Giustizia: amnistia-indulto; piano del ministro Cancellieri per scarcerare 20mila detenuti di Eva Bosco Ansa, 12 ottobre 2013 Amnistia e indulto per i reati puniti con massimo 4 anni, escludendo reati finanziari, corruzione e reati gravi, per ottenere la scarcerazione di 20mila persone. È la linea del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri che punta anche su questi strumenti per fronteggiare l’emergenza carceri. Un testo di legge di iniziativa governativa sull’amnistia e l’indulto, che già stanno infuocando le commissioni Giustizia di Camera e Senato, al momento non è in arrivo. “In materia le Camere sono sovrane”, ha ripetuto più volte, negli ultimi tempi, il Guardasigilli. Ma su un tema come questo, ad alto tasso di polemica politica, è necessario stare all’erta e non farsi trovare impreparati, perché non si può escludere che se da qui a fine anno si determinasse una situazione di stallo in parlamento tale da mettere in forse il varo di una norma determinante per decongestionare le carceri e per rispondere agli obblighi che impone all’Italia la Corte sui Diritti dell’uomo, allora il ministro potrebbe decidere di intervenire. E la linea è netta fin d’ora. Su un provvedimento di amnistia-indulto “ho le idee chiare”, afferma infatti Cancellieri, fornendo un’intelaiatura che, tracciata oggi, suona anche come una moral suasion alle Camere, già pienamente investite del problema dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con il suo messaggio sulle carceri. Uno dei primi punti fermi, secondo il ministro, è che il provvedimento di clemenza non toccherà Berlusconi. In questi giorni non si contano le ricostruzioni sui possibili benefici per l’ex premier condannato in via definitiva a 4 anni (3 indultati) per frode fiscale nel processo Mediaset con una pena accessoria - l’interdizione dai pubblici uffici - che deve essere ricalcolata. Ma Cancellieri lo esclude: indulto e amnistia non toccheranno il Cavaliere. Una garanzia in tal senso si avrebbe per esempio escludendo i reati fiscali e tributari da quelli che saranno amnistiati o indultati. D’altra parte se, come ritiene il ministro, la “traccia” la dovrebbero offrire le ultime misure adottate su questo fronte, e quindi l’amnistia del 1990 e l’indulto del 2006, la prima prevedeva 4 anni di sconto ma escludeva esplicitamente i reati finanziari e anche la corruzione; il secondo, 3 anni, escludeva i reati gravi e, come di norma l’indulto, nulla diceva sulle pene accessorie, a cui non si applicava. Stabiliti questi confini, un termine per la concessione delle misure di clemenza potrebbero essere, in base all’indirizzo del ministro, i 4 anni. E applicandole ai reati con pena non superiore nel massimo ai 4 anni, l’effetto sarebbe la scarcerazione di circa 20mila detenuti. Una cifra in linea con quella prodotta dalle misure precedenti. Giustizia: un’azione rivoluzionaria per le carceri… assumersi la responsabilità delle scelte di Achille Saletti Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2013 La fa facile Marco Travaglio parlando di carcere e di sovraffollamento. Dice “che se in una camera per 2 ne metti 3 è grave ma non è insopportabile”, e lo dice per supportare il ragionamento per cui il sovraffollamento delle carceri è un problema di spazio e non di numero complessivo di detenuti. Non so quali siano i parametri di Travaglio. Se sono quelli che usa la questura per stabilire il numero dei manifestanti in una piazza (4 ogni metro quadrato) ha ragione. Se, al contrario, sono quelli di una dignitosa convivenza per 22 ore al giorno, avrebbe dovuto aggiungere che le celle, in moltissimi carceri, misurano circa sei metri quadri (3 x 2) e che la somma di queste due dimensioni (spazio più tempo) causa quel fenomeno che, appunto, viene chiamato pena aggiuntiva da sovraffollamento (e che l’Europa chiama tortura, unitamente alla vergognosa e paranoica pratica della carcerazione preventiva). Il succo del discorso, diventato mantra per reazionari e progressisti, è che bisogna costruire nuove carceri e depenalizzare le leggi sull’immigrazione e sulla droga. Sulla seconda questione mi limito a segnalare che c’era una magnifica occasione, offerta dai soliti radicali, che il mondo mediatico e quello politico si sono ben guardati dall’appoggiare; vuoi perché Pannella è amico di Berlusconi, vuoi perché i radicali sono troppo libertari per le nostre intelligenze, vuoi perché è troppo faticoso andare in un comune a firmare un quesito quando il mirabolante web ti permette, dal tinello di casa, di sottoscrivere appelli per tutte le tasche e per tutte le necessità e sentirti in pace con la tua coscienza. Sul primo punto, invece, questo mantra sfiora la semplificazione eccessiva. Perché anche ammesso che vi siano soldi per l’edilizia penitenziaria non vi sono per gli organici (come denunciano i sindacati di polizia penitenziaria) in carenza, da anni, di agenti: aggiungerei che aprire un carcere senza chi vigila è un buon viatico per appaltare alla criminalità la gestione dello stesso. Il carcere rappresenta, stante la potestà di punire di uno Stato e il dettato costituzionale teso alla rieducazione di chi delinque, una forma di corto circuito tra il fine che si prefigge e lo strumento (carcere) che dovrebbe conseguirlo. Perché è noto che il carcere peggiora e non migliora. Mi sfugge la ratio per cui, se queste sono le risultanze, ci si ostini a seguire la strada sbagliata invece di prendere atto che una fetta consistente dei nostri galeotti potrebbe essere ugualmente punito con forme altre di pena. I lavori socialmente utili, gli affidamenti in prova, le pene pecuniarie, gli arresti domiciliari. Certo, bisognerebbe rivoluzionare il corpo di polizia penitenziaria. Formarli perché diventino agenti territoriali. Bisognerebbe coinvolgere quel terzo settore che già oggi si occupa di detenuti nel supporto agli uffici per le esecuzioni penali esterne. Bisognerebbe, per una volta, affrontare un tema ponendosi in una logica di riforma e non di “aggiustatina” di ciò che esiste. Bisognerebbe sporcarsi le mani attuando, in epoca di conformismi, l’unica vera rivoluzione da fare: assumersi la responsabilità di una scelta. E sappiamo, che a eccezione di qualche stupido idealista, di rivoluzionari in Italia non ce ne sono tra i cittadini. Figuriamoci tra le forze politiche. Giustizia: chi si prende gioco dell’amnistia offende la sofferenza dei detenuti e dei loro cari di Gigi Riva Gazzetta di Reggio, 12 ottobre 2013 Non si può, se non con un sommario processo alle intenzioni, accusare Napolitano di volere indulto e amnistia, come ha chiesto in un messaggio alle Camere, per salvare Berlusconi. Per lui parla la sua storia d’attenzione al tema e persino la partecipazione a una marcia radicale, da ottantenne! C’è chi lo fa, tuttavia: il M5S. E c’è chi è contrario, come la Lega, peraltro con una coerenza degna di migliore causa. Sull’inciviltà delle nostre galere (e dunque sulla necessità di una clemenza che manca da 23 anni, per l’amnistia, e dal 2006, governo Prodi, per l’indulto) non si dovrebbero spendere parole. Se lo si fa è per cercare di coprire la distanza tra la stragrande maggioranza degli italiani e un mondo “altro”, parallelo al nostro e sconosciuto. Tali sono le carceri, una faccenda che riguarda i detenuti e i loro cari. Non “noi”. E allora ricapitolando. Sovraffollamento: 64.758 prigionieri per una capienza di 47.615. Suicidi: 39 su 123 morti totali nel 2013. Degrado e sporcizia. Malati tenuti senza cure. La Corte europea che assiduamente ci condanna. Se dai penitenziari si misura il grado di civiltà di un Paese, siamo tra gli ultimi. Semmai si può contestare l’efficacia, in assenza di misure che accompagnino le buone intenzioni. L’indulto di Prodi svuotò le celle (parzialmente) ma due anni dopo il numero dei detenuti era tornato uguale. Risultato scontato, visto che non sono mai decollate pene alternative, non si fa ricorso al braccialetto elettronico. E restano in vigore leggi come quella Maroni del 2009 che ha introdotto il reato di immigrazione clandestina: cioé una persona delinque per il fatto stesso di esistere (e a Lampedusa si indaga per favoreggiamento chi salva la vita ai naufraghi). O come la Fini-Giovanardi che punisce chi possiede droga anche in minima quantità (il 26,6% dei detenuti per stupefacenti). Ma, attenzione, solo il 22% degli “indultati” del 2006 è tornato in carcere, contro una percentuale doppia dei recidivi: non è vero che chi ha ricevuto un dono non lo sa apprezzare. Le leggi “affolla-carceri” sono quasi tutte frutto di una destra assai poco clemente verso i reati dei derelitti, soprattutto se extracomunitari. E la Bossi-Fini ne è cartina di tornasole spettacolare. Stupisce allora il coro di approvazione del Pdl e dintorni verso l’iniziativa di Napolitano. E sarebbe incomprensibile se non lo si coniugasse col garantismo, che è diventato vera cultura d’appartenenza, sempre esercitato nei confronti dei delitti che un tempo si definivano da “colletti bianchi”. Alle spicce: quelli che riguardano Berlusconi. Tanto da far temere una sovrapposizione