambrosoli la fa semplice: “La questione amnistia non ha nulla a che vedere con l’opportunità di fare o meno rientrare in un provvedimento di clemenza Silvio Berlusconi. Riportiamo il problema su un versante più generale”. Non proprio una passeggiata. Soprattutto davanti all’ipotesi di allargare il campo dell’intervento anche ai reati societari. Un campo, questo, che Ambrosoli conosce bene. Suo padre Giorgio, infatti, dopo essere stato lasciato completamente solo dalla classe politica, fu ammazzato dalla mafia nel 1979 per aver provato a fare luce nei bilanci della Banca privata finanziaria e degli affari di Michele Sindona. Da avvocato, poi, Umberto ha accettato di rappresentare gli interessi di piccoli azionisti truffati in delicati processi come il crack Burani. Ed è stato in prima linea in numerose campagne a difesa della legalità. Eppure il giurista e leader del Pd in Regione Lombardia - che ha provato in prima persona i limiti della legislazione finanziaria - precisa a Lettera43.it che su amnistia e indulto “sarebbe bene non accelerare”. Ma non siamo di fronte a un’emergenza? Conosco la situazione delle carceri. Quindi comprendo la preoccupazione espressa correttamente dal presidente Giorgio Napolitano. E sono conscio delle sanzioni che possono pioverci dall’Europa. Allora perché serve più tempo? Per interrogarci sui limiti del nostro sistema giudiziario. Siccome l’amnistia viene fatta per superare l’intasamento delle carceri, dobbiamo individuare quali sono le condanne che lo causano. Capire i tempi della giustizia, il peso di questi reati sulla società e fare distinzioni di carattere penale o amministrativo. E se anche i condannati per reati fiscali fossero in eccedenza? Non metterei in dubbio l’utilità di farli rientrare nell’amnistia. Ma così si salva Berlusconi? Non mi faccio condizionare dalla volontà di colpevolizzarlo. Valuterei la fattispecie di reato, non chi lo commette. E se anche Berlusconi dovesse rientrare nell’amnistia, è giusto che ne approfitti. Usciamo da questa spirale. Però... Però prima di andare in parlamento, di decidere dove e quando intervenire, bisogna discutere e capire perché lo Stato ha fallito. Sta chiedendo l’ennesimo tavolo? Veramente auspico un dibattito pubblico. Altrimenti non fermeremo la deriva di deresponsabilizzazione che contraddistingue l’Italia. C’è una parte del Paese, iniziando dalle vittime, che storce il naso sul fatto che lo Stato prima condanna chi ha commesso reati e poi non applica le pene. Un dibattito però si è aperto... Sì, ma purtroppo ci stiamo concentrando sul fatto che l’amnistia possa riguardare o meno una singola persona. Ma c’è davvero bisogno di un’amnistia? Partiamo dall’etimologia della parola. Viene dal greco, significa dimenticanza. E in questo momento è giusto dare attenzione a quello che abbiamo dimenticato: le condizioni di vita nelle carceri. E la certezza della pena? Ripeto, l’amnistia è una soluzione, tampone per carità, a fronte di una sconfitta dello Stato, che si è dimenticato come di garantire l’esecuzione delle pene. Comunque, penso che gli interessi in gioco siano diversi e confliggenti. Come il messaggio che arriva all’esterno... Lo so. Per ogni amnistia lo Stato ammette di non essere in grado di agire con coerenza. Ma le condizioni di detenzione non permettono la principale funzione del carcere: la rieducazione del reo. Il governo Letta aveva promesso di reintrodurre il falso in bilancio... È una questione diversa. Però lo dicono anche gli stranieri che vorrebbero investire qui: uno dei problemi italiani è la giustizia. Sia sul versante dei tempi sia su quelli della certezza. Quindi? Il legislatore deve cambiare marcia. Negli ultimi anni non si è posto il problema di tutelare interessi pubblici come quello del mercato, incentivando per esempio la correttezza dei bilanci. Detto questo, la certezza del diritto passa anche dall’applicazione delle pene. Ma è impossibile con l’intasamento delle carceri. C’è il rischio di un nuovo colpo di spugna? Se guardiamo a come si sta evolvendo il nostro ordinamento giuridico e alle direttive che arrivano a livello internazionale, vediamo che i reati societari hanno un’attitudine lesiva molto accentuata per una comunità. L’Italia, per esempio, ha preso impegni seri contro il riciclaggio. Fino a qualche tempo fa perseguire questo problema non era una priorità. I mercati, intanto, penalizzano le società quotate coinvolte in truffe... Spero che si ricalchi l’esperienza americana. Qui le imprese prevengono i reati perché rischiano danni ingenti. Anche la sospensione dai listini. E in Italia? Il decreto legislativo 213 del 2001 sulla responsabilità d’impresa ha imposto più oneri e doveri a soggetti rei di condotte illecite. Li ha indirizzati verso procedure più virtuose proprio per evitare di incorrere in sanzioni molto pesanti per condotte con rilievo penale-amministrativo. Questo, per il nostro ordinamento, è stato un approccio rivoluzionario. Vox populi vuole che soltanto i più deboli finiscano in galera... È vero se si guarda al fatto che non tutti possono permettersi una difesa economicamente onerosa per evitare il carcere. È solo un problema di legge? Sono stato legale di parte civile nel processo per il fallimento Burani. E un testimone, parlando di Giovanni Burani (ex amministratore delegato della maison e condannato a sei anni in primo grado, ndr), ci ha detto: “Per noi era un bravo ragazzo, aveva vinto anche il premio di imprenditore dell’anno”. Una frase emblematica, che dimostra che in Italia, finché il bubbone non scoppia, non si raggiunge di gravità le istituzioni non si muovono. Lo stesso è successo in America con i casi Enron e Madoff. Non tutti si sono sorpresi. È avvilente, no? Sì, ma sono più avvilito per un atteggiamento generalizzato. Quante volte sono andato a parlare