Giustizia: malattie infettive e disagio psichico, salute dei 65mila detenuti a rischio Adnkronos, 6 novembre 2013 La salute degli oltre 65 mila detenuti presenti nei 206 istituti di pena italiani è messa a rischio da due principali problemi: il disagio psichico e le patologie infettive. “Dagli ultimi dati che abbiamo, relativi al 2012, 1 detenuto su 3 è positivo all’epatite C, la prevalenza dell’Hiv e dell’epatite B è intorno al 5% (circa 1 detenuto su 20). Mentre a soffrire di disturbi psichici, più o meno gravi, è il 25-30% della popolazione carceraria”. È la fotografia scattata per l’Adnkronos Salute da Roberto Monarca, presidente della Scuola di formazione della Simspe, la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria. “Il carcere è un concentratore di patologie perché raccoglie e mette insieme popolazioni che arrivano da zone ad elevato rischio patologie infettive (Africa ed Est Europa) con altri soggetti sani - aggiunge Monarca - ecco che si genera una situazione esplosiva dal punto di vista sanitario”. Secondo l’esperto, “ci sono situazioni cliniche che non sono compatibili con il regime di detenzione: ad esempio la dialisi, le patologie oncologiche, i trapiantati, ma anche i disturbi alimentari - osserva - e il magistrato, dopo aver visionato la valutazione del medico, decide in base alla pericolosità del soggetto le possibili alternative: arresti domiciliati, reparti ospedalieri detentivi o il ricovero in centri specializzati”. I penitenziari possono diventare anche il primo accesso alle cure soprattutto per chi arriva da Paesi del terzo mondo: “Molti giovani detenuti hanno per la prima volta una visita medica in carcere - sottolinea Monarca - un primo approccio che ci permette di scoprire malattie che il soggetto non sapeva di avere, visto che nel paese d’origine non aveva mai fatto controlli”. Dopo la riforma del 2008, che ha visto passare la sanità penitenziaria sotto l’ala del ministero della Salute, sono diverse centinaia i medici e diverse migliaia gli infermieri che lavorano negli istituti di pena. Non va dimenticato però anche il problema dei tossicodipendenti: secondo il rapporto del Forum antidroghe e di altre sigle, nel 2012 un detenuto su tre è entrato in cella per detenzione di droga. A preoccupare i medici penitenziari sono anche gli stili di vita dei detenuti. “Il tasso di fumatori tra questa popolazione è altissimo - suggerisce Monarca - ma anche l’alimentazione è spesso poco sana. Così queste persone hanno un rischio maggiore di sviluppare malattie cardiovascolari e oncologiche rispetto a chi è fuori dal carcere. Ma, ad oggi, non esistono studi epidemiologici su questo fenomeno. E - chiosa - l’affollamento è uno dei fattori più seri da affrontare quando si parla della salute dei detenuti”. Il tema della sproporzione del numero di ospiti (oltre 65mila) degli istituti di pena italiani (circondariali, di reclusione, mandamentali e case lavoro) rispetto ai posti disponibili (circa 47 mila), secondo i dati forniti a maggio dal ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in un intervento al Senato, è per l’esperto l’elemento chiave e l’ostacolo maggiore che devono affrontare i medici e gli infermieri “penitenziari”. Per studiare a livello europeo le problematiche cliniche e sanitarie che devono affrontare i detenuti, il 15 ottobre a Londra è stata fondata la “European Federation for Prison Health” con la partecipazione di rappresentanti di Italia, Spagna, Francia, Belgio, Inghilterra, Svizzera, Austria e Germania. Ma sarà l’Italia, grazie all’impegno della Simspe, a guidare la Federazione nella sua fase iniziale per i primi 2 anni. Presidente della Federazione è stato eletto proprio Roberto Monarca, già direttore scientifico di Simspe e coordinatore per le malattie infettive in carcere della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit). Disturbi alimentari non compatibili con il carcere “I disturbi alimentari che comportano un decadimento organico importante non sono compatibili con il regime carcerario. Il medico può segnalare il caso, il magistrato decide per l’applicazione delle misure alternative: dagli arresti domiciliari, al ricovero o al trasferimento in altra struttura”. Ad affermarlo all’Adnkronos Salute è Roberto Monarca, presidente della Scuola di formazione della Simspe, la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, commentando il caso di Giulia Ligresti, accusata di falso in bilancio e aggiotaggio dalla procura di Torino nell’inchiesta su Fonsai, e passata dal carcere di Vercelli agli arresti domiciliari per il repentino calo di peso corporeo, 6 chili in poco più di un mese. Vicenda al centro delle presunte intromissioni del ministro della Giustizia Cancellieri per favorire la situazione della Ligresti. “Molti detenuti attuano lo sciopero della fame per attirare l’attenzione delle direzione del carcere, dei media e dell’opinione pubblica sulla loro situazione - spiega Monarca - ma la maggior parte di queste “proteste” non sfocia poi in condizioni di incompatibilità con il regime detentivo. Direi - conclude - che solo in 2 su 100 arriva la misura alternativa da parte del magistrato”. Giustizia: il 25-30 per cento della popolazione carceraria soffre di disturbi psichici di Maurizio Gallo Il Tempo, 6 novembre 2013 L’inferno dei vivi. Autolesionismo, suicidi, tossicodipendenza, malattie della mente e del corpo, come la depressione e l’epatite. Le sovraffollate carceri italiane, involontario “laboratorio” di convivenza tra individui con religioni, usanze, lingue e culture diverse costretti in gabbie da topo, sono brodo di coltura per disagi psichici e fisici. Nei 206 istituti di pena del Belpaese, che hanno una capienza regolamentare di 47.459 unità, ci sono circa 64.000 persone (erano 64.873 a fine luglio e oltre 65.000 a settembre). Di queste il 25%, quindi 16.000, sono in custodia cautelare, cioè