impropria tra amnistia e funzionamento della magistratura, evidenziata dal titolo a tutta pagina de il Giornale: “La giustizia è un cancro. Adesso è ufficiale”. Perché “se n’è accorto anche Napolitano”. Al netto dei crimini più odiosi come mafia, terrorismo, traffico (non consumo) di droga, omicidio eccetera, ovviamente esclusi da qualunque beneficio, la vera battaglia che si annuncia in Parlamento, luogo deputato a legiferare, sarà l’elenco dei reati inclusi nel provvedimento e il tetto degli anni di pena. Perché, dalle prime avvisaglie, il Pdl non perderà l’occasione per usare le buone intenzioni del Capo dello Stato come cavallo di Troia per continuare la crociata a favore del colpo di spugna sui guai del suo leader. Nella storia della Repubblica, i reati finanziari sono sempre stati esclusi dai provvedimenti di clemenza e Silvio ha una sentenza passata in giudicato proprio per uno di questi. Napolitano ha fatto la cosa giusta. Capiremo alla Camera e al Senato se anche nel momento giusto. Se la destra suona la fanfara al Quirinale perché realmente toccata da un problema umanitario e di civiltà. O se manda in onda l’ennesima versione del conflitto di interessi. Stavolta tra Berlusconi e le sue condanne. Giustizia: sì a un atto di clemenza, per riformare le carceri e restituire la dignità perduta di Carlo Cardia Avvenire, 12 ottobre 2013 Un tema grande, come quello di rendere giustizia a chi ne ha bisogno, rischia di essere eluso e immiserito da miopie e diatribe politiche. Stando ai fatti, le condizioni perché il Parlamento accolga la richiesta di Giorgio Napolitano di varare amnistia e indulto, ci sono tutte. Tanti anni ci separano dall’ultima amnistia del 1990, e l’indulto del 2006, le motivazioni del messaggio presidenziale sono nobili e fondate, una fase politica s’è appena chiusa con il rinnovo di fiducia al Governo in carica. L’Italia si trova di fronte a un’occasione preziosa, ma anche al rischio di un fallimento che colpirebbe la sua immagine internazionale, il senso comune di solidarietà, la credibilità dell’impegno per valori alla base delle moderne democrazie. La condizione delle nostre carceri non viola solo alcuni diritti fondamentali, contrasta con il parametro centrale dell’intero sistema di diritti della persona, la dignità umana, cui spetta la supremitas nella graduatoria dei valori propri delle Carte internazionali. Anche solo lo stillicidio continuo di suicidi dei detenuti, cresciuto nel tempo, è fenomeno che interroga le coscienze, chiede di decidere se un pezzo di società - decine di migliaia di persone, le rispettive famiglie, quanti gravitano attorno al mondo carcerario - possa essere dimenticato, escluso dalle garanzie minime di vita accettabile, condannato all’oblio da parte degli uomini liberi che stanno fuori, non vedono, non sentono, tacciono. Stiamo diventando, assieme ad altri Paesi sviluppati, società schizofreniche; ci chiediamo se inserire tra i diritti umani bisogni effimeri, egoistici, persino se esiste un diritto al telefonino dei ragazzi, se la tecnologia che registra chi guida l’auto o preleva al bancomat provochi grave violazione del diritto alla privacy; ma restiamo indifferenti di fronte a persone in attesa di giudizio e presunte innocenti, o detenute a motivo d’immigrazione irregolare, che non possono muoversi, dormire, ammalarsi in luoghi comunque degni per l’essere umano. Per cambiare la faccia malvagia delle carceri si può attingere a un lessico multiplo, alla misericordia cristiana, all’umanesimo laico, al diritto che spetta a ciascuno, alla giustizia della civitas, e si può farlo - se ne è ragionato a riprese e a più voci sulle pagine di “Avvenire” - con l’amnistia e l’indulto in tempi relativamente brevi, insieme ad altre decisive riforme per depenalizzare i reati minori. Possiamo dunque, qui e oggi, affrontare un tema di civiltà. Però, c’è il rischio di non farcela, che le parole del presidente Napolitano restino senza frutto, che la richiesta di saggia e umana clemenza dei Papi che si sono succeduti in questo primo scorcio del XXI secolo italiano sia ancora dimenticata. Soprattutto potremmo scoprire che non siamo quel Paese di forte e solidale civiltà che crediamo d’essere, siamo più cattivi di quanto pensiamo. Possiamo inventare scuse per rifiutare ciò che è buono, come l’ipotetico utile che alcune persone (una in specie: Silvio Berlusconi) trarrebbero dal provvedimento, ma sappiamo tutti che la scusa vale zero sotto il profilo formale (decide il Parlamento) e sostanziale (alcuni reati possono essere esclusi). Dobbiamo allora confessare la verità. Dire no all’amnistia e all’indulto, oggi, testimonierebbe che sono prevalse in Parlamento pulsioni negative che serpeggiano nelle pieghe oscure del sentire collettivo, in gruppi politici rancorosi, privi di quella spinta solidale senza la quale la politica è gretta chiusura, arroganza; che hanno vinto istinti in qualche modo razzisti verso chi deve essere punito, umiliato per ciò che è, perché non ha difesa. Vorrebbe dire che s’è conficcata nello spirito pubblico quella logica amico/nemico che negli ultimi due decenni ha fatto prevalere il peggio che è dentro di noi, che siamo diventati freddi e astiosi verso chi si trova alla mercé della pietà altrui. Perderemmo allora la speranza di migliorare, d’avere l’orgoglio di noi stessi, della nostra storia che tante volte è stata più dolce, umana, rispetto a quella di altri popoli. Dire sì ai provvedimenti chiesti nella forma più solenne dal capo dello Stato, proposti da anni da forze sociali diversissime che conoscono le carceri (dai cappellani ai sindacati, ai Radicali al volontariato...) ci eviterebbe una scelta sciagurata, di cui vergognarci, ripetutamente censurata dall’Europa; e ci farebbe ritrovare un pezzo della nostra anima, della nostra identità più bella. Giustizia: Sottosegretario Fadda; per gli Opg né indulto né amnistia… chiudiamoli subito Adnkronos, 12 ottobre 2013 Il sottosegretario alla Salute Paolo Fadda ha incontrato ieri mattina, nella ricorrenza della Giornata mondiale della salute mentale proclamata dall’Oms, gli assessori regionali, per avviare un fattivo confronto sullo stato di attuazione del programma di chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Una chiusura definita da Fadda non procrastinabile, anche perché per gli internati negli Opg non è previsto “né indulto né amnistia”. Il sottosegretario - informa una nota del ministero della Salute - ha giudicato la chiusura degli Opg una “battaglia di civiltà” che deve essere combattuta congiuntamente dal Governo, dalle Regioni, dagli enti locali e dal mondo del volontariato. Ha evidenziato l’urgente necessità di realizzare contemporaneamente i percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale delle persone oggi ancora presenti negli Opg, studiando e adottando misure alternative alla loro detenzione per continuare nell’azione di dimissione dei pazienti degli ospedali. Gli assessori intervenuti hanno fornito un quadro preciso sull’attuale situazione nelle singole Regioni e si sono impegnati a presentare al ministero entro i prossimi 25 giorni anche i programmi inerenti l’utilizzo dei fondi di spesa corrente che permetteranno da subito anche alle Regioni che sono soggette al piano di rientro di assumere quelle figure professionali necessarie al miglioramento dei servizi sul territorio. Fadda ha concluso rimarcando che per raggiungere questo obiettivo è necessario che tutte le Regioni portino a termine i loro programmi perché, altrimenti, come è ovvio, si corre il rischio che non tutti gli Opg potranno essere chiusi. Nel corso dell’incontro Fadda, ricordando le parole del presidente Napolitano che ha definito gli ospedali psichiatrici giudiziari “un autentico orrore indegno di un Paese appena civile”, ha sottolineato che per gli internati negli Opg non è previsto “né indulto né amnistia”, e che solo “un forte e continuo impegno nostro”, consentirà di sanare questa orribile e drammatica condizione; sono tra l’altro a disposizione tutte le risorse. Il sottosegretario ha preso l’impegno con le Regioni al fine di accelerare al massimo l’erogazione di tali finanziamenti. Ha assicurato che la relazione che i ministeri della Salute e della Giustizia presenteranno al Parlamento entro il 30 novembre, sarà redatta di comune accordo con le Regioni. Tale relazione, da lui stesso definita “operazione verità”, conterrà un’esatta fotografia dello stato di attuazione dei programmi e degli impegni futuri delle singole Regioni. Le Regioni a loro volta, hanno assicurato di voler serrare i tempi accelerando sugli adempimenti necessari per la conclusione del complesso iter burocratico. Giustizia: convertito Decreto su femminicidio, è legge il bracciale elettronico anti-stalking Redattore Sociale, 12 ottobre 2013 Il legame diventa un’aggravante, gratuito patrocinio per le donne: con il via libera del Senato al decreto legge diventano legge le nuove misure per il contrasto alla violenza di genere. Con il via libera del Senato al decreto legge sul femminicidio, nel testo identico a quello licenziato due giorni fa