di legalità e alla fine di questi incontri qualcuno mi ha avvicinato per salutarmi e per dirmi: “Però, avvocato, se lo Stato non offre un sistema di istruzione adeguato per i nostri figli e un servizio funzionante, è legittimo evadere le tasse”. Bene, spesso è questo il nostro approccio alla giustizia. Giustizia: ministro Cancellieri; sull’amnistia parola al Parlamento, da Governo nulla pro o contro Cav di Margherita Nanetti Ansa, 13 ottobre 2013 Continuano le polemiche sull’ipotesi amnistia, dopo il messaggio alle Camere del Colle, e il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri - in seguito alle proteste del Pdl, colombe comprese - precisa che non era sua intenzione dire che un eventuale atto di clemenza avrebbe escluso il Cav ma solo che, nel passato, i reati di frode fiscale non sono mai entrati nel calderone delle sanatorie. Il governo, comunque, assicura il Guardasigilli, non sta preparando nulla: la materia è tutta del Parlamento. Tra favorevoli o contrari, prende posizione anche Matteo Renzi che giudica l’iniziativa “un autogol” durante il comizio a Bari per il lancio della sua candidatura alla segreteria Pd. Voci contro anche quelle di Maroni e Calderoli. “C’è chi ha letto nelle mie parole l’intenzione di predisporre un atto contra personam: non stiamo preparando alcun atto. Amnistia e indulto non sono né ad né contra personam. Decide il Parlamento. Credo che qualcuno abbia fatto delle strumentalizzazioni sul nulla e ha voluto leggere le mie parole come un attacco a Berlusconi”, prova a spegnere il fuoco Cancellieri dall’Umbria, mentre ritira un premio. “Ieri - spiega il ministro - nel corso di un’intervista mi è stato chiesto se un provvedimento di amnistia e indulto riguarderà Silvio Berlusconi e io ho risposto penso di no. L’ho detto esclusivamente basandomi sulle esperienze precedenti quando nei provvedimenti di amnistia e indulto non sono stati inseriti i reati finanziari”. Scanso equivoci, l’ex prefetto ha aggiunto: “non stiamo preparando alcun provvedimento: in questa materia il Parlamento è sovrano e deciderà quali reati inserire”. Dal palco della Fiera del Levante, Renzi si smarca dai dem e dice che “affrontare così il tema dell’amnistia è un gigantesco errore. Cambiamo prima la Bossi-Fini e la Fini-Govanardi, che non hanno funzionato e interveniamo su riforme strutturali, come la custodia cautelare”. Così scontenta il radicale Silvio Viale, che pure lo sostiene, e che lo critica perché “sul tasto della giustizia e dell’amnistia reagisce di pancia come Grillo sulla Bossi-Fini. Confido, però, che sappia approfondire seriamente il tema come si chiede a un uomo di governo”. In procinto di andare a Torino alla manifestazione leghista contro l’immigrazione, il governatore Roberto Maroni tiene alta la tensione e avanza un dubbio malignetto. “Non vorrei - ha ventilato - che la modifica della Costituzione fosse di togliere la norma che per approvare l’amnistia servono i due terzi dei voti dei parlamentari. Mi viene questo sospetto...”. Il suo collega di partito e vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, non si tira indietro a scaldare gli animi. “Mai mi sarei aspettato il messaggio del Presidente Napolitano con cui si chiede l’indulto e l’amnistia: mi sarei immaginato - ha detto Calderoli nel vivo del comizio dal capoluogo piemontese - che un messaggio del genere riguardasse gli anziani, i giovani, la disoccupazione!”. Giustizia: intervista a Ornella Gemini “mio figlio non si è ucciso in carcere… scoprirò tutta la verità” di Pierluigi Palladini Il Tempo, 13 ottobre 2013 Questa non è una storia normale. Questa è una brutta vicenda di misteri, carcere e morte avvenuta ora, in uno stato di diritto. È la peggiore di tutte le storie. Quella di una madre a cui viene strappato un figlio e restituito un cadavere. È la storia di Niki Aprile Gatti, 26 anni, avezzanese, morto in carcere dopo cinque giorni di detenzione preventiva. Come è morto Niki non sono riuscita a scoprirlo neanche con due opposizioni - esordisce Ornella Gemini, madre di Niki - alle loro archiviazioni per suicidio. Niki non si sarebbe mai suicidato e per loro lo avrebbe attuato con il laccio di una scarpetta (in un carcere di massima sicurezza e ad un primo ingresso sono stati lasciati i lacci? No, infatti alcuni detenuti mi hanno fatto sapere che non vengono lasciati). Quel laccio, restituitomi neanche deformato, come scrisse Beppe Grillo nel suo Blog, “non avrebbe sorretto neanche un criceto” figuriamoci un ragazzo alto 1,80 e di un peso di 90 kg! Sufficiente, però, per uno strozzamento omicidiario”. La vita di Ornella Gemini, dal quel giorno, è diventata lotta per la verità. “Niki era la mia vita, la mia ragione di vita. Era un ragazzo pieno di sogni e talento che non ha mai avuto problemi con la giustizia e mai fatto uso di droghe. Era all’Università a Roma ad Ingegneria informatica, quando venne contattato da un altro ragazzo per un lavoro a San Marino con un’azienda del settore. Lui la vide come un’occasione per attuare e sviluppare le sue capacità e decise di partire. Improvvisamente, dopo un anno e mezzo, il 19 giugno 2008 mi telefonò una sua amica per comunicarmi che avevano arrestato tutti. Iniziò il calvario di telefonate agli avvocati fino a quando seppi che l’accusa era truffa informatica e che Niki era stato tradotto nel carcere di Rimini. Saprò solo 24 ore dopo che non era vero e che era a Sollicciano. Solo lui era stato portato lì. E perché l’avvocato mi aveva mentito? Perché a Niki è stata negata la telefonata alla famiglia? Perché io l’ho dovuto sapere da estranei e non dovevo sapere dov’era? Niki è stato l’unico fra i 19 arrestati a non avvalersi della facoltà di non rispondere, voleva parlare col magistrato e raccontare ciò che sapeva, ma 10 ore dopo non ne ha avuto più la possibilità! I