in detenzione preventiva, cioè virtualmente innocenti, ha ricordato ieri il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. Un immeritato anticipo di pena che riguarda un quarto della popolazione penitenziaria. Le condizioni inumane delle nostre prigioni contribuiscono a far nascere o aggravare il disagio mentale, causando nello stesso tempo l’abbassamento delle difese immunitarie. Come ha spiegato Roberto Monarca, presidente della Simspe (Società italiana di medicina e sanità penitenziaria), nel 2012 un detenuto su tre è risultato positivo all’epatite C, uno su 20 all’epatite B e all’Hiv, mentre a soffrire di disturbi psichici più o meno gravi è il 25-30% della gente che sopravvive dietro le sbarre. “Il carcere è un concentratore di patologie perché raccoglie e mette insieme popolazioni che arrivano da zone a elevato rischio di patologie infettive, come l’Africa e l’Est Europa, con altri soggetti sani - spiega il presidente della Simspe Roberto Monarca - Così si genera una situazione esplosiva dal punto di vista sanitario”. Secondo l’esperto, “ci sono situazioni cliniche che non sono compatibili con il regime di detenzione: ad esempio la dialisi, le patologie oncologiche, i trapiantati, ma anche i disturbi alimentari. E il magistrato, dopo aver visionato la valutazione del medico, decide in base alla pericolosità del soggetto le possibili alternative: arresti domiciliati, reparti ospedalieri detentivi o il ricovero in centri specializzati”. A dir la verità il ricorso alle misure alternative è decisamente scarso. I numeri del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria parlano chiaro: alla fine di luglio c’erano soltanto 2.946 detenuti che usufruivano della libertà vigilata, 194 di quella controllata (se la pena non è superiore ai 12 mesi), appena 11 erano in semidetenzione, un regime che sostituisce le pene detentive brevi ma comporta comunque l’obbligo di trascorrere dieci ore al giorno in prigione. Anche se non esistono dati ufficiali, si stima che le patologie più diffuse (oltre a quelle psichiche) siano quelle dell’apparato digerente (19%) e quelle infettive e parassitarie (12,5%), come epatite e tubercolosi. Frequenti pure i problemi osteo-articolari, le bronco-pneumopatie croniche ostruttive (in carcere si consumano fra le 20 e le 40 sigarette al giorno), le malattie metaboliche e del ricambio, come il diabete mellito, che dipendono dal tipo di dieta e dalla mancanza di movimento. Quelle cardio-vascolari, poi, colpiscono classi di età molto più basse che all’esterno. Per non parlare di circa 500 disabili che vivono in condizioni penose. A preoccupare i medici penitenziari sono anche gli stili di vita dei detenuti. “Il tasso di fumatori tra questa popolazione è altissimo - riferisce Monarca - ma anche l’alimentazione è spesso poco sana. Così queste persone hanno un rischio maggiore di sviluppare malattie cardiovascolari e oncologiche rispetto a chi è fuori dal carcere”. Non sempre, come avvenuto per Giulia Ligresti, i malati ottengono di scontare la pena ai domiciliari o usufruiscono di altre misure restrittive. Come dimostra l’ultimo caso salito alla ribalta della cronaca di un detenuto romano di 24 anni che soffre di insufficienza renale, ha perso 15 chili in due anni e deve fare spesso dialisi, ma resta ugualmente a Regina Coeli perché il tribunale del Riesame ha riconosciuto il “pericolo” di reiterazione del reato (è stato condannato in primo grado per il pestaggio di un musicista avvenuto nel rione capitolino di Monti). Sempre l’anno scorso, in cella si sono registrati 56 suicidi, 1.308 tentativi di suicidio, 97 decessi per “cause naturali”, 7.317 episodi di autolesionismo. C’è poi il problema dei galeotti “tossici”. In base al rapporto del Forum antidroga, nel 2012 un detenuto su tre è entrato in galera per detenzione di sostanze stupefacenti. E in carcere un terzo sono drogati. Non solo. Molti si infettano proprio in cella. Basta pensare che l’anno passato i detenuti che avevano contratto l’Aids prima di entrare in prigione erano solo 2, quelli che avevano preso la “peste del XXI secolo” dentro le mura di un penitenziario ben 65. L’inferno per vivi, insomma, contribuisce a creare criminali e malati. Monarca sottolinea che “l’affollamento è uno dei fattori più seri da affrontare quando si parla della salute dei detenuti”. E la sproporzione del numero di ospiti degli istituti di pena, tra circondariali, di reclusione, mandamentali e case lavoro, rispetto ai posti disponibili rappresenta l’elemento chiave e l’ostacolo maggiore che devono affrontare medici e infermieri impegnati nelle patrie galere. Per non parlare di rivolte e risse causate anche dall’effetto “topo in gabbia”. Proprio due giorni orsono due detenuti sono stati costretti a ricorrere alle cure ospedaliere in seguito a uno scontro fra italiani e stranieri, armati di forbici e macchinette del caffè usate come oggetti contundenti, nell’affollata casa circondariale di via della Lungara. Sempre nel 2012 ci sono state 278.304 manifestazioni di protesta collettiva. Episodi che comprendono lo sciopero della fame, il rifiuto delle terapie, l’astensione da attività programmate, la percussione dei cancelli e delle inferriate, il rifiuto di rientrare in cella, mentre 93 sono stati evasioni e mancati rientri. Le aggressioni sono state 4.651, suddivise in ferimenti (1.023) e in “semplici” colluttazioni (4.651). Ma il dramma della sovrappopolazione carceraria non incide solo sui “ristretti”. Secondo il Dap, in dieci anni sono stati 64 gli agenti di polizia penitenziaria, anche loro obbligati a condividere le vergognose condizioni degli “ospiti”, che si sono tolti la vita. Tornando al problema sanitario, il 15 ottobre a Londra è stata fondata la Federazione europea per la salute in prigione, che vede la partecipazione di italiani, spagnoli, belgi, inglesi, austriaci e tedeschi. E sarà proprio