dalla Camera, diventano legge le nuove misure per il contrasto alla violenza di genere. Un vero e proprio giro di vite per una maggiore tutela delle donne ma anche misure di prevenzione. Il decreto e” stato anche contestato per la sua natura “omnibus” che lo ha reso, secondo le opposizioni, un nuovo “pacchetto sicurezza” con misure per i cantieri della Tav, per la protezione civile e i vigili del fuoco. Su 11 articoli 5 sono sul contrasto al femminicidio. Arrivano tre nuovi tipi di aggravanti: quando il fatto e” consumato ai danni del coniuge, anche divorziato o separato, o del partner pure se non convivente; per chi commette maltrattamenti, violenza sessuale e atti persecutori su donne incinta; per la violenza commessa alla presenza di minori di 18 anni. Sara” poi disposto l’allontanamento urgente dalla casa familiare con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, nei confronti di chi e” colto in flagranza. Giro di vite contro gli stalker che potranno essere intercettati e sottoposti anche all’uso del braccialetto elettronico in caso di allontanamento dalla casa familiare. Per le donne ci sarà la possibilità” di avvalersi del gratuito patrocinio dello Stato. Arriva un Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere che sarà finanziato, per il 2013, con un incremento di 10 milioni di euro del Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità” è incrementato per l’anno 2013. Nel decreto legge sul femminicidio, approvato in via definitivo dal Senato, sono introdotte piu tutele per le vittime: le segnalazioni non potranno essere anonime ma i dati delle donne che denunciano saranno coperti almeno nella prima fase del procedimento per evitare ritorsioni. Contro le intimidazioni e” previsto che la querela sia irrevocabile per le minacce gravi e reiterate, revocabile per i reati meno gravi di stalking. Come misure di prevenzione anti-violenza si potranno indirizzare gli stalker anche ai consultori familiari, ai servizi di salute mentale e ai Sert (i servizi per le dipendenze). In tema di immigrazione si introduce un permesso di soggiorno speciale per le donne straniere vittime di violenza domestica. Il testo e” stato criticato dalle opposizioni per la sua natura di dl omnibus. Oltre alle norme per il contrasto al femminicidio, sono state inserite anche misure in tema di sicurezza pubblica ribattezzate da M5s e Sel anti-No Tav: i militari potranno essere utilizzati anche per servizi di vigilanza a “siti ed obiettivi sensibili” come il cantiere dell’alta velocita” ferroviaria a Chiomonte. E ancora, nel decreto legge contro il femminicidio, approvato in via definitiva dal Senato, ci sono disposizioni finanziarie concernenti l’accelerazione degli interventi del Pon Sicurezza nelle regioni del Mezzogiorno, il comparto sicurezza e difesa e la chiusura dell’emergenza nord Africa. Vengono aumentate le pene per le frodi informatiche se commessa con sostituzione d’identità digitale. E poi nuove norme sulla Protezione civile i cui interventi potranno essere più tempestivi in caso di catastrofi naturali senza più i controlli preventivi della Corte dei conti sulle ordinanze per le emergenze. Inoltre, disposizioni per il potenziamento del Corpo nazionale dei vigili del fuoco; interventi a favore della montagna per la valorizzazione e la salvaguardia dell’ambiente e per la promozione dell’uso delle energie alternative. “Salve”, per ora le Province: e” stato infatti eliminato l’articolo 12 dell’originario dl del governo sullo scioglimento delle amministrazioni provinciali e la nomina dei commissari straordinari per ovviare alla sentenza della Corte costituzionale del luglio scorso che aveva bocciato il “taglio” delle Province stabilite per decreto dal governo Monti con il salva-Italia. Giustizia: in detenzione domiciliare il giornalista di 79 anni condannato per diffamazione di Gianpaolo Iacobini Il Giornale, 12 ottobre 2013 Esce dal carcere e va ai domiciliari Francesco Gangemi. Ma l’Italia che manda in galera i giornalisti ha un avversario: l’Europa. Ha lasciato ieri la casa circondariale di Reggio Calabria il direttore del mensile Il Dibattito, spedito in cella a 79 anni - sebbene invalido e malato di cuore e di tumore - per scontare una pena a due anni di reclusione derivante da alcune condanne per diffamazione. I giudici ci hanno ripensato. Il magistrato di sorveglianza Daniela Tortorella, considerate le precarie condizioni di salute dell’anziano cronista, gli ha concesso di continuare a scontare tra le mura domestiche il suo debito con la giustizia, dopo sei giorni passati al fresco in esecuzione di un ordine di carcerazione, emesso dalla Procura generale di Catania, sul quale da subito si erano addensati come nubi i rilievi dei difensori, gli avvocati Lorenzo Gatto e Giuseppe Lupis. La Procura catanese ha preso atto della decisione del giudice reggino, ordinando “l’immediata scarcerazione del condannato” alla luce della sua assegnazione ai domiciliari per motivi di salute, ma la battaglia continua: i legali di Gangemi hanno già interpellato la Corte d’appello di Catania per ottenere l’annullamento dell’ordine di carcerazione. Il loro assistito, sostengono, già da tempo aveva presentato richiesta di accesso alle misure alternative sulla scorta di precedente cumulo di pena formalizzato dalla Procura di Cosenza. “L’udienza era stata fissata da mesi e calendarizzata per il 14 novembre davanti al Tribunale di sorveglianza di Catanzaro: la magistratura catanese s’è sovrapposta a quella cosentina”, ripetono. Una battaglia in punto di diritto alla quale il direttore del Dibattito assisterà dalla sua abitazione in riva allo Stretto, dove è stato riaccompagnato dal figlio Maurizio. “Papà è provato, ma sta bene”, dice Gangemi jr.. “Ha la sensazione che qualcuno voglia mettere il silenziatore al suo foglio, l’unica voce libera della città. Ci avevano già provato nel 2004, con un arresto nell’ambito di un’inchiesta che lo vide poi assolto con formula piena. Ma non s’è arreso allora e non s’arrenderà adesso. Lo ha giurato: non finisce qui”. Intanto, come ai tempi del caso Sallusti, torna a far sentire la sua voce anche Strasburgo. Nel mirino, Roma lumaca ed un Parlamento incapace di adeguare le leggi nazionali a quelle continentali e di cassare dal codice penale il carcere per i reati d’opinione commessi nell’esercizio della professione giornalistica. “Le recenti sentenze del Consiglio d’Europa emesse contro l’Italia per il non rispetto della libertà di stampa e l’incarcerazione per diffamazione del giornalista Francesco Gangemi - dice il commissario per i diritti umani del Consiglio, Nils Muiznieks - evidenziano che le leggi e le pratiche italiane sono inadeguate a proteggere la libertà d’espressione”. Un giudizio tagliente, che fa piazza pulita di silenzi (interessati) e ipocrisie varie, strappando la maschera ai campioni della libertà urlata nelle piazze, ma taciuta nelle aule parlamentari: “I legislatori e i giudici italiani - aggiunge Muiznieks - devono urgentemente prendere in considerazione la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e far avanzare la libertà d’espressione in Italia”. Alla notizia della scarcerazione di Francesco Gangemi, in molti, in primis la Federazione nazionale della stampa col suo segretario Franco Siddi, si sono spinti a chiedere per lui un gesto di clemenza al Capo dello Stato, per chiudere nel modo migliore la storia giudiziaria che lo riguarda, e soprattutto “l’approvazione della nuova legge sulla diffamazione, che da mesi giace in Parlamento”. Il vicepresidente della Camera, Simone Baldelli, ha ricordato che “su richiesta del Pdl l’esame in Aula è previsto per la prossima settimana”. L’Europa guarda. E aspetta. Giustizia: a processo per mafia denuncia “attendo da 18 mesi il ricovero in ospedale” Agi, 12 ottobre 2013 Si è appellato al suo “diritto alla salute”, Vittorio Tutino, nell’udienza svoltasi oggi dinanzi la Corte d’Assise di Caltanissetta, nell’ambito del processo “Borsellino Quater”. Tutino, detenuto nell’ambito del nuovo filone d’inchiesta sulla strage in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, rivolgendosi in video-conferenza, al presidente della Corte Antonio Balsamo, ha detto di essere in attesa “da oltre un anno e mezzo di un intervento chirurgico. Ieri il medico dell’istituto di pena mi ha detto che l’intervento è stato annullato. I motivi sono ignoti”. La notizia ha colto di sorpresa anche la Corte che proprio ieri aveva trasmesso l’autorizzazione al ricovero di Tutino finalizzato ad effettuare l’intervento programmato. Per questo il verbale con la trascrizione dell’udienza è stato trasmesso alla direzione del carcere e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria affinché tuteli il diritto alla salute di Tutino. Sicilia: condizioni disumane per i detenuti, sono 1.500 in più della capienza regolamentare di Giovanna Grasso Quotidiano di Sicilia, 12 ottobre 2013 Vicina la spada di Damocle della Corte europea: per maggio 2014 è prevista la condanna all’Italia. Anche l’Isola potrebbe beneficiare dell’amnistia e dell’indulto proposti dal