Giustizia: 40 giorni di ingiusta detenzione a San Vittore, vi racconto quello che ho visto Corriere della Sera, 11 ottobre 2013 Gentile redazione del Corriere, egregio dr Crispino, il mio nome è F. C., sono un ex imprenditore, ora responsabile vendite di alcune aziende in Italia, marito felice e prossimo padre di una dolce creatura. La nostra ragione di vita. Vi scrivo perché da poco mi sono avvicinato al pianeta carcere, mio malgrado. Fino allo scorso 12 giugno facevo parte di quella schiera di persone che non si sono mai interessate al problema delle carceri, guardando anche con un certo distacco tutto il fenomeno. Poi vi sono stato risucchiato. Per 40 giorni circa sono stato un carcerato di San Vittore a Milano. Da uomo libero ora sento il diritto e il dovere di raccontare cosa può succedere tra quelle mura. Lo faccio per me, per la mia famiglia e per le persone che ho conosciuto in quell’ambiente e che meritano gratitudine. Sono stato processato in contumacia per bancarotta fraudolenta, pare per un difetto di notifica. Fatto sta che addosso a me e alla mia famiglia è precipitato un fulmine a cielo sereno. All’improvviso mi sono trovato lontano dal mio mondo, dalla mia vita, dalla mia famiglia. Non sapevo il perché e non lo ho saputo per diversi giorni. Là dentro non si sa nulla, tutto scorre lento, indeterminato e non gestibile dalla nostra volontà. Ci sono voluti 42 giorni, fino al 24 luglio, affinché il tribunale riconoscesse il suo errore e disponesse la mia scarcerazione immediata. In questi 42 giorni ho cercato di trovare il mio equilibrio, combattendo una battaglia quotidiana con il sistema San Vittore, con quello che nella sua inchiesta "Le nostre prigioni" chiama Pianeta Carcere (che secondo me ben rappresenta ciò che si vive in ogni momento di detenzione). Tutto è una conquista, anche le cose più scontate. Penso a cose semplici come fare una doccia, curare la salute, dormire su un cuscino, fare una passeggiata, una visita medica. Nulla può essere dato per scontato: una lettera che arriva in tempi certi, una telefonata, la spesa che arriva non dopo giorni di attesa, poter leggere un giornale. I detenuti (sì, quelli che all’esterno spesso si demonizzano o si ritengono scarti di società), sono quelli che mi hanno trattato con calore umano e solidarietà. Non è umanamente facile vivere in nove persone, come eravamo noi, in 15 mq senza potere mai uscire se non per 2-3 ore al giorno. Io sono entrato in uno dei raggi peggiori, ovvero il VI. il più vecchio, non ristrutturato, con 4 docce per piano (ogni 170 detenuti circa). Delle 22 celle per ogni piano (4 piani) sono capitato nella migliore. La più grande e la più pulita. Il carcere di San Vittore è vecchio di oltre 100 anni. Dei sei raggi il secondo e il quarto sono chiusi in quanto non ci sono fondi per ristrutturarli. La capacità ufficiale del carcere è di mille persone circa nel reparto maschile. Ma credo che il numero reale si avvicini alle 1800 persone. Si arriva ad una media di circa 7- 8 persone per cella. Nel corso di quelle settimane ho sentito dentro il bisogno di prendere appunti. Appunti che vorrei schematicamente condividere con lei in questa lettera, nella speranza che possano essere una utile testimonianza di cosa significhi "vivere" in un carcere italiano. Il "Pianeta Carcere" è omertoso: i detenuti non denunciano le guardie e viceversa. Questo impedisce alle informazioni di fluire, protegge le ingiustizie e lo rende immune. Non si tratta del mio caso. Non ho subito violenze fisiche, né le ho viste direttamente accadere, ma ne ho viste le conseguenze sulla pelle di chi mi stava attorno. Queste sono le cose che ho vissuto Distribuzione di psicofarmaci in maniera massiccia tra i detenuti. A una persona malata che era nella nostra cella mancavano 15 giorni alla fine della carcerazione. Aveva bisogno di morfina ma non ne poteva avere se non comprandola all’esterno, a sue spese, e attendendo che la direzione ne autorizzasse l’entrata. La farmacia del carcere non è in grado di procurarla. La cosiddetta ora di aria è costituita da spazi di cemento circondati da muri di cemento. Fa eccezione un rubinetto per l’acqua. A San Vittore ci sono alcune stanze dedicate a piccoli corsi e servizi quali biblioteca, barbiere,etc. Purtroppo sono accessibili solo se c’è personale. Per fare un esempio, il barbiere è disponibile una volta alla settimana per ogni raggio del carcere. Non esiste lavoro, che poi è l’essenza della "rieducazione". Solo 10 persone per ogni raggio erano impegnate in attività lavorative. E’ un lavoro retribuito per 3 ore, ma si inizia a lavorare alle 7,30 del mattino e si termina alle 17. Ovviamente i contributi vengono versati solo per le 3 ore previste. E nemmeno. Allo stipendio medio (che e’ di circa 250 euro al mese) vengono sottratti i costi di eventuali errori nello svolgimento del proprio lavoro. Ad esempio: se un addetto alla spesa sbaglia a distribuirla ne è responsabile pecuniariamente. Nel carcere tutto è burocrazia, tutto viene regolato da una burocrazia lenta fatta di una modulistica che si sposta a mano. Le risposte alle domande a volte sono inesistenti. Per un colloquio con l’ispettore bisogna attendere un mese. Anche la corrispondenza postale dall’esterno impiega dai 2 ai 15 giorni per essere recapitata. Il sabato e la domenica non è possibile comunicare con nessuno. La presenza di polizia penitenziaria è ridotta all’osso. La sera, il mese di Agosto, la domenica e nei festivi non vi è presenza di alcun genere di personale. C’e’ una sola guardia ogni due o tre piani. Tenendo conto che le celle sono sempre chiuse, se non vi è il personale non si può fare nulla, nemmeno aprire la cancellata per pochi minuti. Il cibo viene distribuito lungo il corridoio utilizzando un carrello, lo stesso carrello che viene usato per portare la spesa ma anche per portare via i sacchi della spazzatura. Le malattie proliferano. il 15 giugno c’è stato ancora un caso di tubercolosi. Ci hanno fatto fare i test perché si temeva il contagio. Non ci sono sistemi per richiamare l’attenzione del personale di controllo se non gridando. Se il personale non è presente al piano si può solo fare rumore per richiamarne l’attenzione. Nella cella accanto alla nostra la sera del 23 luglio una persona ha avuto un collasso. Il personale è arrivato solo dopo 30 minuti per portarlo al pronto soccorso. Alla domenica e nei festivi non è disponibile il medico, non ci si può lavare. Le finestre sono di plastica bucata. D’inverno si gela. Occorre razionare le vivande perché non ce ne sono per tutti. E’ possibile fare la spesa da una lista di prodotti presenti allo spaccio, compilando un modulo. La spesa viene consegnata scaglionata. O a partire dal terzo giorno successivo, oppure, una volta al mese, viene consegnata dopo sette giorni dalla richiesta. I prodotti spesso non sono disponibili. Tra i detenuti ormai è frequente lo scambio di alimenti e favori. Fare la spesa non è formalmente obbligatorio, ma se si vogliono fare le pulizie, lavare i panni, lavare se stesso, cucinare, cambiare le lampadine... bisogna comprare i prodotti con i propri soldi. Il carcere non mette a disposizione nulla. Chi non se lo può permettere può mangiare dal carello, ma non può fare il resto se non grazie alla solidarietà di chi sta intorno. In poche parole resta segregato in cella. Si cucina in bagno, spesso accanto al gabinetto. Perché solo lì ci sono dei fornelli da campeggio alimentati da bombole di butano. Spesso accade che coperte e materassi non siano disponibili per i nuovi arrivati. Dormono per terra. Le lenzuola è possibile cambiarle una volta al mese. La vita è difficile anche per i nostri cari. Lo spazio per i colloqui non è sufficiente. I parenti dei detenuti sono costretti a stare in coda già dalla notte precedente. Non di rado ci si trova in 30 persone all’interno di stanze di circa 20 mq dove è difficile capire persino l’altro che dice. Spero che quanto testimoniato possa servire alla coscienza di qualcuno. Io pensavo che non mi sarebbe mai capitato. Mi è capitato. Ho sofferto, tanto, troppo. Sono stato scarcerato. Altri sono ancora lì dentro. Molti sono in attesa di un giudizio, non si sa se colpevoli o innocenti. Ma sono lì dentro, trattati più o meno come le ho descritto e come io ho vissuto ingiustamente per 40 giorni. Giustizia: uscire dall’illegalità, un dovere costituzionale di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 11 ottobre 2013 Il messaggio di Napolitano offre l’occasione alla politica di recuperare un senso. Nel messaggio parlamentare del presidente Napolitano sulla questione carceraria l’espressione più ricorrente è “dovere”, più volte qualificato come “costituzionale”. È la sua giusta chiave di lettura: le Camere non sono chiamate a un esercizio di buonismo legislativo, ma a restituire legittimità al monopolio della forza che lo Stato esercita sui detenuti in forme illegali, qualificate come tortura dalla comunità internazionale. Per questo l’Italia è stata condannata a Strasburgo: trattiamo in modo inumano e degradante persone dietro le sbarre. Così, mentre puniamo il reo per aver infranto la legge, siamo colpevoli di violare la Costituzione, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), l’ordinamento penitenziario e il suo regolamento di esecuzione. All’inferno non ci sono diritti. Garantire in celle sovraffollate il rispetto della dignità della persona detenuta è impossibile. E ciò nonostante gli standard legali siano stati progressivamente abbassati: dai 9 metri quadri regolamentari a persona (stabiliti dal decreto ministeriale 5 luglio 1975), ai 7 mq (raccomandati dal Comitato europeo di Prevenzione della Tortura), fino agli attuali 3 mq (sotto i quali, per la Corte europea dei diritti dell’uomo, scatta in automatico la condanna per tortura). Tanto per capirci, il detenuto Torreggiani, uno dei sette ricorrenti alla Corte di Strasburgo, viveva nel carcere di Busto Arsizio con altri due dentro una cella di 9 metri quadri ridotti ulteriormente dal mobilio, per 19 ore al giorno, con limitato accesso alle docce per la penuria di acqua calda, dormendo al terzo piano di un letto a castello, a 50 centimetri dal soffitto, insufficienti per girarsi su un fianco o piegare le ginocchia. Altrove c’è chi sta anche peggio. Infatti, i ricorsi pendenti a Strasburgo per violazione dell’articolo 3 Cedu sono a migliaia: tutti congelati, in attesa che l’Italia risolva un sovraffollamento carcerario “strutturale e sistemico”, entro il 28 maggio 2014. Siamo condannati a fare, e presto. Condannando lo Stato italiano, la Corte europea dei diritti dell’uomo chiama tutti i poteri statali ad agire. Con il suo messaggio, il Quirinale svolge egregiamente la propria parte. A più riprese aveva richiamato l’attenzione sul problema di corpi in carcere stipati fino all’inverosimile. Mai, però, ricorrendo al suo potere di messaggio, il solo che interpella ufficialmente le forze parlamentari, costringendole a una risposta argomentata e costituzionalmente orientata. Con la sua iniziativa il Quirinale parla anche alla comunità carceraria. Il sovraffollamento è, infatti, una bomba a orologeria, pronta a esplodere in violenza. Nulla di ciò è accaduto dietro le sbarre. Detenuti muti perché abituati a comunicare con il proprio corpo (tatuato, segnato da cicatrici, spesso violentato), hanno ritrovato la parola. L’hanno usata per denunciare l’illegalità della loro condizione con la lotta nonviolenta; si sono spinti fino a Strasburgo, chiedendo giustizia. Hanno risposto a una detenzione inumana e degradante con gli strumenti dello Stato di diritto. Con il suo messaggio, il capo dello Stato riconosce loro la dignità di interlocutori. Aggiungo che, scrivendo ai rappresentanti del popolo, il capo dello Stato parla a tutti noi, chiamati - fuori dalle mura del palazzo - a non far cadere nel vuoto le sue parole. E a rimbalzarle dentro le aule parlamentari, moltiplicandone la forza d’urto. Quanto al governo, la controfirma del presidente Letta va oltre il mero adempimento formale. Esprime piena condivisione della diagnosi e delle cure prescritte dal Quirinale. Le azioni dovranno essere conseguenti. Infatti, il sovraffollamento carcerario è una metastasi ordinamentale a causa di norme carcerogene, per lo più introdotte con decretazione d’urgenza. Così è stato per le cause ostative alle misure alternative alla detenzione, per l’obbligo di custodia cautelare in carcere, per le restrizioni detentive dei tossicodipendenti. A ciò occorre rimediare, in fretta, disinnescandole attraverso lo stesso strumento - il decreto legge - pensato in Costituzione per risolvere situazioni straordinarie di necessità e urgenza, qual è l’attuale condizione carceraria. La strada è stata timidamente aperta dal decreto legge n. 78 del luglio scorso. Ora è necessario proseguire, con azioni coerenti alle parole del Quirinale. Soprattutto, il messaggio è alle camere. Saprà il parlamento essere all’altezza della sfida? Saprà vincerla nei sette mesi che gli rimangono? Il messaggio offre l’occasione di recuperare il senso autentico della funzione parlamentare e di una politica degna (finalmente) di questo nome. Non va sprecata. Se è vero che un paese si riconosce dalle sue carceri, allora esse parlano di noi e di ciò che siamo. C’è da vergognarci. Tocca alle camere dirci se possiamo aspirare a vivere in una comunità dove l’uomo della pena possa essere migliore dall’uomo del reato. E dove, almeno, un detenuto sia trattato non peggio di una gallina ovaiola in gabbia. Giustizia: blitz del Pdl su amnistia e indulto… subito la legge al Senato, ma è scontro di Alberto D’argenio La Repubblica, 11 ottobre 2013 Eccola la super amnistia, calza a pennello a Silvio Berlusconi. La scrive il senatore socialista Lucio Barani, del gruppo Grandi autonomie e libertà, formazione che pesca tra vari eletti di centrodestra che a Palazzo Madama fiancheggia il Pdl. Il ddl depositato ieri in commissione Giustizia prevede l’amnistia - che cancellala pena accessoria dell’interdizione che tante pene sta dando al Cavaliere - per i reati puniti fino a sei anni e l’indulto fino a cinque. L’indulto potrà essere applicato anche ai recidivi e “nella misura non superiore agli otto anni a chi faccia completa divulgazione di tutti i fatti rilevanti relativi a reati commessi durante la loro partecipazione in organizzazioni criminali”. Tra questi mafiosi e terroristi. Barani, eletto nelle liste del Pdl e famoso nel Palazzo perché sfoggia sempre un garofano infilato nel taschino della giacca, risponde alle polemiche che subito scoppiano intorno al suo ddl: applicare l’indulto ai pentiti serve “a far emergere la verità su taluni misteri che hanno segnato le pagine più buie della nostra repubblica e che ancora avvolgono parte della nostra storia”. Intanto ci sono altri due ddl su amnistia e indulto che fanno discutere, quelli presentati dai senatori Manconi (Pd) e Compagna (Pdl) che sbarcheranno in commissione Giustizia di Palazzo Madama martedì prossimo. Sembra che nei due testi ci sia una norma che permetterebbe di cancellare l’interdizione per Berlusconi, visto che l’indulto verrebbe applicato anche alle pene accessorie temporanee conseguenti a condanne anche solo in parte indultate. Manconi però smentisce, spiega che il ddl “non potrebbe applicarsi alle pene principali e accessorie inflitte a Silvio Berlusconi per