l’Italia a guidarla per i primi due anni, sotto la presidenza di Roberto Monarca. Non sarà un compito facile, visto che l’8 gennaio l’Europa ci ha “condannato” all’unanimità per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Che stabilisce il divieto di trattamenti inumani e degradanti e di tortura. Sì, avete letto bene: tortura. Giustizia: tanti Caino senza numeri in rubrica... i Santi bisogna averli sulla terra di Luisella Costamagna Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2013 Caro Fabio Benini, lei era un assassino. Programmatore di computer di Forlì, a un certo punto ha cominciato a fare operazioni finanziarie spericolate: catene di Sant’Antonio telematiche per raccogliere denaro, società d’investimento. Il 14 febbraio 2001 ha ucciso a sassate il suo amico e socio in affari. Un delitto feroce per il quale è stato condannato a 16 anni di carcere. Fin qui la giustizia. Omicidio volontario e pena. Poi c’è l’umanità, quella vera. Che deve valere anche per Caino. A un anno e mezzo dal suo arresto lei è morto, a 29 anni, nel Reparto di Osservazione Psichiatrica del carcere delle Vallette di Torino. In un anno e mezzo di prigione - lei anoressico - aveva perso 40 chili, dai 90 che ne pesava quando era entrato, dimezzando praticamente il suo peso corporeo. Possibile che nessuno se ne sia accorto? Possibile che nessuno sia intervenuto, sapendo che lei soffriva di disturbi dell’alimentazione e vedendola asciugarsi, spegnersi, giorno dopo giorno? Possibile che sia stato trasferito in una struttura sanitaria (carceraria) solo una settimana prima di morire, quando ormai era troppo tardi? Possibile che, di fronte a un deperimento psichico e fisico di questo tipo, non l’abbiano - non dico scarcerata - ma almeno salvata? Sono le domande - retoriche - che accompagnano il destino di tanti Caino reclusi nelle nostre carceri. Caino i cui corpi, reclusi in esecuzione di provvedimenti giudiziari, devono essere comunque tutelati dallo Stato cui, nei fatti, vengono affidati. Uno Stato in cui, per fortuna, non vige la pena di morte. Invece c’è lei, Fabio, ci sono i detenuti malati di cancro che fanno la chemio in cella, gli anoressici e i bulimici non sottoposti a esami, fino ai Cucchi, agli Uva, agli Aldovrandi… Sono gli anonimi che si conoscono pubblicamente solo dopo, attraverso il dolore delle loro famiglie e alle loro battaglie civili, che finiscono sul giornale solo se muoiono, che non hanno mai frequentato i salotti giusti e non hanno in memoria i numeri di cellulare dei ministri, che non conoscono le “ragioni umanitarie”. I Santi, più che in Paradiso, bisogna averli sulla terra. Giustizia: Cancellieri; sono intervenuta in 100 casi. Ma restano situazioni irrisolte Corriere della Sera, 6 novembre 2013 “Oltre un centinaio di casi in tre mesi”. Il ministro della Giustizia Cancellieri ha più volte citato questa cifra ieri per indicare che in tante occasioni, personalmente o su input esterni, ci sono stati interventi per verificare e in alcuni casi alleviare la situazione di detenuti. Nell’informativa alle Camere questa cifra è stata ribadita senza citare alcun caso specifico. Ma sono diverse le situazioni in cui il ministro si è attivato sollecitando i vertici del Dap e in particolare i due vice capi-dipartimento Francesco Cascini e Luigi Pagano che a loro volte hanno interessato le autorità competenti. E’ del 5 agosto, per esempio, il caso di un detenuto al San Cataldo di Caltanissetta, che raccontava di essere in un grave stato di prostrazione perché dopo il trasferimento dal carcere di Siracusa, non poteva più lavorare né ricevere visite dei familiari vista la distanza. Una detenuta a Lecce con tre figli a carico di cui una con gravi problemi psicologici, ha chiesto al ministro di essere trasferita in un altro istituto, il ministro ha attivato il Dap e il trasferimento è arrivato. Ci sono casi arrivati all’attenzione del ministro quando di fatto erano già stati risolti, come quello di un detenuto a Regina Coeli, 75 anni, recluso da 31, con gravi problemi di salute: quando il ministro si è mossa, l’uomo era già stato scarcerato. Una donna in regime di alta sicurezza a Rebibbia ha chiesto invece di poter effettuare un colloquio con il marito detenuto anch’egli in 41 bis: non si vedevano da due anni e l’esigenza era legata anche alla situazione delle figlie adolescenti. Ci sono situazioni estreme, come quella di un detenuto a Bari con forti problemi psichici e fisici che minacciava il suicidio e per il quale il ministro ha chiesto un interessamento perché il caso fosse seguito da vicino. Un detenuto di Padova, recluso in una cella con altre due persone, ha chiesto spazi migliori ed è stato trasferito a Cremona, dove però ha visto interrompersi la possibilità di lavorare e il percorso rieducativo: l’intervento dell’amministrazione ha permesso di riportarlo a Padova, ma in una situazione adeguata sotto il profilo dello spazio. Gli uffici del Dap sono intervenuti anche in casi di “errore”, come per un giovane che si era sostanzialmente confinato in casa ai domiciliari dopo il provvedimento del Tribunale di sorveglianza, senza aspettare che fosse la Procura a disporli e farli scattare realmente: suo padre ha segnalato la situazione, che è stata sanata, ricalcolando la detenzione domiciliare tenendo conto del comportamento del giovane. La casistica è molteplice, ma non esiste un catalogo che la censisca. Le segnalazioni arrivano da canali diversi - familiari associazioni, parlamentari, il ministro stesso - e vengono vagliate con un’istruttoria condotta dalle autorità competenti. L’esito è a volte favorevole, a volte no. Così come ci sono tante situazioni di disagio che non emergono e che spesso sfociano in atti estremi (il numero di suicidi nelle carceri resta alto), o in morti per malattie anche gravi che si dovrebbero evitare. L’associazione Ristretti Orizzonti ne