Giustizia: “aprite quelle celle…”, ecco come riformare il carcere e le sue leggi di Cristina Giudici Il Foglio, 7 novembre 2013 Mentre là fuori ci si incartava sull’affaire Cancellieri-Ligresti, lì dentro, nelle patrie galere che scoppiano, si verifica il seguente, inedito paradosso: i detenuti che vi fanno ingresso attraverso il consueto e mai interrotto circolo vizioso delle porte girevoli - entro-esco-e-poi-subito-ritorno - chiedono ora di poter finire nelle celle più sovraffollate, dove sempre più spesso, per motivi di sopravvivenza, le porte blindate vengono lasciate aperte durante il giorno. Un’apertura, anche metaforica, decisa ai vertici del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) all’interno di un piano di ambiziosa riforma volto ad accentuare il valore rieducativo della pena, fino a ora garantito soltanto in alcuni istituti più virtuosi e gestiti da direttori di buona volontà. Una riforma, quella delle carceri, improvvisamente accelerata dall’emergenza e dalle scadenze imposte dall’Europa. Le celle scoppiano e le porte blindate si aprono, mentre si attenuano persino le critiche e le perplessità di chi attribuisce alla pena un significato esclusivamente punitivo. Quando si parla di carceri, in Italia, si procede esclusivamente per paradossi. Di leggi per tutelare i diritti umani dei detenuti, anche i più disgraziati, e per favorire il loro reinserimento, ce ne sono state persino troppe: ma non si applicano, perché vengono vanificate da altre norme che vanno in direzione contraria. Oppure perché finiscono nell’imbuto della lentezza giudiziaria e dipendono esclusivamente dalla discrezionalità dei tribunali di sorveglianza. O ancora, perché s’incagliano nella distorta ed eccessiva applicazione della custodia cautelare, nella mancanza di sostegno sociale all’esterno per favorire il reinserimento, nell’assenza di lavoro da offrire ai detenuti, nei fondi che scarseggiano persino per il recupero terapeutico dei tossicodipendenti. Il tutto in un contesto reso ancora più stagnante dalla presenza di migliaia di carcerati che devono scontare condanne molto brevi (quasi 10 mila detenuti sono in prigione con una pena residua di 12 mesi), ma non hanno fissa dimora per poter accedere alle misure alternative come la detenzione domiciliare. Oppure impossibilitati a usufruire di altre misure alternative per via della legge ex Cirielli, che ha imposto ai recidivi molti vincoli, solo leggermente attenuati dal decreto governativo sulle carceri approvato l’estate scorsa. La riforma che il ministro Annamaria Cancellieri vorrebbe realizzare (con il sostegno del presidente Giorgio Napolitano) è ambiziosa, persino pretenziosa. A Strasburgo tre giorni fa il Guardasigilli ha replicato, abilmente e punto per punto, ai rilievi critici della sentenza pilota della Corte dei diritti dell’uomo emessa nel gennaio scorso - in seguito al ricorso di sette detenuti negli istituti di detenzione italiani - per dimostrare che finalmente, dopo decenni di riforme annunciate e nonostante alcuni provvedimenti di clemenza che però non hanno avuto conseguenze efficaci e durature sul sovraffollamento, si sta cercando di porre mano e rimedio alla questione penitenziaria. Ora che la sentenza Torreggiani (8 gennaio 2013) della Corte dei diritti dell’uomo, sospesa fino a maggio del 2014 per dare tempo allo stato italiano di rimediare al degrado e al sovraffollamento, rischia di diventare esecutiva e molto onerosa (da giugno 2014 lo stato italiano potrebbe pagare 60-70 milioni di risarcimenti a migliaia di detenuti che hanno cercato il loro giudice a Berlino), la riforma diventa ineludibile. E le porte si devono aprire per forza. A Strasburgo il Guardasigilli ha incontrato il segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjorn Jagland, e i vertici della Corte dei diritti dell’Uomo per spiegare la futura configurazione delle carceri, più umane e civili. E ha annunciato la decisione, inedita, di prendere in considerazione l’eventualità di compensare i sette detenuti ricorrenti, che hanno chiesto e ottenuto in totale centomila euro di risarcimento, con sconti di pena. Il suo viaggio, nel bel mezzo di una bufera perdi Cristina Giudici sonale e politica, è stato una mossa tattica, di “cortesia” e di “avvicinamento” - così l’hanno definita i collaboratori del ministro Cancellieri - per illustrare alle istituzioni europee il piano di interventi ed evitare una sanzione pecuniaria rilevante (i ricorsi per detenzione inumana e degradante sono già 2.800) in modo da sottrarre il governo alla gogna mediatica internazionale che scaturirebbe per l’Italia dal diventare a tutti gli effetti uno “stato torturatore” che vessa i propri carcerati violando le regole della Convenzione europea. Come ha detto e ribadito in modo solenne, e accorato, il presidente della Repubblica Napolitano nel suo messaggio alle Camere il 7 ottobre scorso. Per capire quanto sia complicata la questione penitenziaria su cui l’Italia si arrovella da oltre vent’anni, è utile leggere la bozza della relazione elaborata dalla presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti del Pd, che riassume i disegni di legge all’esame del Parlamento per avviare entro la fine di novembre un dibattito in Aula sul messaggio del capo dello stato, nella speranza di trovare una soluzione. Soluzione che, al momento, non sembra essere quella dell’amnistia- indulto, pur suggerita da Napolitano e appoggiata dal Guardasigilli. Ci sono infatti da considerare il fragile equilibrio del governo delle larghe intese, e soprattutto l’opera di contrasto dello schieramento, trasversale ai partiti, da sempre affezionati al giustizialismo e a una visione puramente retributiva, quando non vendicativa, della pena. Diversamente, si pensa a una serie di riforme strutturali da affiancare a una lista di provvedimenti interni alle carceri per alleviare le gravi condizioni di vita dei detenuti. Le norme all’esame della Camera sono diverse. Come per esempio l’approvazione, ora al Senato, della sospensione del procedimento penale con la messa in prova dell’imputato, fino a ora utilizzata solo per i minori per condanne fino a 4 anni, e anche per reati che hanno sempre destato un rilevante allarme sociale (violenza, minaccia o resistenza e oltraggio a un pubblico ufficiale, rissa, furto aggravato e ricettazione) attraverso l’affidamento a un servizio sociale o mediante lavori di pubblica utilità. Opportunità da concedere per due volte, una sola se si commette di nuovo lo stesso reato. Altra ipotesi, ricorrere anche alla possibilità di concedere la detenzione domiciliare come pena detentiva principale (e non più solo alternativa al carcere) per condanne fino ai 6 anni di reclusione (finora la detenzione domiciliare è prevista per motivi di salute o, secondo l’ultima norma del 2010, per una pena detentiva non superiore ai 18 mesi; norma però di carattere temporaneo, valida cioè fino alla conclusione del piano di costruzione di nuove carceri). E siccome questo ultimo provvedimento temporaneo ha permesso fino a ora di scarcerare 12 mila detenuti ma, per ammissione dello stesso Guardasigilli durante una recente audizione in commissione Giustizia a Montecitorio, non ha avuto effetti deflattivi sulla presenza complessiva dei 64.564 detenuti presenti nei 208 istituti penitenziari, si cercano altre strade per limitare con più efficacia gli ingressi. Perché se è vero che c’è stata una diminuzione degli ingressi (63 mila nel 2012, nel 2009 erano 80 mila), il numero delle custodie cautelari è rimasto invece identico: i detenuti in attesa di giudizio sono 24.715, numero rimasto stabile sin dagli anni di Tangentopoli, nel 1992, che corrisponde al 38 per cento della popolazione complessiva, di fronte alla media europea del 25 per cento. I principali fattori all’origine del sovraffollamento delle carceri sono essenzialmente due: la presenza massiccia di detenuti tossicodipendenti e gli immigrati. Ai primi si vorrebbero dare maggiori chance per non varcare la soglia degli istituti di pena, anche grazie a un maggior ricorso all’affidamento terapeutico (“In carcere un detenuto costa 125 euro, in una comunità di recupero 50”, osserva la presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, Donatella Ferranti), mentre ai secondi si vorrebbe imporre l’obbligo di rimpatrio: 22 mila stranieri di 128 nazioni, di cui la metà non cittadini degli stati membri dell’Ue. Per aiutare i detenuti tossicodipendenti, bisognerebbe modificare il testo unico sulle sostanze stupefacenti, e rimuovere ogni ostacolo previsto per i recidivi: 23 mila finiti in carcere per violazione della legge sugli stupefacenti Giovanardi-Fini, che un altro provvedimento all’esame della Camera vorrebbe modificare. Con un’attenuazione delle condanne e depenalizzazione di alcuni reati più lievi (come ad esempio la coltivazione di canapa indiana, che diventerebbe un reato amministrativo, storico cavallo di battaglia dei radicali). Per i detenuti stranieri è ancora più difficile arrivare alla meta prefissata dal governo: nel 2012 ne sono stati rimpatriati solo 212, nei primi sei mesi del 2013, 81. Per dare ali alla riforma, ed evitare la condanna definitiva da parte dell’Europa, bisognerebbe anche riuscire ad approvare il disegno di legge sulla custodia cautelare, a cui i giudici fanno ricorso con abbondanza e in molti casi con estrema leggerezza, se solo si raffronta il numero delle custodie inflitte con i successivi esiti di indagini e processi: il caso di Silvio Scaglia è solo la punta mediatica di un enorme iceberg. Una leggerezza rilevata anche nella sentenza pilota (e spada di Damocle) della Corte dei diritti dell’uomo. Dei 24 mila detenuti imputati, 12.348 sono in attesa della sentenza di primo grado. Il testo di legge sulla riforma della custodia cautelare, arriverà, si spera, presto in Aula: l’11 novembre scade il termine per gli emendamenti. Si tratta di una priorità per il ministero della Giustizia, che ha affidato al presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio, una commissione apposita di studio sul processo penale. Ma può essere considerato anche l’ennesimo tentativo dello stato italiano di emendare i propri errori, visto che l’ossessione coercitiva ha lasciato molti morti sul campo di battaglia delle patrie galere. In tredici anni, dal 2000 a oggi, 2.200 detenuti sono morti. Anche se forse nel 2013 ci deve essere stata un’attenzione maggiore alla salute psichica dei carcerati: 42 suicidi rispetto ai 60 del 2012. In realtà (altro paradosso), secondo quanto risulta da un monitoraggio europeo nelle carceri italiane non ci sono troppi detenuti rispetto alla media continentale: il vero problema è che sono troppo pochi quelli che possono accedere alle misure alternative. Infatti se oggi in Italia sono circa 30 mila le persone che scontano la pena all’esterno del carcere, in Francia sono quasi sei volte tanti, 173 mila, e nel Regno Unito addirittura 237 mila. Ecco perché, in uno studio elaborato da una commissione del Csm guidata dal penalista Glauco Giostra, “Sovraffollamento delle carceri, una proposta per affrontare l’emergenza”, si osserva: “Se è vero che il condannato espia la pena in carcere” nella maggior parte dei casi, in Italia la popolazione detenuta “è composta dal 68 per cento di recidivi, laddove chi ha usufruito di misure alternative alla detenzione ha un tasso di recidiva del 19 per cento, che si riduce all’uno per cento fra i reinseriti nel circuito produttivo”. La conclusione a cui arriva il professor Giostra è uguale alla premessa, visto che i mali del sistema penitenziario sono sempre gli stessi, come lo sono i rimedi escogitati che però non si riescono mai ad applicare: bisogna abolire gli automatismi che portano alla carcerazione, abrogando una serie di norme interdittive previste dal legislatore per contenere gli allarmi sociali. Secondo le proiezioni statistiche di Giostra, messo dal Guardasigilli alla guida di un commissione ministeriale sulle misure alternative, un circuito virtuoso di ricorso “all’esecuzione penale esterna” potrebbe “liberare” 10-20 mila detenuti. Ipotesi plausibile o proiezione astratta? Considerando che in Italia mai si seguirà l’esempio della Germania, che ha istituito addirittura liste di attesa per detenuti che non entrano in carcere finché non ci siano condizioni dignitose per ospitarli (altrimenti nelle galere italiane probabilmente non entrerebbe quasi più nessuno), i dati forniti dal Dap sul ricorso alle misure alternative è davvero sconfortante: secondo i numeri aggiornati al settembre 2013, ci sono 10.755 persone affidate ai servizi sociali, 2.742 agli arresti domiciliari e circa tremila affidate alle comunità di recupero, mentre i “semiliberi” sono meno di 800. Fanno bene gli esperti del diritto penitenziario a mettere sempre l’accento sul lavoro, come strumento salvifico del condannato - poiché è stato ampiamente dimostrato che il lavoro nobilita anche il detenuto - peccato però che a lavorare fuori o dentro il carcere ci siano complessivamente 13 mila condannati definitivi, di cui solo 436 alle dipendenze del Dap. Anche perché il Dap, a discapito di quanto enunciato a Bruxelles da Annamaria Cancellieri sui progetti lavorativi e trattamentali