il caso Mediaset perché l’indulto è escluso ha chi ha già beneficiato di quello del 2006, come avvenuto per il leader del Pdl”. E nel pomeriggio il premier Enrico Letta sale al Colle dove con il presidente Giorgio Napolitano parla di immigrazione e, spiega una nota del Quirinale, “del contributo che il governo potrà dare al dibattito sulle carceri aperto dal messaggio del Capo dello Stato alle Camere”. Ma tra i partiti l’intervento di Napolitano continua a far discutere. Il Pd vigila perché un eventuale atto di clemenza, da approvare in Parlamento con i due terzi dei voti, non si trasformi in un regalo per Berlusconi. Così il segretario Epifani assicura che “prima di fare l’amnistia ci pensiamo due volte, ad amnistia e indulto ci si arriva alla fine di un percorso e mai per un certo tipo di reati come la frode fiscale”. Per una volta Renzi la pensa come lui: “Condivido la prudenza, non credo che si debba partire dall’amnistia e dall’indulto, anche se Napolitano ha fatto un messaggio di grande valore morale. Prima bisogna riformare la giustizia”. Spiega il responsabile giustizia del Pd, Danilo Leva, che “amnistia e indulto possono essere prese in considerazione solo come punto di approdo di una riforma del sistema delle pene. Il problema non è come svuotare le carceri ma eliminare quelle leggi che, nel corso degli anni, le hanno inutilmente sovraffollate”. Ma il Guardasigilli Anna Maria Cancellieri afferma che “gli atti di clemenza non sono segno di debolezza, al contrario sono segno di forza: uno Stato forte non ne ha paura”. Il ministro aggiunge che “si potrebbe anche eliminare la maggioranza di due terzi necessaria a votare provvedimenti su amnistia e indulto” per accelerare i tempi. Giustizia: su carceri, amnistia e indulto sprint d’autunno delle Camere di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2013 Emergenza carcere priorità d’autunno, con le Camere pronte a rispondere all’appello del Quirinale. Dopo il duro scontro M5S-Napolitano - accusato di voler “salvare” Berlusconi con l’amnistia - ieri la contromossa grillina. A poche ore dalle polemiche, una delegazione 5 Stelle è stata ricevuta dal segretario del Quirinale, Donato Marra, e dal consigliere per la giustizia, Ernesto Lupo, per la consegna del Piano carceri “alternativo” del Movimento. “Non servono nuove carceri - ha spiegato la deputata Giulia Sarti dopo l’incontro - ma la ristrutturazione dell’esistente e il recupero funzionale di spazi mal gestiti”. Se adottato, il piano dovrebbe garantire in due anni 69mila posti, “22mila in più rispetto al piano carceri del Governo”, e un costo dimezzato di 355 milioni. Sul fronte parlamentare, la giornata ha sancito poi la “divisione dei compiti” tra Senato, che si occuperà subito di amnistia e indulto, e Camera, che approfondirà gli altri aspetti del messaggio presidenziale: dalla riforma delle misure alternative al nodo capienza. L’obiettivo, ha spiegato la presidente della commissione Giustizia di Montecitorio Donatella Ferranti (Pd), annunciando per il 17 ottobre l’audizione del Guardasigilli, “è far arrivare in aula entro il mese una relazione completa su tutte le misure strutturali” sollecitate da Napolitano. Al Senato, la II commissione ini-zierà invece martedì l’esame dei Ddl Compagna (Gal) e Manconi (Pd) in materia di amnistia (per reati con pena detentiva sotto 4 anni) e indulto (per le pene detentive, non oltre i 3 anni). Tra gli effetti, ci sarebbe anche l’indulto per le pene accessorie temporanee se conseguenti a condanne anche solo in parte “indultate” e quindi la cancellazione dell’interdizione del Cavaliere. L’ipotesi, circolata sulle agenzie, ha spinto Luigi Manconi a precisare che l’indulto previsto “non potrebbe applicarsi alle pene principali e accessorie di Berlusconi”. La proposta infatti “esclude l’applicabilità dell’indulto” a chi ha già beneficiato di quello del 2006. Dunque, “nessun effetto vi sarebbe sulla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici di Berlusconi, né sulla principale”. Sul tavolo della commissione anche la proposta presentata ieri da Lucio Barani (Gal) per l’amnistia dei reati con pena massima a 6 anni e l’indulto (anche ai recidivi, da qui la l’etichetta di “super indulto”) per condanne fino a 5 anni. La conferma poi che il Governo non rimarrà con le mani in mano arriva dal ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, che parlando a “Zapping 2.0” (Rai) ha definito gli atti di clemenza non un “ segno di debolezza”, ma “di forza” perché “uno Stato forte non ne ha paura”. Sulla clemenza, ha aggiunto, deciderà il Parlamento”, anche se ha prospettato l’eliminazione “della maggioranza dei 2/3 necessaria per votare provvedimenti su amnistia e indulto”, per velocizzare i tempi. Barani (Gal): amnistia per pene fino a 6 anni indulto fino a 5 Che la proposta prima o poi sarebbe arrivata era chiaro. A sorprendere è che a firmare il disegno di legge salva Cavaliere non sia uno dei suoi fedelissimi, ma il senatore Lucio Barani, craxiano doc del gruppo Grandi autonomie e libertà: amnistia per i reati che prevedano una pena fino a sei anni e indulto per le condanne fino a cinque anni, reati di mafia inclusi. La proposta è stata depositata in commissione Giustizia del Senato: “Ho usato la logica di aumentare di due anni l’amnistia del 1990 e l’indulto del 2006 visti i 23 anni di latenza e il messaggio di Napolitano”, spiega Barani. Ma la proposta del senatore, che prevede l’amnistia anche per i recidivi, non sarebbe un asso soltanto per Berlusconi. Al momento dell’appello di Napolitano sembrava da escludere che l’amnistia, atto di clemenza che prevede la cancellazione del reato (e dunque sia della pena principale che di quella accessoria) potesse riguardare condanne fino a sei anni di reclusione. Cioè la pena prevista dal codice per la frode fiscale, reato per il quale è stato condannato il Cavaliere. Il disegno di legge riguarda anche l’indulto, previsto per le pene fino a cinque anni e concesso “nella misura non superiore a otto anni a chi faccia completa divulgazione di tutti i fatti rilevanti relativi a reati commessi durante la loro partecipazione in organizzazioni criminali”. Soprattutto applicabile anche ai reati di mafia, ex 416 bis. Giustizia: il Ministro Cancellieri; amnistia e indulto non riguarderanno Berlusconi Corriere della Sera, 11 ottobre 2013 Il ministro: “Ventimila detenuti fuori e processi veloci”. Le priorità: “Prigioni, processo civile e penale”. “Penso proprio di no”. Così il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri intervistata da Giovanni Minoli a Mix24, su Radio24, rispondendo alla domanda se una sua eventuale proposta di amnistia e indulto riguarderà anche Silvio Berlusconi. Il ministro ha anche assicurato di non aver avuto “nessuna pressione dal Quirinale”. Un “target” della legge che il ministro avrebbe in mente “ potrebbe essere quello che tocchi 20 mila detenuti, come avvenuto in casi precedenti”. Il termine dei “quattro anni potrebbe essere una traccia”, ha aggiunto. E ha assicurato che verranno rispettati gli impegni con l’Europa: “Risolveremo i problemi delle carceri rispettando i termini”, ha detto in merito alla scadenza del maggio 2014 imposta dalla Corte di Strasburgo sull’emergenza del sovraffollamento carcerario. Quanto alle priorità sulla giustizia “a parte le prigioni”, sono in prima fila il processo civile e la velocizzazione del processo penale”. Alla domanda sui tempi il ministro ha risposto: “Penso che faremo molto presto, un mese o due per alcuni provvedimenti o le leggi delega che ci consentano di intervenire”. Anche ieri il ministro della Giustizia era intervenuto per chiarire il suo pensiero: “Gli atti di clemenza non sono segno di debolezza, al contrario sono segno di forza: uno Stato forte non ne ha paura”. “La scelta ovviamente spetta al Parlamento, ma io ritengo che si possa eliminare la maggioranza dei due terzi necessaria per votare provvedimenti su amnistia e indulto”, in modo da procedere più speditamente verso la concessione di questi atti di clemenza. Il guardasigilli ha poi definito un “dramma”, il fatto che “un innocente venga tenuto in carcere senza giudizio. Per questo sono anche necessari provvedimenti urgenti per rendere più brevi e più veloci i processi. Stiamo studiando molte soluzioni”. A poco più di due giorni dal messaggio di Napolitano alle Camere sull’emergenza carceri, intanto, si è scatenata in Parlamento la corsa a concretizzare al più presto l’appello del Capo dello Stato. E si alza il livello dello scontro all’interno della maggioranza con il Pd che si mostra cauto all’idea di un provvedimento di clemenza non accompagnato da riforme più sostanziali contro il sovraffollamento carcerario. La commissione Giustizia della Camera presieduta da Donatella Ferranti (Pd) ha fissato un’audizione del ministro Cancellieri per fare il punto anche sulle leggi da rivedere in senso “pro-carceri”, mentre quella del Senato guidata da Francesco Nitto Palma ha approvato in nottata il ddl sulla messa alla prova (giacente da mesi nei cassetti) con tanto di delega al governo a depenalizzare alcuni reati tra cui quello di immigrazione clandestina. E ha messo in calendario, per martedì 15 ottobre, l’esame dei ddl presentati su amnistia e indulto. E mentre infuria la polemica politica - con il M5S che ha illustrato al Quirinale un piano “salva-carceri” alternativo per evitare indulto e amnistia e la Lega che annuncia barricate, non solo contro gli atti di clemenza, ma contro chi voglia cancellare davvero il reato di clandestinità - in ambienti parlamentari si ribadisce che un provvedimento di clemenza ora, accompagnato da altre riforme fondamentali, sarebbe necessario anche per evitare che l’Italia venga messa all’indice dalla Ue per l’emergenza carceri. Giustizia: Letta incontra il presidente Napolitano, “immigrazione e carcere, le priorità” Ansa, 11 ottobre 2013 Il premier: “La questione di Lampedusa sarà trattata nel prossimo vertice europeo”. Emergenze immigrazione e carceri, ma legge di stabilità e dossier Alitalia. Giorgio Napolitano ed Enrico Letta affrontano tutti i nodi di stretta attualità in un lungo colloquio serale al Quirinale. “Il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio hanno compiuto una ricognizione su questioni all’esame in queste settimane e nelle prossime, come accade di frequente”, si legge nella nota diffusa dal Colle. Il primo dossier esaminato è stato quello dell’immigrazione. Ed in particolare, rimarca la nota, “di quanto il Presidente Letta ha avuto modo di valutare con il Presidente della Commissione Europea Barroso a Lampedusa sul tema dei profughi e sulle politiche relative all’immigrazione, anche in vista del Consiglio europeo di 24 e 25 ottobre prossimi”. Il premier, viene riferito, ha raccontato quanto visto e soprattutto vissuto a Lampedusa. Senza mancare di esprimere le sue sensazioni, anche sul piano personale, per un dramma che ha condannato senza mezzi termini, arrivando a scusarsi a nome del Paese. Ha poi confermato l’intenzione di porre con forza la questione sul tavolo del prossimo summit Ue. “L’immigrazione deve diventare una priorità per l’Europa”, riferiscono fonti vicine al capo del governo, che rimarcano quanto il governo sia deciso a “condizionare” su questo l’agenda europea. Le stesse fonti rimarcano come fu proprio Letta, nel discorso per la fiducia pronunciato il giorno prima della tragedia di Lampedusa, a sottolineare come le politiche Ue sul fronte dell’immigrazione dovessero cambiare. Dopo Lampedusa, quell’appello è diventato ancora più pressante. Il primo appuntamento sarà appunto il vertice Ue di fine ottobre, ma l’Italia è intenzionata a sfruttare anche la presidenza di turno dell’Ue, nella seconda metà del 2014, per evitare che l’Europa si fermi a mere enunciazioni di principio. Sul fronte interno, ed in particolare sulla legge Bossi-Fini, l’atteggiamento del premier non cambia: in cuor suo ritiene che quelle norme siano datate rispetto al mutato quadro internazionale. “Ora l’immigrazione non è dettata solo da ragioni economiche, ma spesso purtroppo da ragioni di sopravvivenza”, spiega una fonte di palazzo Chigi. Da qui l’esigenza di modificare la legge sul diritto d’asilo. Ma non basta. Tanto che Letta ha definito una “vergogna” l’apertura di un fascicolo da parte della magistratura nei confronti delle vittime del naufragio. Atto dovuto, viste le attuali norme. Ma il premier intravede - anche nelle parole di esponenti del Pdl, come Maurizio Lupi - piccoli segnali di apertura alla possibilità se non altro di aggiornare la Bossi-Fini. Ma a suo avviso nessun risultato sarà possibile se non si abbandoneranno le posizioni ideologiche. Serve insomma un dibattito serene e senza pregiudizi. L’altro tema affrontato da Napolitano e Letta è stato il nodo carceri ed in particolare, riferisce sempre la nota del Colle, sul “contributo che il governo potrà dare al dibattito aperto dal messaggio del Capo dello Stato alle Camere”. Amnistia e indulto sono di competenza del Parlamento. E in questo senso la speranza di Letta è che si eviti di guardare alla questione con il condizionamento del `caso Berlusconi´. Atteggiamento, nota qualche lettiano, che si è visto non solo nel M5S ma anche in alcune dichiarazioni di esponenti del Pd. Letta sa però che altri provvedimenti potrebbero alleggerire il dramma del sovraffollamento. Oltre alle proposte già anticipate dal ministro Cancellieri, a palazzo Chigi si ricorda l’iniziativa congiunta che Letta e Lupi, prima di andare al governo, presentarono per il reinserimento dei detenuti per piccoli reati nel mondo del lavoro. Sapendo bene che la recidività dei reati dipende in larga misura proprio dall’assenso di politiche adeguata in questo senso. Nel corso del colloquio, infine, si sono toccati anche i dossier economici: il lavoro per arrivare a definire la legge di stabilità ed il nodo Alitalia. Su quest’ultimo tema, il premier ha ovviamente anticipato al capo dello Stato la soluzione individuata con la partecipazione di Poste. Giustizia: amnistia e indulto, 2 ddl martedì in Senato Il Tempo, 11 ottobre 2013 Saranno all’esame della commissione giustizia del Senato, martedì i ddl a firma Compagna (Pdl) e Manconi (Pd), su amnistia e indulto. Nel disciplinare i casi per cui viene concesso l’indulto si prevede anche che “è concesso indulto, per intero, per le pene accessorie temporanee, conseguenti a condanne per le quali è applicato, anche solo in parte, l’indulto”. Il che potrebbe, se il testo passasse a maggioranza dei due terzi, in questa versione, riguardare anche Silvio Berlusconi che è stato condannato a quattro anni per frode fiscale, con pena in parte indultata e con interdizione dai pubblici uffici che la Corte di appello di Milano deve rideterminare, da uno a tre anni. Ma il senatore del Pd Luigi Manconi ha spiegato che il suo Ddl non può riguardare il Cavaliere. “Con riferimento a qualche commento frettoloso e ad alcune interpretazioni non rispondenti a verità - ha spiegato - preciso che l’indulto previsto dal disegno di legge del quale sono primo firmatario e che ho presentato il 15 Marzo 2013, non potrebbe applicarsi alle pene principali e accessorie inflitte a Silvio Berlusconi per il caso Mediaset”. “L’articolo 4 comma 2 del ddl - ha aggiunto - esclude l’applicabilità dell’indulto a chi ne ha già beneficiato nel 2006, come è già avvenuto, peraltro, per