registra molti: a Ferrara il 26 ottobre Egidio Corso, 81 anni, muore in cella dopo 10 giorni di sciopero della fame: protestava contro la mancata concessione di una misura alternativa. Il 16 ottobre a Secondigliano muore Antonino Vadalà, 61 anni: aveva un tumore al cervello. A Rebibbia il 15 ottobre Sergio Caccianti, 82 anni, ha un malore in cella e muore in ospedale dopo due giorni di agonia: aveva da poco avuto un ictus. A Opera il 31 agosto Walter Luigi Mariani, 58 anni, paraplegico, muore carbonizzato nell’incendio della sua cella: le ipotesi sono di un incidente o di un suicidio. Giustizia: quello che la ministra Guardasigilli non fa... e invece dovrebbe fare di Giuseppe Di Lello Il Manifesto, 6 novembre 2013 All'autodifesa della Guardasigilli in parlamento per la sua intercessione a favore di Giulia Ligresti hanno risposto da un lato le larghe intese, blindandosi, e dall'altro l'opposizione provando a contrastare il governo per l'interposta persona della Cancellieri. La vicenda spalanca comunque una finestra sulla questione carceraria e, soprattutto, sull'azione del governo nel campo più generale della giustizia. Si potrà discutere sull'opportunità dell'intervento telefonico della ministra e per le asserite altre centinaia di casi, ma un punto resta fermo: il ministero della giustizia non può funzionare come un ufficio per raccomandazioni particolari. Un ufficio ovviamente accessibile ad una ristretta cerchia di detenuti, mentre dovrebbe avere una struttura in grado di attivare tempestivi meccanismi di controllo ed interventi sulla generalità degli stessi. La Guardasigilli ha assicurato che tale struttura esiste ed è funzionante, per aggiungere subito dopo che, purtroppo, il tasso dei suicidi in carcere è ancora alto: ma allora è ovvio che il meccanismo non funziona come dovrebbe e, forse, l'ansia dell'autodifesa non le ha fatto notare questa contraddizione. Ciò che però più preme sottolineare è l'assoluta inerzia del ministro nel campo delle riforme strutturali, le sole che avrebbero potuto almeno moderare la spaventosa macchina delle incarcerazioni messa su dalla foga repressiva del berlusconismo nei confronti degli strati più deboli della società. Le ricordiamo? La criminale legge Giovanardi sulle droghe, la legge-vendetta contro i recidivi della ex Cirielli (con contemporaneo premio della prescrizione abbreviata per i soliti noti), la tremenda legislazione anti immigrati della Bossi Fini con le migliaia di morti nel Mediterraneo, le migliaia di detenuti, sia in carcere che nei lager dei centri di identificazione e persino con la criminalizzazione di chi tenta di salvare i naufraghi da morte certa: non un solo decreto legge per cancellare almeno uno di questi obbrobri giuridici. Sembra proprio che in via Arenula, ma anche a Palazzo Chigi, non si voglia minimamente mettere in discussione l'ideologia repressiva della destra. Vengano pure l'amnistia e l'indulto, a favore dei quali questo giornale è da sempre schierato, ma se non si distruggono i meccanismi perversi dell'incarcerazione dei poveracci, anche gli atti di clemenza passeranno come acqua sul marmo e nel giro di poco tempo saremo punto e daccapo. Nel suo messaggio il presidente della Repubblica ha indicato alcune linee essenziali di riforma del sistema sanzionatorio per risolvere il problema del sovraffollamento penitenziario, insistendo sulla depenalizzazioni, sui meccanismi di messa alla prova che evitino il carcere a soggetti meritevoli di un percorso di un effettivo reinserimento sociale, la previsione di pene limitative della libertà personale ma non carcerarie, la riduzione dell'ambito applicativo della custodia cautelare. Sulla custodia cautelare i ministri Severino prima e Cancellieri dopo hanno cercato di apportare qualche modifica, ma molto ancora e di più si sarebbe dovuto fare per frenare le ondate di carcerazioni che si abbattono sui migranti, sui tossicodipendenti ed altri diseredati: il vero problema del sovraffollamento delle carceri e la cartina di tornasole di una repressione socialmente selettiva. Che la Guardasigilli non si dimetta è abbastanza certo, anche perché la maggioranza non vorrà in questa fase andare in cerca di altri guai. A noi, ascoltato il ripetuto richiamo alla sua sensibilità, piacerebbe che si dimettesse, per esempio, per non aver potuto modificare la Bossi-Fini dopo i morti di Lampedusa, mentre di contro non ci appassiona la mozione di sfiducia di Grillo che di quella legge è uno strenuo sostenitore. Giustizia: Gonnella; attenti alla “trappola” del caso Ligresti-Cancellieri di Fabio Franchini www.ilsussidiario.net, 6 novembre 2013 Il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, nel corso dell’incontro a Strasburgo con Thorbjorn Jagland, segretario generale del Consiglio d’Europa, ha presentato le misure previste dall’esecutivo per fare fronte all’emergenza carceri. Il Guardasigilli ha esposto i punti del provvedimento che punta a ridurre il sovraffollamento dei nostri penitenziari, come richiesto dalla Corte europea dei diritti umani. Tre sono i passaggi fondamentali. Il primo riguarda la riduzione dei flussi d’ingresso, adottando le misure alternative di pena previste dal nostro ordinamento (arresti domiciliari su tutti), oltre alla concessione della libertà anticipata. Poi l’istituzione della detenzione aperta, che permetterà ai detenuti di passare più ore fuori dalla cella, dove faranno ritorno essenzialmente per dormire. Infine, il potenziamento delle strutture con la creazione di spazi lavorativi. Il tutto sarà attivo entro fine mese, secondo il ministro. Ma il provvedimento basterà? Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. Cosa ne pensa delle misure previste dal ministro Cancellieri? Sono sicuramente significative e non hanno precedenti negli ultimi tempi: vanno nelle direzione giusta. Ma serbiamo la preoccupazione che il dibattito sulla questione Ligresti-Cancellieri porti ad un azzeramento dello spirito riformatorio che ha animato il provvedimento. Vediamo di sintetizzarlo: vi sono misure di natura legislativa e amministrativa. Ci spieghi. Tra le misure (preannunciate) di natura legislativa più significative troviamo innanzitutto quella - molto importante - sulla leggi per le droghe: si prevede infatti che per un fatto di lieve entità ci sia una fattispecie autonoma di reato e non si venga così trattati alla pari di chi spaccia chili e chili di droga. In questo modo ci sarà un impatto penale ridimensionato. Una seconda misura normativa riguarda l’estensione della libertà anticipata. In concreto, cosa cambia? Oggi per chi si comporta bene c’è un premio di 45 giorni di sconto sulla pena a semestre che, stando a quanto detto, verrà portato a 60 e con un’efficacia retroattiva nel tempo. Tutto ciò avrà un impatto in termini di deflazione carceraria. Poi? Si prevede anche la stabilizzazione di quella norma presente nella precedente legge (Severino) sulla detenzione domiciliare per chi deve scontare gli ultimi 18 mesi di pena; si trattava di una misura che andava a scadere il 31 dicembre 2013 e che in questo modo diventa formula di sistema. Mentre per quanto concerne l’aspetto amministrativo? Iniziamo con il dire che si tratta di misure che si possono fare senza decreto legge e quindi immediatamente con atto dello stesso ministro; c’è l’intento di migliorare la qualità della vita interna alle carceri. In che modo? Oggi i detenuti sono costretti all’ozio forzato in cella per quasi tutto il giorno. Ora si vuole dar loro l’opportunità di stare all’aria aperta fino a otto ore. In tanti penitenziari questo è già avvenuto, ponendosi ora l’obbiettivo che nell’80% circa delle nostre carceri sia data questa possibilità di trascorrere tempo utile fuori dalla cella. E c’è dell’altro. Si inizieranno ad individuare aree polifunzionali all’interno delle prigioni, dove i detenuti possano impiegare queste 8 ore utilmente: a partire dalla attività sportive, a quelle della condivisione di una vita comunitaria, passando per l’istituzione di spazi lavorativi. Insomma, il suo è un giudizio positivo. Mi sembra che si tratti di misure che vanno in netta controtendenza rispetto a molti provvedimenti normativi e prassi amministrative che ci sono stati nei quindici anni precedenti. Vedremo se queste cose verranno fatte, noi le monitoreremo… Qualche lacuna è rimasta? Secondo me sì, sono misure ancora insufficienti per far sì che il nostro sistema penitenziario sia un sistema nel quale tutti i detenuti sono trattati in egual modo. Ma è indubbio che questo provvedimento (che deve ancora essere approvato) miri a ridurre sensibilmente il numero dei detenuti in un tempo medio - non nell’immediatezza come in un provvedimento di clemenza, aiutando a migliorare non poco la qualità di vita nelle carceri. In poche parole: risolverebbe molto cose, ma? Ci sono tante altre questioni che non spettano al ministro della Giustizia, ma che dipendono dalla Regioni, soprattutto per quanto riguarda la salute all’interno dei penitenziari. Questo è un tema centrale che dipende dal modo in cui le Regioni fanno funzionare, attraverso le proprie Asl, i dipartimenti interni alle prigioni. E mi riferisco poi, oltre all’offerta di salute, anche alle politiche per il lavoro e agli sgravi fiscali previsti per le cooperative interne. Quindi ce n’è ancora da fare. Le intenzioni sono buone, ma ci sono tante cose ancora da fare e ci vorrà tempo. Il punto è avere una disponibilità politica-culturale (ed economica) per fare davvero le cose annunciate, oltre al mettere la questione carceraria al centro del dibattito politico, come hanno detto il Presidente della Repubblica e il Papa. Io spero che a partire da oggi il dibattito non regredisca, ritornando in secondo piano. Giustizia: Manconi; cos’ha fatto di diverso dagli ex Fassino, Diliberto, Severino? di Paolo Nessi www.ilsussidiario.net, 6 novembre 2013 Tra richieste di dimissioni e chiarimenti, continua a infuriare la polemica contro il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, “colpevole” di essere intervenuta per far ottenere a Giulia Ligresti gli arresti domiciliari. Ieri, intervistata da Repubblica, il Guardasigilli ha chiarito ancora una volta la sua posizione e le sue intenzioni: “Non mi dimetto neanche per sogno”, ha spiegato, aggiungendo: “Giulia Ligresti poteva morire, quella telefonata era solo solidarietà umana”, “sono intervenuta in questi mesi in un centinaio di casi negli ultimi tre mesi”. Luigi Manconi, senatore del Pd, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani e da sempre in prima linea per migliorare le condizioni dei carcerati, ci illustra il suo punto di vista sulla vicenda. Cosa ne pensa dell’intervento della Cancellieri per destinare la Ligresti ai domiciliari? Sono stato ripetutamente testimone oculare delle mosse del ministro, e le posso assicurare che ha sempre agito nella stessa maniera. So per certo che, effettivamente, da quando è diventata titolare della Giustizia, in circa sei mesi si è resa artefice di oltre un centinaio di interventi analoghi. Inoltre, chiunque può notare, da parte sua, un’enorme, costante attenzione nei confronti del problema del nostro sistema carcerario. Nessun ministro, infatti, ne ha mai parlato tanto quanto lei. Quindi, si deve dimettere o no? Assolutamente no. Negli anni, ho parlato assiduamente con almeno 4 ministri della Giustizia: Piero Fassino, Oliviero Dilberto, Paola Severino e Anna Maria Cancellieri. 