presidente Napolitano. La situazione carceraria italiana non è affatto delle migliori. Certamente non mancano i casi di regioni virtuose, ma sono ancora in troppi a non rispettare le normative ed ancor prima la dignità dell’uomo. Il problema carcerario andrebbe sollevato anche se si trattasse di una sola regione inadempiente, perché si parla della violazione dei diritti dell’uomo da cui nessuno può prescindere. Sono tredici le regioni in cui la situazione di sovraffollamento raggiunge limiti insostenibili. I dati più allarmanti giungono dalla Campania che ospita quasi il 40% in più dei detenuti consentiti; l’Emilia Romagna con il 60%; il Lazio con il 50%; la Lombardia con il 45%; la Sicilia con oltre il 30%. Il dato siciliano è in miglioramento rispetto al 2012 poiché si è passati da 7.870 carcerati a 6.987 su una capienza massima totale di 5.540, ma restano ancora 1.447 detenuti di troppo. C’è da dire che l’Isola conta sette istituti in più della Lombardia e possiede il doppio di penitenziari rispetto al Piemonte quasi a parità di popolazione. I dati sono estrapolati dalla statistica del ministero della Giustizia del 30 settembre 2013. A tal proposito si è espresso il presidente della Repubblica aprendo un dibattito che negli ultimi giorni sta infiammando gli animi dei più. Napolitano, partendo dalla condanna della Corte europea per i diritti dell’uomo che ha dato all’Italia un anno di tempo per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, lancia un messaggio alle Camere. Molteplici potrebbero essere i metodi risolutivi, ma non tutti permetterebbero la correzione del sistema in un lasso di tempo tanto ristretto. Dunque, la soluzione che potrebbe assolverci dalla condanna sarebbe l’applicazione dell’indulto e dell’amnistia. Al contrario il progetto di costruzione di nuovi edifici carcerari spingerebbe troppo in avanti i tempi. Da una parte la proposta ha ricevuto l’accoglimento del Pdl e del presidente del Consiglio Letta, ma dall’altra parte ha suscitato diffidenza nel Pd. Non sono mancate le fazioni apertamente contrarie come la Lega nord, il cui segretario, Roberto Maroni, si è espresso in favore della costruzione di nuovi penitenziari. Il Movimento cinque stelle spara lingue di fuoco contro il presidente, criticandone aspramente la proposta e dimostrandosi irrevocabilmente avverso. È evidente l’urgenza di un provvedimento immediato, perché non intervenendo si potrebbe rischiare l’aumento del debito pubblico della giustizia. Infatti, per il caso Torreggiani (dal nome di uno detenuti ricorrenti) la Corte europea ha sanzionato le carceri italiane per un ammontare di 100.000 euro per detenuto. Se, quindi, dovessimo moltiplicare questa somma per il totale di ricorrenti, si giungerebbe ad un maxi risarcimento di 40 milioni di euro, senza contare i reclami che potenzialmente possono ancora essere presentati. Parla il Garante dei diritti dei detenuti: opportuna rieducazione e reinserimento A seguire l’intervista a Salvo Fleres, garante dei diritti dei detenuti per la Sicilia che ha espresso il suo parere in merito alla situazione carceraria. Il presidente della Repubblica ha ribadito la necessità dell’amnistia e dell’indulto per fronteggiare il sovraffollamento delle carceri. Anche lei, in tempi non sospetti, si è fatto promotore di questi provvedimenti. Ritiene che così le carceri siciliane possano rispettare la capienza regolamentare? Penso che un provvedimento di amnistia possa contribuire ad alleggerire la situazione di sovraffollamento delle carceri italiane, dunque, anche di quelle siciliane. Il problema, però, sarebbe risolto solo a metà. Se, infatti, è necessario intervenire, oggi, in via straordinaria, è altrettanto necessario evitare che il fenomeno sovraffollamento possa ripetersi. Pertanto, bisogna svuotare, ma bisogna anche evitare di riempire, attraverso provvedimenti di natura preventiva ed alternativa alla detenzione, soprattutto per reati di scarso allarme sociale, ma anche abrogando due leggi che si sono rivelate del tutto inadeguate e particolarmente “carcerogene”: la Bossi - Fini, in materia di immigrazione e la Fini - Giovanardi, in materia di tossicodipendenza. Gran parte dell’attuale sovraffollamento è dovuto proprio a queste due leggi. Quanti detenuti siciliani potrebbero uscire dalle carceri? La cifra esatta non si potrà calcolare fino a quando non sarà chiara la tipologia di reati e di pene per i quali sarà prevista l’amnistia, sempre che si arriverà, come io auspico, a questa decisione da parte del distratto Parlamento italiano. Un parlamento tanto poco sensibile al problema carceri che ha avuto bisogno dell’opportuno messaggio del Presidente della Repubblica. L’approvazione dell’indulto o dell’amnistia potrebbe evitare all’Italia la condanna della Corte europea per i diritti dell’uomo prevista per il maggio 2014? Si, è esattamente così, e già c’è qualcosa che bolle in pentola, a proposito di sospensione della pena in caso di sovraffollamento. L’indulto e l’amnistia risolverebbero il problema delle carceri soltanto in via temporanea. Ad esempio, per molti reati si potrebbe iniziare un processo di rieducazione, ciò permetterebbe ai detenuti di evitare di incappare nuovamente nella tentazione di violare la legge, dunque si raggiungerebbe una forma di svuotamento delle carceri permanente. Condivido in pieno la proposta. Il carcere deve essere considerata l’ultima spiaggia. La nostra legislazione dovrebbe privilegiare, soprattutto per i reati di scarso allarme sociale, le pene alternative a quelle detentive. Ma soprattutto dovrebbe essere incrementata l’azione rieducativa e di reinserimento sociale e lavorativo dei carcerati, come espressamente prevista dalla Costituzione. Nella situazione in cui si trovano gli Istituti penali italiani, invece, il lavoro, la formazione professionale, l’assistenza professionale, l’istruzione, etc. costituiscono, spesso, un optional e non un preciso dovere delle istituzioni penitenziarie. Venezia: processo per cella dell’orrore e dei suicidi, accusati cinque poliziotti penitenziari di Giorgio Cecchetti La Nuova Venezia, 12 ottobre 2013 Il pubblico ministero Massimo Michelozzi ha raccontato, ieri, in udienza di essere entrato in quella cella e l’ha descritta: buia, un odore forte e nauseante, gli escrementi per terra. L’accusa è pesante: rinchiudevano nella cella di punizione - era senza acqua, senza luce e senza riscaldamento, non c’erano i sanitari, non c’era il letto e neppure una sedia - i detenuti con comportamenti “devianti, conflittuali o autolesionistici”. E nella 408, dopo aver tentato il suicidio in una cella comune, c’era finito anche il 28enne marocchino Cherib Debibyaui, che il 5 marzo 2009 in quel buco si è impiccato facendo a strisce la coperta ed è morto. Per la sua morte furono indagate diverse persone, tra cui l’Ispettore di Polizia Penitenziaria Domenico Di Giglio, che quel giorno comandava gli agenti in servizio e che fu accusato di omicidio colposo. La vicenda finì con una ulteriore tragedia, poiché Di Giglio, nel frattempo messo in congedo per problemi psicologici, si toglie la vita il 27 settembre 2009, dopo aver ucciso la moglie Emanuela Pettenò, 43 anni. Ieri, il giudice veneziano Andrea Comez, dopo che il pubblico ministero ha ribadito la richiesta di rinvio a giudizio per i cinque imputati, ha rinviato l’udienza al 23 dicembre prossimo per l’ex comandante della Polizia penitenziaria Daniela Caputo, che ha chiesto di essere processata dal giudice dell’udienza preliminare allo stato degli atti con il rito abbreviato, mentre quelle per gli altri quattro, l’ispettore Stefano Di Loreto, l’assistente capo Vincenzo Amoroso, il vice sovrintendente Francesco Sacco, gli ispettori Leonardo Nardino e Pietro De Leo, al 12 novembre, giorno in cui il magistrato dovrà decidere se indizi e prove sono sufficienti per mandarli sotto processo. Caputo e Di Loreto sono accusati di omicidio colposo e abuso di autorità, mentre gli altri solo del secondo reato. Il rappresentante della Procura ha ribadito quello che aveva scritto alcuni mesi fa, chiedendo il processo per i cinque rappresentanti della Polizia penitenziaria. Di Loreto, stando al capo d’imputazione, a causa del tentativo di suicidio di Cherib, che era stato sventato in precedenza da due detenuti che erano con lui in una cella comune, lo avrebbe trasferito nella cella di punizione, dove dopo 62 ore di isolamento era riuscito ad impiccarsi al chiavistello della finestra. La Caputo avrebbe avvallato la decisione del sottoposto e non avrebbe disposto la sorveglianza sul detenuto a rischio. La stessa sorte avrebbero subito nel corso del 2008 e del 2009 altri detenuti, in particolare, il tunisino Kais Latrach (rinchiuso nella cella 408 per 25 ore una prima volta e per altre 32 una seconda), il tagico Omar Basaev (per 175 ore), il romeno Ilie Paval (per 46 ore), gli iracheni Mohamed Sami (per 30 ore una prima volta e per altre 121 una seconda) e Karim Eddi (per 9 ore). Per la maggior parte degli episodi la comandante della Polizia penitenziaria di Santa Maggiore avrebbe approvato la decisione dei suoi