colloqui fatti in carcere, di cui ho copia, evidenziano un ragazzo con la certezza che non appena parlato col magistrato e chiarita la sua posizione, uscirà da quel posto. Niki chiese quando sarebbe stato interrogato e l’agente rispose: “La tua matricola ancora non arriva, può anche darsi che tu venga mandato a casa o se arriva la matricola sapremo ogni cosa, la matricola arriva domani (25 giugno)”. Ebbene Niki non avrebbe aspettato neanche di vedere se l’indomani sarebbe uscito perché parlava con questo agente alle 10 del 24 giugno e dall’autopsia si scoprirà che Niki è morto il 24 giugno alle 10”. Straziante l’ultimo ricordo: “L’ultima volta che l’ho visto è stato il 23 giugno fuori dal tribunale di Firenze. Cercavo disperatamente di avvicinarmi al blindato e gli agenti della penitenziaria mi urlarono “Stia a 20 metri di distanza altrimenti arrestiamo anche lei!”. Con Niki, hanno ammazzato anche me e la mia famiglia. Chiudo con una frase del Presidente Pertini: “Ricordatevi quando avete a che fare con un detenuto, che molte volte avete davanti una persona migliore di quanto non lo siete voi”. In attesa della Giustizia ricorderemo Niki per quel che era e non per l’orribile morte inflittagli. È stato istituito un premio per ricordare il suo talento all’Itis di Avezzano, il cui bando per gli studenti uscirà a dicembre e con l’accordo del dirigente Anna Amanzi, verrà assegnato al vincitore a giugno e sarà intitolato “Premio Niki Aprile Gatti”. Il premio sarà assegnato allo studente che si distinguerà per attività progettuali particolarmente creative nell’informatica. È stata costituita anche un’associazione “@ssociazione Niki Aprile Gatti”, che promuove la cultura tramite attività ricreative e formative. Tutto questo in linea con lo splendido ragazzo che era Niki e di cui hanno privato me, la mia famiglia e la Società tutta”. Puglia: quell’inferno dietro le sbarre, il primato negativo a Taranto di Antonello Cassano La Repubblica, 13 ottobre 2013 A fronte di una capienza regolamentare di 2.350 posti, attualmente nelle celle pugliesi sono stipati 3.950 detenuti. La denuncia del Sappe e dei medici: “Le carceri sono ormai diventate un moltiplicatore di infezioni e malattie”. Sempre più sovraffollate e sporche, sempre più pericolose. Sono le carceri pugliesi, tra le più sovraffollate d’Italia, la nazione che a sua volta ha il coefficiente di sovraffollamento più alto d’Europa. Non c’è un allarme da lanciare per il semplice motivo che l’allarme è quotidiano, insistente. Gli ultimi dati del Sappe (il sindacato autonomo di polizia penitenziaria) sono da brividi. In Puglia allo stato attuale la capienza regolamentare è di 2350 posti, ma i detenuti stipati nelle celle regionali sono 3.950. Il record negativo va alla struttura di Taranto che con 600 presenze e una capienza ferma a 315 posti ha il 90 per cento del sovraffollamento. Malissimo Altamura (90 presenze, sovraffollamento dell’85 per cento) e Lecce, attualmente il carcere più grande della Puglia con 1150 detenuti, a fronte di una capienza di 659 posti. Nel carcere di Bari in questo periodo è chiusa la seconda sezione per ristrutturazioni. I posti della prima sezione sono 210, le presenze 410. Male anche gli istituti di Foggia, Brindisi, Lucera, San Severo e Turi dove il sovraffollamento sfonda il muro del 50 per cento. “A fronte di una popolazione detenuta che in Puglia si è quasi raddoppiata negli ultimi anni - denuncia Federico Pilagatti segretario nazionale del Sappe - l’organico della polizia penitenziaria è sempre più ridotto a causa di pensionamenti e condizioni lavorative insostenibili “. Anche in questo caso le cifre parlano da sole. Sono 2.350 gli uomini in forze alla polizia penitenziaria. La carenza è di almeno 300 unità. Gravissime le condizioni igienico sanitarie nelle carceri. Il passaggio della sanità penitenziaria sotto il controllo delle Asl avvenuto nel 2008 se possibile ha peggiorato la situazione. Secondo il Sappe, il passaggio sotto la gestione delle Asl ha causato una riduzione delle prestazioni specialistiche ambulatoriali all’interno delle carceri, “dove non vengono più neanche garantite le urgenze specialistiche, prima assicurate dall’amministrazione penitenziaria “. Un altro errore, secondo il sindacato, è stato quello di ridurre il carcere di Bari, in cui è attivo uno dei dieci centri clinici italiani con reparto di medicina interna, a unità operativa semplice. “Senza dimenticare che le carceri sono ormai diventate un moltiplicatore di infezioni e malattie”. Rischi riconosciuti anche dal direttore dell’unità operativa di Igiene del Policlinico di Bari, Michele Quarto: “Il passaggio della sanità penitenziaria sotto il controllo delle Asl è stato una pura follia. Sarebbe stato molto più logico e giusto potenziare la medicina di prima urgenza penitenziaria”. Netto il giudizio di Quarto anche in merito alle condizioni di salute dei detenuti: “Da tempo ripeto il concetto che le carceri pugliesi, così come quasi tutte le strutture detentive italiane, sono delle vere e proprie bombe igieniche pronte a esplodere”. Tubercolosi, scabbia, Hiv, infezioni alle vie respiratorie: “Nelle celle si vive in condizioni di assoluta promiscuità, con soggetti che vivono ai margini della società e che non ricevono cure sufficienti”. Milano: la Garante dei detenuti; senza interventi immediati San Vittore resterà un girone infernale La Repubblica, 13 ottobre 2013 Alessandra Naldi, garante dei detenuti per il Comune e presidente di Antigone Lombardia, San Vittore è “disumano” come lo definisce l’avvocato di un detenuto? “Sicuramente lo è. Il sovraffollamento è diminuito ma di poco. Le celle, pensate per una o due persone, ne ospitano sei. Le sezioni sono chiuse: significa che i detenuti escono solo per l’ora d’aria, con le attività negli stessi orari e