da offrire ai detenuti, deve fare le nozze coi fichi secchi, visto che nel 2010 poteva contare su un fondo di 11 milioni di euro per attività produttive interne (ma nel 2010 i lavoranti erano comunque pochi) mentre ora ha a disposizione solo 3 milioni di euro. Ecco perché il ministero della Giustizia annaspa per trovare fondi europei e sostegni dalle regioni per promuovere il lavoro interno o esterno al carcere e offre sgravi fiscali ad aziende e cooperative in grado di offrire occupazione ai detenuti. Intento nobile, ma di complessa attuazione. Consapevoli delle difficoltà per poter arrivare in tempi brevi ai cambiamenti normativi in Parlamento, al Dap contano di utilizzare in modo costruttivo la condanna subita in sede europea per poter modificare lo stato di detenzione e portarlo verso una custodia attenuata. Perché se “il fabbisogno standard” di spazio (e di ossigeno) necessario per non vessare i detenuti con una pena afflittiva e degradante, è di 4 metri quadrati, allora sarà più facile, come era nei piani dei vertici del Dap, arrivare all’apertura del 79 per cento delle celle entro aprile del 2014, un mese prima della scadenza europea. Una volta liberati dagli spazi angusti almeno per otto ore, rimane da decidere cosa fare dei tanti detenuti che potranno stare fuori dalle celle. L’obiettivo è quello di riconfigurare gli istituti penitenziari, vecchi e nuovi, in modo che possano avere molti spazi comuni. Adottando un modello di custodia attenuata e comunitaria, con una vigilanza cosiddetta “dinamica” che permetta agli agenti di polizia penitenziaria di svolgere un ruolo più educativo (considerata anche la penuria di educatori, mai risolta), fatti salvi ovviamente i punti più critici degli istituti penitenziari. Quasi un libro di fiabe, che in parte potrà essere realizzato anche grazie alla pressione dell’Europa, che invera però un ennesimo paradosso: si costruiscono nuove carceri per poter aprire le porte delle carceri. E se è vero, come ha sottolineato il ministro Cancellieri, che il decreto cosiddetto “svuota carceri” approvato nell’agosto scorso ha permesso di dimezzare gli ingressi (passati da 1.000 a 500 al mese) e si prevede che nell’arco di un anno si potrebbero evitare complessivamente 4.000 nuovi ingressi, è anche vero che nelle prigioni italiane ci sono comunque ventimila detenuti oltre la capienza sostenibile. Ecco perché nel nome del motto di Voltaire - “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri perché da esse si misura il grado di civiltà di un paese” - l’Osservatorio carceri dell’Unione delle camere penali di Venezia ha optato per una singolare iniziativa in grado di rappresentare tutti i paradossi delle galere italiane. Non potendo portare fuori i detenuti, ha deciso di liberare una cella. Allestendo in una piazza di Mestre una stanza sovraffollata di 3 metri per quattro, per dimostrare ai cittadini cosa significhi quella parola usata e abusata, “sovraffollamento”, che si trasforma in tortura agli occhi vigili dell’Europa. Giustizia: sull’indulto meno politica e più scelte competenti di Walter Massa (Presidente di Arci Liguria) La Repubblica, 7 novembre 2013 Oltre le polemiche il Parlamento è chiamato a rendere le nostre prigioni degne di un paese civile Le celle che scoppiano, la maggior parte dei detenuti entrati nelle carceri nel 2011 (76.982) è in attesa di giudizio, mentre soltanto il 10% circa ha una condanna definitiva. Il 25% di questi torna in libertà entro una settimana.” (Fonte dati Istat 2011). Di questi tempi la questione carcere sembra essere oggetto di mera contesa congressuale, o peggio gettata nel fango della contesa politica come una clava per separare i buoni dai cattivi, come se le denunce degli attivisti e dei volontari e i richiami dell’Europa di questi anni fossero carta straccia. Arci, da tempo lo considera, invece, un tema centrale e così abbiamo inteso in questi anni le battaglie sul rispetto della Costituzione fatte insieme alla Comunità di San Benedetto e a Don Andrea Gallo, senza pontificare ma realizzando e condividendo progetti per cercare di migliorare le condizioni di vita, di chi “sta dentro”, di chi è uscito e delle loro famiglie. Provo quindi a proporre alcuni elementi - dalle colonne che hanno ospitato le sempre illuminanti riflessioni del Gallo - prendendo innanzitutto le distanze dallo sciacallaggio mediatico di questi tempi. Con l’amnistia lo Stato rinuncia all’applicazione della pena, e quindi ai relativi processi, mentre con l’indulto si limita a condonare la pena, in tutto o in parte”. Due cose ben differenti, quindi, contrariamente a quanto si vorrebbe far intendere e questo consentirebbe ai magistrati di dedicarsi ai procedimenti per reati più gravi e con detenuti in carcerazione preventiva. Sempre il messaggio presidenziale ricorda i tredici provvedimenti di amnistia (sola o unitamente all’indulto) emanati tra il 1953 e il 1990, cessati con l’attribuzione al Parlamento della competenza e una maggioranza necessaria dei due terzi, ma anche per una “ostilità agli atti di clemenza” diffusasi nell’opinione pubblica. Ostilità, crediamo noi, orchestrata ad arte e che ha portato il governo Berlusconi a emanare le leggi carcerogene (la Fini-Giovanardi, la Bossi-Fini e la Cirielli per la parte sulla recidiva), a cui fa riferimento in un’intervista il professor Pugiotto, autore nel maggio 2006, di una lettera aperta al Presidente Napolitano, sottoscritta da oltre cento fra costituzionalisti, docenti di diritto penale e Garanti dei detenuti. Certo, in assenza di misure concrete per l’effettivo reinserimento delle persone scarcerate e al loro accompagnamento nel percorso di risocializzazione, il rischio che molti dei beneficiari ritornino dietro le sbarre è alto. Dobbiamo però sottolineare, a proposito dell’indulto del 2006, che dopo 35 mesi la percentuale di detenuti rientrati in carcere era del 30,31% contro il 21,78% di quelli che hanno usufruito di misure alternative. Di questo vorremmo si parlasse e su questi aspetti noi, insieme a tante e tanti, vorremmo dare un contributo in termini di discussione. Ora tocca al Parlamento rendere degne di un paese civile le nostre carceri e far sì che i provvedimenti di clemenza costituiscano il frutto non di compromessi politici ma di una riflessione seria e di scelte competenti. Giustizia: il “caso Cancellieri” e la stampa… ovvero dateci il detenuto morto di Fabio Luppino www.globalist.it, 7 novembre 2013 Chi si occupa quotidianamente dei problemi carcerari ha guardato alla polemica di questi giorni sul caso Cancellieri con disappunto e anche con sconcerto. “Questi malati o morti nelle carceri tra due giorni spariranno dall’interesse pubblico”, osserva Ornella Favero. Dirige “Ristretti Orizzonti”, una rivista di cultura e informazione fatta da volontari insieme ai detenuti nella Casa di reclusione di Padova e nel carcere femminile della Giudecca. “La famosa telefonata ha risollevato il problema. Va benissimo. Ma non serve la compassione, serve tutelare i diritti delle persone detenute. Non mi interessa dimostrare la buona o malafede del ministro, tra i migliori che abbiamo avuto. Se fosse intervenuta anche per diecimila detenuti non m’interessa. Non serve la pietà a chi sta in carcere...”. Questo ha scritto Ornella Favero nei giorni scorsi. Ed anche per questo è stata cercata da giornali e trasmissioni televisive per avere da lei informazioni, nomi, casi. “Qualcuno mi ha detto - racconta: in trasmissione abbiamo già i familiari di un detenuto aiutato positivamente dalla Cancellieri. Vogliamo da te il caso di un detenuto i cui familiari si sono rivolti alla Cancellieri, ma che poi è morto. Così mi è stato chiesto, letteralmente”. Ornella Favero ci sorride sopra, ma la telefonata l’ha totalmente sconcertata. “Ma ti pare, la macabra par condicio sui carcerati -commenta. La cosa desolante è che questi morti o malati tra due giorni spariranno dall’interesse pubblico. Celebrità dovuta solo alla telefonata della Cancellieri. Noi facciamo un dossier in cui segnaliamo tutte le morti sospette, i suicidi. Noi li segnaliamo in base ad articoli, familiari che ce lo dicono. Il dipartimento di polizia penitenziaria ce li contesta. Noi mettiamo nomi e cognomi. L’amministrazione non pubblica un nome e un cognome, pubblica solo il dato degli eventi critici senza nomi e cognomi. Se vogliono contestare i miei dati devono mettere nomi e cognomi. Ma, a parte questo, non si può parlare dei problemi dei carcerati in questo modo”. L’animatrice di “Ristretti Orizzonti” è stata tempestata da telefonate di giornalisti a caccia del morto o del quasi morto. “Si sono tutti buttati a cercare i detenuti con gravi problemi di salute - aggiunge. Cose di cui noi quotidianamente parliamo, ma di cui non si occupa nessuno normalmente”. Insomma, testate anche importanti, trasmissioni anche importanti che hanno lasciato l’amaro in bocca a chi si dà da fare ogni giorno in nome di diritti calpestati. Succede spesso: la stampa o non fa il suo mestiere o spettacolarizza e basta. Se anche noi fossimo migliori di quel che siamo, ogni giorno, forse ci sarebbe qualche telefonata in meno e qualche carcerato vivo in più. Sul sito di “Ristretti Orizzonti” le cifre ci sono da tempo: in tredici anni, dati aggiornati al 2 novembre 2013, sono morti nelle carceri italiane 2.222 detenuti, 794 dei quali si sono suicidati. Giustizia: il Cavaliere e il caso Cancellieri, come il privato diventa pubblico di Corrado Stajano Corriere della Sera, 7 novembre 2013 Chissà perché Berlusconi ci tiene tanto a conservare il suo seggio rosso di Palazzo Madama. Chi ha avuto la ventura di vederlo in quell’aula, seduto al banco del governo, conserva il ricordo della sua noia infinita. Sembrava capitato là dentro per caso, la diligenza non era il suo forte e le poche volte che era presente fingeva talvolta un’attenzione spasmodica, ma si distraeva volentieri, guardava le tribune, il soffitto ottocentesco con i fregi pompeiani, le decorazioni neoclassiche, le quattro figure agli angoli, il diritto, la fortezza, la concordia e, ahimè, la giustizia. Un incubo, un’ossessione, una persecuzione dei pittori comunisti d’epoca. Dava l’impressione, nel palazzo del Senato, di uno che ha ben altro da pensare e da fare fuori, dove corre la vita, costretto a sorbire, invece, le inutili chiacchiere della democrazia. E allora, vista la disaffezione manifesta in questi vent’anni per il palazzo dove abitò anche il Caravaggio, come si spiega l’attaccamento suo e dei suoi falchi al laticlavio, con il solito ricatto agli alleati del Pd, se non votate per lui cade il governo? Soltanto perché perdere il diritto di indossare la simbolica tunica ornata da una striscia di porpora degli antichi romani è una inaccettabile caduta di prestigio? Come si può solo pensare che un condannato a quattro anni per frode fiscale con una sentenza definitiva rimanga inchiodato al seggio di Palazzo Madama? Il mondo ride. La giunta per il regolamento ha deciso che il voto in assemblea per la decadenza di B. sia palese e si grida allo scandalo perché non si è sottoposto alla Consulta il problema dell’interpretazione, ineccepibile, della legge Severino. Il rispetto delle regole, per coloro che approvarono senza batter ciglio le leggi ad personam e dissero sì, Ruby è proprio la nipote di Mubarak, dev’essere innato. È un gran garbuglio giudiziario quel che pesa sul capo del leader di Forza Italia-Pdl, indipendentemente dalla decisione del Senato il prossimo 27 novembre. La Corte d’appello di Milano ha fissato in due anni il periodo d’interdizione dai pubblici uffici. Finora non si ha notizia di un appello in Cassazione, rischioso perché la Suprema Corte potrebbe anche giudicarlo inammissibile. Sembra che azzecca garbugliando si punti piuttosto sulla Corte di Strasburgo o su qualche carta segreta dell’ultima ora. Il Tribunale di sorveglianza di Milano, nel frattempo, deve valutare quale sarà la sorte del pregiudicato. Agli arresti domiciliari o ai servizi sociali? ( È qui che potrebbe saltar fuori il genio italico dell’eterna compromissione, condivisa, naturalmente. Perché non affidare Berlusconi ai questori del Senato con il compito di rieducarlo alla politica della democrazia, al rispetto della Costituzione?). L’Italia è il paese dei casi amati dalla sociologia. Ce n’è uno al giorno. Nascono, scadono, non se ne sa più nulla. Com’è finita, per esempio, la vicenda di Alma Shalabayeva e della sua bambina sequestrate e condotte come in un giallo di terz’ordine su un aereo privato in Kazakistan? Il ministro degli Interni non sapeva nulla, tutto colpa dell’amministrazione? Come ha fatto e come fa Alfano, perdonato per non far cadere il governo delle larghe intese, a coprire quel delicatissimo incarico? Il caso, poi, del ministro Cancellieri, risolto anch’esso, più o meno, in nome della tenuta del governo. Non sarà Grillo a far cadere il castello di carta. Nella disavventura del ministro della Giustizia, amica della non specchiata famiglia Ligresti, colpisce la mescolanza tra pubblico e privato. Il figlio, che ha lavorato come manager nell’azienda ligrestiana, ha fatto le pulci ai conti di casa e deve aver spezzato un’antica consuetudine. Non è da Guardasigilli quella telefonata fatta a Gabriella, detta Lella, la compagna di Salvatore, il gran capo: “Senti, non è giusto, non è giusto (...). Guarda, qualunque cosa io possa fare conta su di me (...) qualsiasi cosa adesso serva, non fate complimenti, guarda, non è giusto, non è giusto”. Il Guardasigilli sembra voler ricomporre una rottura, risolvere un suo problema. Lo fa capire la signora Lella il giorno dopo parlando con la figlia, alla quale riferisce della telefonata ricevuta: “Ma non ti vergogni - le ho detto - a farti vedere adesso? Ma tu sei lì perché ti ci ha messo questa persona...”