sottoposti a rinchiudere in una cella che possiamo definire di rigore i detenuti, non solo quelli che avrebbero minacciato o percosso altri carcerati o danneggiato le strutture di Santa Maria Maggiore, ma anche chi, come il 28enne Cerib aveva cercato di uccidersi. E nonostante fosse stata la presenza di altri detenuti a salvarlo, con tutta evidenza sarebbe stata la decisione di metterlo in una cella da solo, oltre che senza acqua, luce e riscaldamento, a permettere che i suoi tentativi di suicidio andassero a buon fine. L’avvocato di parte civile Marco Zanchi ha ricordato che c’era voluta la morte per porre fine ad una pratica che durava da tre anni. I “numeri” di Santa Maria Maggiore Il sovraffollamento delle carceri, anche quella veneziana di Santa Maria Maggiore, è il principale nemico dei diritti dei detenuti, tanto che lo stesso presidente della repubblica è intervenuto con il messaggio alle Camere proponendo amnistia e indulto come intervento urgente. La capienza del carcere veneziano, sulla carta, è di 150 detenuti, ma da almeno un decennio non si scende sotto il numero di 270, anzi ci sono stati momenti in cui i detenuti erano anche 320-330. Fino a qualche settimana erano 274, con una percentuale di sovraffollamento dell’85 per cento, un dato che non è tra i peggiori in Italia. Di quei 274 87 erano italiani e 187 gli stranieri, 118 quelli con una condanna definitiva, 86 quelli in attesa di giudizio. Il sovraffollamento, oltre a costringere a convivere quattro detenuti in celle che sono costruite per uno, impedisce l’utilizzo delle aree comuni - anch’esse usate come dormitori - e crea tensione con gli agenti della Polizia penitenziaria. Brescia: una caserma dismessa, per rimpiazzare il vecchio carcere di Canton Mombello di Davide Bacca Corriere della Sera, 12 ottobre 2013 Il nuovo carcere di Brescia sorgerà in un’ex caserma, con ogni probabilità nella “Serini” di Montichiari, zona fascia d’oro. La proposta è sul tavolo del commissario straordinario per l’emergenza carceri, il prefetto Angelo Sinesio. “Non è ancora un progetto, ma è una concreta ipotesi di lavoro” spiegano dall’entourage del commissario. Niente Verziano bis, dunque, come ipotizzato dalla giunta Paroli che nel Pgt aveva individuato nell’area di via Flero, accanto al carcere femminile, l’area dove poter realizzare il nuovo istituto di pena. L’obiettivo è sempre quello: chiudere Canton Mombello, struttura dell’800 ormai sovraffollata e inadeguata. Se ne parla da vent’anni, forse più. Ma Brescia è sempre stata tagliata fuori dal piano carceri. L’individuazione dell’area sembrava potesse far rientrare in gioco la Leonessa. Il meccanismo prevedeva che la Loggia entrasse in possesso di quelle superfici (private) dando ai proprietari diritti edificatori su altri lotti. Chi avesse costruito i nuovi padiglioni, avrebbe invece ottenuto in permuta l’attuale carcere, da trasformare secondo un progetto da concordare con palazzo Loggia. Un’operazione da circa 30 milioni. Poi però anche il piano carceri ha subito svariate rimodulazioni: la prima nel 2012, con il taglio del budget di 228 milioni, un terzo rispetto ai 675 iniziali. L’ultima il 18 luglio 2013: con sempre meno soldi e l’esigenza di nuove celle, dal piano sono stati stralciati i nuovi istituti (Torino, Pordenone, Camerino) ma anche gli ampliamenti (Bergamo, Reggio Emilia, Napoli). Il saldo finale dei nuovi posti è però positivo perché si è deciso di puntare sul recupero di edifici demaniali esistenti (e di cui non si sa bene cosa fare), vale a dire le caserme. A San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, è scattato il progetto pilota: l’ex caserma “Dall’Armi” sarà riconvertita in un carcere da 300 posti. Con la stessa modalità verranno realizzati altri mille posti, in caserme ancora da individuare. Un pacchetto che potrebbe ricomprendere anche Brescia. “Le priorità verranno stabilite dall’amministrazione penitenziaria - spiegano dall’ufficio del commissario - di certo la strategia che si sta adottando non è più quella di nuove costruzioni, ma della riconversione delle vecchie caserme. E tra le ipotesi sul tavolo c’è anche Brescia”. Il vantaggio sarebbe quello di risparmiare sui costi, avendo poi sempre a disposizione l’immobile di Canton Mombello da vendere sul mercato. La conferma arriva da Emilio Del Bono, da sempre scettico sul progetto Verziano. Il sindaco ne ha parlato direttamente con il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri: “C’è la volontà di trovare una soluzione al degrado di Canton Mombello. Soluzione che non consisterà nella costruzione di un nuovo carcere, ma nel riuso di una caserma dismessa. Mi auguro che questa strada dia frutto, noi agevoleremo in ogni modo le scelte del ministero, sia nel segno della valorizzazione di Canton Mombello, sia nella trasformazione delle destinazioni delle ex caserme”. L’occasione per approfondire la questione sarà il 21 ottobre, quando Anna Maria Cancellieri sarà in città e probabilmente visiterà la casa circondariale di via Spalto San Marco. Al Ministero avrebbero però già individuato una possibile ex caserma adatta allo scopo: più che le strutture cittadine, nel mirino è finita la “Serini” di Montichiari. Fino al 2011 sede del reggimento di sostegno all’artiglieria, negli ultimi mesi è tornata a vivere, ospitando le esercitazioni degli alpini-paracadutisti. Si tratta di una struttura enorme, su un’area di 300mila mq, ben “infrastrutturata” (vicina ad autostrade e tangenziali, oltre che agli aeroporti di Ghedi e Montichiari), come fanno notare da Roma (si tratta di “valori aggiunti”), lontana dai centri abitati e in buone condizioni. Qualche anno fa se ne era ipotizzato il riutilizzo come centro di identificazione degli immigrati. Ora potrebbe diventare un carcere. Bologna: alla Dozza 140 detenuti ogni 100 posti… normale cronaca da un carcere italiano di Lorenzo Piersantelli www.imille.org, 12 ottobre 2013 Bologna, periferia nord est. Una strada poco transitata porta alla campagna che circonda il capoluogo emiliano. Nel paesaggio piatto e verde spunta un grande blocco di cemento bianco, una costruzione essenziale e dura che ricorda un po’ lo stile del costruttivismo sovietico. È il carcere della Dozza, spesso citato per le condizioni di sovraffollamento in cui vivono i detenuti. Più di novecento detenuti in una struttura dalla capienza teorica di quattrocento ottantatré persone, con una soglia definita “tollerabile” di ottocento ottantadue. E peggiorano sempre più anche le condizioni di vita al suo interno: l’acqua calda non è sempre garantita, a danno sia dei detenuti che degli agenti di polizia penitenziaria; sono stati spesi soldi per una nuova caldaia centralizzata che ad oggi non risulta messa a punto; il mantenimento della temperatura di conservazione dei cibi provoca una diminuzione della pressione e della portata, per cui si è costretti a ridurre il gettito d’acqua a cui i reclusi hanno diritto. E l’aspetto che riguarda i compensi ai detenuti che lavorano per la manutenzione ordinaria della struttura o per l’assistenza ai reclusi con problemi di salute o di deambulazione non è migliore: il dipartimento centrale del Ministero di Grazia e Giustizia ha tagliato i fondi destinati a questi compensi, pertanto la direzione amministrativa della struttura è sempre più costretta a ricorrere a volontari che lavorano gratuitamente, modificando gli equilibri interni al carcere, già a rischio. La Dozza non è altro che lo specchio della realtà carceraria italiana: mediamente ci sono centoquaranta detenuti ogni cento posti disponibili; nelle strutture più sovraffollate si arriva perfino a stare in piedi a turno per non occupare più dello spazio concesso, quando si deve restare nelle proprie celle. Le condizioni igieniche, per ovvia conseguenza, peggiorano ed aumentano vertiginosamente i casi di suicidio tra detenuti. Più volte la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato ed ammonito il nostro Paese per tutto ciò. Il sovraffollamento riguarda più della metà delle amministrazioni penitenziarie d’Europa, ma l’Italia è al terzo posto, soltanto dietro a Serbia e Grecia, stando ai dati rilevati fino al settembre 2012. Una questione spinosa che dura da più di dieci anni e che non ha trovato nessuna soluzione, se non un indulto nel 2006, che puntualmente si è rivelato fallimentare. Le statistiche sono solo numeri, per quanto impressionanti ed indicativi, e come tali tendono a lasciare in secondo piano il dramma umano che si cela dietro tutto ciò: la stragrande maggioranza di detenuti, una volta tornati in libertà, tornano a delinquere. L’esasperazione durante la permanenza in strutture inadeguate non fa altro che incrementare la violenza, e l’emarginazione. Certo, può venire spontaneo ricorrere ad una vena di giustizialismo che ci porta a pensare che, se ci si comportasse onestamente, non si finirebbe in carcere, ma così facendo si corre il rischio di non considerare l’aspetto delle carceri regolamentato nella nostra Costituzione: la loro funzione rieducativa e di prevenzione, e non quella punitiva. L’evoluzione di una