devono scegliere tra colloquio con i familiari o l’avvocato, il passeggio o la doccia”. È così in tutti i raggi? “No. In quello dei giovani adulti, più protetti e con più attività perché alla prima detenzione, non è così. Il quinto raggio ha problemi ma è stato almeno ristrutturato. Il sesto è il solito girone infernale. Dove non c’è posto in piedi, dove si sta sdraiati tutto il tempo, dove si smontano i vetri d’estate e si rimontano d’inverno perché non c’è spazio per aprirli”. Anche la sezione femminile è così? “No, condizioni e numero di attività sono migliori. Ma mi hanno appena detto che potrebbe chiudere, nella riorganizzazione dei circuiti carcerari: per chi è già in un percorso di reinserimento, per chi ha un’attività lavorativa e sta costruendo rapporti all’esterno, sarebbe un danno. Le persone non sono pacchi”. I trecento trasferimenti annunciati dal ministro Cancellieri miglioreranno la situazione? “A quanto ne so io non tanto. Dovrebbero riguardare anche i protetti e i definitivi di Opera, che finiranno a Pavia e Voghera. E in ogni caso sarebbe una soluzione tampone, così come avviare finalmente la ristrutturazione di secondo e quarto raggio e svuotare il sesto. Senza un cambio radicale di sistema, senza la depenalizzazione dei reati sugli stupefacenti e sull’immigrazione, ci possono essere provvedimenti anche utili, ma tra due anni saremo di nuovo qui”. Domanda fatale: San Vittore, ottocentesco e comunque obsoleto, va prima o poi chiuso? “Da sempre penso che il carcere di Milano debba stare in mezzo alla città. Anche simbolicamente, perché è giusto che i problemi del carcere stiano in centro. E poi i carceri moderni hanno più problemi strutturali: quest’estate a Opera, costruito male in epoca di carceri d’oro, non arrivava l’acqua ai piani alti. San Vittore non è disumano perché è dell’Ottocento. La colpa è di chi nei decenni lo ha gestito”. Bologna: Annamaria Franzoni ammessa al lavoro esterno, le altre detenute protestano “è privilegiata” di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 13 ottobre 2013 Lei, Annamaria Franzoni, dice al prete che l’ha presa a lavorare nello studio-sartoria della canonica di fianco alla parrocchia di Sant’Antonio da Padova: “Voglio tornare a respirare”. Loro, le madri e le nonne che portano i figli all’asilo e alle elementari di fronte alla chiesa, oscillano tra commenti neutri o postivi e posizione giustizialiste o estreme. “Chi siamo noi per giudicare?”. “Tutti hanno diritto ad avere una occasione di riscatto”. “I benefici e le misure alternative le devono dare a un numero maggiore di detenuti, nona poche persone”. “Non dovrebbe più uscire di galera”. “Chi si fiderebbe a lasciare una così da sola, in una stanza, con un bambino?”. Aveva spaccato in due l’Italia dei plastici e dei dibattiti, divisa tra innocentisti e colpevolisti. E continua a dividere, la mamma di Cogne, anche adesso che la mattina può uscire dal carcere bolognese della Dozza e andare a lavorare in canonica, quattro ore a tagliare stoffe e confezionare borsette e accessori di abbigliamento, il pranzo con gli altri ospiti, il penitenziario a meno di un chilometro di distanza. “Lavoro esterno”, si chiama. Ed è un beneficio concesso dalla direzione, con l’avallo del giudice di sorveglianza, all’interno del piano di trattamento elaborato dietro le sbarre. Ad aspettarla al varco, ieri mattina, ci sono telecamere e taccuini. Alle 9.40, jeans e capelli sciolti, scende dalla vecchia Panda bianca guidata dal volontario che la va a prendere e la riporta indietro, costretto a farle da bodyguard, e senza fermarsi supera il cancello della parrocchia e attraversa il sagrato, in silenzio, lo sguardo che non sembra essere cambiato. Parla invece il prete che la ospita, sacerdote di frontiera e di battaglia con il titolo di monsignore, don Giovanni Nicolini. Prima attacca: “Questo assalto dei media è un orrore. Anche la signora Franzoni stamattina è dispiaciuta per l’assedio, che pure avevamo messo in conto, e sembra un po’ stanca. Ma in questi primi giorni da noi non mi è parsa depressa”. Poi ripete che “è necessario che il lavoro esterno e le misure alternative alla detenzione siano concesse a un maggior numero di persone”. Infine di lei qualcosa rivela: “Non parliamo di quello che è successo. Discutiamo del presente e del futuro”. L’omicidio del figlio Samuele data 30 gennaio 2002. Il fine pena per ora è fissato al 22 marzo 2020. L’indulto e l’amnistia, sempre che ci si arrivi, potrebbero tagliare altri tre dei 16 anni di condanna, dopo i tre già caduti per il precedente condono. E le riduzioni per la buona condotta, 45 giorni ogni sei mesi, alleggerirebbero ulteriormente la detenzione ancora da scontare. Annamaria Franzoni divide anche all’interno del carcere. Sta sulle sue. Ha smesso di frequentare la biblioteca, dove rimaneva in un angolo. Le compagne del femminile la considerano una privilegiata e non da ora. “Per i lavori interni retribuiti prima c’era la rotazione. Quando è arrivata lei, è saltato tutto. Le hanno fatto fare la “spesina”, addetta alla distribuzione dei prodotti che si possono comprare allo spaccio interno, il sopravvitto”. E i numeri del carcere confermano, al di là di invidie, cattiverie o malignità, che è un’eccezione, non la norma. Le detenute della Dozza in questi giorni sono 70. Oltre a lei, solo un’altra è ammessa al lavoro esterno. Ma non esce dal perimetro dei muraglioni. Fa le pulizie in direzione. Le “dipendenti” dichiarate dalla cooperativa “Siamo qua”, compresa la mamma di Cogne, sono tre. “Il suo solo privilegio - sostiene don Nicolini - è l’avere una famiglia che da sempre la protegge e le sta vicina”. Ieri pomeriggio, attraversando “il circo mediatico”, il marito, i due figli e due familiari sono tornati a trovarla in parrocchia, con l’autorizzazione ad avere qui i colloqui previsti. “E la seconda volta che vengono - spiega il parroco. Lei, alla prima occasione, mi ha presentato tutti e mi ha chiesto: “Ha visto come sono belli i miei ragazzi?”