. Chi è l’uomo in nero? Chissà. Sono sufficienti quelle parole, di cui Annamaria Cancellieri si è detta rammaricata, per far capire come il vero problema in Italia sia quello della classe dirigente; il suo senso dello Stato; la sua cultura; i criteri di selezione. Affiorano di continuo gli antichi mali nostrani, dal rifiuto dell’etica al trasformismo ai corposi interessi del potere usato non come strumento del fare, ma come fine. In questo caso e in altri non sono stati commessi reati, ma sembra che ci si sia dimenticati dell’opportunità dell’agire e non si dia alcuna importanza al decoro e alla dignità politica e personale. “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”, recita l’articolo 54 della nostra maltrattata Costituzione. Giustizia: dal ministro tesi legittime, ma la sua credibilità è comunque incrinata di Gigi Riva Il Piccolo, 7 novembre 2013 Era tutto già scritto, i colpi di scena esclusi. Ma questa vicenda si presta ad alcune osservazioni che la trascendono e la eccedono. Nessuna persona dotata di buon senso vorrebbe che una giovane donna malata, nel caso Giulia Maria Ligresti, rimanesse in carcere. E che sia stata trasferita agli arresti domiciliari è un risultato condivisibile. C’è da eccepire, però, sul meccanismo sbagliato che ha portato a una conclusione giusta. Non sfugge, nemmeno al ministro, che la sua “segnalazione” (leggasi “raccomandazione”) ha reso la cittadina Giulia Maria diversa da altri detenuti. E la pezza d’appoggio degli “altri 109 casi” per cui la titolare di via Arenula si è spesa sono semmai la dimostrazione di un’istituzione che non funziona alla radice e andrebbe riformata. Proprio per evitare che, a una mancanza dello Stato, si sopperisca col solito malcostume italico degli “amici degli amici”, delle vie corte e, dunque, della disparità di trattamento. I famosi “109 casi” sono anche il segno di una sensibilità che fa onore alla signora Cancellieri. Non al ministro Cancellieri. È l’eterno dibattito sulla legittimità o meno che un uomo pubblico possa scindere il se stesso privato dal ruolo. Le democrazie mature hanno già dato una risposta: ed è no. Tanto più se il se stesso privato si sovrappone alle funzioni che si è chiamati a esercitare e al potere che ne consegue: quello del dicastero della Giustizia è enorme. Anna Maria Cancellieri ha gettato, a copertura di un evidente fallo non importa se preterintenzionale, il peso di una credibilità maturata negli anni in diversi rami della pubblica amministrazione e la stima di cui gode quasi universalmente dal Quirinale in giù. Ha incassato la solidarietà di chi si occupa delle nostre galere e sa quale inferno siano, da Luigi Manconi a don Gino Rigoldi a Adriano Sofri. Ma ha anche fatto leva su quel sentimento che fa dell’arte di arrangiarsi, dell’individualismo, una filosofia non importa se contro lo Stato e che ci impedisce di essere fino in fondo comunità dunque nazione. Mentre un non detto ha accompagnato la sua autodifesa. Se un Parlamento ha potuto certificare Ruby la nipote di Mubarak, se Alfano si è salvato dal vergognoso affaire kazako, il suo, al confronto, non è forse un peccato veniale? Quando è proprio la statura che le conoscevamo a obbligarla a esserne all’altezza: perché avessimo l’illusione di essere un Paese normale al pari di quelli in cui ci si dimette per una tesi di laurea copiata in gioventù (la Germania) o per una carta di credito pubblica usata per comprare un dvd (l’Inghilterra). Non basta, non può bastare, il “rammarico” espresso per “aver fatto prevalere i sentimenti sul distacco che il mio ruolo di ministro impone”. Qui c’è la telefonata a un’amica coi parenti in carcere che si sfoga ritenendo si stia commettendo un’ingiustizia e la Cancellieri che risponde “non è giusto, non è giusto”. Nel contesto, una presa di distanza dai giudici. C’è la promessa di occuparsene e la conferma di averlo fatto. C’è il conflitto di interessi con gli emolumenti del figlio percepiti dai Ligresti, sicuramente leciti ma fin dal tempo dei romani sappiamo che la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto. Poteva andare così: che Anna Maria Cancellieri si dimettesse senza che le fosse richiesto. E il suo gesto segnasse uno spartiacque col triste andazzo cui siamo purtroppo abituati e segnasse una nuova strada, un nuovo esempio. Alla signora Anna Maria Cancellieri, pensionata, avremmo allora stretto la mano. In segno di sentita solidarietà. Giustizia: Favi (Pd); la Cancellieri apra davvero una linea d’ascolto e di aiuto istituzionale Ristretti Orizzonti, 7 novembre 2013 “Avevamo chiesto al Ministro Cancellieri di attivare una task-force permanente al Dap dove potessero essere segnalati i casi conclamati di incompatibilità delle condizioni di salute rispetto alla penosa condizione delle carceri e dei servizi sanitari interni. Una help-line dove potessero rivolgersi con certezza di ascolto i familiari delle persone ristrette, i Garanti territoriali dei diritti dei detenuti, le associazioni di volontariato, i rappresentanti delle istituzioni nazionali e locali. Il Ministro Cancellieri ha riferito ieri in Parlamento che già esiste da diversi anni una struttura appositamente dedicata. La cosiddetta “Sala situazioni” del Dap, che non è non è quella linea di ascolto e di aiuto istituzionale che possa attivare, correttamente e con imparzialità, le valutazioni sui casi più drammatici che si generano nelle nostre carceri, è nel concreto il terminale di una informazione chiusa all’interno del sistema penitenziario che, al limite, interviene in occasione degli eventi critici, quali tentativi di suicidio, atti di autolesionismo, proteste eclatanti o di sciopero della fame, perpetuando così i meccanismi infernali della detenzione per chi manifesta estremo disagio o chiede attenzione alle istituzioni. Confermiamo perciò, dopo il chiarimento sul caso Ligresti, la richiesta al Ministro Cancellieri di istituire la task-force e, contestualmente, di limpidezza dei canali di ascolto e di aiuto, almeno nei casi più estremi nel quotidiano dramma delle nostre carceri sovraffollate. Quanto al fenomeno inaccettabile dei suicidi in carcere, il Ministro Cancellieri valuti l’esperienza introdotta dal 1988 negli Stati Uniti dove si è riusciti ad abbattere le morti dell’80%, istituendo un’apposita struttura per la prevenzione dei suicidi attraverso staff di persone incaricate della formazione del personale penitenziario, proposta avanzata recentemente dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere costituto dalle associazioni no-profit del settore”. Giustizia: intervista al Senatore Luigi Manconi “onore e applausi al ministro Cancellieri” di Rodolfo Casadei Tempi, 7 novembre 2013 “Cancellieri ha svolto il suo compito istituzionale. Perché doveva astenersi?”. Manconi (Pd) difende il guardasigilli “dal partito del “Più carcere per tutti” che esige la punizione dei privilegiati”. Se non possiamo essere uguali nei diritti è meglio esserlo nei non diritti? Tutti sulla forca pur di essere allo stesso livello? È all’opera un meccanismo demagogico feroce: in nome di un presunto egualitarismo si propugna un livellamento delle garanzie verso il basso”. Luigi Manconi, senatore Pd, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, è un estimatore di Annamaria Cancellieri, che considera il ministro della Giustizia più attivo negli ultimi anni per quel che riguarda i problemi delle carceri italiane, ma soprattutto è un critico intransigente dei riflessi condizionati in materia di giustizia e del populismo giustizialista. Sul giornale online L’Huffington Post ha esposto il suo pensiero sul caso Cancellieri-Ligresti, attaccando chi chiede le dimissioni del ministro della Giustizia. Senatore Manconi, alcuni giornali e alcuni esponenti politici hanno messo sotto accusa la Cancellieri per il suo intervento in relazione alla detenzione di Giulia Ligresti, lei invece ha messo sotto accusa il conformismo nazionale e la cultura del sospetto. Cosa intende dire? C’è stata una reazione che corrisponde a un riflesso condizionato. Basta evocare la parola o l’immagine del privilegio e si scatena subito una mobilitazione emotiva che esprime volontà di rivalsa sociale e che esige la punizione dei privilegiati. È una reazione che si spiega molto facilmente: l’Italia è un paese dove i privilegi sono tuttora numerosissimi e assai consistenti, e dunque coloro che ne sono esclusi patiscono la condizione di disparità in cui vivono; ne chiedono conto e reclamano per lo meno quella sorta di risarcimento morale che è la punizione di quanti sono titolari di posizioni di vantaggio. Ci ha molto colpito il suo riferimento, nell’intervento sull’Huffington Post al concetto di “utopia regressiva”... Beh, certo, perché di fronte a un caso come questo io mi aspetterei - ed è la mia personale posizione - che ci si battesse e si chiedesse a gran voce che tutti coloro i quali si trovano nella condizione di Giulia Ligresti, possano usufruire dello stesso trattamento che in base a precise disposizioni di legge lei ha ricevuto. E invece si manifesta una sorta di utopia regressiva, ovvero una domanda di livellamento verso il basso, di equiparazione dei diritti al più infimo livello. Quasi un azzeramento delle garanzie e dei diritti, invece che l’innalzamento di tutti al godimento di quelle stesse garanzie e di quegli stessi diritti. È un’utopia regressiva, l’idea di un mondo di uguali nell’ingiustizia. Se non possiamo essere tutti uguali nei diritti, sembra essere il messaggio, dobbiamo esserlo nello stare allo stesso livello. E lo stesso livello è per esempio quello del palco su cui si innalza la forca. Nasce da qui lo slogan e il partito del “Più carcere per tutti”. Una sorta di via giudiziaria alla lotta di classe che non ha la nobiltà e la grandiosità, non ha quell’orizzonte magari ingenuo ma luminoso di una rivoluzione universale, ma ha l’orizzonte cupo e tetro dell’ingiustizia generale. Ma non è che forse siamo andati ancora un po’ più in là? In Italia c’è più speranza di essere liberati per incompatibilità col regime carcerario se si è un poveraccio che se si è un potente o considerato tale. È un po’ paradossale questa interpretazione, ma è un paradosso che contiene una sua verità. Io sono testimone personale del fatto che Angelo Rizzoli, affetto da sclerosi multipla e da una grave insufficienza renale, ha dovuto aspettare quattro mesi e mezzo prima di vedere riconosciuto il suo diritto agli arresti domiciliari, e mentre si trovava nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini non ha potuto usufruire delle stampelle perché in carcere le stampelle non entrano. Dunque il paradosso che lei propone contiene una parte di verità. È evidente che Angelo Rizzoli è stato danneggiato dal fatto di essere persona nota. Il ministro della Giustizia ha detto che deve essere responsabile e che ha il dovere di rispettare le leggi, ma deve anche avere il diritto di essere un essere umano. Come commenterebbe? Io personalmente non riesco a immaginare un uomo politico, un governante, un rappresentante delle istituzioni che annichilisca la sua dimensione umana. Penso che quanti chiedono al ministro di rinunciare alla sua dimensione umana esprimono poca consapevolezza non della dimensione umana del ministro, ma della loro propria. Se ancora c’è. Lo spero contro ogni speranza. Non c’è profilo penale in quel “farò tutto il possibile” che la Cancellieri pronuncia nella telefonata intercettata, però la sua diffusione sembra mirata a danneggiare il ministro, a macchiare la sua immagine... L’effetto ottenuto è stato proprio questo, non c’è dubbio. In Italia c’è una sorta di morbosa passione per la diffusione delle intercettazioni e dunque la cosa sarebbe probabilmente avvenuta nei confronti di chiunque. Però in questo caso si tratta di un ministro che aveva sin dal primo momento mostrato la maggiore attenzione per il carcere fra tutti i ministri di cui io ricordi l’attività. Parlo almeno degli ultimi vent’anni. Di un ministro che aveva riconosciuto ripetutamente la necessità di amnistia e indulto. Non sto assolutamente dicendo che quella intercettazione è stata pubblicata per tali motivi. Dico però che certamente il ministro non è popolarissimo in alcuni settori dello Stato e presso alcune istituzioni. C’è chi eccepisce sul fatto che, proprio perché si tratta di amici ed ex datori di lavoro, la Cancellieri si sarebbe dovuta astenere... Astenere da cosa? C’è ancora un equivoco che circola, quello dell’interferenza: la verità è che la Cancellieri non ha detto una sola parola a un solo magistrato tra coloro che dovevano decidere la scarcerazione e il passaggio ai domiciliari di