il leader del Pdl. Dunque, non applicandosi l’indulto (né, tantomeno, l’amnistia), nessun effetto vi sarebbe sulla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici né sulla principale”. Nel frattempo, però, è arivato il “super indulto”, un ddl firmato dal senatore Lucio Barani (Gal), depositato a ventiquattr’ore dal messaggio di Giorgio Napolitano alle Camere. L’esponente socialista si propone di concedere l’amnistia per reati con pena massima a 6 anni e indulto per condanne fino a 5 anni. Il ddl di Barani prevede anche la non applicabilità del quinto comma dell’articolo 151 del codice penale, concedendo quindi l’amnistia anche ai recidivi. C’è poi un’appendice “maxi” al “super indulto”, concesso “nella misura non superiore a 8 anni a chi faccia completa divulgazione di tutti i fatti rilevanti relativi a reati commessi durante la loro partecipazione in organizzazioni criminali”. Applicabile, secondo quanto prevede il ddl Barani, anche a condannati per reati relativi ad associazioni o organizzazioni criminali, terroristiche, eversive o di tipo mafioso che decidano di collaborare con la giustizia. Sui provvedimenti è intervenuto anche il capogruppo del Pdl alla Camera Renato Brunetta: “Sul pacchetto giustizia noi abbiamo oggi tanta carne al fuoco. Abbiamo un enorme pacchetto giustizia che dovrebbe essere assolutamente calendarizzato all’interno del Parlamento per dare risposte all’Europa, al presidente della Repubblica e agli italiani che hanno chiesto con i referendum di cambiare la giustizia”. Giustizia: Bignami (M5S); con il nostro piano carceri 22.000 posti in più www3.varesenews.it, 11 ottobre 2013 La senatrice bustocca: “Non possiamo accettare soluzioni tampone, occorre analizzare il problema per risolverlo nel lungo termine”. Contro l’idea dell’amnistia e a favore di un nuovo piano carceri. A dirlo è il Movimento 5 Stelle con la senatrice bustocca Laura Bignami. “Ci siamo mostrati attenti e sensibili al problema della situazione carceraria italiana, tenendo a cuore i cittadini, i diritti umani ed il rispetto delle leggi”. Con i colleghi del Movimento Cinque Stelle eletti in Regione Lombardia gli esponenti “romani” del M5S hanno visitato le carceri di Varese, Busto Arsizio e San Vittore, per verificare la situazione dei detenuti negli istituti penitenziari del nostro territorio, che spesso si trovano a vivere in condizioni disumane. Paola Macchi, membro della Commissione speciale sulle carceri in Regione, ha sollecitato audizioni per approfondire la situazione carceraria in Lombardia e ha proposto una mozione approvata all’unanimità dal consiglio regionale per chiedere la messa a punto in tempi brevi di linee guida, che ridefiniscano le modalità delle rilevazioni semestrali delle ASL negli Istituti di prevenzione e pena a partire dalla centralità delle persone e del rispetto dei diritti umani fondamentali di coloro che sono legittimamente private della libertà. “Ritengo - prosegue Bignami- che l’amnistia e l’indulto, come la storia ci insegna, non possono essere la soluzione del problema carcerario italiano. Non possiamo accettare soluzioni tampone, occorre analizzare il problema per risolverlo nel lungo termine, attraverso soluzioni strutturali. Per questo abbiamo pertanto presentato in Parlamento un piano carceri che non prevede la costruzione di nuove strutture, ma la ristrutturazione di quelle esistenti e il recupero funzionale degli spazi mal gestiti. Il piano, se adottato, creerebbe 22.000 posti in più, ad un costo di 40 milioni di euro, la metà di quanto previsto dal vecchio piano carceri. Inoltre a livello legislativo abbiamo presentato provvedimenti per cancellare il reato di clandestinità disciplinato dalla legge Bossi- Fini e per depenalizzare il possesso di lievi quantità di droghe, trasformandolo in illecito amministrativo. Ci auguriamo che anche i colleghi degli altri gruppi manifestino la volontà politica di risolvere tempestivamente il problema carcerario nel suo complesso, accogliendo le nostre proposte”. Giustizia: il procuratore antimafia; misure dannose, ci sono carceri nuove e vuote di Silvia Truzzi La Repubblica, 11 ottobre 2013 Vuole che parliamo dell’indulto? Ma è già stato detto così tanto…”. Non è che repetita iuvant. È che nonostante le molte voci contrarie a indulto e amnistia, questo Paese continua a fare gli stessi errori. E allora Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, decide di raccontarci cosa pensa. Dottor Gratteri, che opinione ha di questo susseguirsi ravvicinato di provvedimenti di clemenza? La cosa grave è che si mette nella testa della gente l’idea che alla fine tutto s’aggiusta. Che non esiste la certezza della pena. Che in primo grado, in appello o addirittura dopo la sentenza definitiva qualcosa succede, perché uno sconto ci sarà sempre per tutti. Negli ultimi anni il tema del sovraffollamento delle carceri è stato molto dibattuto. Eppure non è stato fatto nulla, né in termini di politica penale né di strutture. Abbiamo assistito a grandi proclami, dibattiti, conferenze. Ma perché, per esempio, i vari ministri che si sono succeduti non sono andati in Albania, in Romania, in Tunisia e in altri Paesi ad aprire un dialogo per definire trattati bilaterali? Su quale tema? Sulla possibilità di far scontare la pena ai detenuti stranieri condannati in Italia nei loro paesi d’origine. In Italia nel 2012 c’erano 112,6 detenuti per ogni 100 mila abitanti. La media europea è 127,7. Quindi noi siamo sotto la media: questo ci dice che il problema non è che sono troppi i detenuti è che sono poche le carceri. Ci sono istituti penitenziari chiusi per mancanza di personale. Perché nel 1994 sono state chiuse Pianosa e l’Asinara? Si potrebbero riaprire e mandarci i detenuti con il 41-bis, per esempio. Ma diciamo di più: in provincia di Cagliari c’è un carcere quasi finito, costruito appositamente per i 41-bis, mai utilizzato per mancanza di personale. In provincia di Nuoro un’intera sezione dedicata ai 41-bis ed è vuota. Del famoso piano carceri di Alfano non si è visto nemmeno un mattone. La politica non si è mai occupata seriamente del problema, per miopia. Si dice che mancano i soldi, ma trovarli non sarebbe così complicato. Penso ai milioni di soldi buttati per la mancata informatizzazione dei processi. Facciamo un esempio. Per notificare 50 ordinanze di custodia cautelare in carcere, si spendono circa 30 mila euro tra carta, toner e forza lavoro. Potremmo risparmiarli notificando al detenuto un cd con il pdf. Quando arriva in carcere potrebbe leggere l’ordinanza su un pc. Se l’obiezione è dove si trovano i soldi, le dico che i tribunali italiani e le procure sono piene di computer inutilizzati. Poi, se io fossi al ministero della Giustizia, comprerei 10 mila tablet (a gara costerebbero assai poco) e ne darei uno a ogni detenuto: tutti gli atti - ordinanza, avviso di fine indagine, avviso di fissazione udienza, la sentenza e tutto il resto - verrebbero notificati lì. Quanti soldi risparmieremmo? Milioni. Basta pensare a tutte le ore spese dalla polizia giudiziaria per notificare atti in giro per l’Italia. Con quei fondi potremmo pagare gli straordinari alla polizia penitenziaria e colmare la carenza di personale. Per completezza aggiungo che nella commissione Letta, della quale faccio parte, sono già state depositate modifiche in tal senso. Speriamo bene. Il problema, lo hanno sottolineato più volte anche le istituzioni europee, esiste. In una delle condanne a carico dell’Italia si parla di tortura per il trattamento inumano della popolazione carceraria. Qualcosa bisogna fare: cosa suggerisce? Ci sono reati tipici commessi dai tossicodipendenti per comprarsi la dose. Perché, quando vengono condannati, stanno in carcere trattati con il metadone? Non serve a niente. Le statistiche dicono che su dieci tossicodipendenti che entrano in comunità, quattro guariscono. E allora la soluzione può essere pensare a comunità di recupero più chiuse, protette e sicure. Dove questi particolari detenuti possano cominciare un recupero e salvarsi la vita. E la proposta di abolire alcune leggi “riempi-carceri” come la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi e la ex Cirielli? Sono dettagli, in fondo non spostano di molto il numero dei detenuti. Il problema non è se le condizioni di vita nelle carceri italiane non sono degne di un paese civile. Su questo non c’è dubbio. Non è civile che dal carcere si esca perché si sta stretti: in un paese civile si esce dal carcere perché si è scontata la pena e si è iniziato un percorso di recupero. Vero. L’ultimo indulto è stato nel 2006. Che effetti ha avuto? La storia ci ha dimostrato che non è servito assolutamente a nulla. Sono usciti 20 mila detenuti e dopo tre anni siamo tornati allo stesso numero di popolazione carceraria. Giustizia: carcere e dignità… vie sicure, errori da evitare di Paolo Borgna Avvenire, 11 ottobre 2013 Una premessa di metodo: come sbaglia chi pensa a provvedimenti generali di clemenza avendo in mente di salvare Silvio Berlusconi, allo stesso modo sbaglia chi esclude tali provvedimenti al solo fine di evitare benefici in suo favore. Cesare Beccaria diceva che “la clemenza e il perdono diventano meno necessari a misura che le pene divengono più dolci”. E riteneva dunque “felice la nazione” in cui la clemenza potesse essere esclusa, come conseguenza della “dolcezza delle pene”. Purtroppo, non siamo una “nazione felice”. E il nostro sistema carcerario ha bisogno, ciclicamente, di interventi straordinari di clemenza. Ce lo dicono non solo la corte di Strasburgo, il capo dello Stato e il ministro della Giustizia ma tutti coloro (dai direttori di carcere ai volontari) che quotidianamente sono a contatto con la realtà penitenziaria. Se si leggono le sentenze con cui Strasburgo condanna l’Italia (sentenza Sulejmanovic del 2009 e Torreggiani del 2013) si vedrà che la Corte addebita al nostro sistema carcerario “trattamenti inumani e degradanti” non solo per la ristrettezza degli spazi a disposizione di ciascun detenuto, ma per la gestione ordinaria del carcere: eccessiva chiusura delle celle ed esclusione del detenuto da spazi comuni; mancanza di refettori, di opportunità lavorative e di studio; insufficiente ventilazione o illuminazione delle celle. In poche parole: la Corte europea dei diritti dell’uomo ci dice che la nostra principale violazione è di aver tradito la nostra legge. Una legge che già c’è: l’ordinamento penitenziario del 1975, che - in attuazione dell’art. 27 della Costituzione - prevede che il trattamento penitenziario debba “assicurare il rispetto della dignità della persona”; e a tal fine disciplina caratteristiche dei locali, igiene, trattamento sanitario, istruzione, lavoro, apertura verso la comunità esterna. Su questi punti noi siamo carenti. Non sempre: ci sono direttori di carcere (e questo giornale ne ha parlato) che, facendo salti mortali, riescono ad avere carceri con celle chiuse solo di notte, laboratori, palestre, corsi di studio, apertura alla società e all’università. Ma, accanto a queste realtà positive, abbiamo realtà infernali, che gli avvocati delle Camere penali e le associazioni che si occupano di carcere puntualmente denunciano. Su questa realtà devono incidere gli interventi strutturali chiesti dal presidente Napolitano: estensione delle pene alternative, ricorso al carcere come extrema ratio, effetto meno rigido della recidiva, attuazione della riforma del ’75, costruzione di nuove carceri. In particolare, abbiamo bisogno di carceri a "bassa sicurezza" e semi-aperte, in cui scontino la pena condannati a sanzioni lievi (e dunque con basso rischio di evasione) che possano essere ammessi al lavoro esterno (che, grazie alla recente legge n. 94 del 2013, può essere anche “volontario e gratuito”). Accanto a questi interventi strutturali potranno esserci provvedimenti eccezionali di clemenza. Imparando dagli errori del 2006. Quando un indulto forse troppo generoso (tre anni, invece dei due di tutti i precedenti condoni) non tenne conto che, grazie ai riti alternativi, una pena di tre anni viene oggi spesso inflitta anche per reati molto gravi e magari seriali; e dunque azzerò completamente la pena per fatti (rapine, furti in abitazione, spaccio non modesto di droga) che affliggono particolarmente i ceti più deboli. Errore aggravato dal fatto che questo generoso indulto non fu accompagnato (come è sempre avvenuto) da un’amnistia per i fatti meno gravi, che (cancellando il reato) avrebbe sfoltito i fascicoli pendenti nei tribunali. Con il risultato che i giudici dovettero lavorare inutilmente: celebrando processi che, in caso di condanna, infliggevano una pena che contemporaneamente veniva dichiarata condonata. Ultima annotazione: amnistia e indulto sono decisi dal Parlamento con maggioranza dei due terzi. Ogni legge di amnistia e indulto prevede reati a cui il provvedimento non si applica. E l’elenco dei reati esclusi è cambiato, di volta in volta, in considerazione della gravità dei fenomeni e della sensibilità dell’opinione pubblica del momento. È facile prevedere che, su questo punto, il confronto in Parlamento sarà aspro e tutti possiamo immaginare perché. La strada verso l’amnistia è dunque in salita. Anche per questo, gli interventi “strutturali” suggeriti dal presidente Napolitano appaiono ancora più indispensabili: perché segnerebbero l’inizio di una nuova fase e renderebbero amnistia e indulto socialmente più accettabili. Giustizia: indulto e amnistia…. Travaglio e quella morale un po’ reazionaria di Massimo Adinolfi L’Unità, 11 ottobre 2013 C’è un argomento, di sana e robusta costituzione, che si può sempre mettere avanti, per contrastare qualunque proposta di indulto e amnistia, in ogni tempo e in ogni luogo formulata: chi ha sbagliato deve pagare. Va detto proprio così, senza giri di parole, senza neppure rivestimenti giuridici di sorta: al fondo, non si tratta che di questo. Un bisogno di giustizia non elaborato, a cui anzi ogni ulteriore elaborazione toglierebbe chiarezza e rigore. Ed è un peccato che Marco Travaglio giri tanto intorno al nocciolo vero della questione, tirando in ballo Berlusconi, e il tentativo di mandarlo libero, non potendolo più mandare assolto. È un peccato, perché il pezzo condito dal sarcasmo, dalla derisione e dall’indignazione Travaglio lo detta ogni giorno, lo ripete da anni, e sarebbe in grado di scriverlo anche in caso di collisione di un meteorite sulla Terra: tutti scappano, vuoi vedere che il meteorite è precipitato per consentire a Berlusconi di farla franca? Neanche l’orbita di un meteorite potrebbe sfuggire alla vigilanza di Travaglio, figuriamoci il presidente Napolitano. Ma sfrondate l’articolo di Travaglio di tutto quello che appartiene al repertorio, e vi troverete quella dura ed elementare verità morale: chi ha sbagliato deve pagare. Punto. Walter Benjamin scomodava il mito per spiegare in quale vicinanza questo ruvido e inflessibile senso di giustizia si tiene con la vendetta, ma non c’è bisogno di alcun corredo di favole mitiche per avvertire questa inquietante prossimità: basta tenere ben desto tutto ciò che nella coscienza moderna del diritto ha portato il senso di umanità e il rispetto della dignità della persona. Ma se umanità e dignità vi appaiono semplici imbellettamenti, formule da azzeccagarbugli, meri pretesti, pallide scuse o addirittura veri e propri imbrogli, e