. Tentativo di cominciare una nuova vita, guardando avanti. La voglia di respirare a pieni polmoni, avere davanti agli occhi alberi e prati, conoscere nuove persone. Le difficoltà a recuperare il senso dello spazio e la percezione delle distanze, “perché in carcere - ricorda il prete - si hanno problemi di vista, disturbi sensoriali”. E una grana economica in arrivo. L’ex avvocato difensore Carlo Taormina ha citato in giudizio Anna Maria Franzoni e il marito, al tribunale civile bolognese, per chiedere che siano condannati a pagargli parcelle e spese arretrate, 771 mila euro. Al lavoro fuori dal carcere: la mattina esce, la sera torna in cella Confeziona borse e accessori d’abbigliamento, nello studio del parroco adattato a sartoria, crocefissi e quadri appesi ai muri, le librerie colme di volumi, tre paia di forbici, gli attrezzi per disegnare i modelli. Dalle finestre vede alberi e un prato, dopo quasi cinque anni e cinque mesi passati dietro le sbarre del carcere di Bologna senza soluzione di continuità, uscita solo per il funerale del suocero. “È tranquilla, serena”. Anna Maria Franzoni- condannata a 16 anni per l’omicidio del figlio Samuele, ridotti a 13 dall’indulto - da lunedì è una detenuta ammessa al lavoro esterno, un beneficio concesso dalla direzione e approvato dal giudice di sorveglianza di riferimento. Fa la sarta. La mattina esce dal penitenziario del capoluogo emiliano e raggiunge la parrocchia dove ha sede “Siamo qua”, la cooperativa sociale che gestisce la bottega e i corsi di cucito organizzati dietro le sbarre. Per quattro ore sta da sola, piegata sulla macchina per cucire, assemblando borsette e accessori con il brand “Gomito a gomito”. Poi mangia in parrocchia. E nel primo pomeriggio rientra in carcere. Un volontario la accompagna in auto negli spostamenti, un tragitto breve. Monsignor Giovanni Nicolini, il parroco che le ha messo a disposizione lo studio-sartoria, avrebbe preferito che la cosa restasse sottotraccia, memore del clamore mediatico del “caso Cogne”, il delitto che il 30 gennaio 2002 catapultò sulla ribalta televisiva il paese valdostano. “Lei adesso è tranquilla - racconta il sacerdote, con i giornalisti e i fotografi alla porta - e speriamo tutti che lo possa rimanere. Abbiamo cercato di mantenere il riserbo. Però la notizia è scappata. La signora Franzoni non è una privilegiata, un caso unico. Ha avuto questa occasione perché già in carcere frequentava la sartoria della nostra cooperativa e credo abbia seguito un corso. Per noi non è una novità. Abbiamo già accolto e preso in carico, uno alla volta, altri detenuti”. Roma: Valter Lavitola evade dagli arresti domiciliari, ripreso da una telecamera finisce a Regina Coeli Ansa, 13 ottobre 2013 Valter Lavitola affronterà da detenuto il processo di secondo grado per la presunta estorsione a Silvio Berlusconi. L’ex direttore dell’Avanti!, infatti, da oggi è di nuovo in carcere, a Regina Coeli: l’inasprimento della misura cautelare è stato deciso dalla Corte d’appello, davanti alla quale il giornalista comparirà il 30 ottobre, poiché Lavitola è evaso dagli arresti domiciliari. Lo scorso agosto una telecamera installata nel cortile del palazzo romano in cui abita lo ha filmato mentre camminava fuori dal suo appartamento. Uno spostamento minimo: il braccialetto elettronico che il giornalista porta addosso da maggio non ha neppure inviato il segnale di allarme ai carabinieri, incaricati della sorveglianza. Ma tanto è bastato perché i giudici gli revocassero i tanto sospirati domiciliari, conquistati lo scorso maggio dopo 13 mesi di detenzione. Sono stati i finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Napoli a scoprire che il giornalista era uscito dall’appartamento e a informare la Procura generale. Probabilmente temevano che il detenuto potesse incontrarsi con qualcuno nello spazio di pertinenza del braccialetto elettronico: circostanza che non si può escludere, anche perché, pochi secondi dopo aver filmato Lavitola in cortile, la telecamera è stata distrutta da un’altra persona che gli investigatori ora stanno cercando di identificare. La vicenda sembra dunque tingersi di giallo: c’era qualcuno con l’ex direttore dell’Avanti! quel giorno di agosto? E chi? Perché la telecamera è stata distrutta? Tutto chiaro, invece, per l’avvocato Gaetano Balice, che in questo processo assiste il giornalista. “A partire da maggio, quando Lavitola è tornato a casa - spiega Balice - negli spazi condominiali sono stati ritrovati diversi microfoni e telecamere, peraltro collocati in modo da essere facilmente visti. Ogni volta sono stati informati i carabinieri, addetti alla sorveglianza del detenuto, e ogni volta, non essendo chiaro chi li avesse messi e per quale scopo, si è provveduto a disattivarli”. Per la tentata estorsione a Silvio Berlusconi, Valter Lavitola è stato condannato in primo grado lo scorso 4 marzo dal gup Francesco Cananzi, che aveva accolto la richiesta dei pm Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli. Sul nuovo arresto di Lavitola è intervenuto il coordinatore del Pdl Sandro Bondi: “Ci troviamo di fronte a metodi che ricordano i tribunali dell’Inquisizione, le cui vittime confessavano qualsiasi colpa ed erano indotte ad accusare altri malcapitati in seguito alla violenza che subivano. E tutto questo accade nel silenzio pressoché generale di quelle istituzioni che dovrebbero garantire il rispetto della legge e dei principi fondamentali della democrazia”. Per Fabrizio Cicchitto capogruppo del Pdl alla Camera dei Deputati, “se è vero quello che dice l’avvocato di Lavitola, siamo davvero davanti a un episodio che è dei