Giulia Ligresti. È intervenuta sul Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che dipende direttamente da lei. Ed è intervenuta per quello che è un suo compito istituzionale, cioè accertarsi che le condizioni di reclusione fossero adeguate sia alla figura della reclusa che al suo stato di salute. Ha fatto semplicemente il suo dovere. C’è chi ne fa un problema di cellulare. Antonio Ingroia ha detto che o il ministro mette a disposizione di tutti il suo numero di telefono, oppure si deve dimettere... Non sono al corrente di questo intervento di Ingroia, ma questo ragionamento l’ho sentito fare in questi giorni da giornalisti e politici. Siamo nel campo dello spirito di patata. È un campo frequentatissimo. Si tratta di una sciocchezza assoluta. I modi per accedere al ministro sono tanti, e come è già stato dimostrato, il numero di mail che le giungono è di centinaia. Queste mail segnalano condizioni di detenzione alle quali il ministro replica in un modo o nell’altro. Oltre a ciò, ci sono tanti canali attraverso i duali si può raggiungere il ministro della Giustizia. Esistono associazioni ed esistono i parlamentari, ai quali ci si può rivolgere. Se qualcuno mandasse al Senato una lettera indirizzata a me, qualora contenesse indicazioni utili e denunciasse una condizione iniqua, io sarei in grado di far giungere la segnalazione al ministro della Giustizia. E come me lo può fare quasi un migliaio di parlamentari di Camera e Senato. Lei è favorevole all’amnistia, come il ministro Cancellieri che pure si rimette alla sovranità del Parlamento. Le condizioni precarie delle carceri italiane sono sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vedere. Ma c’è un pensiero che anche le persone meno prevenute si fanno: “Sì, amnistiamo i detenuti. Ma è probabile che molti di loro torneranno a delinquere e dunque torneranno in carcere”. L’impegno per l’amnistia non dovrebbe andare di pari passo con un impegno per la rieducazione del detenuto e per il suo inserimento sociale e lavorativo quando esce per il fine pena o per un provvedimento di clemenza? Sicuramente sì. Così deve essere fatto, ed è possibile fare. Ma la frase “tanto poi tornano tutti in carcere” è l’ennesimo indecente luogo comune che coincide con un falso clamoroso. Una ricerca scientifica condotta da me e dal professor Giovanni Torrente ha mostrato con dati ufficiali e non contestabili come la recidiva tra coloro che hanno beneficiato dell’indulto del 2006 è esattamente la metà della recidiva registrata tra coloro che scontano interamente la pena in carcere. Nonostante quell’indulto, sacrosanto e necessario, abbia avuto effetti positivi meno di quanto sarebbe stato possibile perché non si è potuta varare anche l’amnistia, in quanto il governo di allora è durato solo 15 mesi dopo il varo dell’indulto stesso. Comunque ha avuto lo straordinario risultato di dimezzare la recidiva che ordinariamente si registra tra coloro che hanno scontato una pena detentiva. La soluzione delle residenze a sorveglianza attenuata e la regionalizzazione di alcune carceri la convincono? Sì, pienamente. E aggiungo che si tratta di soluzioni già previste in passato, proposte da altri ministri, ma nessuno come Annamaria Cancellieri si è prodigata in così pochi mesi perché si creassero le condizioni per realizzare queste riforme indispensabili. Lei ha detto che la Cancellieri agli occhi di alcuni ha il difetto di essersi occupata troppo di carceri e di essere favorevole all’amnistia. Forse l’ha danneggiata anche quello che aveva detto a settembre sulla legge Severino, quando sembrava avere spezzato una lancia in favore di Silvio Berlusconi sulla questione della retroattività? Io escludo che la pubblicazione di questa intercettazione risponda a motivi diversi da quello di tirar fuori un elemento che era destinato a rimanere riservato e che getta un’ombra sulla Cancellieri. Io credo che sia tutto qui il motivo di questa cosiddetta rivelazione. Poi, le posizioni della Cancellieri contribuiscono agli attacchi che lei subisce una volta che l’intercettazione è stata resa nota, fanno da moltiplicatore. Ma la pubblicazione dell’intercettazione corrisponde solamente al fatto che si trattava di un’intercettazione, diciamo così, pruriginosa. Quindi il giornale che la pubblicava sapeva che si trattava di un fatto di notevole interesse popolare. Sarebbe piaciuta, sarebbe stata accolta con entusiasmo in alcuni settori. Se uno dispone di enormi fascicoli colmi di registrazioni di intercettazioni, indubbiamente lì troverà materiale degno di pubblicazione nell’ottica di un’interpretazione invasiva e morbosa della vita privata dei singoli. Giustizia: Marco Cavallo in tour… per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari Ansa, 7 novembre 2013 Marco Cavallo, l’enorme Cavallo azzurro in cartapesta simbolo della rivoluzione di Franco Basaglia che portò con la legge 180 del 1978 alla chiusura dei manicomi, torna in strada. Per chiedere la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, evitare la loro sostituzione con i cosiddetti “Mini Opg” (manicomi regionali) e a favore dell’ apertura dei Centri di Salute mentale h24. Sono sei gli Opg (Barcellona P.G., Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere) ancora aperti in Italia e vi sono internate circa 800 persone, secondo il Dap. In pratica, la seconda parte della rivoluzione basagliana. Da Trieste, dove il noto direttore dell’Ospedale Psichiatrico San Giovanni avviò la riforma, riparte Marco Cavallo, il “mythos” creato dal drammaturgo e scrittore Giuliano Scabia, che all’esperienza triestina partecipò attivamente. Come fece negli anni 70 e 80, portato in tutta Europa, così 40 anni dopo torna in strada a favore dei diritti degli internati a una vita migliore. Promosso da stopOPG, Alphabeta Verlag, Marco Cavallo partirà il 12 novembre per Torino, Genova, Livorno e in nave Palermo. Risalendo, tappa nei 6 Opg e a Roma, in Parlamento. Il viaggio di Marco Cavallo avrà numerosi testimonial, che parteciperanno agli eventi organizzati nelle città-tappe del viaggio, tra i quali Fabrizio Gifuni, Gino Paoli, Giuliano Scabia, tanti gruppi teatrali. Il 12 novembre è previsto un evento in Piazza Unità d’Italia con la Presidente della Regione Fvg Debora Serracchiani e altre autorità e associazioni. La legge (n. 9 del 2012) prevede che, in base a una proroga, il 1 aprile 2014 vengano chiusi gli Opg e le Regioni si facciano carico dei malati inserendoli in progetti terapeutico- riabilitativi e favorendo misure di sicurezza alternative all’Opg, come previsto da sentenze della Corte Costituzionale. Alcune Regioni, però, hanno presentato programmi per l’apertura di strutture residenziali speciali, i cosiddetti “mini Opg”. Inoltre, a causa di ritardi in alcune regioni, non è escluso che venga approvata una proroga nell’ attuazione della norma. Dell’Acqua: rischi per cambiamento Basaglia “È a rischio il grande e critico cambiamento realizzato da Franco Basaglia”. È l’allarme lanciato dallo psichiatra Peppe Dall’Acqua, che di quella esperienza, concretizzata dapprima a Trieste, fu uno dei principali protagonisti. Intervenendo alla conferenza stampa di presentazione del nuovo tour in Italia di Marco Cavallo, il simbolo di quella riforma, appunto, Dell’Acqua ha segnalato: “Sono tanti che vogliono di nuovo tornare a separare i matti da un lato e i sani dall’altro. Nessuno lo dice, si tratta di una condotta portata avanti in modo subdolo, ma è questo ormai un radicato modo di fare politica sanitaria in Italia”. Una condotta che si palesa nel “voler sostituire gli Opg con manicomi regionali”. In conferenza, alla Provincia di Trieste, sono state manifestate incertezze in merito alle persone internate negli Opg: “Non riusciamo ad avere dati pubblici - ha sottolineato Stefano Cecconi, della Cgil e del Comitato Stop Opg. Nell’ambito dei fondi ripartiti tra le Regioni si parla di 1.380 ma al Dap risultano 1.100 circa ad aprile scorso”. Il capo del Dap, Tamburino, in Senato ha riferito di 800 persone. Giustizia: mozione senatori Pd-Sc-Autonomie su pene alternative, amnistia ultimo rimedio Ansa, 7 novembre 2013 Considerare l’amnistia e l’indulto solo gli ultimi “rimedi” di una lista di misure da attuare, sia per alleviare con effetto immediato la situazione di sovraffollamento delle carceri italiane, che per rendere la detenzione conforme al dettato costituzionale. È quanto chiedono al governo con una mozione i senatori democratici Laura Puppato, Valeria Fedeli, Francesco Scalia, Felice Casson, Isabella De Monte, Sergio Lo Giudice, Stefania Pezzopane, Lucrezia Ricchiuti, Miguel Gotor, Nicoletta Favero, Corradino Mineo, i senatori di Sc Aldo Di Biagio e Pietro Ichino e il presidente del gruppo delle Autonomie Hans Berger, con il senatore Francesco Palermo. Nella mozione i senatori chiedono in particolare all’Esecutivo di “rafforzare le misure alternative, di ridurre l’area applicativa della custodia cautelare in carcere; di attenuare gli effetti della recidiva quale presupposto ostativo per l’ammissione dei condannati alle misure alternative alla detenzione; di aumentare le possibilità di accesso ai benefici penitenziari; di stanziare le risorse finanziarie necessarie alla riqualificazione e al miglioramento dei penitenziari; di adeguare gli organici del personale penitenziario ed amministrativo, dei medici, degli infermieri, degli assistenti sociali, degli educatori e degli psicologi; il miglioramento del servizio sanitario penitenziario”. Sulla funzione della pena, i senatori chiedono al governo di “adoperarsi affinché ai detenuti siano offerte opportunità di lavoro in carcere, anche non retribuite, compatibili con le condizioni di detenzione”. I senatori auspicano inoltre un impegno del Parlamento e del governo per “una profonda riforma della legge Fini-Giovanardi, che escluda la detenzione in carcere di coloro che hanno commesso reati minori legati alla detenzione e al consumo di sostanze stupefacenti”. Giustizia: oltre le sbarre con i francobolli, “Collezionare libera… mente”, da Poste italiane www.vaccarinews.it, 7 novembre 2013 Dedicarsi ai francobolli per passare il tempo, scoprire interessi latenti e, più prosaicamente, sentirsi “fuori”. È la guida “Collezionare libera… mente”, che la funzione filatelia di Poste italiane -con alcuni supporti esterni, fra cui quello di “Vaccari news”- ha realizzato quale dono e supporto per le persone coinvolte nel progetto “Filatelia nelle carceri”. In 96 pagine, di formato “A4” e con molte immagini a colori, si parla di posta e francobolli. Proponendo un mondo che dall’esterno può risultare difficile da comprendere: da qui l’esigenza di non dare nulla per scontato e prevedere persino il glossario dei termini tecnici. L’approccio è soprattutto storico, cercando di mettere in luce le curiosità. Come il modo in cui si arrivò al “Penny black”, i diversi tipi di servizi che richiesero emissioni specifiche, le cartevalori per le quali ci si avvalse della macchina per scrivere o trasformate in cd, le sagomate, profumate o che nascondono effetti speciali. Dando pane al pane: per esempio, nel capitolo dedicato agli errori, si parla del “Gronchi rosa”, ma anche del “Prudenza sulla strada” con il rosso del semaforo in basso. Dimostrando che -al contrario di quanto si crede comunemente- per l’epoca il disegno era corretto. Spazio pure agli aspetti produttivi e ai vari elementi che caratterizzano un francobollo, per poi andare ai settori collegati, dall’interofilia alla marcofila, agli attrezzi da utilizzare, alla biblioteca. Un capitolo è dedicato a “chi ha provato a farlo”. Ossia, al Circolo filatelico “Intramur”, nato nel penitenziario di Bollate (Milano). Il volume - spiega la responsabile per la filatelia della società, Marisa Giannini- “fa parte del kit in dotazione ai detenuti ed ai loro formatori”. Dietro, “un progetto ambizioso, che non avrebbe potuto prendere il volo senza lo stimolo e l’incoraggiamento dei tanti amici della filatelia, che ancora una volta hanno riconosciuto l’alta valenza culturale del francobollo”. La quale può essere conosciuta e riconosciuta pure in un contesto difficile come quello carcerario. Lettere: un nuovo ministero per non mettere più in imbarazzo Anna Maria Cancellieri di Elisa Merlo www.politicamentecorretto.com, 7 novembre 2013 La macchina dello Stato funziona male, le prigioni dello Stato funzionano malissimo, e il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri è costretta ad interessarsi ora di quello ora di quell’altro detenuto che versa in brutte condizioni di salute. Solo che la Cancellieri è venuta a trovarsi nei pasticci quando ha dovuto interessarsi di un detenuto, anzi, di una detenuta, che appartiene ad una famiglia la cui amicizia già in sé dovrebbe mettere in imbarazzo un ministro del governo. Sulla prudenza e la cautela ha prevalso l’amicizia e l’umanità, lei stessa, infatti, si è rammaricata di “aver fatto prevalere i sentimenti sul distacco che il mio ruolo di ministro mi impone”. Del resto, ha fatto un’opera buona, e non si può neppure disapprovarla. E allora? Allora, poiché la macchina della Stato continuerà a funzionare male per chissà quanto tempo ancora, poiché il problema delle prigioni continuerà ad essere