insomma maniere per sottrarre alla giustizia la sua inesorabile severità, allora ritroverete un’altra volta, nella sua forma più pura, la verità di Travaglio: chi ha sbagliato deve pagare. Punto. La troverete dove la trova chi accantona qualunque considerazione moderna di filosofia della pena: e cioè dalle parti della più cieca reazione a codesta modernità. E così non c’è sovraffollamento delle carceri che tenga. Non c’è trattamento degradante, non c’è condizione al limite della tortura, non c’è contrasto coi principi costituzionali che valga un messaggio del presidente della Repubblica alle Camere: chi ha sbagliato deve pagare. Punto. È così semplice, così evidente: deve stare in carcere. Deve marcire in galera (perché non c’è espressione più appropriata, viste le condizioni detentive dei nostri penitenziari). Purtroppo però di verità morali ce n’è più d’una, altrimenti i filosofi non avrebbero di che campare. Così, per ogni implacabile giustizialista che brandisce con la necessaria spietatezza la sua verità, e quindi pure per il principe di tutti loro, Travaglio in persona, si troverà sempre qualcuno che di verità ne conoscerà almeno un’altra: è più ingiusto commettere ingiustizia che subirla. E dunque non si può commettere ingiustizia neanche per riparare a un torto. Ma il giustizialista vendicatore non vuol sentir ragioni: vuol vedere tutti in galera, tutti quelli che hanno “grassato e depredato l’Italia”. Questo sentimento è così prepotente, che perfino Berlusconi diventa uno dei tanti. Agli occhi di Travaglio, il che è tutto dire. E se per tenerli tutti in galera bisognerà sacrificare l’umanità della condizione carceraria tanto meglio: in fondo non si tratta che di delinquenti (o detenuti in attesa di giudizio, anche se Travaglio questi poveri cristi nemmeno li menziona). E se poi nei toni, nell’immagine di un’Italia “paradiso dei delinquenti” dove gli immigrati clandestini vengono a frotte perché sanno che possono “farla franca”, si finisce col cadere nei luoghi comuni del leghismo più becero o della destra più reazionaria, poco importa: chi ha sbagliato deve pagare. Punto. Giustizia: l’amnistia tra “questione carceri” e questioni personali di Ines Tabusso Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2013 Il sovraffollamento delle carceri italiane porta alla mancanza di spazi minimi di vivibilità per i detenuti e, secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha condannato l’Italia,“il livello di sovraffollamento in un carcere, o in una parte particolare di esso potrebbe essere tale da essere esso stesso inumano o degradante da un punto di vista fisico”. Lo stesso problema affligge da anni la California e il 23 maggio 2011 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso in favore di una sentenza di una corte federale del 2007 che ordinava al governatore Jerry Brown di risolvere entro due anni il problema dell’affollamento delle carceri, in quanto le condizioni dei detenuti violavano i diritti garantiti dall’Ottavo Emendamento, che parla di “cruel and unusual punishment”. La Cedu e la Corte californiana hanno posto dei termini entro i quali la questione va, in un modo o nell’altro, risolta. Risulta quindi interessante confrontare i tentativi progettati o messi in atto nei due paesi e analizzare i motivi alla base di orientamenti diversi o, addirittura, opposti. In California, il governatore Brown si trova di fronte a scelte che avranno dirette conseguenze sulla sua situazione personale: se non ottempererà a tutte le prescrizioni della Corte, riducendo la densità dei detenuti nei termini stabiliti da una recente proroga, sarà incriminato per oltraggio. D’altra parte, se varerà qualcosa di simile a un indulto o ad una amnistia, potrà rinunciare ad un altro mandato per sé o per il suo partito perché, nella sua campagna elettorale del 2010, aveva promesso di risolvere il problema delle carceri non liberando i detenuti, ma aumentando la capienza degli istituti. L’impegno aveva tranquillizzato il potente sindacato delle guardie carcerarie, preoccupate all’idea di perdere benefici e posti di lavoro, e quindi indotte a finanziare la campagna elettorale di Brown con un assegno piuttosto consistente. Per sovrappiù, dopo l’elezione, i finanziamenti delle corporations che controllano le carceri private si sono spostate in parte sui politici democratici al governo, dai quali si aspettano qualche appalto. Insomma, in California, non c’è posto per altre soluzioni che prevedano depenalizzazioni o il rilascio di detenuti, nemmeno di quelli ritenuti inoffensivi come i più anziani e malati o quelli che hanno commesso reati particolarmente lievi, perché il carcere è un business per troppi elettori e finanziatori e, di conseguenza, per i politici. Dunque più carceri e, siccome non ci sono tempo e denaro per costruirne di nuove, vanno bene anche le carceri delle contee e quelle private esistenti in California o, se solo la Corte lo permettesse, addirittura in altri Stati. In Italia pare invece che non esistano altre vie per svuotare le carceri che non siano indulti o amnistie. Il Parlamento sembra sordo a proposte sensate come quelle del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri che ieri mattina, a Radio 24, chiedeva che cosa hanno fatto i politici per risolvere il problema dopo l’indulto del 2006, e perché sono state chiuse le carceri di Pianosa e dell’Asinara dove potevano stare i detenuti del 41 bis, e perché in questi anni non sono stati fatti accordi bilaterali con Paesi come la Romania e la Tunisia per trasferire nella galere patrie i detenuti stranieri, che in Italia sono ben ventimila, visto che in Romania e Tunisia, che sono prevalentemente i paesi d’origine dei detenuti nelle carceri italiane, il mantenimento in galera costa 10 euro al giorno, contro i nostri 300, e perché non si cerca di recuperare i tossicodipendenti in comunità terapeutiche, invece di rinchiuderli in carcere. No, ai politici italiani piace l’amnistia, tanto da far venire il sospetto che qualche motivo di carattere personale debba esistere anche per loro. Giustizia: Rita Bernardini; sinistra, perché non capisci che la nostra battaglia è anche tua? di Daniel Rustici Gli Altri, 11 ottobre 2013 Il lancio dei referendum del Partito Radicale sulla giustizia ha contribuito a fare tornare il tema dei diritti dei detenuti al centro del dibattito pubblico. Persino il Presidente Napolitano ha speso recentemente parole in merito. Per capire se possiamo sperare in un reale miglioramento del pianeta giustizia ne parliamo con l’ex segretaria radicale Rita Bernardini che da sempre si spende in prima persona sulla questione delle carceri e del garantismo. Dopo anni di immobilismo sulla giustizia possiamo finalmente esclamare: “(qualcosa) eppur si muove!”? Sicuramente la tenacia di Marco Pannella nel portare avanti la battaglia non-violenta sulle carceri sta cominciando a dare i propri frutti, non abbiamo ancora raggiunto gli obiettivi che ci siamo prefissati ma dopo anni che si chiedeva un intervento deciso del Capo dello Stato sulla materia, qualcosa sembra muoversi per davvero. Ho trovato importante poi la scelta dei termini fatta da Napolitano nel suo discorso: ha parlato infatti di “obbligo” di sanare la vergognosa situazione carceraria. Quando si lotta per l’amnistia, l’indulto, il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti non è per una stramberia da radicali ma proprio per un obbligo, un dovere che bisogna assolvere se vogliamo definirci stato democratico e di diritto. Ha fatto molto scalpore la scelta di Pannella di “ingaggiare” Berlusconi come testimonial della vostra campagna referendaria. È una scelta che rivendica o pensa che sia stato un passo falso quello di rischiare di sovrapporre la questione del garantismo con i problemi giudiziari personali del Cavaliere? In questo regime basato sul furto di informazione e di conoscenza, si grida sempre allo scandalo quando qualcuno cerca di informare i cittadini. Guardiamo alla sostanza: dopo che Berlusconi ha firmato tutti i nostri referendum (e sottolineo tutti, compresi quelli che vogliono abrogare leggi varate dai suoi governi!) ai banchetti si sono cominciate a formare le file e non solo di berlusconiani. Più che di Berlusconi mi preoccuperai della latitanza delle sinistre su temi che dovrebbero riguardare chi si definisce progressista. L’apporto alla battaglia di partiti come Sel e i socialisti, che pure avevano appoggiato alcuni quesiti, è stato quasi nullo. Forse perché questi partiti hanno paura di dare anima e corpo per battaglie che in Italia vengono considerate di destra? È proprio questa la cosa drammatica! La sinistra non dice mezza parola su temi come l’abolizione dell’ergastolo o sulla separazione delle carriere (una proposta, tra l’altro, che era fortemente condivisa anche da Falcone). Al massimo la sinistra ne chiacchiera nei convegni di queste cose, ma quando c’è da lottare sparisce. Il problema della delinquenza e delle carceri non è scollegato da quello della crisi economica e in generale delle condizioni sociali. Non è tempo anche per il Partito radicale di mettere in campo proposte per affrontare, radicalmente appunto, la questione sociale? Noi crediamo che per rilanciare l’economia sia necessario liberarla dalle ingessature, dal controllo partitocratico; salo così si potranno investire risorse ingenti per un welfare che si occupi degli indigenti. Un welfare che sia però produttivo e reale: non possiamo più permetterci di dare, ad esempio, pensioni di invalidità a chi non ne ha diritto. La spesa pubblica senza freni ci ha portati a creare il terzo debito pubblico più grande al mondo. Dobbiamo partire dal taglio degli sprechi. Le faccio un esempio concreto: nel carcere di Agrigento c’è un padiglione quasi terminato che da tempo è inutilizzato: oltre allo schiaffo morale ai detenuti costretti a vivere come sardine in scatola si aggiunge lo spreco di risorse dei cittadini! Tra i quesiti referendari ce ne sono anche alcuni che trattano il tema dell’immigrazione. Anche alla luce della recente tragedia di Lampedusa, non trova ipocrita l’atteggiamento di chi ha voluto e sostenuto le leggi xenofobe sul tema che voi volete abrogare e poi piange le persone morte mentre scappavano da guerre e ingiustizie? Certo, ma trovo ipocrita anche la sinistra che si dice a favore di leggi migliori per l’immigrazione e poi ci caccia dalle feste dell’Unità quando raccogliamo le firme per abrogare le norme razziste. Del resto Bersani, nell’ultima campagna elettorale, disse che delle istanze dei Radicali se ne poteva anche fare a meno perché lui voleva una legislatura tranquilla. Si è visto come è andata a finire la legislatura tranquilla. Mi verrebbe da dire “ben gli sta” se non fosse che poi i conti li pagano i cittadini. È ottimista o pessimista sul successo dei referendum? Nel corso della mia vita politica ho imparato ad abbandonare le categorie di ottimismo e pessimismo. Sono e siamo tutti molto determinati. Giustizia: un diverso sistema delle pene non contraddice il diritto alla sicurezza di Anna Rossomando Europa, 11 ottobre 2013 Il messaggio di Napolitano alle camere ha il grande merito di aver riproposto all’attenzione del legislatore il dramma delle carceri, di cui ha parlato con passione e senza secondi fini. È di conforto, per chi del tema si occupa da sempre, che ci sia un appello così pressante per scuotere le coscienze e arrivare a una soluzione. Il presidente della Repubblica ha indicato una strada in parte già intrapresa dal parlamento, con l’approvazione dei recenti provvedimenti in tema di pene alternative e correzioni di automatismi frutto della legislazione passata. Una legislazione - qui sta la contraddizione evidente in cui si trova il centrodestra, che l’ha in gran parte determinata - molto improntata a un’idea securitaria per la quale basta prevedere nuove fattispecie di reato o inasprire le pene per dire di aver fatto qualcosa per la sicurezza dei cittadini. Un’idea sbagliata di cui è figlia, tra l’altro, l’introduzione del reato di immigrazione clandestina, non prevista dalla legge Bossi-Fini sull’immigrazione ma inserita nel “pacchetto sicurezza” dell’allora ministro dell’interno Roberto Maroni. Con i recenti provvedimenti, in questi ultimi mesi - alcuni d’iniziativa parlamentare come il ddl sulla messa alla prova e pene alternative al carcere, altri frutto del lavoro del ministro Cancellieri - si è impostata la questione nei termini corretti, perché essi tendono a un sistema nel quale la detenzione in carcere sia l’extrema ratio e non l’anticipazione di una condanna che ancora nessun giudice ha irrogato, o il modo più facile per correggere i comportamenti di chi ha un debito con la società che potrebbe essere onorato in altro modo, con percorsi alternativi che mirino a restituire alla società una persona migliore. A noi pare sensato proporre una soluzione strutturale al problema del sovraffollamento degli istituti di pena, rimuovendo le leggi (come si è cominciato a fare due giorni fa) che hanno contribuito in maniera determinante a creare il problema: la legge Bossi-Fini sull’immigrazione e la legge Fini-Giovanardi sul consumo di droghe. Crediamo che il parlamento e il governo possano e debbano utilmente impegnare le loro energie per completare le riforme già in parte avviate. La discussione che faremo nella commissione giustizia e in aula a partire dal messaggio del capo dello stato sarà un’ottima occasione per impostare il tanto lavoro che resta da fare. È urgente intanto individuare in concreto quali sono i reati che provocano il sovraffollamento delle nostre carceri e quali sono le soluzioni “altre” , anche per tutelare la sicurezza dei cittadini. Un diverso sistema delle pene, più umano e volto al recupero della persona, non è in contraddizione con il diritto alla sicurezza di tutti. Con questo approccio, si dovranno quindi definire i contorni di eventuali provvedimenti di clemenza, che a quel punto interverrebbero in un quadro complessivamente mutato: non più uno svuota-carceri provvisorio, che esaurirebbe i suoi benefici nel giro di pochi mesi com’è avvenuto in passato (ad esempio con l’indulto del 2006), bensì un intervento complementare a una legislazione migliore di quella che abbiamo ora. È bene chiarire subito - è stato già fatto dal Pd ma repetita juvant - che non si tratta di porre in essere alcuno scambio sulla giustizia, né si può pensare che questa fosse la motivazione che ha spinto a intervenire il presidente Napolitano. Anche perché la delimitazione del perimetro di qualsiasi provvedimento di clemenza spetta al parlamento. Cerchiamo dunque, tutti, di valutare l’alto monito del capo dello stato come merita, cioè come l’invito a farci carico di un problema drammatico con serietà e responsabilità. Così renderemo migliore la giustizia, della quale è ora che si possa ricominciare a discutere lontano dai cancelli di Arcore. Giustizia: se Berlusconi offre un’occasione… contro la sub-cultura punitiva di Marco Bascetta Il Manifesto, 11 ottobre 2013 “Amici miei, diffidate di coloro che mostrano una forte propensione a punire!”