più inquietanti, di forzatura di procedure giudiziarie che portano alla custodia cautelare in chiave persecutoria”. Torino: detenuto ricoverato alle Molinette scoperto con un telefono cellulare, ingoia la sim Agi, 13 ottobre 2013 Un detenuto italiano di 40 anni, che si trovava nel Repartino delle Molinette a Torino, scoperto in possesso di un cellulare con tanto di caricatore, ha ingoiato la scheda sim dell’apparecchio. È successo oggi pomeriggio. “Da tempo - sottolinea Leo Beneduci, segretario dell’Osapp - denunciamo le gravissime carenze del carcere torinese per quanto riguarda l’organico e le criticità del reparto delle Molinette” “Da tempo - aggiunge - il perdurante immobilismo della Direzione ha effetti deleteri anche per ciò che concerne la vivibilità della struttura, ivi comprese le precarie condizioni della mensa e della caserma della polizia penitenziaria”. “Nonostante ciò - conclude - si continua a prestare servizio con dedizione non per l’Amministrazione penitenziaria, che non esiste più e non per il Dicastero della giustizia, che ha abbandonato la polizia penitenziaria”. Milano: la storia di Roberta Cossia, giudice di sorveglianza entrata nel coro dei detenuti di San Vittore di Paolo Foschini Corriere della Sera, 13 ottobre 2013 Un magistrato di sorveglianza nel coro dei detenuti di San Vittore: canterà tra i tenori. Il giudice ritiene importante conoscere dall’interno la vita dei carcerati. Se in uno di questi martedì mattina, per magia, il rumore del traffico in piazza Aquileia sparisse all’improvviso e un passante tendesse l’orecchio oltre il muro di cinta di San Vittore, verso il finestrone all’ultimo piano di quello che poi è il III raggio del più famoso carcere d’Italia; ebbene egli sentirebbe l’eco lontana, da là dentro, di un coro polifonico che intona Gaudeamus hodie: e il passante potrebbe giustamente chiedersi, con tutto quel che sta leggendo a proposito di sovraffollamento carcerario, se i dannati di San Vittore sono per caso impazziti al punto da cantare “Oggi rallegriamoci”. Non lo sono, naturalmente. A cantare sono infatti i detenuti del reparto “La Nave”, sezione purtroppo unica in Italia per il trattamento dei carcerati tossicodipendenti. E il loro coro - solo una delle attività di recupero portate avanti da anni in quel reparto - sta semplicemente preparando il programma musicale per la messa natalizia che l’arcivescovo di Milano celebra tradizionalmente a San Vittore. La novità di quest’anno è che con loro, e pure qui non si segnalano precedenti, ha appena deciso di partecipare alle prove anche un magistrato. A titolo del tutto volontario: per esserci. Ma anche per dare un segnale: “La verità è che la stragrande maggioranza dei magistrati penalisti italiani - dice - un carcere da dentro non lo ha mai neppure visto. Ma un penalista che non ha mai neanche messo piede nei luoghi in cui si scontano le pene da lui stesso comminate, a mio avviso, non può fare il suo mestiere serenamente. Trovo grave, al contrario, che la maggior parte dei magistrati lo rivendichi come fatto normale”. A parlare è il giudice Roberta Cossia. È stata “accettata” nel coro una settimana fa previa regolare audizione da parte del mezzosoprano Maria Teresa Tramontin (Coro Sinfonico Giuseppe Verdi), del violinista Carlo De Martini (varie formazioni classiche, con un passato negli Stormy Six) e del pianista Pietro Cavedon (collaboratore Orchestra Verdi), i quali mandano avanti il coro di San Vittore da anni e alla fine l’hanno piazzata a cantare fra i tenori: del resto questo dei detenuti è un coro maschile, mica era facile mettere una donna coi baritoni. Non è un magistrato qualunque, Roberta Cossia: è un “giudice di sorveglianza”, cioè proprio uno di quelli chiamati a pronunciarsi non sulle condanne da infliggere ma sulle modalità della loro applicazione. E per capire con che spirito affronti il suo mestiere basti il fatto che giusto lei, insieme con una collega, si fosse recentemente rivolta alla Consulta per inserire proprio il “sovraffollamento” tra i possibili motivi di differimento di una pena: richiesta dichiarata “inammissibile” appena tre giorni fa. “Non che la risposta mi abbia stupito”, sorride con una certa amarezza. E spiega: “Il punto è, con buona pace delle finalità rieducative previste dalla Costituzione, che non solo il sentire comune ma anche quello di moltissimi miei colleghi concepisce tuttora la pena come puro strumento di vendetta. E cavalcare il sentimento vendicativo è la cosa più facile che ci sia: consenso sicuro”. Contraria al “principio” dell’ergastolo: “La sua stessa esistenza testimonia che purtroppo è lo Stato per primo, in realtà, a non voler credere nelle possibilità rieducative della pena”. Fa un esempio che più attuale non si può e che detto da una donna scuote il doppio: “Penso a un dramma come il femminicidio. Tipico reato i cui autori andrebbero trattati con un percorso di ricostruzione culturale, psicologica, umana. Invece la risposta tutta emotiva della politica è sempre la stessa: più carcere e basta. Come se il carcere, per chi è incapace di autocontrollo, fosse un deterrente”. Di amnistia preferisce non parlare: “Il dibattito, ancora una volta, è nato già distorto”. Ma di altre cose ne dice: “A molti per esempio sfugge il fatto, parlando di sovraffollamento, che il motivo principale per cui si danno pochi arresti domiciliari rispetto a quanto si potrebbe è che un sacco di detenuti non ce l’ha, una casa. E quindi ricchi a casa, poveracci in galera. È un problema carcerario o sociale?”. E a proposito di domiciliari: “Che occasione sprecata. Ma quale rieducazione si fa costringendo uno a star chiuso in casa, in ciabatte a far niente, magari in un contesto ambientale degradato di suo? Ma non sarebbe più costruttivo, anziché mandare i carabinieri a controllarlo a sorpresa giorno e notte per 24 ore, obbligarlo a frequentare anche solo per cinque ore al giorno una scuola, un corso, una iniziativa di formazione?”