un eterno problema, al fine di evitare che il ministro della Giustizia venga a trovarsi in situazioni drammatiche, a combattere tra ruolo di ministro e ruolo di benefattrice, converrebbe lasciare a lei il solo ruolo di ministro, e istituire un nuovo ministero. Potrebbe chiamarsi il Ministero delle Opere Buone. Campania: Consigliera regionale Beneduce; diritto alla salute negato nelle carceri Ansa, 7 novembre 2013 Si conclude il tour del consigliere regionale nei penitenziari. “Per i detenuti la sanità non può essere un’isola che non c’è”. Così Flora Beneduce, consigliere regionale della Campania, commenta lo stato della sanità penitenziaria in Campania. Sanare le criticità e far luce sull’utilizzo dei fondi stanziati dalla Regione e trasferiti alle Asl per le carceri sono gli obiettivi dell’onorevole Beneduce, in seguito al tour negli istituti penitenziari della provincia di Napoli. “La situazione sanitaria degli istituti penitenziari campani è allarmante. Il sovraffollamento, i disagi psicologici, la percezione di ostilità che i detenuti avvertono nei confronti del personale, le lunghe attese per le visite specialistiche per i malati, l’assenza di figure professionali con formazione specifica rendono le condizioni dei reclusi particolarmente grave - dice Flora Beneduce, componente della Commissione Sanità del Consiglio regionale - nella struttura sanitaria del centro penitenziario di Secondigliano manca il personale medico e paramedico e le strumentazioni sono inadeguate o assenti. Non sono garantite le attività specialistiche per cui c’è più domanda, come l’ ortopedia, l’urologia, la diabetologia, la neurologia, la gastroenterologia e la chirurgia vascolare. Risultano del tutto insufficienti le ore assegnate ad altri specialisti. Assente anche la diagnostica per immagini. Gli esami di laboratorio, persino quelli di routine, non sono effettuati in sede e seguono una lunga trafila: una volta eseguito il prelievo ematico, lo stesso viene trasportato negli ospedali che insistono nella stessa Asl”. Secondo la Beneduce “condizioni simili persistono anche al centro clinico di Poggioreale. Eppure l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo stabilisce che ogni uomo debba avere un trattamento dignitoso: il diritto alla salute è inalienabile e preminente rispetto ad altre esigenze come, ad esempio, quella alla sicurezza. Ma, in queste carceri, le cure sembrano essere un’elargizione piuttosto che un diritto. La presenza dei medici, che subentrano a tempo determinato e cambiano ogni mese, è discontinua e non consente al detenuto di avere riferimenti stabili. La richiesta al Cup di una visita specialistica genera lunghissime liste d’attesa, prassi burocratiche complesse e trasferimenti che impegnano risorse umane e mezzi. Emergono, dunque, diverse esigenze: innanzitutto quella di disporre personale medico specializzato e perlomeno del laboratorio di analisi all’interno della casa circondariale. Ã auspicabile, poi, l’istituzione di una graduatoria di medici di Medicina Generale, appositamente formati, da assumere a tempo indeterminato”. “Infine, bisogna predisporre day hospital oncologici per le chemioterapie in sede. Altra necessità, è quella di individuare una percentuale di posti di degenza in strutture convenzionate da riservare ai detenuti per la riabilitazione post infarto e post ictus”. Non termina qui l’analisi dell’onorevole Beneduce, che, nel passaggio delle attribuzioni di competenze della sanità penitenziaria dal ministero di Grazia e Giustizia alle Asl avvenuto nel 2008, ha ravvisato l’ingenerarsi di nuove emergenze ed inadempienze. La Regione ha impegnato dei fondi per la sanità penitenziaria - spiega la Beneduce. Alla Asl Napoli 1, dove insistono i centri clinici di Poggioreale e Secondigliano, sono stati assegnati nel 2012 oltre 10 milioni di euro. Sarebbero stati sufficienti ad evitare l’avvicendamento per i pazienti detenuti , destabilizzante per i pazienti, dei medici; per acquistare alcune delle apparecchiature necessarie e per assicurare i livelli essenziali di assistenza. Non so dove questi fondi siano finiti. Per ottenere risposte, forse dovrei rivolgermi all’Osservatorio permanente per la sanità penitenziaria, istituito nell’ottobre del 2010. Se solo funzionasse”. “In questo cupo excursus sulle carceri partenopee, però - evidenzia la Beneduce - ci sono degli spiragli di luce e prospettive che aprono alla speranza. Nella casa circondariale di Pozzuoli, infatti, c’è una realtà diversa, dove sono attivi tutti gli ambulatori, grazie all’impiego di specialisti ambulatoriali, e dove c’è la Guardia medica h24. Inoltre, le detenute hanno la possibilità di studiare, di essere iniziate a diverse professioni, di acquisire competenze, di partecipare a laboratori e di recitare. Il vero disagio è quello affettivo, per la lontananza dai figli - conclude - ma il personale medico e paramedico spesso riesce a offrire supporti che non sono solo professionali, ma anche e soprattutto psicologici. Ecco, dunque, l’importanza di essere pronti per gestire il rapporto con i reclusi, spesso malati nel corpo e feriti nell’animo”. Abruzzo: Di Carlo (Radicali); Regione fannullona, a rischio elezione Garante detenuti Radicali Italiani, 7 novembre 2013 “La maggioranza ha fatto mancare il numero legale anche nella seduta del consiglio regionale di martedì e così l’elezione del garante regionale dei detenuti - per cui ci battiamo da almeno cinque anni - è stata nuovamente rinviata”. La nota arriva da Alessio Di Carlo, segretario di Radicali Abruzzo, che aggiunge: “a questo punto è a rischio anche la legge sull’uso terapeutico della cannabis, già approvata il mese scorso in commissione”. “Dinanzi ad una classe politica tanto fannullona - conclude l’esponente radicale - speriamo che gli elettori abruzzesi, nelle urne, sapranno comportarsi di conseguenza”. Roma: a Rebibbia il Reparto G11 è un Centro clinico, ma non ne ha le caratteristiche Ristretti Orizzonti, 7 novembre 2013 Il garante dei detenuti del Lazio scrive al Capo del Dap per la situazione sanitaria del reparto G11 di Rebibbia Nuovo Complesso. Sono le parole del ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri a riaccendere l’attenzione sulle carceri. “Oltre un centinaio di casi in tre mesi”. Il ministro si riferisce alle decine di interventi per verificare e in alcuni casi alleviare la situazione di detenuti. Così il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, scrive al Capo del Dap Giovanni Tamburino sulla grave situazione sanitaria e logistica del reparto g11 di Rebibbia Nuovo Complesso: “Il piano terra del reparto G 11 del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso è, di fatto, utilizzato come Centro Clinico senza averne le caratteristiche tecniche e strutturali e senza, soprattutto la presenza di personale medico e paramedico adeguato”. svuota-carceri. Il G 11 è un reparto di Rebibbia N.C. destinato ad ospitare i cosiddetti detenuti comuni. Organizzato su tre piani, ognuno dei quali diviso in tre bracci, ospita attualmente oltre 500 detenuti. I problemi di carattere logistico e sanitario sono cominciati circa un anno fa quando, con l’avvio dei lavori di ristrutturazione del Centro Clinico di Regina Coeli, buona parte dei detenuti malati lì ricoverati sono stati trasferiti a Rebibbia e qui, per ospitarli, è stato adattato a Centro Clinico il piano terra del G 11. “Trattandosi di una soluzione di ripiego - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - la situazione è rapidamente degenerata diventando, oggi, drammatica. Il reparto non ha le condizioni strutturali per ospitare detenuti affetti dalle più disparate patologie e con scarse o nulle capacità deambulatorie. Celle e servizi non sono adeguati per ospitare persone disabili. Mancano le carrozzine ed ogni altro supporto per cui non è infrequente che i detenuti siano costretti a stare tutto il giorno in cella. La presenza sanitaria è insufficiente a gestire una situazione del genere e moltissimi detenuti denunciano di non essere seguiti dalla sanità di reparto. È per questo che abbiamo chiesto un intervento urgente del Capo del Dap. Quelle che abbiamo segnalato sono tutte persone affette da patologie gravi, che avrebbero bisogno di ben altra attenzione; rispetto a ciò torna utile il dibattito sviluppato in questi giorni sul caso Ligresti, da parte del Ministro Cancellieri che ha posto all’attenzione nazionale le difficili condizioni di vita di molti detenuti”. Ecco le 10 denunce inviate al capo del Dap Giovanni Tamburino Liviu C., è invalido al 100% per colpa di una patologia caratterizzata da atrofia muscolare e neuropatia sensitiva progressiva che colpisce le estremità degli arti. È alloggiato in una cella di 18 mq. con 4 letti, 6 armadi, 1 tavolo e 4 sgabelli. Il bagno è per normodotati, senza alcun appoggio per disabili. Non ha né carrozzina ne canadesi. Emilio T., ha la poliomielite alla gamba destra, che è a rischio di amputazione. Diabetico, è costretto a fare punture di insulina 4 volte al giorno. Da 4 mesi è in sciopero della terapia salvavita lamentando il disinteresse della sanità di reparto. Nella sua cella di 10 mq. non c’è spazio per la carrozzina e per questo vive allettato 24 ore al giorno. Massimo C., ha l’artrite psoriasica su tutto il corpo che nella fase acuta provoca il blocco totale degli arti inferiori costringendolo a letto. Lamenta il disinteresse della sanità di reparto. La sua cella di 20 mq la divide con altre quattro detenuti disabili. Il bagno, senza sostegni per disabili, è senza doccia e senza acqua calda. Fabrizio F., invalido all’85%, ha una protesi totale dell’anca destra e e un chiodo endomidollare alla gamba sinistra. Da agosto è in attesa di un intervento chirurgico al “Sandro Pertini” e per denunciare la sua situazione ha fatto anche lo sciopero della fame e della sete. Nella sua cella ci sono 4 letti, 6 armadi poggiati a terra ed altri 11 appesi al muro, 1 tavolo e 4 sgabelli. Per muoversi occorre fare i turni spostando ogni volta tavolo e sgabelli. Il bagno è per normodotati, senza alcun appoggio per disabili e privo di doccia e di acqua calda. Salvatore F., invalido al 100% con accompagno vive tutto il giorno in cella senza piantone e senza nessun supporto (carrozzine o canadesi). È uno dei compagni di cella di Fabrizio F.. Domenico C., è affetto da retinopatia diabetica ad entrambi gli occhi, da neuropatia diabetica alle gambe e da diabete mellito con discompensazione ipoglicemica. Ha subito anche un Infarto del miocardio. Per muoversi nella cella bisogna fare i turni spostando ogni volta tavolo e sgabelli. Luciano L., già colpito da 3 infarti e 6 ischemie cerebrali, è stato operato a cuore aperto con sostituzione della valvola aorta sinistra. Quando aveva 11 anni di età una meningite settica gli ha provocato il distacco delle dita dei piedi. Gli è stata tolta la carrozzina ed i bastoni canadesi. Vive in una cella di 20 mq con altre 4 persone. Il bagno, per normodotati, è privo di doccia e di acqua calda. Alberto B., invalido al 100% con accompagno, è affetto da epatite C cronica a causa di una infezione al midollo. Ha subito l’asportazione di 3 vertebre, sostituite da vertebre sintetiche, e per questo ha una semiparalisi degli arti inferiori. Trasferito da poco, quando era al G11 ha denunciato di non essere stato seguito in maniera adeguata. Carlo D’A. ha una complessa situazione clinica. Lo scorso 9 settembre, doveva essere operato per la rimozione di un cerchio precedentemente installato sulla sua rotula sinistra. Errori, incomprensioni e burocrazia hanno fatto saltare l’intervento e, per questo, il detenuto lamenta di non essere stato adeguatamente seguito. Roma: “polmonite non diagnosticata” causa morte di un giovane detenuto a Regina Coeli di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 7 novembre 2013 Danilo Orlandi, 31 anni, fu curato con una semplice aspirina. Il decesso risale a giugno, la svolta è arrivata dai risultati dell’autopsia. Maria Brito giura che suo figlio è morto “di” carcere. Disperso tra i numeri massimi di Regina Coeli (1.100 detenuti anziché i 600 che il vecchio penitenziario potrebbe contenere). Il fatto è che ora, forse inaspettatamente, i risultati dell’autopsia sembrano darle ragione. Danilo Orlandi, 31 anni, arrestato per resistenza a un pubblico ufficiale, con problemi di tossicodipendenza, è morto il 1 giugno nella sua cella. Senza una terapia adatta né, a quanto pare, una vera diagnosi. Sul momento si parlò di infarto mentre “Radio Carcere” riportò voci, affiorate nell’ambiente carcerario, circa una presunta “overdose”. La svolta è di questi giorni, arrivata con i risultati dell’autopsia. Nella sua relazione, l’esperto della procura, professor Costantino Ciallella dell’Università La Sapienza parla di una polmonite non diagnosticata. E dunque, all’origine della morte di Orlandi, potrebbe esserci, ancora una volta, una negligenza. Il mancato approfondimento sulla salute di un detenuto ricorda altri casi ma, restando al presente, per ora, sulla morte di Danilo Orlandi si conoscono poche circostanze. La prima è che a fine maggio scorso, il ragazzo si ammalò e iniziò a lamentare febbre e dolori. L’altra è che, come “terapia”, gli fu somministrata