. Così parlava lo Zarathustra di Nietzsche. E di costoro, nella stagione dell’allucinazione securitaria e disciplinare, l’Italia è stata sovraffollata quanto le sue galere. Dai sindaci sceriffi (di destra e di sinistra), alle maggioranze parlamentari, ai presidenti della repubblica che firmavano senza battere ciglio leggi infami. Da ogni angolo del paese si reclamava la “certezza della pena”. Non altrettanto successo riscuoteva la “certezza” che questa pena non assumesse forme degradanti e disumane. Come è poi puntualmente accaduto nell’indifferenza generale, quando non in consonanza con lo spirito di vendetta dei peggiori istinti popolari. Fino al punto in cui Giorgio Napolitano, di fronte alla condanna europea di una condizione carceraria spintasi ben oltre qualsiasi soglia di sopportabilità, rimetteva in campo la questione urgente dell’indulto e dell’amnistia. Trovando questa volta ascolto in un centrodestra destabilizzato dalla vicenda giudiziaria di Silvio Berlusconi. E scontrandosi con le barricate punitive erette dalla Lega e dal Movimento 5 stelle. Converrà allora sgomberare il campo dagli equivoci e dalle apparenze. Il fatto che il cavaliere possa trarre vantaggio da una misura di indulto o di amnistia ( circostanza per nulla certa) è solo un pretesto. La verità più profonda è che entrambe queste forze politiche non vogliono che nessuno esca di galera quali che siano le condizioni della sua detenzione. Se da parte leghista la moltiplicazione dei reati e l’inasprimento delle pene costituiscono una solida tradizione forcaiola, da parte grillina è un culto del tutto acritico della legalità vigente e la pulsione a contrastare in termini più punitivi che politici i privilegi della “casta” a ispirare la guerra santa contro indulto e amnistia. Fino a partorire la brillante idea di riaprire l’Asinara, la nostra Guyana sarda, e Pianosa. Il vernacolo dei nostri Savonarola, piazzaioli e cittadini-parlamentari non fa che veicolare, rinvigorendolo, un vecchio ritornello: “In galera ci stanno i delinquenti ed è bene che ci restino”. È questa subcultura punitiva, dominata dalla frustrazione e dal risentimento, il primo nemico da battere. L’idea di colpirne 64.758 per punirne uno. Non riesco a immaginare un terrorismo abbastanza efferato da immaginare anche lontanamente una siffatta proporzione. Non vi è dubbio, tuttavia, che i voti del centrodestra a favore di un provvedimento di indulto o di amnistia siano vincolati al fatto che questo comporti, almeno parzialmente, una via di uscita per Berlusconi. Questa è la realtà della politica, questi i rapporti di forza parlamentari. Questa, infine, la situazione da sfruttare, se si hanno a cuore le sorti delle tante vittime di politiche sciagurate. Come? Presentando a un centrodestra forzatamente convertito al garantismo e all’indulgenza il conto più salato possibile: abolizione della Bossi-Fini (qualora non bastasse la strage di stato a Lampedusa), abolizione della Fini-Giovanardi (la legge riempi-galere per eccellenza), abolizione della ex-Cirielli (la legge che marchia a fuoco la recidiva), abolizione del reato (ereditato dal fascismo) di “saccheggio e devastazione”, abolizione dell’articolo 41bis (carcere duro), introduzione immediata del reato di tortura. Esattamente tutto quello che i 5 stelle e la Lega, Berlusconi o non Berlusconi, aborriscono (in tutto o in parte per quanto riguarda M5S), che il Pdl dovrebbe ingoiare a fatica e suo malgrado, e che il Pd volentieri sacrificherebbe sull’altare della “responsabilità” e degli umori di un elettorato che ha ampiamente contribuito a diseducare in un ventennio di antiberlusconismo parolaio. Non cogliere, pur nelle sue forme spurie, compromissorie, strumentali e perfino ciniche, questa imprevista occasione di civilizzazione del paese sarebbe un delitto. Essendo, fra l’altro, la resurrezione politica del Cavaliere (non la tenuta della sua dottrina e della sua pratica, solidamente radicate nel paese) piuttosto improbabile. Ma il quadretto edificante dell’Italia punitiva e caritatevole non sarebbe completo se ai manettari non si affiancassero i “redentori”, quelli che reclamano in affidamento il Berlusconi condannato, certi di poterlo convertire e rieducare. Dopo il revenant Mario Capanna, è giunta la proposta di don Antonio Mazzi che lo vorrebbe nella sua comunità per togliersi la soddisfazione di “tirarlo giù dal letto” e mandarlo a “pulire i bagni”. Non un tossicodipendente qualsiasi, ma il più mastodontico dei cammelli da far passare attraverso la cruna dell’ago. È proprio vero, per tornare al nostro Zarathustra, che dietro la maschera della carità si celano orgoglio e presunzione, che attraverso la retorica dell’umiltà si insinua il potere sadico di umiliare. Al quale ci auguriamo che Berlusconi sia sottratto, insieme all’ultimo tossicodipendente perseguitato dalla Fini-Giovanardi. Giustizia: “Quando hanno aperto la cella”, istituzioni totali, la morte non è mai marginale di Niccolò Nisivoccia Il Manifesto, 11 ottobre 2013 Torna in libreria “Quando hanno aperto la cella” di Luigi Manconi e Valentina Calderone. I destini di individui che sono entrati in carceri, ospedali psichiatrici giudiziari, questure e non ne sono più usciti vivi. Le tante storie di sopraffazione di uno Stato che viola i diritti dei suoi cittadini, invece di difenderli Sono le donne a lottare contro l’oblio, consegnando a una dimensione pubblica le vite dei famigliari È tornato in libreria, in una nuova edizione aggiornata, Quando hanno aperto la cella, di Luigi Manconi e Valentina Calderone (il Saggiatore, pp. 262, euro 12). Il libro, come osserva giustamente Gustavo Zagrebelsky in una delle due prefazioni (l’altra è di Alessandro Bergonzoni), squarcia un velo “sulla vita del nostro paese perlopiù sconosciuta”: lo squarciava già nell’edizione originaria, risalente al 2011, e lo fa tuttora, perché “perlopiù sconosciuta” è la vita del nostro paese nella dimensione dei rapporti fra il cittadino e le istituzioni depositarie del potere di limitarne la libertà e di esercitare la repressione. Di questo, infatti, ci parla il libro: di persone morte nelle carceri, nelle questure, negli ospedali psichiatrici giudiziari. Di persone che entrano vive nelle une o negli altri, e ne escono morte. Di destini personali ma esemplari al tempo stesso, perché non si tratta solo di storie di individui che il comune sentire è spesso incline a considerare marginali o sovversivi: quasi che la morte di un individuo definibile come marginale fosse tale a sua volta, nel flusso delle nostre esistenze di cittadini ben piantati nella società. No: si tratta invece anche di storie che assomigliano in tutto per tutto a quella di chiunque. La vita di chiunque, ci dice quindi Quando hanno aperto la cella, potrebbe improvvisamente rivelarsi nella sua debolezza e fragilità e rimanere, nuda, esposta alla sopraffazione e alla violenza - oltretutto a una violenza, quale quella di Stato, contro la quale non esiste difesa, proprio perché esercitata da chi alla brutalità dovrebbe, al contrario, porre istituzionalmente rimedio. Sopra lo Stato esiste solo lo Stato; ma se è lo Stato stesso, quando siamo nelle sue mani, a violare letteralmente la nostra incolumità, fisica e non solo morale, a chi ci rimane da chiedere protezione? Nelle bellissime pagine introduttive, di carattere generale, Luigi Manconi e Valentina Calderone individuano almeno due elementi comuni a tutte le vicende raccontate. Il primo è rappresentato da una tendenza, rivelata da ciascuna di queste storie, “verso un più ampio e articolato sistema del controllo sociale formale-istituzionale”, a “conferma del fatto che sembra estendersi l’area, diventata unica e omogenea, delle istituzioni e delle misure finalizzate alla repressione della devianza o della irregolarità e marginalità sociale”. Ed è una tendenza ulteriormente aggravata da un analogo progressivo ampliamento dell’area di marginalità, per effetto del quale l’essere portatori di una qualunque forma di disagio fisico o mentale diventa infine un elemento di colpa in sé e per sé, come dimostrano bene ad esempio le parole che Carlo Giovanardi, all’epoca sottosegretario con delega alla famiglia e alle tossicodipendenze, aveva pronunciato nel 2009 a poche settimane dalla morte di Stefano Cucchi, definendolo “anoressico tossicodipendente”, “larva zombie”. Tutto ciò, suggeriscono gli autori, non è il frutto necessariamente di una strategia consapevole, bensì di un clima culturale che influenza non solo le azioni dei governi ma anche il comune sentire e lo sguardo sugli altri della pubblica opinione; e non a caso le carceri e gli ospedali psichiatrici giudiziari, sempre più, si stanno spogliando di finalità rieducatrici e risocializzanti e permangono come luoghi in cui, secondo la celeberrima formula di Foucault, si può e si deve solo sorvegliare e punire (su questo hanno scritto pagine illuminanti Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, nel loro recente Oltre la paura). Se Quando hanno aperto la cella squarcia un velo su realtà poco conosciute, insomma, è proprio perché costringe chi lo legge a guardare all’interno di questi luoghi e a scoprirvi i propri timori e ossessioni rimosse. Ma c’è anche un elemento virtuoso comune a quasi tutte le storie narrate dal libro, ed è il protagonismo femminile che le contraddistingue: sono, infatti, loro ad assumere, quasi sempre, il ruolo e il peso delle testimoni. Madri, mogli e compagne, figlie, sorelle: sono loro a far conoscere le storie di violenza subìte dai familiari e poi a combattere contro l’omertà che altrimenti le coprirebbe e le oblierebbe, in nome però non di un desiderio di vendetta o dell’invocazione della pena per la pena, ma di un’aspirazione alla verità che Luigi Manconi e Valentina Calderone definiscono, evocando Antigone (nell’interpretazione offertane in particolare da Massimo Cacciari), “tragica” e “politica” tout court, perché “il loro dolore più intimo” viene tramutato “in una risorsa pubblica”. E, forse, solo le donne potevano e possono essere capaci di una simile “elaborazione pubblica del lutto”. Hanno ragione Manconi e Calderone, essendo le donne, come già osservava Virginia Woolf (ricordata di recente da Nadia Fusini, a questo riguardo, nel suo bellissimo Hannah e le altre), dotate di un “altro sguardo”. Ma, infine, è alle storie nude e crude, alle singole biografie personali che risulta dedicata la parte più cospicua di Quando hanno aperto la cella; ed è anche in questo lasciar parlare i fatti la potenza del volume, pure al di fuori di qualunque considerazione teorica e generale. Le storie sono tante, e non sono tutte. Alcune hanno ormai il valore di simboli: come quella di Giuseppe Pinelli o di Franco Serantini, al quale molti anni fa Corrado Stajano aveva dedicato un libro memorabile (Il sovversivo). Erano altri tempi, ma ad allora Manconi e Calderone fanno risalire una decisiva mutazione della “tipologia della mobilitazione sociale” e della “fisionomia dei suoi attori”, per effetto della quale cambiò anche, di riflesso, “l’atteggiamento e la cultura degli apparati titolari del monopolio legittimo della forza”; e se è vero, come si è detto, che ogni storia di violenza istituzionale è figlia di un clima culturale, è di questa mutata cultura che le storie di violenza successive a quelle di Pinelli o Serantini sono ancor oggi conseguenza. La storia di Federico Aldrovandi, ad esempio, o di Michele Ferrulli, di Marcello Lonzi, di Katiuscia Favero, di Aldo Bianzino, di Giuseppe Uva, di Francesco Mastrogiovanni, di Stefano Cucchi; e molte altre ancora. Alcune sono note, di cui si molto è parlato, altre meno. Tutte sono identiche tanto nella loro drammaticità quanto nella loro opacità: la fine è sempre conosciuta, perché ciascuna di queste vicende si conclude con la morte del protagonista, ma le cause e le circostanze di quel decesso non sono mai chiare. Molto spesso la morte appare come un suicidio, ma poi le cose non tornano. Altre volte, appare la conseguenza di una patologia pregressa o congenita, ma neppure così è tutto spiegabile, anche perché ai segni dell’apparente suicidio si accompagnano quasi sempre altri segni, di lesioni e percosse subìte. E mai, nelle storie raccontate, mai lo Stato - indipendentemente dalla responsabilità morale o giuridica dei suoi rappresentanti, di volta in volta - si mostra compassionevole nei confronti dei familiari, cui la morte viene sempre comunicata, nella migliore delle ipotesi, in toni rigidamente burocratici. Basti dire del modo in cui la morte di Stefano Cucchi venne comunicata a sua madre: attraverso la notifica del decreto del pubblico ministero che autorizzava la nomina di un consulente di parte per l’autopsia. Mai, infine, la sede giudiziaria ha rappresentato una risposta adeguata alle istanze di giustizia dei familiari, dei sopravvissuti; e, per certi versi, non bisogna stupirsi, se il processo è il luogo dell’applicazione delle norme di diritto, che sono fredde (anche senza voler arrivare ad aggiungere, con Simone Weil, che inoltre si fondano sulla forza), e della giustizia formale, la quale non sempre coincide con la giustizia sostanziale. Ma rimane allora e comunque il dato, doloroso, dell’incapacità dello Stato di offrire altri luoghi, altri spazi a queste istanze “tragiche” e “politiche”. Giustizia: la Camera valuta messaggio Colle, giovedì prossimo audizione della Cancellieri Agi, 11 ottobre 2013 Giovedì prossimo, nell’ambito del lavoro di approfondimento sul messaggio del capo dello Stato relativo alla situazione carceraria, si svolgerà l’audizione del guardasigilli Anna Maria Cancellieri. È quanto stabilito nell’ufficio di presidenza dalla commissione Giustizia, che ha così già dato corso a quanto chiesto ieri dalla Conferenza dei presidenti di gruppo della Camera. Ne ha dato notizia Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia di Montecitorio. “Fermo restando che ieri sera al Senato hanno deciso di calendarizzare l’esame dei provvedimenti di amnistia e indulto, noi approfondiremo tutti gli aspetti delle tematiche oggetto del documento del presidente della Repubblica”, ha spiegato ferranti. “L’obiettivo è quello di far arrivare all’aula entro il mese una relazione completa e analitica su tutte le misure strutturali sollecitate dal capo dello Stato e non solo sugli interventi straordinari di clemenza”, ha proseguito l’esponente del Pd. “Al riguardo, in commissione Giustizia sarà contemporaneamente accelerato l’esame della riforma delle misure cautelari (uno dei punti toccati nel messaggio del capo dello Stato) già iniziato nel mese di maggio”, ha preannunciato. Giustizia: proposta legge Sel per la liberazione anticipata ai detenuti che leggono libri Dire, 11 ottobre 2013 Introduzione del beneficio penitenziario della liberazione anticipata per chi legge libri. È l’originale idea contenuta in una proposta di legge di Sinistra ecologia e libertà, a doppia firma di Nicola Fratoianni e Daniele Farina, depositata alla Camera il 28 giugno scorso. Il testo è tra quelli che verranno assegnati in commissione Giustizia sul tema carceri e propone di assegnare sconti di pena a fini di rieducazione che sommati potranno dare a chi è sottoposto a una misura cautelare (in carcere o ai domiciliari) alla “liberazione anticipata speciale”. Nella premessa alla legge i due deputati di Sel spiegano: “Nell’ordinamento penitenziario vigente, l’istruzione ha un ruolo di rilievo nel trattamento che accompagna il percorso del detenuto verso la meta della rieducazione e del reinserimento sociale, stabilita dall’articolo 27, terzo comma, della Costituzione. Le condizioni materiali delle carceri non consentono che le previsioni ordinamentali si traducano appieno in opere concrete. Tuttavia, pur nelle condizioni date, incentivare la lettura può costituire, sia per i detenuti che per gli operatori penitenziari, uno strumento utile per fare della formazione culturale un fattore decisivo nell’opera di recupero”. Il testo, continuano Fratoianni e Farina spiegando la proposta di legge depositata alla Camera, “mira appunto a tale obiettivo, riconoscendo una detrazione di pena al detenuto che, individualmente o in gruppi organizzati all’interno del carcere, scelga la lettura del libro come momento di partecipazione al percorso di rieducazione e introducendo, all’uopo, il beneficio della liberazione anticipata speciale. Il nuovo istituto può, peraltro, costituire un efficace incentivo alla partecipazione ai corsi di istruzione” secondo quanto proposto dalla legge n. 