99 volte su 100 ho portato alla loro conoscenza la situazione di detenuti senza soldi, senza famiglia, senza avvocati, e senza sostegni esterni al carcere. In alcuni casi, il mio intervento è servito, in altri, è stato vano. Ma a nessuno è mai venuto in mente che quello che stavo facendo fosse illegittimo. Perché in Italia le carceri versano in condizioni tanto inumane? Credo di poter sostenere che in quasi tutti i sistemi democratici le carceri sono attraversate da forti connotati di disumanità. In Italia, forse, più che in altri Paesi. Il motivo, è che da noi è dominante una tendenza alla rivalsa sociale che si traduce in un sorta di cattiveria diffusa ove il desiderio di giustizia si trasforma nel desiderio di veder puniti i privilegiati, o di chi pur non essendolo, appare tale. È invalsa la convinzione che questa sia la strada per consentire agli ultimi di emanciparsi. Si tratta di un torvo surrogato della lotta di classe, condito da un bieco rancore: siccome non possiamo essere tutti uguali nel godimento dei diritti, tanto vale che nessuno possa goderne. Una concezione del genere, conduce a degli esiti terrificanti. Ci faccia un esempio. Per citare un caso noto, mi viene in mente la vicenda di Angelo Rizzoli, affetto da sclerosi multipla e da una grave insufficienza renale. Per ottenere gli arresti domiciliari ha dovuto aspettare quasi sei mesi. Il carcere, nei suoi confronti, ha operato un sistema di livellamento verso il basso. Pur trovandosi nel reparto ospedaliero detentivo del Sandro Pertini, gli sono state persino negate le stampelle come, del resto, sarebbero state negate a chiunque altro. L’azione congiunta di Napolitano e della Cancellieri potrebbero contribuire a migliorare il sistema? La situazione è difficilissima. Il messaggio di Napolitano, già di per sé, era probabilmente destinato a non trovare risposta. Questa vicenda complica ulteriormente la situazione. Il ministro ha spiegato: “questo è un attacco politico ci sono persone che hanno motivi di rancore nei miei confronti, perché ho sciolto comuni per mafia e fatto pulizia negli enti corrotti”. Non conosco nel merito le motivazioni citate dal ministro, ma sono plausibili. Credo, in ogni caso, che le ragioni di un simile attacco nei suoi confronti siano diverse. La principale, tuttavia, rimane quel sentimento di rivalsa sociale distorta che le ho descritto. Giustizia: la Cancellieri rispettò le norme, parola di Magistrato di Sorveglianza di Pietro Vernizzi Italia Oggi, 6 novembre 2013 “Non interferì nella decisione del giudice competente”. Lo dice, senza esitare, Guido Brambilla, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Milano “L’iniziativa della Cancellieri è stata formalmente e sostanzialmente rispettosa delle norme vigenti, nella misura in cui non si è trasformata in un’interferenza tale da influenzare la decisione del giudice competente”. Lo sostiene Guido Brambilla, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Milano, il quale sottolinea come “rapportarsi con i detenuti significa imparare prima di tutto ad essere se stessi, qualunque tipo di lavoro si faccia: magistrato, poliziotto, educatore, direttore delle carceri o ministro. La legge attribuisce a ciascuna di queste figure un certo margine di discrezionalità nelle scelte, ed è dunque fondamentale giocare l’umanità propria e del detenuto sempre al centro del lavoro che si fa”. Per un magistrato di sorveglianza, che cosa significa rapportarsi con umanità ai detenuti? Trattare con umanità l’altro è una conseguenza del modo con cui io guardo innanzitutto a me stesso. Se lo faccio a partire dall’amore e dal rispetto per la mia stessa persona, non posso come conseguenza non guardare anche l’altro nello stesso modo. Se io ho a cuore il mio io e sono consapevole dell’umanità ferita e del limite che vivo, allora potrò anche guardare l’altro senza giudicarlo. I magistrati, per definizione, possono decidere della vita delle altre persone. In che senso possono guardare al detenuto senza giudicarlo? Guardare al detenuto senza giudicarlo significa innanzitutto non avere la presunzione che il bene sta da una parte (quella che giudica) e il male dall’altra (quella che viene giudicata). Tutti siamo peccatori. Anche se ciò non giustifica lo sbaglio, lo fa comprendere dentro uno sguardo più umano, dentro un cammino. E poi occorre saper usare bene gli strumenti messi a disposizione dalla legge per aiutare l’altro. Lo scopo del lavoro di un magistrato di sorveglianza è la rieducazione del detenuto, ma per me, questo, non vuol dire avere un progetto sull’altro. Aiutare l’altro significa innanzitutto incontrarlo ed entrare in un rapporto con lui, e ciò non può prescindere da aspetti concreti o apparentemente banali come il guardare negli occhi il detenuto durante il colloquio. Quando poi mi occupo di un fascicolo, so allora che non è soltanto un plico di carta, bensì il modo attraverso cui posso aiutare un’altra persona a ritrovare se stessa dentro a un rapporto. Dove sta il limite tra rapportarsi con umanità con un detenuto e violare la legge? È fondamentale per un magistrato che il suo intervento avvenga sempre nei limiti delle norme, ma la legge consente al giudice anche una certa discrezionalità di intervento, una certa libertà nel plasmare gli istituti giuridici tenendo conto delle diversità dei vari soggetti. Ho sempre visto il giudice di sorveglianza come un magistrato del “rapporto”. È cioè colui che cerca di vivere la giustizia come “aequitas”, non nel senso puramente formale del termine, ma come modulazione dello strumento giuridico rispetto alla vita dell’uomo. Quest’ultima cambia in base a diverse circostanze, perché l’uomo non è un’immagine scolpita nel legno. Lei ritiene che il ministro Cancellieri sia rimasto all’interno di questi limiti o li abbia valicati? L’iniziativa del ministro Cancellieri è stata per me rispettosa delle norme vigenti, non risultando che la sua iniziativa si sia trasformata in una indebita ingerenza nel lavoro del magistrato competente. Nel caso portato all’attenzione della cronaca, nessun giudice si è sentito minimamente colpito nella sua libertà di giudizio dall’intervento del ministro, che è stato solo espressione di una sollecitudine