società nasce anche da questo, “il grado di civiltà di un Paese si misura con le sue carceri” recita un ben noto detto. A bocciare sul nascere tutto ciò ha provveduto la Corte dei Conti nell’agosto di quest’anno per “carenze a livello di pianificazione caratterizzate dall’inadeguatezza di validi percorsi scolastici e formativi oltre che dall’insufficiente coordinamento sul territorio dei diversi soggetti istituzionali preposti”, come si legge nella sua relazione. Dal punto di vista finanziario, “il sistema carcerario è tutt’oggi caratterizzato dall’estrema esiguità delle risorse assegnate, che, unitamente al sovraffollamento all’interno degli istituti penitenziari, ha finito per pesare negativamente e in modo incisivo sulle varie iniziative connesse ai trattamenti rieducativi”. Carenza di denaro dunque, e quindi anche la possibilità di istituire programmi formativi per i detenuti e di organizzare particolari strutture di accoglienza per chi è davvero clinicamente irrecuperabile: una vita d’emarginazione che lascerà cucito su di loro il marchio indelebile del delinquente a vita. E il nocciolo del discorso è sempre lo stesso: basare un piano sicurezza su dure misure repressive non risolve nessun problema, al contrario scatena paura e violenza, oltre ad annullare ogni dignità umana. Nel Paesi degli sprechi di Stato non restano più soldi da destinare alla prevenzione, venendo meno ai tanti fabbisogni sociali che servono urgentemente. E lasciando da parte l’ipocrisia del buonismo che sembra essere la struttura portante di tante strumentalizzazioni politiche sempre più in voga, migliorare la situazione dei detenuti con programmi adeguati e con adeguate strutture contenitive significa prevenire molti reati ed il ritorno a scelte di vita sbagliate. Pavia: la storia dei carcerati che lavorano tra i bambini ricoverati al policlinico di Laura Borselli Tempi, 12 ottobre 2013 “Oltre la cura, oltre le mura”. Un libro racconta l’incontro commovente tra i pazienti della chirurgia pediatrica del San Matteo e i detenuti coinvolti nell’opera di adeguamento del reparto. “Sono le 8.30, dov’è Gabriele?”. Gabriele è uno dei ragazzi che, usciti dal carcere, hanno continuato a collaborare con il reparto di chirurgia pediatrica del Policlinico San Matteo di Pavia. Al punto che la mattina, prima che il lavoro entri nel vivo, ci sono medici che magari non ricordano chi dei colleghi sia in ferie e chi di guardia, ma cercano insistentemente gli occhi di quei ragazzi diventati di casa in corsia. Tutto è iniziato un paio di anni fa, per via di due bimbi di dieci anni compagni di scuola. Sophia e Manuel raccontano di avere genitori che lavorano con gente che soffre. Vinti dalle insistenze dei rispettivi figli, i due adulti decidono di incontrarsi. La dottoressa Gloria Pelizzo, direttore della Struttura Complessa di Chirurgia Pediatrica presso il già citato policlinico di Pavia, pensa di trovarsi davanti un collega medico; dall’altra parte c’è un papà che si aspetta una signora impegnata nel sociale. “Quando mi si è presentato davanti un uomo in divisa da guardia carceraria mi è preso un colpo”, racconta a Tempi. L’incontro che doveva durare il tempo di una ricreazione si protrae per ore. L’uno di fronte all’altra ci sono un uomo e una donna appassionati del proprio lavoro e desiderosi di comunicare il bene che sorprendentemente si fa largo nella sofferenza con cui sono a contatto ogni giorno. Esigenze intessute nelle necessità: la dottoressa è alla ricerca di fondi per l’adeguamento del reparto di chirurgia pediatrica. Ha bisogno di ristrutturare un luogo in cui arrivano pazienti da un mese di vita ai 16 anni. Le degenze generalmente sono piuttosto brevi, grazie alle metodologie di intervento poco invasive in uso in questo polo ospedaliero, eppure resta la necessità che quel luogo di sofferenza per piccoli e famiglie sia particolarmente accogliente. Servono fondi e non ci sono. Come responsabile del reparto la dottoressa Pelizzo ha già cercato aiuto tra gli imprenditori della zona, ma l’incontro con il papà del compagno di classe della sua bambina accende una lampadina: perché non chiedere una mano ai detenuti? Comincia così una collaborazione lunga due anni, ancora in corso, e raccontata in maniera commovente nel volume Oltre la cura, oltre le mura, appena edito da Cantagalli e scritto dalla dottoressa Pelizzo insieme alla collega Valeria Calcaterra e con la collaborazione determinante dei detenuti. Imbianchini, falegnami, pasticceri, ma anche poeti e scrittori. I detenuti della casa circondariale di Pavia partecipano alla vita del reparto a seconda di quello che sanno fare e della libertà di movimento che la pena che stanno scontando gli concede. Alcuni entrano in corsia. Lo fanno il sabato pomeriggio, quando il ritmo di vita del reparto è meno concitato e ci sono meno pazienti in giro. C’è bisogno di libertà di azione per ridipingere le pareti, fissare le nuove testate dei letti in cui campeggiano Batman, Biancaneve o Cenerentola (ognuno può scegliersi la sua), approntare la barella a forma di Ferrari laccata rossa costruita dentro la falegnameria del carcere con cui un piccolo paziente, un giorno, potrà iniziare la sua corsa contro la malattia. È anche questo un modo per vincere la paura. E “paura” è un termine che torna spesso nelle pagine di questo bel libro. È forse la prima parola che lega il mondo del carcere e quello della chirurgia pediatrica. “Penso - scrive Cristiano in uno dei brani riportati nel libro - che quello che non si conosce faccia un po’ paura a tutti quanti, solo che loro lo affrontano con più coraggio di noi e anche con un universo di fragilità e innocenza, lottando non per la libertà, ma per la loro vita”. Da dove vengono i biscotti? C’è anche chi partecipa al progetto facendo pane e biscotti. La fornitura dal forno del carcere arriva il mercoledì mattina per la colazione dei bimbi e per la distribuzione danno una mano i ragazzi di una parrocchia di Don Orione della città. I genitori dei bambini ricoverati li trovano sul comodino dei piccoli. L’etichetta che racconta la provenienza di quelle dolcezze (alla cui ricetta rigorosamente dietetica presterà il proprio aiuto anche il famoso chef Carlo Sadler) per un attimo apre uno scorcio su un mondo inimmaginato e lontano. Rompe un muro. Il titolo del progetto, “Oltre la cura, oltre le mura”, è tutto sintetizzato qui. Nel segno discreto e potente che un pugno di biscotti può portare dentro un calvario di sofferenza e isolamento. L’altra parola che avvicina piccoli pazienti e detenuti è proprio quella: solitudine, incomunicabilità. E se dietro le sbarre la colpa può apparentemente giustificare l’abbandono; in corsia l’isolamento è il frutto più amaro dell’ingiustizia che si prova di fronte al dolore innocente. Un interrogativo per i pazienti, le loro famiglie e gli stessi medici. “Nel libro - riprende la dottoressa - usiamo le parole di Dostoevskij per descrivere il dolore innocente: “Inconcepibile e perenne immagine del Golgota”. Se ci sono dei momenti in cui questo mestiere è insopportabile? Sì. Fa effetto oggi sfogliare il libro e vedere immagini e storie di bambini che non ci sono più. Io credo che noi medici abbiamo la responsabilità di creare una cultura della capacità di accogliere e vivere il dolore con i genitori e con i bambini. È un dovere del medico. Al contrario di quello che spesso oggi si va insegnando, non si può scindere il lato professionale da quello umano. Ciò di cui hanno bisogno i nostri pazienti e le nostre famiglie non è soltanto la cura, ma qualcuno che gli dica: io sono con voi, questo percorso terapeutico lo facciamo insieme”. Lo sa bene la mamma di Giacomo, la cui testimonianza è riportata nel libro. Il giorno dell’ecografia il medico formula la diagnosi impietosa: spina bifida, la strada consigliata è l’aborto. Lo smarrimento, il dolore e l’inaspettata sorpresa di vedere il marito condividere la sua istintiva resistenza a quella parole: “Mi parve di vedere raggi di sole, come se improvvisamente resuscitassi. Sorrisi e gli dissi: “Temevo che tu non lo volessi, ora mi sento meglio; anch’io lo voglio e Giacomo sarà il nostro secondo figlio”. Si informano sulla malattia e arrivano ai medici che gli propongono un intervento in utero. Giacomo viene operato alla ventitreesima settimana: si interviene sulla sua colonna vertebrale per tentare di ridurre i danni della malattia. “Oggi Giacomo ha quattro anni, cammina, corre, salta, rotola, chiacchiera più delle femminucce e a scuola si è fatto i suoi amici e le sue amiche. Ha ancora molti problemi e so che un po’ alla volta si possono risolvere molte difficoltà. Che dire, io e mio marito accompagneremo Giacomo nella sua crescita e autonomia così come accompagniamo la sua sorellina”. Dai diamanti non nasce niente Sono queste storie, raccontate nelle parole e nelle belle fotografie che costituiranno il libro che entrano in carcere. Dove ci sono uomini che magari hanno dimenticato di essere padri o hanno visto i loro ragazzi crescere da dietro le sbarre. “Credo di aver fatto poco, pochissimo, anzi niente”, scrive Fabrizio. “Vedendo loro ho visto mia figlia, per fortuna sana. Quel poco che ho fatto, anche con le lacrime agli occhi, non aiuterà a guarirli. Dio aiutali tu, se esisti!”