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario. La proposta stabilisce che ciascun detenuto ha diritto ad almeno un libro al mese, fornito dalla biblioteca dell’istituto penitenziario o proveniente dall’esterno dello stesso istituto. Periodicamente ci saranno verifiche, anche mediante prove scritte, sull’effettiva lettura di almeno un libro al mese da parte del detenuto. La lettura dei libri può essere organizzata anche in gruppi. In tale caso, la verifica dell’effettiva lettura può essere effettuata collettivamente. Al detenuto (o al condannato che sta ai domiciliari) che supera le verifiche periodiche sull’effettiva lettura dei libri è concessa un’ulteriore detrazione di pena pari a cinque giorni per ogni mese di pena scontata. La detrazione può essere concessa anche per una frazione di pena inferiore al semestre. Lettere: caro Epifani, l’emergenza carceri è una priorità di Luigi Manconi L’Unità, 11 ottobre 2013 Caro segretario Guglielmo Epifani, il messaggio inviato alle Camere dal Presidente della Repubblica chiama tutte le forze politiche a una responsabilità assai impegnativa. Che consiste nel determinare, nelle forme più opportune, una soluzione alla gravissima violazione dei diritti umani che si consuma quotidianamente nelle carceri italiane, affollate fino all’inverosimile di vite mortificate e di corpi accatastati. Le cause di questa situazione risalgono all’uso, potremmo dire, compulsivo della giustizia penale e della reclusione in cella nei confronti di fasce sempre più ampie di emarginazione sociale e di precarietà esistenziale. Tossicomani e stranieri, senza casa e sofferenti psichici, rom e persone precipitate nella scala sociale, non stanno lì per caso. Ma per scelte precise di politica e di politica criminale, che talvolta hanno nome e cognome scritti nelle leggi, tal altra no, ma sempre hanno a che fare con quel travaso di responsabilità e di risorse dal sociale al penale che si è realizzato negli ultimi due decenni. Oggi il carcere è, come mai in passato, uno strumento di sperequazione iniqua e un vero e proprio sistema classista, che ha assunto progressivamente alcune delle funzioni sottratte ai meccanismi di protezione sociale dalla crisi del welfare. Il mutamento di questo stato di cose è uno tra i compiti più significativi che possiamo assegnare a un nuovo governo di centro-sinistra, quando vi saranno le condizioni per formarlo; e, vorrei dire, a un partito democratico come soggetto autonomo, titolare di una propria identità e di un proprio sistema di valori. I giornali parlano di “freddezza del Pd” verso amnistia e indulto, e me ne stupisco: non dovrebbe essere proprio questo un tema capace di “scaldare” idee e passioni e di coniugare equità sociale e tutela dei diritti? Oggi, intanto, ci tocca rispondere all’appello di Giorgio Napolitano. Un appello complesso, e tuttavia puntualmente circoscritto. Non devo certo spiegarlo a te, caro segretario, ma il Presidente non dice semplicemente “amnistia e indulto”. Dice: “si faccia tutto il possibile”, a partire dalle riforme legislative e amministrative in corso di definizione. Ma Napolitano sa che quelle riforme, nell’attuale equilibrio politico, non saranno sufficienti per ridurre nei tempi necessari il sovraffollamento e la perdurante umiliazione della dignità umana che si consuma nelle carceri. E allora dice: amnistia e indulto, ma non senza circoscriverne entità e dimensioni. Un indulto di tre anni risolverebbe il sovraffollamento penitenziario, un’amnistia corrispondente alleggerirebbe gli uffici giudiziari da un carico di procedimenti destinati comunque a estinguersi senza conseguenze sanzionatone. Sulla base di queste indicazioni, è possibile adottare misure di amnistia e indulto che rispondano alla “prepotente urgenza” di cui parlava Napolitano già oltre due anni fa, nel corso di un convegno promosso dai Radicali. Le proposte di legge di cui siamo primi firmatari Sandro Gozi alla Camera e il sottoscritto al Senato quantificano l’indulto in uno sconto di pena di tre anni e delimitano l’amnistia ai reati punibili nel massimo fino a quattro anni di reclusione. Non vi rientrerebbero, quindi, i reati gravi, quelli violenti contro la persona così come quelli contro la cosa e l’interesse pubblico, come la frode fiscale. Infine, sia io che Gozi, anche in ragione della distanza relativamente breve dall’ultimo indulto, escludiamo espressamente che un nuovo sconto possa applicarsi per le medesime pene già parzialmente condonate nel 2006. Tutto ciò, come vedi, sulla base di elementari principi di giustizia ci consentirebbe di rispondere positivamente all’appello del Presidente della Repubblica; senza che ciò possa alimentare in alcun modo il sospetto che quei provvedimenti siano piegati strumentalmente al calcolo privato di chicchessia. Infine, ma non per ultimo, qualche parola merita anche la legittima preoccupazione che c’è in tanta parte del nostro elettorato sulla ineffettività della pena e il rischio di recidiva. Ero sottosegretario al ministero della Giustizia in occasione dell’indulto del 2006 e so che si può fare di più e meglio per l’accoglienza e il reinserimento dei detenuti scarcerati, ma proprio a partire da quel luglio, ho avviato un monitoraggio della misura di clemenza che oggi ci offre risultati assai importanti. Quell’uscita anticipata ha ridotto della metà (esattamente della metà) il rischio della recidiva rispetto agli ordinari percorsi post-penitenziari: gran parte dei detenuti di allora ha ricambiato la fiducia che gli è stata accordata con un, certo difficile, processo di integrazione nella società. Non è anche questo, caro segretario, un buon risultato “di sinistra”? Lombardia: nuove carceri e ristrutturazioni… quante promesse non mantenute di Oriana Liso La Repubblica, 11 ottobre 2013 Carceri ottocentesche che non riescono a stare al passo con i tempi. Carceri progettate negli anni Settanta del secolo scorso, ma già vecchie quando, dopo venti anni, sono state finalmente costruite. Una popolazione che ogni giorno balla sui 9mila detenuti, per una regione che di posti in cella ne ha 6mila: ed è sulla pelle di quelle tremila persone in più - e su quella degli agenti, dei medici, degli educatori - che da anni si susseguono promesse, annunci, progetti. OGNI governo ha sempre promesso di risolvere la situazione carceraria della Lombardia, “la peggiore d’Italia, assieme alla Campania”, stima Luigi Pagano, il vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Senza che, quasi mai, si andasse oltre le promesse, i progetti, con tempi di realizzazione indecifrabili. La cittadella “Un milione e 200mila metri quadri nell’area di Porto di Mare: è qui che sorgerà la nuova Cittadella della giustizia. Gli spazi carcerari passeranno dagli attuali 5.500 metri quadri di San Vittore a 220mila. L’inizio dei lavori è previsto per il 2009”: l’annuncio ufficiale di Comune, Regione e Tribunale è del 2008. San Vittore si chiude - e su quell’area si possono scatenare gli appetiti immobiliari - e si costruisce un grande polo vicino a Santa Giulia. È anche per utopie come questa che la ristrutturazione di San Vittore, per anni, è rimasta in un limbo. Due raggi, il secondo e il quarto, sono chiusi da sei e cinque anni, soltanto in queste settimane si sta iniziando a studiare un progetto di ristrutturazione, che vorrebbe dire come minimo altri 600 posti letto: se ci fossero già oggi, quei posti, vorrebbe dire avere parlare di sovraffollamento per “soltanto” duecento detenuti. Non pervenuta la ristrutturazione del sesto raggio, dove si spartiscono celle ottocentesche transessuali e violentatori. Il carcere cancellato La Casa circondariale di Varese, struttura del 1886 in pieno centro, è stata dichiarata dismessa con un decreto ministeriale del 2001 “in quanto strutturalmente non idonea alla funzione”. Il carcere di via Morandi - anche qui, nulla da stupirsi - è ancora aperto e attivo. Nel 2004 l’allora guardasigilli (leghista) Castelli annunciava l’apertura, entro cinque anni, di una nuova sede da costruire in project financing. Oggi, ammette il provveditore regionale alle carceri Aldo Fabozzi, “siamo nella fase in cui si sta cercando un’area adatta alla realizzazione di un carcere leggero”. A giugno scorso il Consiglio regionale ha fatto un sopralluogo al Miogni: il presidente Cattaneo ha parlato della necessità di ristrutturare il carcere “così si riducono tempi e costi rispetto a una nuova sede”, ventilando l’ipotesi di chiedere la revoca del decreto di dismissione, dopo dodici anni passati invano. Il record negativo Che nel carcere di Busto Arsizio le condizioni di vita dei detenuti siano inaccettabili lo ha stabilito anche la Corte europea, accogliendo il ricorso di 34 detenuti (capienza ufficiale 167 posti, ma si viaggia su medie di 400). Non è vecchio, l’istituto bustocco, ma così com’è non può reggere l’urto di un numero sempre crescente di detenuti, moltissimi quelli di origine straniera, anche per la vicinanza con l’aeroporto di Malpensa (e quindi con trafficanti vari che sbarcano qui). Il piano carceri del 2010 aveva per questo deciso l’ampliamento: altri 200 posti entro il 2012. Un anno dopo quella scadenza, Fabozzi assicura: “La prossima settimana partirà la gara per un ampliamento da 100 posti”. Del resto i soldi stanziati all’epoca per Busto sono stati spostati su Opera (dove sono appena partiti i lavori, attesi da anni, per un nuovo padiglione). I fondi da trovare “Emergenza carceri, nascerà un Verziano bis”, titolavano i giornali bresciani nell’agosto 2011. Un raddoppio della struttura, per chiudere - dopo almeno tre decenni di attesa - il fatiscente Canton Mombello. A giugno 2012 l’allora sindaco Adriano Paroli aveva annunciato trionfante: “Abbiamo individuato l’area giusta (vicino all’altro carcere di Brescia, il Verziano, ndr), ora potrebbero arrivare i finanziamenti dal ministero”. Ad oggi le laconiche risposte, sul progetto di raddoppio con 4-500 nuovi posti, non vanno oltre un “stiamo studiando una soluzione”. Intanto, per dare respiro ai detenuti costretti in pochissimi metri quadri, si sperimentano le celle aperte per qualche ora in più durante il giorno, per sgranchirsi almeno le gambe. Piemonte: Radicali; dopo lettera Napolitano nominare subito Garante regionale detenuti Ansa, 11 ottobre 2013 I consiglieri regionali del Piemonte traggano spunto dal messaggio di due giorni fa del presidente Giorgio Napolitano in materia di carceri e nominino subito il garante regionale delle carceri. Lo dicono i radicali piemontesi Igor Boni e Salvatore Grizzanti, presidente e segretario dell’Associazione Aglietta, che in una nota spiegano di aver inviato a tutti i consiglieri il testo del messaggio di Napolitano dell’8 ottobre scorso a deputati a senatori ‘ma in realtà all’intera comunità nazionale”, dicono. “L’ultimo messaggio alle Camere in materia risaliva al 2002, da parte del Presidente Ciampi - dicono Boni e Grizzanti - basterebbe questo per sottolineare l’estrema importanza di un’iniziativa a cui ha contribuito in maniera determinante la testarda lotta dei radicali, di Marco Pannella innanzitutto. Il Parlamento nazionale dovrà discutere la perimetrazione, per dirla alla Napolitano, del provvedimento di amnistia, il consiglio regionale corrisponda al contenuto del messaggio del presidente nominando da subito il garante”. “Gli oltre 5.000 cittadini detenuti nelle 13 carceri piemontesi, gli agenti di polizia penitenziaria, gli operatori civili - concludono - attendono dai consiglieri regionali un’assunzione di responsabilità all’altezza dei problemi enucleati dal Presidente della Repubblica”. Busto Arsizio: ecco il carcere che ha “provocato” l’intervento sull’amnistia e l’indulto di Alessandro Madron Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2013 Le condizioni “disumane” del penitenziario in provincia di Varese sono alla base della sentenza di Strasburgo che ha mosso l’appello di Giorgio Napolitano. Il direttore: “Tocchiamo il triplo della capienza e manca il personale”. Ma secondo gli operatori i provvedimenti di clemenza non basterebbero a risolvere il problema. “Le condizioni del carcere di Busto Arsizio sono drammatiche, le sardine in scatola sono più comode”. Così il presidente del locale ordine degli avvocati, Walter Picco Bellazzi, sintetizza la difficile situazione in cui si trovano i detenuti della casa circondariale del basso varesotto, la stessa che a gennaio di quest’anno era finita al centro di una sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, che aveva condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante di alcuni carcerati. Così il carcere di Busto Arsizio è diventato suo malgrado il simbolo del malessere dell’intero sistema carcerario italiano. Proprio quella condanna arrivata da Strasburgo, infatti, ha indotto il presidente della Repubblica a rivolgersi alle Camere per chiedere interventi tempestivi, compresi l’amnistia e l’indulto. Ma come si vive nel carcere condannato dall’Europa? A tutti gli effetti i numeri della popolazione carceraria bustocca sono drammatici ed è lo stesso direttore Orazio Sorrentini a confermarli: “Attualmente ci siamo stabilizzati attorno alle 380 unità, a fronte di una capienza di 167, ma in passato abbiamo toccato punte di 450 presenze”. Una situazione che l’avvocato Picco Bellazzi ha visto in prima persona lo scorso mese di luglio, durante una visita insieme ad alcuni parlamentari del territorio: “Spesso non c’è proprio lo spazio per muoversi, con celle che ospitano il doppio o il triplo delle persone che dovrebbero starci, è evidente che serve una soluzione”. La struttura ospita stabilmente più del doppio dei detenuti rispetto alla propria capienza, arrivando nei momenti peggiori quasi al triplo. A complicare la faccenda ci sono la cronica carenza di personale e l’alto tasso di presenze straniere, che superano il 65% del totale. Una condizione ascrivibile alle particolari condizioni in cui opera il carcere: “In prima battuta c’è la vicinanza all’aeroporto internazionale di Malpensa, da dove arrivano circa un quarto degli ingressi - spiega Sorrentini -. Il nostro carcere deve sopperire poi alla condizione critica in cui versa la struttura di Varese (un carcere di fine ‘800, che a fronte di 70 posti ospita un centinaio di reclusi, ndr)”. Rispetto alla situazione di qualche mese fa qualcosa si è mosso: “È in corso un grande riassetto regionale - spiega il direttore -, ci sono stati movimenti da carcere a carcere che hanno riequilibrato la