e non di un’imposizione. L’azione della Cancellieri faceva parte quindi di quel rapportarsi con umanità di cui parlava prima? Sì. La Cancellieri è il ministro della Giustizia, da lei dipende il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, le carceri e i rispettivi direttori. Nella misura in cui sottopone al magistrato un caso che le si presenta come particolarmente delicato, non vedo come ciò si possa tradurre in un illecito o in una scorrettezza. Non dovrebbe spettare allo stesso detenuto, o tutt’al più ai suoi familiari, rivolgersi al giudice competente? Non sempre ciò è possibile. Molte volte, al magistrato di sorveglianza le situazioni di grave malattia di una persona detenuta sono espresse dall’esterno. E’ vero che, in taluni casi, è il detenuto stesso a scrivere al giudice per spiegargli che è malato, ma, nella maggioranza delle volte, sono altri soggetti: i parenti, gli avvocati, i responsabili sanitari dell’ospedale ove il detenuto è ricoverato e, frequentemente anche lo stesso Direttore del carcere. Quest’ultimo, tra l’altro, è un funzionario del ministero della Giustizia. Non vedo quindi quale differenza ci sia tra la Cancellieri che si preoccupa della situazione di un detenuto e il direttore di un istituto di pena che segnala al magistrato di sorveglianza un’incompatibilità grave tra le condizioni di salute di un detenuto e il carcere. Giustizia: dal trasferimento di Jonella al passaporto di Paolo, favori ai figli di don Totò di Ottavia Giustetti e Paolo Griseri La Repubblica, 6 novembre 2013 L’importanza di chiamarsi Ligresti. Non solo Giulia, e l’intervento “umanitario” del ministro Cancellieri. Ma anche la primogenita, Jonella, ha avuto una sorte benevola se paragonata alle decine di migliaia di detenuti nelle carceri italiane. Non proprio un ritorno a casa per lei ma almeno il soggiorno in un carcere più gradito alla famiglia, a poca distanza dal quartier generale del patriarca, in via Ippodrono, a Milano. E se la sorella finisce a San Vittore, il fratello Paolo ha avuto la fortuna sfacciata di una cittadinanza elvetica capitata a fagiolo tre settimane prima del mandato di cattura. Emergono nuovi particolari sulle vicende seguite al d-day del 17 luglio scorso, quando don Salvatore e i tre figli vennero raggiunti dai provvedimenti della Procura di Torino, ultimo sigillo alla fine di un impero. Particolari che mettono in evidenza incongruenze, incredibili sottovalutazioni, favoritismi forse inconsapevoli. Il viaggio lampo di Jonella parte dal resort di famiglia in Sardegna, dove viene arrestata. Transita per il carcere di Cagliari prima e quello di Torino poi, per finire (in tempi giudiziariamente molto rapidi) a San Vittore. Che ha il vantaggio di essere a poca distanza dalla casa di famiglia ma lo svantaggio di trovarsi a 150 chilometri dagli uffici della Procura di Torino titolari dell’inchiesta. Com’è stato possibile? Il 1° ottobre la Procura di Torino invia un fax di routine al carcere delle Vallette chiedendo il trasferimento della detenuta Ligresti Jonella per un interrogatorio. È con un certo stupore che i pm leggono la risposta: “L’invito a comparire non deve essere inviato al carcere di Torino ma a quello di Milano dove la detenuta attualmente si trova”. Come mai Ligresti è finita a Milano? Chi ha deciso il trasferimento nella sua città, quella dove la famiglia, pur nella disgrazia, continua ad avere contatti e relazioni? Il direttore delle Vallette, Giuseppe Forte, ricostruisce l’accaduto: “Ricordo che fu la detenuta a presentare domanda di trasferimento. Io mi limitai a ricordare la procedura che, nei casi di detenzione preventiva, prevede un nulla osta della Procura prima della decisione del Dap”, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria oggi diretto da Giovanni Tamburino. Questa procedura è stata seguita da Jonella Ligresti? “Certamente. Anche se dopo aver dato quelle spiegazioni io non ne seppi più nulla. I legali, ottenuto il nulla osta, hanno trattato direttamente con il Dap di Roma. Un giorno mi è arrivato l’ordine di trasferirla a San Vittore”. Gli avvocati avrebbero potuto comportarsi diversamente? “In genere queste pratiche si trattano con il carcere e il Dap locale. In questo caso non è andata così”. Con chi trattarono a Roma i legali di Jonella Ligresti per ottenere un avvicinamento a casa che molti detenuti italiani sognano per anni senza ottenere soddisfazione? Chi fu negli uffici della capitale ad agevolare i desiderata della figlia del patriarca? Lucio Lucia, uno degli avvocati di Jonella, non mette a fuoco con precisione i contorni della vicenda: “Non ho un ricordo preciso. So che faticai a trovare degli agganci. Ho in mente con precisione il giorno che cercai su internet il numero di telefono del Dap. Mi rispose un signore gentile di cui non ricordo il nome che mi disse che non poteva fare nulla per il nostro caso”. Anche l’avvocato Lucia, infatti, dice di cadere dalle nuvole all’inizio di ottobre: “Sono andato al carcere di Torino per parlare con la mia assistita ma mi hanno detto che era stata trasferita a Milano”. All’insaputa. Qualcuno dunque è intervenuto indipendentemente dall’interessamento dell’avvocato per trasferire Jonella a San Vittore? Chi ha tirato le fila nel gioco di prestigio che in poche settimane porta la signora dal Tanka Village di Costa Rei a piazza Filangeri? Il pm di Torino, Vittorio Nessi, sostiene di aver dato il nulla osta al trasferimento “perché in questi casi, se non ho particolari esigenze, concedo sempre il parere favorevole”. Ma quel parere, è questo il problema, non basta.