una comune aspirina, un rimedio per abbattere i sintomi di un malessere non meglio approfondito e sul quale, a quanto pare, non vi furono riscontri. Oggi, tra le sostanze rilevate dall’esperto è stata rinvenuta la benzodiazepina. Un ipnotico che teoricamente non avrebbe dovuto avere. Come faceva allora a esserne in possesso? Possibile che in carcere un detenuto possa disporre pacificamente di droghe? Dal magistrato di turno all’epoca dei fatti, il pm Michele Nardi, l’inchiesta è passata al pool delle colpe professionali, coordinato dall’aggiunto Leonardo Frisani, e al sostituto Mario Ardigò. Gli investigatori hanno già acquisito la documentazione dalla direzione penitenziaria del carcere e, nei prossimi giorni, potrebbe essere ascoltato il personale di servizio in quei giorni. Una foto recente delle condizioni di vita di Regina Coeli è stata scattata dall’associazione Antigone: “Quasi tutti gli spazi destinati alla vita in comune, alla scuola e alle attività penitenziarie sono oggi utilizzati come dormitori. L’ora d’aria viene effettuata in stretti cortili cementificati. Le celle sono quasi sempre chiuse. Nella sola terza sezione, restano aperte durante la mattinata. I detenuti che lavorano, quasi sempre per poche ore settimanali a causa della ristrettezza dei fondi, sono circa 130”. Su sollecitazione dell’ex ministro Paola Severino è stata avviata un’indagine della Regione Lazio sugli aspetti sanitari di Regina Coeli. Il garante dei detenuti, Angiolo Marroni, ha denunciato a più riprese “l’incompatibilità fra regime carcerario e situazioni di malati cronici” (ieri ha scritto una lettera al Dap per denunciare la situazione di Rebibbia). L’ultimo caso, pubblicato ieri da sito del Corriere è quello di Brian Gaetano Bottigliero. Condannato a nove anni per aver preso parte alla rissa a Monti (la cui vittima, Alberto Bonanni è tuttora in coma), Bottigliero, 24 anni, è in lista per il trapianto del rene. Entra ed esce per fare la dialisi, ma il tribunale ha sempre respinto l’istanza di scarcerazione. Mantova: progetto ministero, il carcere sarà riservato ai detenuti sex-offender di Gabriele Moroni Il Giorno, 7 novembre 2013 Stupratori, pedofili, molestatori di bambini e seviziatori di donne finiranno tutti nella stessa casa circondariale. Il progetto sta entrando nella fase operativa. “Infami” nel gergo dei detenuti. “Protetti” per l’amministrazione carceraria. Sono i “sex offender”, stupratori, pedofili, molestatori di bambini seviziatori di donne, responsabili di reati contro soggetti deboli. Quello di Mantova diventerà il loro carcere. O meglio lo sarà, se arriverà all’approdo finale il progetto di ristrutturazione del sistema dei carceri lombardi a cui sta lavorando da mesi il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Una circolare è stata inviata all’inizio di ottobre dal Provveditorato di Milano alla direzione del carcere. Da allora si sono succeduti incontri e confronti ma anche momenti operativi. Il progressivo svuotamento del carcere mantovano è già iniziato da qualche giorno con il trasferimento di buona parte dei detenuti (80/90), tutti destinati al nuovo padiglione della casa circondariale di Cremona. Si tratta di detenuti che si portano dietro condanne definitive per reati comuni, dalla rapina al furto allo spaccio. “In via Poma - conferma uno dei responsabili della struttura - rimarranno reclusi coloro che si sono resi colpevoli di reati particolari, di fatto colpe che la stessa popolazione carceraria non accetta”. Se il progetto di riordino andrà definitivamente in porto, il vecchio istituto di via Poma finirà di essere la classica casa circondariale destinata a detenuti della città e del territorio. Ospiterebbe una popolazione carceraria a cui necessitano più terapie specialistiche che sorveglianza. Calerebbe il numero dei detenuti (l’ultima media era sulle 170-180 presenze) e di conseguenza l’organico degli agenti di polizia penitenziaria (attualmente un’ottantina) risulterebbe più adeguato. Numeri che rendono l’immagine di una situazione difficile, ma meno problematica di quella fotografata nella visita dell’associazione Antigone nel dicembre del 2009. A fronte di una capienza regolamentare di 119 posti e una capienza tollerabile di 180 posti, erano presenti 210 detenuti (di cui 11 donne). Gli agenti addetti alla custodia erano 84 (3 in meno di quelli previsti dalla pianta organica) di cui 14 distaccati. Delle 70 unità effettive 13 costituivano il nucleo traduzioni. Il rapporto agenti/detenuti (70/210) era dello 0.33, tra i più bassi della Lombardia. I detenuti stranieri erano 112 (53,3%). Da allora è rimasta insoluta la questione della sezione femminile, la cui chiusura, annunciata oltre un anno fa, non è mai stata attuata. Sassari: emergenza sanitaria, interrogazione in Provincia sul nuovo carcere di Bancali www.notizie.alguer.it, 7 novembre 2013 Denuncia di quattro consiglieri provinciali su presunte carenze del servizio di prima assistenza nella struttura carceraria. “Il decreto legislativo 140/2011 ha riformato la medicina penitenziaria sarda imponendo l’applicazione di linee guida regionali conformi a quanto già applicato nel territorio nazionale, in particolare la predetta normativa prevede che, per le strutture con una popolazione carceraria superiore alle 200 unità, sia creato il punto di primo intervento attivo 24 ore su 24 associato al servizio diurno di medicina generale”. Il rispetto delle regole e le “gravi carenze del servizio di prima assistenza” nel carcere di Bancali - che ospita attualmente circa 300 detenuti - sono i motivi che hanno spinto i consiglieri provinciali Toni Faedda, Grazia Onida, Giuseppe Mellino, Michele Posadinu, Ennio Ballarini a depositare un’interrogazione nel consiglio provinciale di Sassari. Nel documento, i consiglieri parlano di “reiterato ed improprio uso del sistema di emergenza territoriale del 118” da parte del penitenziario di Bancali, i cui “detenuti, in diverse occasioni, sono stati accompagnati al pronto soccorso dell’ospedale “Santissima Annunziata” perché venissero prestate loro le prime cure”. “È evidente - proseguono gli esponenti del consiglio - che il protrarsi dei suddetti inconvenienti minerebbe significativamente l’efficienza del servizio di prima assistenza causando innumerevoli disagi agli utenti del locale pronto soccorso ed un ingiustificato aggravio di incombenze a carico degli agenti della polizia penitenziaria e dello stesso personale sanitario”. Per questi motivi chiedono al presidente dell’Ente, il presidente del Consiglio e l’assessore competente “se ritengano di intervenire presso il provveditore dell’amministrazione penitenziaria, la Asl di Sassari, coinvolgendo altresì ogni altra autorità o istituzione competente, al fine di trovare adeguata soluzione alle problematiche segnalate”. Milano: Socialismo Diritti Riforme; detenuto da carcere di Opera chiede ritorno in Sardegna Ristretti Orizzonti, 7 novembre 2013 “Sono stato trasferito nella Casa Circondariale di Milano 14 mesi fa per avere litigato con un altro detenuto nel carcere di Lanusei. Mi assumo le responsabilità di quanto accaduto, sono maturato e ho capito quanto è brutto stare lontano dalla propria terra. Ora chiedo però di poter avere un’altra possibilità. Finora tuttavia mi è stato negato anche un avvicinamento per colloqui con i familiari e sono stato temporaneamente a Buoncammino solo per le udienze in Tribunale”. Lo ha scritto in una toccante lettera all’associazione Socialismo Diritti Riforme F.D., 28 anni, cagliaritano, padre di una bimba di 8 anni. “Il caso del giovane padre cagliaritano, allontanato dall’isola per punizione, ancora una volta richiama l’attenzione - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente di SdR - sul mancato riconoscimento della territorialità della pena, sancita dall’ordinamento penitenziario. La questione ha una valenza umanitaria ma anche riabilitativa. Per il primo aspetto occorre ricordare che, a prescindere dal tipo di reato e dal comportamento tenuto, si tratta di una pena aggiuntiva non prevista né dal codice né dal Giudice per l’esecuzione della detenzione usata a fini disciplinari.. Per quanto riguarda il reintegro sociale è molto difficile che possa avvenire in un Istituto così distante dalla realtà socio-economica di origine del cittadino privato della libertà. Senza considerare le difficoltà a mantenere un rapporto con la bambina che, sottolinea F.D. nella lettera “quando mi ha visto non mi ha neanche salutato, ciò mi ha fatto molto male” “La mancata applicazione della regionalizzazione della pena, quando mancano oggettive condizioni di sicurezza, rischia anche di scatenare - osserva Caligaris - una lunga serie di ricorsi che potrebbero avere conseguenze sanzionatorie a livello europeo. È infatti in costante crescita il numero dei detenuti che chiedono di poter scontare la pena nelle strutture penitenziarie prossime al luogo di residenza dei familiari. Ciò infatti può essere considerata una pressione psicologica non giustificata con conseguenze rilevanti sulla salute dell’individuo ristretto. “L’auspicio è che il Dipartimento nel caso specifico dia la possibilità a F.D., trasferito per punizione da Lanusei a Milano di restare a Cagliari- conclude l’ex consigliera regionale socialista - quando il prossimo 4 dicembre tornerà nell’isola per una nuova udienza o in alternativa lo assegni a un altro Istituto Penitenziario della Sardegna dandogli quella seconda possibilità richiesta E nel rispetto dell’art.27 della Costituzione, eviti di utilizzare per motivi disciplinari la mancata attuazione della territorialità della pena prevista dalla legge sull’Ordinamento penitenziario. Lucca: Sappe; aggressione violenta a un ispettore e anche due tentativi di suicidio Ansa, 7 novembre 2013 “Sembra non trovar pace il carcere di Lucca, sempre al centro di tensioni e polemiche ed oggetto anche di interrogazioni in Parlamento. E continuano gli episodi critici: solo negli ultimi giorni registriamo tre nuovi eventi critici nel penitenziario di Lucca: e cioè una nuova violenta aggressione ad un appartenente alla polizia penitenziaria, questa volta un Ispettore, e due tentati suicidi di detenuti per fortuna sventati in tempo”. Lo denuncia il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), con il segretario generale Donato Capece. “Episodi che confermano come quello di Lucca sia un carcere che “naviga a vista”, con zero livelli di sicurezza per i poliziotti - prosegue Capece in una nota. Per questo abbiamo chiesto un ‘cambio di passò, con l’avvicendamento del direttore. Per questo rinnoviamo la richiesta chiedendo anche una ispezione ministeriale, che accerti tutto quello che non va in questo carcere e le conseguenti precise responsabilità. Così non si può più andare avanti”. Capece esprime “apprezzamento e vicinanza del primo sindacato del Corpo al Reparto di Polizia Penitenziaria di Lucca” e intende sottolineare quello che quotidianamente fanno “i Baschi Azzurri: siamo attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso. Negli ultimi vent’anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato la vita ad oltre 16.000 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 113mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo”. Inoltre segnala che in generale “il nostro organico è sotto di 7.000 unità. La spending review e la legge di Stabilità hanno ridotto al lumicino le assunzioni, nonostante che l’età media dei poliziotti si aggiri sui 37 anni. Altissima, considerato il lavoro usurante che svolgiamo, come dimostrano i gravi episodi in nostro danno accaduti a Lucca”. Roma: a Rebibbia riprende il laboratorio di arte-terapia e musica per le detenute madri Ansa, 7 novembre 2013 Riprende domani, nella sezione Nido del carcere femminile di Rebibbia, a Roma, il “Laboratorio di Arteterapia” destinato alle madri detenute e ai loro figli. Il Laboratorio è uno dei programmi realizzati dall’ associazione “A Roma, Insieme” per i detenuti dei penitenziari romani. Il laboratorio di Arteterapia sarà coordinato anche quest’anno da Giovanna Longo. Il progetto di Arteterapia è rivolto alle detenute che vivono in carcere con i figli, tutti bambini al di sotto dei tre anni e di fatto anch’essi detenuti. L’intento è quello di coinvolgere i bambini e le mamme in attività creative per alleviare il disagio, conoscere, sperimentare, emozionarsi con materiali, forme e colori. Il Laboratorio è stato ideato dall’Associazione “A Roma, Insieme” ed accolto dalla direzione dell’Istituto che lo ha inserito nei programmi volti al recupero delle detenute. È anche ripreso, in questi giorni, sempre nella sezione Nido del carcere femminile di Rebibbia, il Laboratorio di musicoterapia “Musica dentro”, destinato alle madri detenute e ai loro figli. Musica dentro, coordinato da Silvia Riccio, musicoterapista esperta nel trattare con bambini in condizioni di disagio, è rivolto alle detenute che vivono in carcere con i figli. Mamme e bambini vengono coinvolti nel “fare musica insieme”, un complesso programma di attività che includono l’improvvisazione e l’esplorazione musicale con il corpo e con strumenti sonori e musicali, il canto, il gioco e il ballo. La musicoterapia è una disciplina