. Cose per le quali manca la volontà, dice: “La galera è più facile, ecco tutto”. Tranne qualche volta: “Tipo cantare un pezzo a tre voci, certo. Quando vedo persone che in passato avevano fatto solo rapine mettersi lì d’impegno, con la guida di professionisti, per beccare un sol diesis intonato e alla fine esserne contenti, ecco, quello mi sembra già un passo migliore di molti altri nella direzione giusta. E sono contenta di esserne testimone da vicino”. In mezzo ai tenori. Mantova: Premio Letterario Castelli; con i suoi lampi di scrittura Gianluca non è più solo un detenuto di M. Antonietta Filippini Gazzetta di Matova, 13 ottobre 2013 Gianluca Migliaccio è un ragazzo di 33 anni, cresciuto a Scampia - quel quartiere-mostro di Napoli famoso per la droga e la camorra. Da qualche anno però abita ad Ascoli Piceno, in carcere, e prima ha conosciuto Poggio Reale, uno dei più difficili con 2.800 detenuti. Eppure il suo sorriso è contagioso. Finalmente è lui il protagonista, ma tra gli applausi, per una cosa bella, un successo che nasce da un talento naturale ben coltivato. Con “I miei weekend con mamma e papà” ha vinto il primo premio “Castelli 2013 per la solidarietà”, per detenuti-scrittori e ospiti degli istituti minorili. E l’altro ieri, nell’auditorium della casa circondariale di Mantova, in via Carlo Poma, ha ricevuto i mille euro del premio, la medaglia del presidente della Repubblica Napolitano, e un regalo che a suo nome viene fatto in Congo per costruire un’aula scolastica. Ma chi lo conosce scommette che non terrà nulla per sé, aiuterà un’amica con problemi economici. Non è una storia da libro Cuore, siamo dentro al carcere e qui tutti qualcosa l’hanno combinato. Tranne, forse, i detenuti in attesa di giudizio. Ma in carcere c’è chi si trasforma. Merito della scuola - interna - e anche dei corsi di scrittura creativa che stanno prendendo piede e aiutano a uscire dalla corazza difensiva. Gianluca emoziona col suo racconto, letto dall’attrice Gabriella Pezzoli. Il tema assegnato dalla San Vincenzo che organizza il concorso con la Fondazione Ozanam, è forte e provocatorio: “Tu ce l’hai una famiglia?”. La giuria ha ricevuto 185 lavori, dice il presidente Luigi Accattoli, da 72 istituti di pena. Un po’ meno del 2012, ma “chi ha risposto si è messo in gioco, ha svolto un’introspezione”. Gennaro Gerremia racconta di un uomo che sta scrivendo e la guardia lo avverte: “Lascia stare la lettera, tua madre è morta”. Migliaccio sa usare le immagini nella scrittura: gli anni in collegio, la madre che arriva senza nulla (neanche un paio di mutande) e con il cuore vuoto. Per la premiazione ha scritto un altro intervento che legge. Saluta anche Mantova, dove è nato Virgilio, la guida di Dante nel suo viaggio infernale, che conduce da Paolo e Francesca. “Galeotto fu il libro - cita Gianluca, ma il professore ci ha spiegato che Galeotto era il mezzano d’amore fra Lancillotto e Ginevra. Perché allora si dice galeotto di noi detenuti?”. È un modo per arrivare a parlare dell’amore mancato, sognato, cercato, che spinge a essere migliori. E questo è il concetto spiegato da Claudio Messina, della San Vincenzo-settore carceri, dalla presidente Claudia Nodari, da Accattoli e dalla direttrice di via Poma, Rossella Padula. Senza gli affetti è difficile trovare una motivazione per salvarsi e ricostruirsi una vita. Il secondo classificato, Carmelo la Licata (Nessuno ha diviso la famiglia di Caino) e il terzo, Vincenzo De Simone (Tra la luce e il buio) non hanno potuto essere accompagnati alla premiazione. Ma di loro restano impresse alcune frasi. “Chi ha la famiglia si salva, chi la perde si perde” dice il primo, mentre del secondo non si può dimenticare la descrizione dell’arresto, all’alba, che sprofonda nel vuoto lui come i familiari innocenti. La famiglia sognata e persa. La disperazione di padri e figli Tra le opere ci sono anche una poesia e due video. Uno, “Vivo di ricordi” è di Bruno: una enorme gomma cancella i sogni di vacanze, ma non riesce a rubargi i ricordi dei suoi affetti. L’altro presentato dal professor Franzini dell’istituto per minori di Treviso offre dialoghi di ragazzi, vite fragili fra primi amori e sesso vantato o millantato. Finchè uno di questi sfrontati legge la lettera della mamma, che gli porge il suo amore e quello della sorellina. Un foglio prezioso, che nessuno irride, sacro. E il docente si chiede perché la famiglia, fonte di desiderio struggente, nostalgia, rimpianto dietro le sbarre, fuori venga data per scontata, persino buttata via. Al convegno, tra gli altri, don Virginio Balducchi, ispettori dei cappellani penitenziari affronta un tema maschile. Quello del senso di responsabilità, che emerge durante la detenzione, ma che non si riesce ad elaborare. Un pachistano si è ucciso - così pare - perché non trovava pace pensando che, morto suo padre, come primogenito avrebbe dovuto essere a casa a prendersi cura della famiglia. Il senso di responsabilità diventa un macigno per la difficoltà a mantenere e rinsaldare i legami familiari, si nota nei padri che soffrono perché i figli cresceranno senza di loro. Li hanno abbandonati bambini e li ritroveranno grandi. Sono sentimenti che possono diventare atroci. Ma invece del senso di colpa bisogna coltivare la consapevolezza. I relatori spiegano che in genere il detenuto non si rende conto del male provocato alla vittima, che sia una persona o la società. Possono arrivarci ma in un percorso, che li porterà anche a forme di giustizia riparatrice. La forza distruttrice della disperazione può diventare, trasformandosi, forza pacifica e generosa. Il traguardo? Colloqui anche alla domenica Settanta suicidi dall’inizio