. La dottoressa Pelizzo prima di tornare a lavorare (“è sabato pomeriggio e bisogna approfittarne per portare a termine alcuni lavori”) va con la mente a Fabrizio De André: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori. “È sicuramente l’esperienza più straordinaria che ho vissuto”, dice la dottoressa che opera bambini passando attraverso le pance delle loro mamme. “A rispondere ai nostri bisogni e a quelli dei bambini è stata la parte più debole, isolata e lontana della società. Siamo stati noi medici a imparare da loro. L’esperienza che abbiamo fatto entrando ogni settimana in carcere a dire cos’è il dolore è stato un arricchimento enorme dal punto di vista umano. Prendersi cura significa davvero guardare oltre le mura. Mi ha insegnato che la speranza non può morire, deve diventare il metro di lettura della nostra vita”. Padova: lunedì ministro Cancellieri partecipa a conferenza sul tema del lavoro in carcere www.padovaoggi.it, 12 ottobre 2013 La titolare della delega del governo alla Giustizia sarà la principale relatrice della conferenza sul tema del lavoro nei penitenziari al Centro congressi “A. Luciani”. Incontrerà anche i rappresentanti delle cooperative del settore. Sarà il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, la principale relatrice del convegno “Emergenza lavoro nelle carceri” che si terrà lunedì 14 ottobre con inizio alle 17.45 nel centro congressi “A. Luciani” di Padova in via Forcellini. La conferenza sarà preceduta da un incontro del ministro con i rappresentanti di circa quindici realtà cooperative che operano nelle carceri italiane. A introdurre i lavori Flavio Zanonato, in qualità di ministro dello Sviluppo economico. Quanto mai d’attualità il tema del convegno, considerato l’accorato messaggio del presidente Napolitano alle Camere martedì scorso, ennesimo pronunciamento in favore della dignità delle persone detenute. Fra pochi giorni poi prenderà avvio la discussione in Commissione Senato dei disegni di legge su amnistia e indulto. I lavori saranno aperti da Sandro Gozi, neo vicepresidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa con delega alle carceri e relatore di una delle proposte di legge sull’amnistia e l’indulto che verranno discusse nei prossimi giorni dal Parlamento. Dopo i saluti delle autorità e di alcuni autori del volume “Emergenza lavoro nelle carceri”, l’introduzione sarà tenuta da Flavio Zanonato. Ma interventi di grande rilievo sul dibattito in atto in questi giorni saranno anche quelli di Giovanni Tamburino, il numero uno del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), del procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Venezia Pietro Calogero e del presidente del Gruppo editoriale L’Espresso Carlo De Benedetti. Al ministro Anna Maria Cancellieri il compito di tirare le conclusioni del pomeriggio. Moderatore del convegno sarà Nicola Boscoletto presidente di Officina Giotto, consorzio che opera in carcere dall’inizio degli anni Novanta. I Quaderni su carcere e giustizia sono una collana a cura di Officina Giotto che si propone di dare un contributo al dibattito sui temi più caldi della condizione carceraria in Italia. Il primo volume, “Emergenza lavoro nelle carceri”, uscito nel luglio 2013 con il patrocinio del Ministero della Giustizia e della Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Padova, è il resoconto di un seminario tenuto nella casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova il 22 novembre 2012 a cui parteciparono il giurista Alberto Berardi, gli imprenditori Francesco Bernardi e Nicola Boscoletto, il procuratore Pietro Calogero e la studentessa Marta Covio. Nel testo si trovano anche contributi della penalista Paola Severino, già ministro della Giustizia, del capo del Dap Giovanni Tamburino, del rettore dell’Università di Padova Giuseppe Zaccaria e una postfazione in cui Carlo De Benedetti racconta le sue impressioni dopo una visita alle lavorazioni realizzate da Officina Giotto nel carcere di Padova. Mantova: “Premio Castelli”, un giovane di Scampia vince concorso per i detenuti scrittori Gazzetta di Mantova, 12 ottobre 2013 Nel carcere di Mantova è stato consegnato a Gianluca Migliaccio il premio nazionale Castelli riservato ai detenuti scrittori. Migliaccio racconta la sua esperienza. Nel carcere di via Poma è stato consegnato a Gianluca Migliaccio il Premio Nazionale Castelli per la solidarietà, indetto dalla San Vincenzo, per i detenuti scrittori che hanno risposto alla domanda del tema “Tu ce l’hai una famiglia?”. Napoletano di Scampia, 33 anni, Gianluca è detenuto ad Ascoli Piceno, e ieri ha potuto venire a Mantova per ricevere il premio e la medaglia del presidente della Repubblica. Migliaccio in carcere si è messo a studiare, ha preso la licenza di terza media e poi ha continuato a interessarsi alla scrittura e a un piccolo gruppo teatrale sorto nel carcere. Ha ottenuto il permesso di uscire di giorno per andare a fare lo spazzino. Dopo la lettura del suo lavoro per i concorso, intitolato “I miei week end con mamma e papà”, ha ringraziato per il premio e ha letto un suo saluto, in cui parla di Mantova, di Virgilio e di Dante. Ecco il video con la parte finale del saluto di Gianluca Migliaccio. Il presidente della giuria Luigi Accattoli ha riferito che sono arrivati 185 elaborati da 72 istituti di pena italiani. Pistoia: torneo di calcetto in carcere, sfida detenuti-consiglieri comunali di Samuele Bertinelli www.gonews.it, 12 ottobre 2013 Domani, sabato 12 ottobre, a partire dalle ore 15, nel campo da gioco all’interno della casa circondariale di Santa Caterina in Brana si terrà un torneo di calcetto. A sfidarsi per raggiungere il primo posto sarà la squadra finalista dei detenuti e la squadra formata dai consiglieri comunali. Il progetto è promosso dal Comune in collaborazione con la casa circondariale di Pistoia e si inserisce in un percorso già avviato di avvicinamento della città con la popolazione carceraria. Il torneo, che dovrebbe concludersi intorno alle 18, si svilupperà su due partite. Nella prima scenderanno in campo le due squadre di detenuti che hanno superato le fasi eliminatorie, su un totale di sei squadre, che si sono svolte nei mesi scorsi. Le due squadre giocheranno per il terzo e quarto posto. La partita successiva invece vedrà in campo la squadra finalista delle eliminatorie che si sono svolte nella Casa circondariale e la squadra dei consiglieri comunali. Hanno aderito il sindaco Samuele Bertinelli, il vicepresidente del consiglio comunale Giuseppe Salvatore Patanè, i consiglieri comunali Stefano Franceschi, che ha promosso l’iniziativa, Alessandro Giovannelli, Alessandro Tomasi, Alterio Ciriello, Giacomo Del Bino, Maurizio Giorgi Alessandro Sabella, Riccardo Trallori, Massimiliano Sforzi, Alessandro Capecchi e il presidente della Consulta del volontariato Marco Leporatti. I consiglieri giocheranno a rotazione. In tribuna saranno invece presenti l’assessore al sociale Tina Nuti e le consigliere comunali Anna Maria Celesti, Giovanna Mazzanti e Rachele Balza. Al termine del torneo si svolgeranno le premiazioni con coppe donate dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia. Le magliette indossate dagli speciali giocatori sono offerte da Vannucci Piante. Infine verrà offerto un buffet da Conad. Televisione: “Fratelli e sorelle” su Rai Cinema, documentario racconta la vita in carcere Agi, 12 ottobre 2013 “Fratelli e sorelle. Storie di carcere” di Barbara Cupisti, documentario in due puntate che nel 2012 si è aggiudicato il premio Ilaria Alpi per il miglior reportage italiano lungo, è disponibile gratuitamente on demand sul portale Raicinemachannel.it. Si tratta di un documentario di grande attualità che affronta il tema delle carceri italiane attraverso le testimonianze di chi vive dietro le sbarre: detenuti, agenti di polizia o funzionari dell’amministrazione penitenziaria, restituendo un ritratto reale dell’umanità carceraria, e che proprio in questi giorni con il richiamo di Napolitano si conferma di stringente attualità. Le due puntate, rispettivamente dedicate alla drammatica situazione dei penitenziari italiani e al tema del recupero dei detenuti, sono state realizzate da Clipper Media con Rai Cinema, la collaborazione del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia) e Rai Teche. Andate in onda in prima visione su Rai 3 tra maggio e giugno dello scorso anno, sono introdotte entrambe dalle parole pronunciate dal presidente della Repubblica nel luglio del 2011, che già da allora richiamava l’attenzione del Paese “sul diritto dei cittadini a una giustizia giusta e all’effettivo rispetto della loro dignità se colpiti da sanzioni o da condanne”. E rimarcava “l’evidente abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena, e sui diritti e la dignità della persona. Una realtà non giustificabile in nome della sicurezza che ne viene insidiata più che garantita”. “Fratelli