situazione, in più c’è molta collaborazione con la Procura e il Provveditorato, che fanno il possibile per evitare un sovraccarico della nostra struttura”. Tuttavia il contesto, già precario, potrebbe conoscere un nuovo peggioramento, come effetto indiretto dell’accorpamento dei tribunali, che ha visto estendersi la competenza del tribunale di Busto a Rho e Legnano: “Oggi il nostro ufficio matricola ha molto più lavoro perché ci sono più ingressi - spiega ancora Sorrentini -. Da un lato lo Stato modifica la competenza dei tribunali per ottimizzare la spesa, dall’altro però la coperta si scopre proprio sul sistema carcerario”. Su un punto tutti concordano. A Busto si cerca di lavorare bene e di costruire alternative per i carcerati: “Il sovraffollamento del carcere è un dato oggettivo, ma sia l’amministrazione carceraria che gli enti esterni sono sul pezzo e da tempo si impegnano per trovare soluzioni” spiega Barbara Trebbi, presidente del consorzio Sol.Co, che lavora a stretto contatto con i detenuti occupandosi di reinserimento lavorativo. “Quando c’è un territorio che risponde le persone vivono meglio e riescono ad avere prospettive sul futuro”. Dunque a prescindere dal sovraffollamento è importante gettare un seme di speranza nel destino di un detenuto: “In una situazione di sovraffollamento, dove si respira malessere quotidiano e le tensioni sono alle stelle, vanno aumentate queste attività collaterali”. Dei 380 detenuti solo una piccola percentuale riesce a partecipare a programmi di lavoro, nel laboratorio di cioccolateria, in quello di panificazione o in quello di packaging, spiega Barbara Trebbi: “Ampliando le attività si possono migliorare le condizioni e anche la convivenza diventa più facile. In questo quadro indulto e amnistia possono essere una risposta solo se ben gestiti, con le dovute cautele del caso, ma bisogna lavorare su tutti i fronti, non c’è una ricetta magica. Non basta ad esempio costruire nuovi spazi o aprire i cancelli. Ci sono una serie di azioni fattibili che vanno attuate e in concerto”. Anche l’avvocato Bellazzi non vede nell’amnistia una panacea in grado di mettere al riparo il sistema da recrudescenze future: “La premessa deve essere chiara: per risolvere i problemi bisogna investire risorse e mettere personale. Dai tribunali alle carceri. Credo che l’indulto non dia risposte adeguate, se deve essere fatto un atto di clemenza meglio l’amnistia. Però la prima risposta dovrebbero essere le pene alternative, togliendo le limitazioni che ci sono oggi, magari affiancandola a una depenalizzazione di alcuni reati, introducendo sanzioni pecuniarie che possano evitare il carcere”. Secondo il direttore Orazio Sorrentini l’idea di un atto di clemenza darebbe respiro al sistema: “È vero che l’indulto 2006 in sostanza ha fallito, ma in questo caso si parla di amnistia e gli effetti sarebbero più consistenti” sottolineando tuttavia che “resta la grossa incognita di molti soggetti che una volta fuori dai penitenziari non saprebbero dove andare”. La stessa legge svuota carceri a Busto Arsizio non ha prodotto effetti positivi: “Si apriva alla possibilità degli arresti domiciliari, ma non si è considerato che molti detenuti (soprattutto gli stranieri), spesso non hanno domicilio e non hanno una reale alternativa alla detenzione”. Se nemmeno gli atti di clemenza possono essere una risposta adeguata, come si risolve il problema del sovraffollamento? “Un piano per l’edilizia carceraria potrebbe essere una buona soluzione, significherebbe carceri nuove, fatte meglio. Ma assieme all’edilizia carceraria servirebbero maggiori risorse umane per educatori, psicologi, poliziotti e direttori, pensi che io sono in servizio da 16 anni, il mio concorso è stato bandito 18 anni or sono e da allora non ce ne sono più stati per la mia posizione”. Salerno: a Fuorni si sta in piedi a turno, l’obbligo di rimediare al sovraffollamento di Fiorella Loffredo La Città di Salerno, 11 ottobre 2013 “È fatto obbligo”. Il presidente Giorgio Napolitano è stato chiarissimo. “È necessario rimuovere (e al massimo entro maggio - ndr) le cause che violano gli articoli 3 e 6 della carta europea dei diritti dell’Uomo, per la tortura, i trattamenti inumani e degradanti nelle carceri, e l’irragionevole durata dei processi”. Pena, per l’Italia, forti sanzioni da parte della Corte di Strasburgo. Un appello accorato quello del capo dello stato racchiuso in 12 pagine della lettera inviata a la Parlamento due giorni fa. Che potrebbe avere come “testimonial” perfetto il carcere di Salerno. Nella struttura di località Fuorni, a fronte dei 280 posti previsti, sono ristretti oltre 500 detenuti, il 50 per cento dei quali ancora in attesa di giudizio. Qui ogni detenuto ha uno spazio vitale che spesso non arriva ai due metri quadrati e nelle celle si deve rimanere alzati a turno per poter sgranchire un po’ le gambe perché non c’è abbastanza pavimento da calpestare tutti insieme. A scattare la fotografia impietosa della situazione che regna nella casa circondariale di Salerno - che non si discosta poi tanto da quella registrata in molte carceri italiane - è il presidente dell’associazione Radicale “Maurizio Provenza”, Donato Salzano, il quale commenta così le parole di Napolitano: “Danno speranza a tutta la “comunità penitenziaria” in generale e alla “comunità di Fuorni” in particolare, tra le più martoriate del pianeta carcerario italiano, alla lotta nonviolenta dell’intera comunità penitenziaria, di Marco Pannella e dei radicali che attraverso le sei proposte referendarie avanzate, per le quali da tempo si stanno raccogliendo le firme, stanno lottando affinché si ripristini la legalità costituzionale che passa per un indispensabile provvedimento da parte del Parlamento di amnistia e indulto auspicabile entro e non oltre la data indicata dalla Corte di Strasburgo”. Nel mirino dei rappresentanti dei radicali ci sono anche, e soprattutto, ai procuratori della Repubblica e ai giudici che “con troppa leggerezza” emettono ordinanze di custodia cautelare in carcere e i magistrati di sorveglianza che con decisioni spesso molto restrittive vanno a peggiorare di giorno in giorno una situazione che già da tempo ha varcato il limite dell’umana sopportazione. “Non si accorgono che ci sono otto carcerati per cella? Le hanno mai fatte le ispezioni mensili che la legge impone loro?”, si chiede sdegnato Salzano che però, così come denuncia la vergogna di Fuorni, spezza una lancia in favore di un’altra struttura penitenziaria presente nel Salernitano, l’Istituto di custodia attenuata per tossicodipendenti di Eboli. “L’Icatt - sottolinea l’esponente dei radicali - funziona in modo eccellente”. E anche le altre due strutture carcerarie della provincia, quella di vallo della Lucania e quella di Sala Consilina, anche per la tipologia dei crimini di cui si sono macchiati i loro occupanti, non presentano le criticità segnalate, al contrario, nella casa circondariale del capoluogo. Reggio Emilia: sovraffollamento e pochi agenti, c’è un abuso del carcere preventivo di Tiziano Soresina Gazzetta di Reggio, 11 ottobre 2013 Le dodici pagine del messaggio - con cui Giorgio Napolitano ha posto al centro del dibattito politico la “drammatica questione carceraria” - non fanno altro che sfondare una porta aperta relativamente alla situazione che da tempo si trascina nei due istituti penali (il carcere della Pulce e l’ospedale psichiatrico giudiziario) presenti a Reggio in via Settembrini. Il presidente della Repubblica ha chiesto ai parlamentari di pensare all’amnistia e all’indulto come soluzione al sovraffollamento delle celle: a Reggio le valutazioni preoccupate di Napolitano trovano “numeri” (vedi tabella a fianco) che confermano quest’allarme. Rispetto alla capienza massima prevista dietro le sbarre, sono infatti 141 in più le persone ristrette a Reggio: l’emergenza è palpabile all’opg (con ben 134 internati in esubero) mentre è più contenuto lo “sforamento” in carcere (solo 7 detenuti in aggiunta a quanto previsto dalle tabelle ministeriali). Un sovraffollamento dovuto anche all’inagibilità di non poche celle (sono 22 quelle non utilizzabili per le infiltrazioni d’acqua), che porta a concentrare nelle altre camere detentive disponibili sino a tre detenuti , il che viola le disposizioni di legge in materia. Umidità (i secchi d’acqua per raccogliere le perdite dal soffitto ci sono stati descritti più volte dagli agenti di polizia penitenziaria ma anche dagli avvocati penalisti che lì in carcere incontrato i loro assistiti) e spazio personale insufficiente sono già motivo di tensioni, peraltro non facilmente “gestibili” dalle guardie carcerarie che - a Reggio - hanno un organico vistosamente sottodimensionato: mancano all’appello 52 unità (per la precisione 11 sovrintendenti, 11 ispettori e 30 agenti assistenti). Una situazione critica a livello di controlli (anche se la professionalità degli agenti ha combattuto con successo la piaga di suicidi e tentativi) ed ovviamente condizioni di lavoro difficilissime per chi veste l’uniforme. Ma da chi sono “popolati” gli istituti penali reggiani? In gran parte - il 60-70% - da stranieri (per lo più extracomunitari), come del resto avviene anche in tante altre carceri italiane. La popolazione carceraria annovera non pochi tossicodipendenti che non si trovano certamente nella struttura più adatta per uscire dal tunnel della droga con le giuste terapie e contemporaneamente abbandonare la strada dei reati. Insomma, dietro le sbarre si vive in uno stato d’emergenza continua. C’è un abuso del carcere preventivo Hanno raccolto firme per una proposta di legge di iniziativa popolare per la legalità e il rispetto della Costituzione nelle carceri e da tempo si battono per denunciare “la situazione intollerabile delle carceri”. Anche a Reggio gli avvocati penalisti si fanno sentire su quello che è diventato un fronte di protesta molto sentito dalla categoria. Astensione dalle udienze, banchetti per raccogliere adesioni, anche un filmato per documentare quanto sia urgente il problema-carceri: è quanto abbiamo visto negli ultimi anni anche nel foro di Reggio. La visione - mesi addietro - del filmato (“Prigionieri d’Italia”) è risultata molto efficace, un autentico pugno nello stomaco che ha evidenziato gli enormi problemi degli istituti di pena (Reggio non esclusa) fra sovraffollamento, suicidi, il massiccio uso delle misure cautelari (di cui gli avvocati da tempo denunciano un “abuso”), costi spaventosi per il Paese. “Siamo di fronte ad una situazione vergognosa - è da tempo la posizione dell’avvocato Noris Bucchi che presiede la sezione reggiana delle camere Penali, raggruppante un centinaio di legali - ma i mezzi per intervenire vi sarebbero. Per reati sotto una certa soglia, come già avviene per la guida in stato d’ebbrezza, sarebbe più utile applicare misure alternative come i lavori di pubblica utilità. Anche per i casi di piccolo spaccio sarebbe una buona soluzione. È scientificamente provato che la pena completamente espiata in cella porti 3 detenuti su 4 a commettere nuovi reati una volta liberi”. In campo nazionale l’Unione Camere Penali chiama pesantemente in causa la politica: “Sebbene quello del ripristino di un grado minimo di civiltà nelle carceri - si legge in una recente delibera della giunta - rappresenti uno dei punti fondanti del programma di governo, non sono state licenziate fin qui misure davvero efficaci per fronteggiare l’emergenza, al di là del pur apprezzabile decreto cosiddetto svuota carceri, destinato a ridurre soltanto di poche migliaia distribuite in più anni la popolazione detenuta, ma falcidiato da modifiche ondivaghe in sede di conversione, solo parzialmente contenute dalla tempestiva reazione degli avvocati penalisti, che denotano l’assenza di una linea coerente e consolidata all’interno della maggioranza parlamentare di governo”. Genova: psicologi low-cost in carcere, lo stop al Tar, sospeso l’appalto al massimo ribasso di Massimo Calandri La Repubblica, 11 ottobre 2013 Dal prossimo anno l’assistenza psicologica ai detenuti più deboli delle Case Rosse - quelli affetti da Hiv o problemi psichici, oppure le persone che per la prima volta finiscono in una struttura penitenziaria - sarà garantita non da chi ha più capacità o esperienza, ma da chi costa meno. Dopo 15 anni di collaborazione con un gruppo di specialisti a tempo parziale (un criminologo, quattro psicologi e sette educatori), la Asl 3 ha deciso di affidare il servizio attraverso un concorso pubblico, e fin qui nulla di male. Il problema è che la priorità per vincere non sono i titoli ma il prezzo al ribasso: chi costa di meno s’aggiudica l’appalto, e al diavolo la professionalità degli operatori. Così hanno denunciato al Tar quelli de “Il Biscione”, la Cooperativa genovese che cominciò a lavorare a Marassi nel 1998 occupandosi - così come prevede la legge - degli ospiti tossicodipendenti della sezione a custodia attenuata. L’anno successivo il progetto si allargò al centro clinico regionale della prigione, che accoglie persone affette da Hiv e con problemi psichiatrici. Dal 2010 gli operatori assistono anche i cosiddetti “nuovi giunti”. In questo caso si parla di circa un migliaio di persone ogni anno, mentre negli ultimi quindici i detenuti assistiti nella sezione a custodia attenuata sono stati circa quattrocento, e settecento quelli del centro clinico. Il bando dell’Asl si è chiuso il 20 settembre scorso, ma prima dell’apertura delle cinque buste è arrivata la segnalazione al tribunale amministrativo che ha bloccato tutto, rinviando la decisione al prossimo 13 novembre. “La nostra preoccupazione è che i criteri di valutazione non sono quelli clinici o terapeutici. Non ci sono primari dei centri di salute mentale o dei Sert, a decidere, ma burocrati che come priorità hanno indicato quella dei costi. Vince chi gioca al ribasso, e questo non è accettabile, soprattutto in considerazione delle delicate condizioni delle persone che devono fruire di questo servizio”. Enzo Paradiso, criminologo che lavora per la cooperativa Il Biscione, non ha niente in contrario con la spending review. “E mi sta bene anche la gara d’appalto. Ma a patto che vinca il migliore, quello con più professionalità, esperienza”. Il pericolo - spiega - è che detenuti più deboli finiscano per occuparsi persone sottopagate e con nessuna esperienza nel settore. “Perché ci vuole una professionalità specifica rispetto all’ambiente carcerario”, precisa, ricordando che già un precedente bando con criteri simili - quello per ottanta pazienti psichiatrici di Quarto - è stato inevitabilmente stoppato dal Tar. Dal 1998 il servizio di assistenza alle Case Rosse è stato affidato al Biscione, e la convenzione rinnovata ogni anno tacitamente. “Attualmente ci sono trenta ospiti del centro clinico, e i nostri psicologi ed educatori incontrano tutti i giorni (dalle 16 alle 19) i "nuovi giunti" di Marassi. Un lavoro due volte delicato ed importante, in un ambiente difficile. Abbiamo il dovere di aiutare queste persone, di non abbandonarle”. Pistoia: domani detenuti e consiglieri comunali si sfideranno a calcetto in carcere Adnkronos, 11 ottobre 2013 Domani, sabato 12 ottobre, a partire dalle ore 15, nel campo da gioco all’interno della casa circondariale di Santa Caterina in Brana si terrà un torneo di calcetto. A sfidarsi per raggiungere il primo posto sarà la squadra