paramedica che utilizza il suono, la musica e il movimento per instaurare una relazione tra terapista e paziente con l’obiettivo di fargli acquisire nuove modalità di comunicazione con se stesso e chi gli sta intorno al fine di migliorare la sua qualità della vita. Nel caso di Rebibbia la musicoterapia ha lo scopo di creare un clima sereno, nel quale stemperare ed eliminare tensioni e conflittualità, per proporre e far acquisire ai partecipanti nuovi modelli relazionali e di socializzazione. Le attività dell’associazione “A Roma, Insieme” sono rivolte a donne e bambini in carcere sin dal 1994 con programmi ed iniziative mirate ad aiutare le detenute nella gestione del difficile rapporto con i propri figli durante la detenzione e a favorire il loro reinserimento sociale. Genova: Dario Fo a Marassi per una “lezione di libertà”, inaugura il teatro del carcere di Wanda Valli La Repubblica, 7 novembre 2013 Attore, pittore, artista di parole e di tratti, pronto a dipingere un murale contro il femminicidio nel teatro dei “liberi” e a spiegare come migliorare al massimo la sonorità, nel teatro degli altri. Quelli che recitando o anche solo diventando falegnami e carpentieri, grazie a venti borse di lavoro della Regione, hanno capito che raggiungere la città, le luci, la libertà, passa anche e molto da se stessi. Dario Fo al mattino si presenta al teatro Modena, a Sampierdarena, lo aspetta Pina Rando che, con Giorgio Gallione, prova a non far chiudere l’Archivolto. Lei racconta di aver confidato i suoi timori per prima a Franca Rame, in primavera e poi, a settembre a Dario Fo che si è offerto: “Ti faccio un disegno così si vedrà la mia solidarietà, se ti cacceranno via lo potrai portar con te o, alla peggio, venderlo e magari i soldi ti servono per non chiudere”. Il disegno è un murale su tela dedicato a Ipazia, matematica e astronoma vissuta tra il IV e il V secolo d.c. a Alessandria d’Egitto, studiosa eccelsa che viene incarcerata, condannata, e uccisa. Dario Fo riassume la storia: “i problemi legati agli astri erano tanti e complessi, le nuove dottrine facevano scalpore, così Ipazia diventa un simbolo da abbattere”. Sulla tela che è diventata muro, intanto, prende forma Ipazia con i suoi giudici, Dario Fo tratteggia il disegno, lo ritocca, lo ombreggia. Con lui, a aiutarlo sei ragazzi dell’Accademia. Lui tratteggia e spiega: “Vi offriamo il processo a questa stupenda scienziata, una donna coraggiosa, come Franca, lei si impegnava, leggeva, studiava, è stata incalzata da minacce e da violenza”. Il tratteggio diventa colore, in basso c’è uno spicchio di “rosso Fo”, con punte di arancio, che sfuma nell’ocra scuro, e sale sullo sfondo per diventare giallo sole. Lui incalza i giovani, parla poco di politica. Almeno di Beppe Grillo, che lui ha pubblicamente sostenuto le scorse elezioni. A chi gli chiede se sarà in piazza con Grillo a Genova in dicembre, Fo alza le spalle e replica: “Adesso sono qui, poi avrò un incontro per una mia mostra di pittura, non so più quasi dove sono”, e non aggiunge altro. Per il teatro, invece, il gran maestro della Commedia dell’Arte è pronto a spendersi: “attenzione a non perdere un teatro come questo, c’è un’indifferenza che è un progetto: distruggere la cultura”. Arriva Valdimir Luxuria con Megu Chionetti della comunità di don Gallo per un abbraccio. Nel pomeriggio il sipario si apre su un’altra scenografia. Su un gruppo di recitanti all’interno di un carcere, Marassi, dove il direttore, Salvatore Mazzeo, ha deciso che “i detenuti devono essere persone, con la loro dignità”, magari con passioni da scoprire o forse da imparare. Anche lì il mezzo è il teatro. Si chiama “Arca” perché affronta una grande avventura, ha forme eleganti, lo ha disegnato e donato l’architetto Vittorio Grattarola, è in legno lavorato da chi, lì dentro, si occupa di falegnameria e della parte tecnica. Dario Fo, sciarpa bianca e sigaro, si ferma un attimo a lanciare le sue invettive contro chi, in Regione, si dedica a “spese pazze”, o contro il ministro della Giustizia che lui non assolve. Poi balza in primo piano il carcere, l’affollamento di Marassi. Dario Fo commenta: “È terribile, è una delle piaghe d’Italia, perché gli spazi ci sono, a partire dalle caserme dismesse”. I detenuti lo applaudono, il premio Nobel, unico attore sul palcoscenico ancora da finire, racconta di “Soccorso Rosso”: “io e Franca cercavamo di capire quali erano le condizioni dei detenuti e avevamo fior di avvocati a aiutarci”, ribadisce: “ho avuto l’onore di essere stato un giorno una notte e un altro giorno in galera, per il nostro teatro, in quel poco tempo ho capito la voglia di ridurre a bestie esseri umani”. Ai detenuti che lo ascoltano suggerisce di leggere “Se questo è un uomo” di Primo Levi e il Gramsci dei “Quaderni dal carcere”, a loro regala alcune copie del libro di Franca Rame “In fuga dal Senato” che porterà in scena anche a Genova, poi garantisce che, tra le cose peggiori per un uomo, c’è “il veder scorrere la propria vita senza slancio”. Quegli uomini seduti lì davanti hanno scelto di darsi una seconda occasione, con il teatro, con la compagnia “Gli Scatenati”, fatta da loro e da giovani del Dams. Lo dice Ciro, lo ripete Sawha. Arriva l’assessore in Regione Pippo Rossetti che ha finanziato il laboratorio dove producono le t-shirt con i versi delle canzoni di De Andrè. O Vasco. Due le regalano a Fo insieme con una “perlina” un pezzo di legno del teatro. Gli altri, annuncia il direttore artistico, Sandro Baldacci, saranno vendute in beneficenza. Dario Fo prende il pennarello e disegna, loro lo applaudono tutti in piedi. Ha scritto: “Libertà per favore”. Napoli: Concorso letterario “Sorgente educativa”, lettere dal carcere fra dolore e speranza di Dario Del Porto La Repubblica, 7 novembre 2013 C’è il detenuto di Poggioreale che si rivolge al padre. “Caro papà spero di poter affrontare con dignità questa mia carcerazione e che questo periodo di detenzione possa aiutarmi a rivedere tutta la mia vita e i miei errori. Ma questo difficile percorso posso affrontarlo solo se sento il calore del tuo amore”. Oppure il ragazzino che, da una comunità per minori, scrive alla madre: “Mamma, il tuo esempio, il tuo amore, i tuoi sacrifici, li ho buttati via per una ragazzata, per un telefonino. Ci pensi, un telefonino?”. Righe cariche di umanità e sofferenza, che figurano tra le lettere inviate al concorso letterario “Sorgente educativa” che per la sua quarta edizione ha scelto di intitolare la prova “Le parole che non ti ho detto”. Ai partecipanti, detenuti e soggetti in esecuzione penale esterna, sia adulti che minorenni, è stato chiesto di scrivere a un destinatario reale o immaginario al quale rivolgere un pensiero, un rimpianto, un segreto, uno stato d’animo oppure una promessa. La cerimonia conclusiva si svolgerà venerdì presso il Liceo Artistico Statale in largo Santissimi Apostoli. L’iniziativa è stata promossa dall’ufficio esecuzione penale esterna del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, con il provveditore Tommaso Contestabile e la responsabile del progetto Dora Franzese, insieme al Centro per la Giustizia Minorile diretto da Giuseppe Centomani, all’ufficio scolastico regionale guidato dal direttore Diego Bouché, alla scuola militare Nunziatella comandata dal colonnello Maurizio Napoletano, alla dirigente del liceo la garante regionale per i detenuti Adriana Tocco e alla dirigente scolastica Antonella Giugliano. Alla cerimonia si esibiranno alcuni ragazzi dell’istituto di Nisida impegnati nel laboratorio musicale guidato da Pino Di Maio. Poi saranno scelti i vincitori, ai quali verrà consegnato un contributo offerto dal “Banco Napoli -Fondazione”. Ma al di là delle scelte della giuria, in ogni lettera è possibile scorgere momenti di riflessione profonda. “Perché mamma è sempre sola? - si legge ad esempio in uno dei lavori - Anche a questa domanda ho trovato una risposta. L’ho trovata ascoltando le storie di tanti ragazzi qua dentro. E poi c’è chi dice che il carcere o la comunità non servono. Magari non serve a ciò che vogliono loro, ma sicuramente si cresce, c’è il tempo e la possibilità per pensare e darsi delle risposte, per capire e per capirsi”. In un altro elaborato, l’autore scrive: “Sono nato e cresciuto in un quartiere dove le parole hanno il sapore amaro, perché amari sono i fatti che le voci cercano di raccontare, descrivere, esorcizzare: urla e sputi di mitraglia. Il piombo pesa per chi se ne va ma ancora di più”. Tutti portano con sé il fardello per gli errori commessi. Come questo ragazzo che al padre dice: “Ebbene papà, mio resta l’eterno rammarico di non aver avuto il tempo di dirti queste parole. La parola che non ti ho detto è perdonami”. Torino: atleti azzurri in carcere, per una visita alla squadra di rugby dei detenuti La Repubblica, 7 novembre 2013 Non c’è stato il test-match, ma i momenti vissuti oggi dalla nazionale italiana di rugby nel carcere torinese di Le Vallette sono stati ugualmente significativi. Mauro Bergamasco, Antonio Pavanello, Michele Campagnaro e Valerio Bernabò hanno infatti fraternizzato con gli atleti de La Drola, la squadra di Serie C interamente formata dai detenuti dell’istituto di pena torinese. Tra strette di mano, passaggi di palloni ovali e foto di rito, sia gli azzurri che i rugbisti-detenuti hanno dimostrato di gradire molto questo momento d’incontro. I giocatori del La Drola, che coltivano sempre il sogno di una sfida benefica “Guardie-Ladri” contro le Fiamme Oro (il team della Polizia milita nella massima serie) hanno premesso agli azzurri che seguiranno minuto per minuto, anche se solo dalla televisione, la partita di sabato a Torino contro l’Australia. Nella serie C di rugby gioca anche un’altra squadra interamente formata da detenuti, i Bisonti di Frosinone, i cui giocatori provengono dalla Casa Circondariale del capoluogo ciociaro, e che disputa tutte le sue partite, anche quelle teoricamente in trasferta, all’interno dell’Istituto di pena. Radio: a “Speciale Demo” cd musicale dei ragazzi dell’Ipm G. Meucci di Firenze Agi, 7 novembre 2013 Demo il programma “acchiappa talenti” di Michael Pergolani e Renato Marengo, in onda alle 23.08 su Radio1, venerdì 8 novembre dedica l’intera puntata ad un gruppo di ragazzi dell’Istituto Penale Minorile G. Meucci di Firenze, che assieme ad alcuni operatori della C.A.T. , Cooperativa Sociale Onlus del progetto di musica rap “Pollicino”, ha realizzato un cd intitolato “Senza Ali”, registrato tra il 2011 e il 2012. I due autori hanno già in più occasioni aperto i microfoni alla musica dei detenuti. C’è stata l’esperienza coi “Presi Per Caso”, home band di Rebibbia dal 2005 ad oggi, poi gli spettacoli allestiti nelle carceri di Roma, Rieti, Firenze. Questa volta si tratta di un progetto hip hop a cui hanno partecipato giovani detenuti provenienti da tutte le parti del mondo. Molte lingue, molte sensibilità e una grande voglia di cantare la loro vita passata, il loro paese d’origine, il villaggio, la famiglia lontana e la loro dannata “vita dentro”. Michael Pergolani e Renato Marengo tengono a dire che, al di là delle motivazioni sociali ed umanitarie, i ragazzi del Meucci hanno meritato lo “speciale” di Demo per il talento e per la qualità musicale e tecnica delle canzoni contenute nel loro Cd “Senza Ali”. I brani che si ascolteranno nel corso della puntata sono: “Tempo”, “Ke ne sai” e “Piazza Mercatale”. “Il Progetto Pollicino - dice Michael Pergolani - è fondato sulla musica rap perchè il rap rappresenta da sempre la voce e la musica più autentica della strada, di quella strada dura e violenta che spesso termina dietro il cancello del carcere”. “Un universo difficile - aggiunge Renato Marengo - dove non mancano però sentimenti forti come l’amore, la nostalgia per il paese da cui si è fuggiti, il bisogno e il sogno di ritrovare un pezzo di famiglia”. Unione Europea: troppi casi di maltrattamento dei detenuti da parte forze dell’ordine Ansa, 7 novembre 2013 La persone detenute vengono maltrattate, anche gravemente, dalle forze dell’ordine. E le misure messe in atto dai 47 Stati membri del Consiglio d’Europa per far luce su questi episodi, e dunque per aiutare a prevenirli, rimangono “insoddisfacenti”. A denunciarlo è il comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa che nel suo rapporto annuale richiama tutti i Paesi dell’organizzazione a migliorare le procedure che servono a documentare e poi denunciare alle autorità competenti i casi di maltrattamento, per prevenire i futuri. E questo vale anche per l’Italia, dove “in teoria le procedure ci sono, ma in pratica non sono sempre messe in atto come dovrebbero”, sottolineano al Cpt che tra breve pubblicherà gli ultimi due rapporti sull’Italia, uno dei quali analizza in particolare le procedure seguite per indagare sulle denunce di maltrattamenti fatte da arrestati e detenuti. “La maggior parte degli abusi ha luogo durante l’arresto e gli interrogatori” affermano al Cpt. “E’ per questo che è essenziale che lo staff medico delle prigioni, o di qualsiasi altro luogo di detenzione, conduca una visita accuratissima di chiunque arrivi, e che le prove dei maltrattamenti siano subito comunicate alle autorità competenti” è sottolineato. E