e sorelle” realizzato da Barbara Cupisti, già vincitrice di un David di Donatello per il documentario “Madri”, rientra nella linea editoriale di Rai Cinema sul cinema del reale. Molti di questi film vengono periodicamente proposti sul portale www.raicinemachannel.it, all’interno del canale Doc, uno spazio dedicato ai documentari cinematografici italiani sui temi più importanti della nostra esistenza, della nostra storia, della nostra cultura. Immigrazione: se l’accoglienza diventa tortura… di Gianluigi Pellegrino La Repubblica, 12 ottobre 2013 Lo scandalo della legge Bossi-Fini e l’emergenza carceraria denunciata da Napolitano, devono stare insieme per una politica che voglia essere tale e coerente almeno sul versante umanitario. E c’è un modo molto semplice per spazzare via ogni dubbio che dietro il sacrosanto impegno a fronteggiare la inaccettabile condizione dei penitenziari, non si nasconda l’ennesimo disperato quanto odioso tentativo di colpo di spugna. Anzi ce ne sono due di banchi di prova. Il primo è imposto proprio dalla immane tragedia di Lampedusa. La legge Bossi-Fini va spazzata via (come chiesto a gran voce anche dalla decine di migliaia di lettori che stanno sottoscrivendo l’appello lanciato da Repubblica ), perché costituisce l’esempio più clamoroso della violazione da parte del nostro ordinamento dei principi di civiltà giuridica che impongono di fuggire la torsione criminalizzatrice delle emergenze sociali, tradendo così, nel paese di Cesare Beccaria, proprio quel diritto penale mite evocato dal presidente della Repubblica quale strada maestra per una soluzione strutturale e non solo contingente dell’emergenza carceraria. Non solo è del tutto disumana ed inutile la risposta penale al fenomeno dell’immigrazione. Non solo è intollerabile la politica dei “respingimenti” la cui sola definizione evoca autentico orrore. Non solo è stato semplicemente criminale dissuadere il soccorso in mare con l’ampliamento e l’aggravamento delle ipotesi di favoreggiamento. Ma la Bossi-Fini ha anche trasformato in autentici lager i cosiddetti centri di accoglienza che presentano condizioni di disumanità ben peggiori di quelle, già inaccettabili, delle nostre carceri. Come raccontano le cronache incredule di queste ore, se nelle carceri vi è un problema di sovraffollamento in ambienti sottodimensionati per circa il trenta per cento degli spazi necessari, nel centro di accoglienza di Lampedusa i disperati sopravvissuti salvati dalla gente sono ora trattati dallo Stato letteralmente come bestie, fuori all’addiaccio, alla pioggia notte e giorno, protetti soltanto da sacchi di spazzatura. Sono il 300 per cento in più di quanti la struttura ne può ospitare. La situazione quindi, in questa triste graduatoria, è dieci volte peggiore di quella carceraria, e riguarda persone colpevoli di nulla. Molti di loro sono “richiedenti asilo” perseguitati da condizioni di guerra e di discriminazione nei Paesi di provenienza, ma la nostra disciplina criminogena permette che le relative pratiche giacciano anche per un anno e mezzo, nel frattempo imponendo il sostanziale “sequestro” presso i cosiddetti centri di accoglienza, tramutati in tal modo in luoghi di supplizio e oggettiva tortura. Ed allora se è vero che è della disumanità carceraria che ci stiamo preoccupando prima ancora va risolta con decreto di urgenza questa autentica vergogna. Del resto la stessa Corte costituzionale già nel 2007, se per i limiti intrinseci del suo potere dovette definire inammissibili le questioni poste a carico di quella scellerata normativa, allo stesso tempo fu esplicita nel “rilevare l’opportunità di un sollecito intervento del legislatore volto ad eliminare squilibri e sproporzioni”. Allora cos’altro si attende? Non era stato un bel segnale che la missione di ieri sull’isola di Letta e Barroso avesse in un primo tempo trascurato proprio il passaggio da quel lager quasi a voler rifiutare il confronto con la realtà. Bene che poi si sia pur frettolosamente rimediato ma ora si dia seguito intervenendo con atti di urgenza, anche quale prova della genuinità del riscontro ai principi umanitari posti a base dell’appello dolente del capo dello Stato. Qui vi è poi l’altra prova del nove per dissipare ogni nebbia di sospetto. Se è davvero la disumanità della condizione carceraria quella che preoccupa, non vi è bisogno di largheggiare né con indulti né con amnistie, che sono istituti con ben diversa ratio e finalità. Il legislatore cui anche ieri la Consulta ha rinviato la questione, può e deve semplicemente commutare le pene in corso, dalla custodia in carcere alla detenzione domiciliare. Questo consentirebbe di abbracciare anche un novero più ampio di fattispecie e di reati, senza dare l’odiosa sensazione dell’impunità e scongiurando ogni tentazione di mascherati colpi di spugna, che (attenzione) potrebbero riguardare non solo direttamente Berlusconi (come sarebbe infine grottesco) ma, ancor più furbescamente, una serie di suoi scomodi imputati in correità (dalle olgettine ai Lavitola e ai Tarantini) nonché altri reati di colletti bianchi che vedono qui e lì interessati pure altri partiti a Roma come in periferia. Una ragione in più per tenere alta la guardia e dissipare ogni pur malevolo dubbio, nella gigantesca anomalia italiana dove persino la questione carceraria incrocia il personale destino di chi, pur portatore di conflitti crescenti a dismisura, sta ancora lì a incagliare la dinamica istituzionale. Due banchi di prova dunque che possono consentire il ritorno ad una politica che affermi la propria più alta autonomia. Russia: linea dura con gli attivisti di Greenpeace, respinti ricorsi, restano in carcer Tm News, 12 ottobre 2013 La giustizia russa ha respinto altri due ricorsi di attivisti di Greenpeace arrestati a fine settembre durante un’azione contro le trivellazioni nell’Artico e accusati di pirateria. Ieri erano stati bocciati i primi quattro appelli contro l’estensione della custodia cautelare a due mesi di carcere. Il giornalista freelance Kieron Bryan e il militante di Greenpeace Phillip Ball, entrambi britannici, saranno detenuti sino a fine novembre, secondo la decisione del tribunale regione di Murmansk, ha annunciato oggi Greenpace. La decisione conferma la linea dura nei confronti del team ambientalista bloccato mentre tentava di scalare una piattaforma petrolifera russa. Tutto l’equipaggio del rompighiaccio Arctic Sunrise che batteva bandiera olandese - 28 attivisti dell’Ong Greenpeace, compreso un italiano, e due reporter frelance - è stato fermato e ora attende un processo per atti di pirateria, reato che può comportare sino a 15 anni di carcere. Dei trenta arrestati, 26 non sono russi. Ieri, inoltre, il Comitato di inchiesta russo ha annunciato che sono in arrivo altre incriminazioni per “crimini gravi”, precisando che a bordo della nave sono state ritrovate “sostanze stupefacenti”. Romania: ministero Esteri; nessuna informazione su detenzione di prigionieri Cia nel paese Nova, 12 ottobre 2013 Le autorità romene non possiedono alcun tipo d’informazione sull’esistenza adesso o nel passato di centri di detenzione dell’agenzia statunitense di intelligence Cia, né sull’utilizzo di aeroporti romeni per il trasporto o la detenzione di prigionieri sospettati di terrorismo. È questa la replica diffusa oggi dal ministero degli Esteri della Romania riguardo alla risoluzione approvata ieri dal Parlamento europeo sul presunto trasporto illegale di prigionieri da parte della Cia in alcuni paesi europei. In merito all’appello fatto nella risoluzione per l’avvio di un’inchiesta indipendente, imparziale, complessiva ed efficiente sulla vicenda, il ministero degli Esteri ha ricordato che una provvedimento di questo tipo è stato già realizzato. La diplomazia di Bucarest ribadisce infine che fino ad ora nessun tipo di prova è stata prodotta su casi di persone o agenzie straniere che abbiano usato il territorio romeno per azioni di detenzione o trasporto illegale di detenuti. Corea Nord: dramma di una donna americana, figlio condannato a 15 anni di lavori forzati Tm News, 12 ottobre 2013 Myung-Hee Bae, madre di un cittadino statunitense condannato a 15 anni di lavori forzati in Corea del Nord è sbarcata a Pyongyang dopo avere ottenuto il permesso di visitare il figlio, ricoverato in ospedale. “Sono molto contenta ma nello stesso tempo terribilmente ansiosa perché non so che cosa aspettarmi quando incontrerò mio figlio. È ricoverato da due mesi a causa del suo precario stato di salute. Per me sono stati 11 durissimi mesi di angoscia”. Kenneth Bae, un tour operator di 44 anni di origini coreane, è stato arrestato nello scorso novembre mentre entrava in Corea del Nord sbarcando nel porto di Rason, sulla costa nordorientale del paese. Bae, un cristiano evangelista, era stato scoperto con materiale definito “incendiario” da parte delle autorità comuniste della Corea del Nord che impediscono severamente qualsiasi proselitismo religioso e condannato a 15 anni di lavori forzati con l’accusa di avere complottato per rovesciare il regime del giovane dittatore Kim Jong-Un.