finalista dei detenuti e la squadra formata dai consiglieri comunali. Il progetto è promosso dal Comune in collaborazione con la casa circondariale di Pistoia e si inserisce in un percorso già avviato di avvicinamento della città con la popolazione carceraria. Il torneo, che dovrebbe concludersi intorno alle 18, si svilupperà su due partite. Nella prima scenderanno in campo le due squadre di detenuti che hanno superato le fasi eliminatorie, su un totale di sei squadre, che si sono svolte nei mesi scorsi. Le due squadre giocheranno per il terzo e quarto posto. La partita successiva invece vedrà in campo la squadra finalista delle eliminatorie che si sono svolte nella Casa circondariale e la squadra dei consiglieri comunali. Hanno aderito il sindaco Samuele Bertinelli, il vicepresidente del consiglio comunale Giuseppe Salvatore Patanè, i consiglieri comunali Stefano Franceschi, che ha promosso l’iniziativa, Alessandro Giovannelli, Alessandro Tomasi, Alterio Ciriello, Giacomo Del Bino, Maurizio Giorgi Alessandro Sabella, Riccardo Trallori, Massimiliano Sforzi, Alessandro Capecchi e il presidente della Consulta del volontariato Marco Leporatti. I consiglieri giocheranno a rotazione. In tribuna saranno invece presenti l’assessore al sociale Tina Nuti e le consigliere comunali Anna Maria Celesti, Giovanna Mazzanti e Rachele Balza. Al termine del torneo si svolgeranno le premiazioni con coppe donate dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia. Le magliette indossate dagli speciali giocatori sono offerte da Vannucci Piante. Infine verrà offerto un buffet da Conad. Immigrazione: Beccalossi (Fdi): stop a buonismo e strumentalizzazioni 9Colonne, 11 ottobre 2013 “Benvenuti nella repubblica delle banane. C’è chi vuole svuotare le carceri rimettendo in libertà criminali che non hanno scontato la loro pena e chi apre le porte del Paese a clandestini che nessuno, nel resto d’Europa, vuole accogliere. Il tutto mentre il tasso di disoccupazione raggiunge livelli da record con il 40% dei nostri giovani che non trovano un lavoro”. Viviana Beccalossi, assessore regionale della Lombardia e dirigente di Fratelli d’Italia, interviene così nel dibattito politico di queste ore. “A chi vuole aprire le porte delle carceri ai detenuti e - prosegue l’esponente di Fratelli d’Italia - quelle dell’Italia agli immigrati irregolari bisogna dare risposte chiare. Questi buonisti a tutti i costi sono gli stessi che un paio di mesi fa in Lombardia sono arrivati a strumentalizzare i figli dei clandestini proponendo per loro l’assegnazione del pediatra di base, ben sapendo che per questi bambini il servizio sanitario già garantisce prestazioni per le urgenze e le cure essenziali. Una richiesta respinta al mittente dal centrodestra che vuole essere un segnale di rispetto e di legalità verso chi paga le tasse e osserva le regole”. “Quando si legifera sull’onda dell’emozione o della tragedia - conclude Viviana Beccalossi - spesso si sbaglia. Aprire le porte ai clandestini significa calare le braghe all’Europa, alla Merkel e a chi, in cambio di questa scellerata decisione, offre una penosa manciata di quattrini che umilia ancor più di quanto sia possibile il ruolo dell’Italia nel panorama internazionale”. Mondo: dove ritorna la pena di morte… i dati di Amnesty International di Stefano Rizzato La Stampa, 11 ottobre 2013 Come avviene dal 2003, anche quest’anno il 10 ottobre è la giornata mondiale contro la pena di morte. A quali risultati hanno portato questi dieci anni di impegno? Senza dubbio sono stati fatti passi enormi e non solo negli ultimi dieci anni. Lo conferma l’ultimo rapporto di Amnesty International, che mostra come 140 Paesi (su 198) abbiano già abolito per legge o nei fatti la sentenza capitale. Tra questi, 97 non contemplano la pena di morte per nessun tipo di reato, neppure in caso di guerra. Solo pochi anni fa il quadro era ben diverso. Nel 1977, quando Amnesty lanciò la prima campagna internazionale, i Paesi abolizionisti erano 16: una netta minoranza. Oggi la minoranza è quella delle nazioni dove le esecuzioni continuano: 21, lo scorso anno. Purtroppo, però, negli ultimi tempi sono emersi anche dati preoccupanti. Quali? In alcuni Paesi la pena capitale pare tornata in auge. E il caso dell’Iraq, dove solo nell’ultima settimana sono state giustiziate 42 persone, compresa una donna, tutte condannate per atti di terrorismo. Quest’anno il numero delle esecuzioni decise da Baghdad ha già toccato quota 113 e non accenna a fermarsi. Colpa di uno scenario da guerra civile, che ha portato a quasi cinquemila morti da inizio anno. Ci sono Paesi che avevano sospeso le esecuzioni e poi hanno cambiato idea? Sì, è l’altro aspetto preoccupante del momento. Tra 2012 e 2013 si è tornati alla pena di morte in Paesi importanti come India, Giappone, Indonesia, Nigeria e Pakistan, dove c’era stata una sospensione. “Assistiamo a passi indietro da parte di nazioni che consideriamo o consideravamo pienamente democratiche”, spiega Sergio D’Elia segretario di Nessuno tocchi Caino. “In Giappone, nel 2011 non c’erano state esecuzioni e invece si è tornati ad applicare la pena di morte a partire dallo scorso anno. In India la moratoria era durata ben otto anni, dal 2004 in poi, ma purtroppo si è interrotta verso la fine del 2012. Non si parla di decine di sentenze per fortuna, ma non è un bel segnale”. Dove si muore di più per mano dello Stato? La pena di morte resta difficile da eliminare soprattutto in Asia. A guidare la classifica è la Cina, dove si stimano circa tremila persone giustiziate nel corso del 2012. La buona notizia è che anche lì - nonostante la materia sia segreto di Stato - le esecuzioni sono in netto calo, più che dimezzate rispetto al 2006. Dietro alla Cina c’è l’Iran, con almeno 580 pene capitali eseguite nel 2012, poi Iraq (129) e Arabia Saudita (79). E gli Stati Uniti? Sono la quinta nazione della lista, con 43 detenuti uccisi nel corso del 2012. Lì la pena capitale è competenza dei singoli Stati e 18 hanno già scelto di abolirla: ultimo il Maryland, la scorsa primavera. Nonostante i film sull’argomento, negli Usa la pena di morte non è mai stata una pratica generalizzata: oltre metà delle esecuzioni fatte dal 1976 riguardano infatti il 2% delle contee americane. Il trend continua e i 3.125 detenuti che si trovano attualmente nel braccio della morte vengono dal 20% delle contee. Perché tutti questi Stati insistono a conservare la pena dì morte? In alcuni Paesi è ancora considerata un deterrente contro la violenza, ma le statistiche provano tutto il contrario. In India, per esempio, gli omicidi sono diminuiti del 23 per cento proprio durante il periodo di moratoria. Altrove, lo spauracchio della pena di morte è usato come strumento contro i dissidenti politici, o in altri casi per frenare il traffico di droga. Come si può intervenire per convincere gli ultimi Paesi? La pressione internazionale resta un elemento fondamentale e per questo ieri 42 ministri degli Esteri del Consiglio d’Europa, inclusa Emma Bonino, hanno firmato un appello congiunto per l’abolizione della pena di morte. “La giustizia che uccide non è giustizia”, si legge nel documento. Sempre ieri, il Parlamento europeo - in seduta plenaria a Strasburgo - ha condannato in forma pubblica e ufficiale Cina, Arabia Saudita e Iraq. Ma appelli e prese di posizione internazionali bastano? “Sono utili e importanti - dice D’Elia -così come vitale è stato ottenere, nel 2007, la risoluzione dell’Onu per la moratoria internazionale. Ma c’è un altro rimedio che funziona: mettere ostacoli concreti all’esecuzione della pena di morte. Succede già con i farmaci per le iniezioni letali: molte case produttrici hanno rifiutato le ordinazioni da parte dei governi che applicano la pena di morte e questo ha messo in crisi il sistema in Vietnam e anche negli Stati Uniti. Allo stesso modo, bisogna ragionare sui contributi che l’Occidente elargisce a molti Paesi asiatici per supportare la lotta al narcotraffico. In alcune di queste nazioni è prevista la pena capitale proprio per i reati legati alla droga: rischiamo di finanziare le esecuzioni”. India: caso marò, gli ultimi aggiornamenti di una storia che sembra non finire mai di Cristina Di Giorgi Giornale d’Italia, 11 ottobre 2013 Seicento giorni. Tanto è passato da quando Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due fucilieri di marina coinvolti nell’incidente a largo delle coste indiane, si trovano imprigionati a New Delhi in attesa di processo. Seicento giorni affrontati con dignità estrema, senza clamore e senza eccessi. Da allora su di loro è stato detto e scritto molto. Spesso purtroppo anche a sproposito. Senza che però si giungesse ad una soluzione che consenta, finalmente, di riportarli in Italia. Le tappe diplomatiche e politiche della vicenda sono note: il governo di Nuova Delhi, vuole processarli in loco e secondo leggi indiane. La diplomazia italiana, dal canto suo, si è dimostrata ancora una volta non all’altezza nell’affrontare una crisi diplomatica come quella apertasi tra Italia e India. Attualmente la situazione è in stallo. Secondo quanto riferisce il quotidiano The Economic Times, la magistratura indiano per chiudere le indagini (e iniziale finalmente il processo), vorrebbe interrogare gli altri quattro fucilieri di marina che si trovavano a bordo della petroliera insieme a Girone e Latorre. Inizialmente si voleva ascoltarli in India, ma dopo il rifiuto da parte italiana si è giunti alla più ragionevole richiesta di poter inviare a Roma una delegazione di investigatori. Non si capisce però ancora bene se e quando questo avverrà. Nonostante infatti Italia e India siano entrambe ansiose di risolvere la questione e abbiano tutta l’intenzione di evitare eccessive attenzioni mediatiche e/o polveroni internazionali, il dibattimento di fronte alla Corte suprema di Nuova Delhi sembra ancora lontano. Anche perché all’interno dell’amministrazione indiana si stanno scontrando posizioni piuttosto differenti: c’è chi sostiene la linea della fermezza e chi invece preme per allentare la tensione diplomatica. La soluzione sarebbe una via di mezzo e probabilmente la rogatoria internazionale per ascoltare i restanti testimoni sembra la soluzione più opportuna per accelerare i tempi. Dal canto suo la Farnesina attende i risultati delle trattative interne all’amministrazione indiana. E tace. E forse è meglio così, se quando parla della questione il ministro Bonino fa scivoloni come quello di qualche giorno fa, quando parlando dei fucilieri detenuti in India ha dichiarato che “Non è accertata la colpevolezza e non è accertata l’innocenza. I processi servono a questo”. Un frase che in linea di principio potrebbe anche essere condivisibile se non fosse che Girone e Latorre secondo il diritto internazionale dovrebbero essere processati in Italia e non in un paese dove i due militari rischiano la cena di morte. Se non fosse che, a pronunciarla, è chi ha il compito istituzionale di garantire sicurezza e protezione ai connazionali all’estero, a maggior ragione se impegnati in missione militare. “A New Delhi - scrive Luca Lotti su Europa quotidiano - c’è un pezzo di Italia, che non può e non deve essere lasciata sola, che non può e non deve oscillare tra i dubbi e l’incertezza di un destino processuale che riguarda il come lo Stato corrisponde a quella promessa di dedizione, rispetto e coraggio che uomini e donne rendono reale con il loro operato”. Come cittadini italiani, orgogliosi di esserlo anche grazie alla dignità e alla fierezza di uomini come Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, abbiamo il sacrosanto dovere di dichiarare apertamente, con fermezza e determinazione, che non li abbandoniamo. Anche per noi vale il motto dei fucilieri di marina: “Tutti insieme, nessuno indietro”. Ungheria: maggioranza propone detenzione preventiva illimitata a sospettati di omicidio Tm News, 11 ottobre 2013 I sospettati di omicidio, in Ungheria, potrebbero dover affrontare una custodia preventiva illimitata se la nuova proposta del partito di maggioranza assoluta Fidesz dovesse andare in porto. L’opposizione, dal canto suo, ha definito l’idea del partito del premier Viktor Orban incostituzionale. L’idea, che è stata delineata ieri in una riunione della Fidesz, dovrebbe essere portata di fronte al Parlamento entro due settimane. Attualmente i codici ungheresi prevedono per un sospetto di omicidio la possibilità di detenzione preventiva per un massimo di quattro anni. Le nuove proposte fanno parte di una serie di idee del partito di destra, arrivato al potere nel 2010, che hanno provocato preoccupazioni sulla tenuta del sistema dei diritti nel paese membro dell’Unione europea. La proposta Fidesz viene dopo che due persone - in custodia cautelare in attesa di giudizio da oltre quattro anni - sono state poste agli arresti domiciliari, dai quali sono scappati, lasciando il Paese. I due membri di una gang erano in attesa di un processo per una serie di violente rapine nei confronti di anziani tra il 2008 e il 2009. In quegli episodi due persone rimasero uccise. Gergely Gyulas, un parlamentare Fidesz, ha detto in una conferenza stampa che la nuova regola dovrebbe valere per i detenuti sospettati di omicidio che rischiano più di 15 anni di carcere. Tamas Harangozo, del Partito socialista, ha definito la proposta “anti-costituzionale”. Proprio la scorsa settimana un rapporto delle Nazioni unite ha criticato l’Ungheria per “uso eccessivo della detenzione preventiva”. Russia: lunedì udienza su ricorso attivista italiano Greenpeace Agi, 11 ottobre 2013 E’ stata fissata per lunedì prossimo l’udienza per esaminare il ricorso contro l’arresto dell’attivista italiano di Greenpeace, Christian D’Alessandro, in custodia cautelare in Russia con altri 29 membri dell’equipaggio dell’Arctic Sunrise. A riferirlo è l’agenzia Interfax, che cita la portavoce del tribunale Elena Sinitsa. Gli arresti furono eseguiti dopo l’azione di protesta contro le trivellazioni nell’Artico dello scorso 18 settembre. Insieme a quello di D’Alessandro, i giudici del tribunale distrettuale Leninksy di Murmansk valuteranno anche i ricorsi dell’argentina Camila Especiale, del capitano della Arctic Sunrise, Peter Henry Wilcox, e del neozelandese, David John Haussmann. L’inizio dell’udienza per D’Alessandro è fissata alle 9.30 ora di Mosca (le 7.30 in Italia). Come appreso da Agi, in aula sarà presente anche il console generale d’Italia a San Pietroburgo, Luigi Estero. Oggi, intanto, i giudici hanno respinto la stessa istanza di scarcerazione, presentata dall’attivista britannico Philip Ball, e dal videoperatore britannico Kieron Bryan, che rimarranno così in carcere fino al 24 novembre. Stessa decisione era stata presa, martedì, per il fotografo russo Deni Sinyakov, il medico della rompighiaccio di Greenpeace, Ekaterina Zaspa, e per il portavoce dell’organizzazione ambientalista in Russia, Andrei Allakhverov. Gli Arctic 30, come è chiamato il gruppo di attivisti e reporter freelance detenuti dalle autorità russe, sono accusati di “pirateria” per il blitz della Arctic Sunrise contro la piattaforma di Gazprom, nel mare di Pechora. Se ritenuti colpevoli rischiano fino a 15 anni di carcere. Il presidente Vladimir Putin ha detto che non si tratta di pirati, ma ha condannato l’azione degli ecologisti come una violazione del diritto internazionale.