il Cpt è molto chiaro su come questa visita debba essere condotta e su quello che deve avvenire in presenza di maltrattamento. Innanzitutto non deve essere presente alcun rappresentante delle forze dell’ordine. Il medico deve, anche attraverso fotografie, documentare tutto, oltre all’eventuale testimonianza dell’arrestato. Queste informazioni devono poi essere inviate nel più breve tempo possibile alle autorità competenti. Ma secondo il Cpt, sono troppi i casi in cui tutto questo non avviene. Arabia Saudita: pena di morte, decapitato un pakistano accusato di traffico di droga Aki, 7 novembre 2013 È stata eseguita per decapitazione in Arabia Saudita la condanna a morte comminata a un cittadino pakistano accusato di traffico di droga nel regno. Lo riferisce l’agenzia di stampa ufficiale saudita Spa, che riporta una nota del ministero dell’Interno di Riad in cui si precisa che la condanna di Jaafar Ghulam Ali è stata eseguita nella provincia orientale di Qatif. Da gennaio in Arabia Saudita sono state eseguite almeno 71 condanne a morte. Nel 2012, secondo Human Rights Watch, nel regno sono stati messi a morte almeno 69 detenuti. Omicidio, stupro, apostasia, rapina a mano armata, oltre al traffico di droga, sono i reati che nel Paese vengono puniti con la pena di morte. Russia: Amnesty ha chiesto dov'è detenuta la Pussy Riot Nadia Tolokonnikova Tm News, 7 novembre 2013 Amnesty International ha chiesto oggi alla Russia di rendere noto dove si trovi Nadezhda Tolokonnikova, l’esponente del gruppo punk Pussy Riot “su cui circolano voci relative a un trasferimento in atto verso una colonia penale in Siberia”. “Nadezhda Tolokonnikova ha denunciato pubblicamente le minacce ricevute da funzionari delle carceri. Temiamo che la sua situazione attuale rappresenti la punizione per aver protestato contro le sue deplorevoli condizioni detentive - ha dichiarato in una nota Denis Krivosheev, vicedirettore del programma Europa e Asia Centrale di Amnesty International - le autorità russe devono immediatamente comunicare alla famiglia dove si trovi e permetterle di contattare un avvocato. Nadezhda Tolokonnikova è una prigioniera di coscienza che non avrebbe mai dovuto essere arrestata. Rifiutare di dire dove si trovi alimenta unicamente le voci sugli scenari peggiori”. Non è chiaro dove si trovi Nadezhda Tolokonnikova dal 22 ottobre, giorno in cui è stata prelevata dalla colonia penale dove stava scontando una condanna a due anni di prigionia, ricorda Amnesty. Una fonte dell`amministrazione penitenziaria avrebbe informato il marito circa il possibile trasferimento verso una colonia penale in Siberia. “Se queste affermazioni sono vere, trasferire Nadezhda Tolokonnikova in una colonia penale distante migliaia di chilometri da Mosca renderebbe ai suoi avvocati e familiari quasi impossibile incontrarla, in violazione dei diritti umani della detenuta e della stessa legislazione russa”, ha concluso Krivosheev. Russia: caso Greenpeace, il 22 novembre l’udienza per i 30 attivisti detenuti www.europaquotidiano.it, 7 novembre 2013 A Mosca protesta degli attivisti. E il Parlamento italiano chiede che si attivi l’ambasciatore italiano presso le Nazioni Unite. Il Tribunale Internazionale del Diritto del Mare si pronuncerà il 22 novembre prossimo sulla richiesta dell’Olanda contro la detenzione in Russia degli attivisti di Greenpeace, fermati per la protesta nel mar Artico, a bordo del rompighiacci “Artic Sunrise”. Lo ha deciso la Corte, massima istanza internazionale in Diritto del Mare, dopo aver ascoltato le richieste dell’Olanda e testimonianze di Greenpeace; assente la Russia, che non riconosce la competenza del Tribunale. L’udienza, durata circa due ore e mezza, si è aperta con l’intervento del giurista del ministero degli Esteri olandese, Liesbeth Lijnzaad, che ha chiesto la libertà immediata degli attivisti che erano a bordo dell’imbarcazione, battente bandiera olandese. Tra i 28 attivisti fermati, anche l’italiano Christian D’Alessandro. Intanto a Mosca la polizia fluviale ha fermato quattro attivisti di Greenpeace che oggi, a bordo di gommoni lungo il fiume Moscova, nella capitale russa, hanno manifestato per la liberazione dell’equipaggio dell’Arctic Sunrise. Greenpeace ritiene che esistano “motivi sufficienti” per una “liberazione immediata” dell’equipaggio. Secondo Kumi Naidoo, direttore della Ong, il 19 settembre la nave si trovava in acque internazionali nel Mare di Barents (l’Artico a nord di Russia e Norvegia), quando è stata bloccata dalle motovedette russe, con l’arresto delle 30 persone a bordo, 26 delle quali non russe. Una tale procedura secondo Greenpeace è ammessa dal diritto marittimo solo in caso di pesca illegale, di danni ambientali e in “uno o due altri casi”. “Noi non ricadiamo sotto alcuna di queste fattispecie - ha concluso Naidoo. Speriamo che nel giro di un paio di settimane il tribunale prenda una decisione, che questa decisione confermi la posizione che abbiamo preso e che i nostri attivisti siano liberati”. In Italia si mobilitano i parlamentari Pd-Scelta civica-Sel: “Qualora non sia stato fatto, è opportuno che la Farnesina valuti di attivare l’ambasciatore italiano presso le Nazioni Unite per seguire da vicino le udienze al Tribunale Internazionale del Mare sul caso Greenpeace e informi tutti gli italiani”. È quanto dichiarano i deputati Michele Anzaldi (Pd) e Bruno Molea (Scelta civica), e la senatrice Alessia Petraglia (Sel). “La principale speranza- spiegano i parlamentari- che gli attivisti di Greenpeace, tra cui anche l’italiano Christian D’Alessandro, hanno di tornare a casa è riposta nel Tribunale del Mare, istituzione internazionale nata nell’ambito dell’Onu. Il ministero degli Esteri spieghi se la nostra rappresentanza permanente presso le Nazioni Unite a New York sta facendo tutto quanto in suo potere per contribuire alla risoluzione della vicenda, che sta diventando sempre di più una disputa tra Stati, con la Russia che ha addirittura deciso di disertare le udienze per la prima volta nella storia della corte”. Iran: da quando Rouhani è premier sono state giustiziate 250 persone di Hamid Yazdan Panah www.ncr-iran.org, 7 novembre 2013 Si è persa nell’attenzione della stampa al programma nucleare dell’Iran e all’offensiva morbida del suo presidente, la dura situazione dei diritti umani con cui devono misurarsi gli Iraniani, particolarmente quelli che sfidano il regime. Da quando Rouhani è diventato premier, due mesi fa, sono state giustiziate 250 persone. Il regime iraniano non è estraneo alle polemiche. Il suo programma nucleare ha occupato le prime pagine dei giornali per un decennio, guadagnando il centro della scena nei dibattiti politici e in quelli di politica estera. L’influenza dell’Iran nella regione è stata anch’essa ampiamente discussa, dal momento che ha cercato di sostenere i regimi della Siria e dell’Iraq, esportando nel contempo il terrorismo ovunque. Questi fatti meritano le massime attenzione e azione. Persa tra le questioni sul programma nucleare iraniano e il nuovo presidente, è la dura realtà della situazione dei diritti umani in Iran. L’Iran è senza dubbio uno dei maggiori violatori dei diritti umani nel mondo. L’Iran è un capofila nelle esecuzioni capitali nel mondo, e con almeno 300 esecuzioni nel 2012 era secondo solo alla Cina. Finora risulta che quest’anno abbiano giustiziato almeno 508 persone. In base alle notizie, nelle due settimane comprese tra l’11 e il 25 settembre, si è raggiunto il primato di 50 impiccagioni. Ciò che turba ancora di più della quantità di esecuzioni è il modo in cui queste vengono eseguite. Conformemente al suo stile medievale di governo, l’Iran continua a effettuare esecuzioni capitali pubbliche, per creare uno spettacolo di potere e terrore, con una dimostrazione di potere assoluto dello Stato sui suoi cittadini. Ciò include la storia recente di Ali M., un detenuto impiccato per presunti reati di droga, ancora vivo dodici minuti dopo l’impiccagione. L’orrore della storia è resa ancora peggiore dalla decisione del regime iraniano di impiccare Ali nuovamente appena le sue condizioni di salute miglioreranno. Riguardo agli attivisti iraniani in loco, sentire le loro voci è stata una lotta. C’è voluto l’assassinio scioccante del blogger iraniano Sattar Beheshti perché il mondo prestasse attenzione ai crimini della repubblica islamica. Beheshti era detenuto dall’unità di cyber-polizia ed è morto in detenzione, in base alle notizie pervenute alla fine di lunghe torture. La morte di Beheshti dimostra quale sia la realtà che molti Iraniani affrontano quando si esprimono contro il regime. Il detenuto politico Gholamreza Khosravi costituisce un altro caso esemplare. Khosravi, già detenuto politico negli anni Ottanta, è stato arrestato nel 2008 dal Ministero dell’Intelligence e condannato a sei anni di carcere per presunto sostegno al PMOI. Il regime nega ai prigionieri politici alcuna forma di processo regolare e spesso cambia arbitrariamente la sentenza in funzione del suo calendario brutale. Dopo due nuovi processi, Khosravi è stato condannato a morte con l’accoglimento della nuova accusa di “inimicizia verso Dio”, per i suoi presunti legami con il Pmoi. Risulta che Khosravi abbia trascorso sei mesi in isolamento carcerario, brutalmente torturato e maltrattato. Amnesty International ha sollevato questo caso affermando “Queste presunzioni di tortura o altri maltrattamenti devono essere indagate immediatamente e imparzialmente, e chiunque risulti responsabile di tali abusi consegnato alla giustizia. Egli dovrebbe anche essere sottoposto a nuovo processo secondo procedure conformi agli standard internazionali di processo equo, senza ricorso alla pena di morte”. L’esecuzione pubblica è chiaramente una tattica per terrorizzare la popolazione, e la procedura giudiziaria arbitraria applicata nei confronti dei detenuti politici è un indice dello sforzo del regime per mantenere un clima di terrore e repressione in Iran. Un rapporto dell’ONU sulle esecuzioni iraniane redatto dal relatore speciale sulla situazione dei diritti umani in Iran , Ahmad Shaheed afferma: “Molti dei condannati a morte sono stati riconosciuti colpevoli senza gli standard di un processo equo”. Queste pratiche non riscuotono l’apprezzamento della comunità internazionale, e tuttavia i mullah in Iran le hanno incrementate, nonostante la crescita del controllo e delle sanzioni. Perché? Perché il regime ha più paura del proprio popolo che di qualsiasi potenza straniera. Le rivolte del 2008 hanno scosso il regime fino alle fondamenta, lasciando pochi dubbi sulle aspettative di libertà del popolo iraniano, la cui maggioranza ha meno di trenta anni. Nonostante la nuova immagine che l’Iran ha cercato di promuovere attraverso Rouhani, la situazione dei diritti umani in Iran non è cambiata. Stati Uniti: Guantánamo, ex detenuto australiano presenta ricorso a condanna La Presse, 7 novembre 2013 David Hicks, australiano detenuto a Guantánamo tra il 2001 e il 2007 con l’accusa di aver partecipato ad addestramenti di al-Qaeda in Afghanistan, ha presentato un ricorso contro la condanna nel tribunale militare Usa. Hicks fu il primo prigioniero del campo di Guantánamo condannato per crimini di guerra. Nel 2007 si dichiarò colpevole di sostegno materiale al terrorismo. Grazie all’accordo fu trasferito da Cuba in Australia e la maggior parte della condanna a sette anni di carcere fu sospesa. Nel ricorso presentato alla Corte di revisione della commissione militare Usa, gli avvocati di Hicks sostengono che la sentenza raggiunta nel caso di un altro detenuto di Guantánamo, un ex autista di Osama bin Laden, dovrebbe essere applicata anche al caso dell’australiano. A ottobre del 2012 la Corte d’appello del distretto di Columbia decise infatti nel caso contro Salim Hamdan che l’accusa di sostegno materiale al terrorismo non costituisce un crimine di guerra perseguibile dalla commissione militare ai sensi della legge del 2006 che istituì il tribunale speciale di Guantánamo. Hicks ha spiegato ai giornalisti in Australia di aver presentato ricorso per poter andare avanti con la propria vita. “È importante - ha affermato - per me, per la mia famiglia e per chi mi ha sostenuto e aveva fiducia in me in tutti questi anni. Mi aiuterà a chiudere e andare avanti”. Un portavoce del Pentagono, tenente colonnello Todd Breasseale, ha detto che una differenza fondamentale tra i casi di Hamdan e Hicks è che quell’ultimo si dichiarò colpevole. “Nell’ambito dell’accordo - ha riferito il portavoce - rinunciò a qualsiasi revisione di appello della sua condanna in cambio di una riduzione della pena, che poteva scontare in Australia, e oggi è libero”. Hicks, ex addestratore di cavalli, ammise di aver partecipato a un campo di addestramento dei talebani in Afghanistan, che secondo gli Usa era gestito da al-Qaeda. Il 38enne afferma tuttavia di non aver mai sparato né combattuto contro gli Stati Uniti o i loro alleati. L’uomo sostiene di aver subito abusi dopo essere stato arrestato in Afghanistan, ma anche a bordo di una nave della marina e a Guantánamo. Dopo il rilascio dalla base statunitense a Cuba, Hicks passò nove mesi in un carcere in Australia e fu rilasciato a dicembre del 2007.