dell’anno tra i detenuti, e alcuni anche tra gli agenti, perché la vita da reclusi è dura per tutti. Sono circa 65mila i detenuti, con il ben noto sovraffollamento. Che c’è anche a Mantova, pur con 170 ospiti. Nella giornata di ieri, coordinata dal direttore della Gazzetta Paolo Boldrini, si è affrontato il tema “Famiglia e affetti nella vicenda penitenziaria”. La direttrice di via Poma, Rossella Padula, ricorda che la tutela degli affetti parte da lontano, già dalla convenzione europea per la salvaguardia dell’uomo e delle libertà fondamentali, del 1955, firmata a Roma, e nello stesso anno dall’Onu. L’Italia ha una legge tra le migliori, del 1975 (anche se non del tutto applicata), con un regolamento esecutivo del 2000. La tutela dei legami familiari è da mantenere, migliorare, ristabilire. Certo devono volerlo entrambe le parti, mentre a volte la famiglia taglia i ponti con l’autore di un reato, oppure non è possibile come in caso di violenza in famiglia. Ma in concreto, come si tutelano i legami familiari? La distanza ostacola o impedisce le visite dei pazienti (ne sono ammesse 6 al mese). Ma passi avanti se ne fanno ed entrando oltre il pesante cancello di ferro si scopre passione e impegno tra gli operatori e i volontari. Servirebbe più coinvolgimento del territorio. E qui dispiace che ieri non si siano visti amministratori comunali e provinciali. In altre città, il Premio Castelli l’aveva consegnato il sindaco. Se attorno al carcere cresce una rete di solidarietà è come se si formassero nuove famiglie attorno i detenuti, per lavorare, studiare o formarsi, fare conoscenze. E tenere lontana la depressione. Da oltre dieci anni non ci sono più i vetri divisori durante i colloqui e il detenuto può abbracciare i parenti, e ottenere due ore invece di una. Inoltre - ha spiegato Felicia Vitiello del provveditorato regionale lombardo - ci sono i primi spazi aperti per i colloqui, giardini con panchine e un piccolo bar gestito da cooperative. Le famiglie possono fare merenda insieme, come qui a mantova succede a Natale e Pasqua nell’auditorium. Ci sono poi stanze colorate dove i bambini giocano prima del colloquio mentre la mamma sbriga la parte burocratica. E soprattutto sta arrivando la sperimentazione di colloqui domenicali, per non far perdere giorni di scuola ai figli dei detenuti, un problema molto sentito. La telefonata settimanale, oggi si può fare anche a un cellulare, e vengono concesse più telefonate ai figli sotto i 10 anni. Il problema dei bimbi fio a 3 anni che vivono in cella è uno scandalo che si cerca di superare. Ieri Monica Lazzaroni, presidente del tribunale di sorveglianza di Brescia, ha raccontato la fatica giunta a buon fine per tenere fuori dal carcere una donna che ha ucciso il marito, ma che ha un bambino di due anni. Libri: “Volti e maschere della pena”, a cura di Franco Corleone e Andrea Pugiotto di Michele Ainis Corriere della Sera, 13 ottobre 2013 Il paradosso delle carceri: prigionieri garanti della legalità. Le malattie degenerative del nostro sistema penitenziario in un saggio che raccoglie i pareri di giuristi ed esperti. Sul sovraffollamento delle carceri italiane ormai sappiamo tutto, benché in realtà non ne sappiamo nulla. Bisognerebbe viverla quella condizione, per conoscerla davvero. Noi conosciamo soltanto i numeri, le cifre: 66 mila detenuti stipati in celle che potrebbero ospitarne 47 mila. Numeri incerti, tuttavia, perché quel dato conteggia anche penitenziari chiusi per mancanza di personale, per inagibilità, per lavori di ristrutturazione. Secondo fonti non ministeriali, l’eccedenza effettiva tocca 30 mila detenuti, all’incirca la metà dell’intera popolazione carceraria. Tanto che la Corte di Strasburgo - nello scorso mese di gennaio - ci ha dato un anno di tempo per restaurare un minimo di civiltà giuridica, altrimenti scatteranno le sanzioni. E d’altronde in Germania e in California, per dirne una, la pena viene rinviata d’ufficio quando verrebbe scontata in condizioni contrarie al principio d’umanità. Sennonché il sovraffollamento è solo uno dei corni del problema. Tutto il nostro sistema presenta arretratezze e insensatezze, sia sul piano del diritto penale sostanziale (il codice in vigore è del 1930, lo firmò il Guardasigilli di Benito Mussolini), sia sul piano dell’esecuzione della pena. Per accendere un faro in questo pozzo buio può aiutarci un volume appena edito per i tipi di Ediesse (Volti e maschere della pena). Lo hanno curato Franco Corleone e Andrea Pugiotto: il primo, già sottosegretario alla Giustizia dal 1996 al 2001, è Garante dei detenuti nel comune di Firenze; il secondo è un costituzionalista brillante che insegna nell’università di Ferrara. E la loro voce, insieme a quella di Gherardo Colombo e di molti altri giuristi convocati al capezzale del diritto, dà corpo a una requisitoria contro quattro malattie degenerative, che sottraggono al recluso non più soltanto la libertà, bensì la sua stessa dignità. Quali? La pena nascosta, ovvero quella inflitta negli ospedali psichiatrici giudiziari. La pena estrema, dunque il carcere duro previsto dall’art. 41-bis, che si risolve in una forma di tortura. La pena murata, e qui entrano in campo lo spazio e la funzione della reclusione. Infine la pena insensata, strumento di vendetta anziché di rieducazione, come pretenderebbe viceversa l’art. 27 della Carta. La somma di queste quattro afflizioni- scrivono i curatori - trasforma il detenuto da reus a res, da colpevole o presunto colpevole (il 40% è in attesa di giudizio) a cosa, e a cosa che non conta. T’aspetteresti da parte loro una reazione, se non un’insurrezione. Invece i nostri carcerati praticano denunce non violente, firmano ricorsi giurisdizionali, votano in massa alle elezioni. A quanto pare, sono rimasti gli unici a credere nella legalità.