È necessario il sì dei vertici del Dap ed è indubbio che quel via libera sia arrivato con particolare sollecitudine. Da chi? Dai due vice capi a suo tempo “sensibilizzati” dal ministro per il caso di Giulia? Delle due sorelle Giulia è stata scarcerata per motivi umanitari come dirà anche oggi al Parlamento il ministro Guardasigilli tentando di spostare il focus della vicenda dalla telefonata di solidarietà del giorno degli arresti all’interessamento di agosto sulle condizioni di salute della detenuta. La seconda sorella, Jonella, è stata celermente trasferita al carcere sotto casa nonostante fosse in detenzione cautelare per iniziativa di una procura che si trova a 150 chilometri di distanza. Il terzo fratello, Paolo, è stato ancora più fortunato: è diventato cittadino svizzero il 26 giugno, 21 giorni prima dei mandati di cattura. Ora il procuratore federale di Lugano, John Noseda, sta indagando per capire se quella cittadinanza è valida o se Paolo ha dichiarato il falso sostenendo di non avere indagini in corso a suo carico in Italia. In quel caso gli verrebbe annullata la concessione della cittadinanza e ritirato il passaporto. Per il momento comunque Paolo rimane a Lugano. Rispetto a quella di tanti altri detenuti la sorte dei tre fratelli è stata benigna. L’importanza di chiamarsi Ligresti. Giustizia: chi sono i 22 mila beneficiari di misure alternative al carcere Redattore Sociale, 6 novembre 2013 A 10.755 persone è stato concesso l’affidamento in prova, a 10.255 la detenzione domiciliare. Recidiva più bassa in caso di misure alternative: 19%, contro il 68,4% di chi sconta la pena in carcere. L’Europa ci guarda. E attende. Ieri il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, si è recata a Strasburgo per incontrare il segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjon Jagland. Il Guardasigilli ha voluto così illustrare all’Europa le misure che il nostro paese intende adottare per porre fine, o almeno limitare, le situazione incresciosa in cui versano i nostri istituti penitenziari e, conseguentemente, le decine di migliaia di detenuti in essi reclusi. Condizioni che hanno spinto proprio l’Europa a disporre delle sanzioni verso il nostro paese. Tra le proposte in discussione, anche quella di potenziare la cosiddetta “liberazione anticipata” o una sorta di “premio” per chi è stato costretto a vivere in condizioni degradanti, per esempio perché recluso in spazi troppo ristretti, con una sorta di risarcimento non economico ma legato alla riduzione dei giorni di detenzione in esecuzione penale. Una sorta di compensazione. Ma tra le cose che l’Europa ci imputa, oltre al sovraffollamento e alle conseguenti condizioni inumane in cui versano i detenuti, c’è anche l’eccessiva lunghezza dei procedimenti penali, cosa che spesso costringe le persone a una carcerazione preventiva. Sovraffollamento e misure alternative. L’intervento europeo, in realtà, ha imposto un’accelerazione a un problema da tempo al centro di molti dibattiti, politici e non. E’ la questione del sovraffollamento (64.323 i detenuti presenti al 31 ottobre scorso), a cui in varie fasi si è cercato di dare una risposta con misure come l’indulto o, semplicemente puntando sulle misure alternative, come la detenzione domiciliare (legge 199/2010). In presenza di determinati requisiti, infatti, ad alcuni condannati può essere disposta una misura alternativa alla detenzione. Al 30 settembre 2013 erano in totale 21.891 i soggetti che beneficiavano delle misure alternative (dati del Dap). Vediamole. L’affidamento in prova ai servizi sociali è stato concesso a 10.755 persone. Tra queste rientrano 3.257 tossicodipendenti o alcoldipendenti, di cui 977 sono stati affidati direttamente ai servizi, 435 vi sono stati posti in misura provvisoria e 1.845 erano già in carcere. I condannati cui è stata concessa la semilibertà sono 881, di cui 56 dallo stato di libertà e 825 dallo stato di detenzione. Della detenzione domiciliare usufruiscono 10.255 persone (di queste, 2752 in base alla legge 199/2010), di cui 3.245 dallo stato di libertà, 4.552 dallo stato di detenzione e 2.383 condannati in misura provvisoria. Godono degli arresti domiciliari anche 52 persone affette da Aids e 23 condannati con figli di età inferiore ai 10 anni. Pene alternative e recidiva. Il detenuto a cui viene concessa una misura alternativa al carcere ha una recidività minore rispetto a chi sconta la propria pena all’interno di una cella. Nello specifico, la recidiva, trascorsi sette anni dalla conclusione della pena, si colloca intorno al 19% in caso di pena alternativa, mentre raggiunge il 68,4% quando la stessa viene eseguita in carcere (ricerca del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Al 30 giugno 2011 solo lo 0,46% delle persone in misura alternativa ha commesso reato durante la stessa (Antigone, VIII Rapporto sulle condizioni di detenzione). La concessione delle misure alternative. I tribunali di sorveglianza italiani autorizzano le misure alternative in misura diversa. Secondo l’ottavo Rapporto di Antigone, per l’affidamento in prova ai servizi la forbice nelle percentuali di accoglimento delle istanze è ampia: va dal minimo dell’11,58% di Napoli al massimo del 39,43% di Milano. Tra i tribunali con gli indici più bassi Antigone segnala Venezia (14,5%) e Torino (14,43%), mentre tra quelli con gli indici più elevati evidenzia Perugia (31,6%). La misura alternativa con le maggiori possibilità di successo è in generale l’affidamento terapeutico: 7 dei 9 tribunali indagati presentano tassi di accoglimento superiori al 30%. A Milano e a Venezia la percentuale arriva quasi al 50%. All’ultimo posto invece si piazza Napoli, con l’8,4%, ma non spicca neanche L’Aquila (16,04%). Più omogenea è la concessione della detenzione domiciliare, che incontra una generale tendenza alla prudenza, con percentuali di accoglimenti che non superano mai il 25%. Si va dal 14,96% di Napoli e al 25,7% di Roma. In controtendenza solo Venezia, con il 49,63%. Intanto, sul fronte della semilibertà si deve fare i conti con un irrigidimento: il tribunale con la percentuale più elevata è Perugia con il 20,75%. Tra gli altri, Venezia raggiunge quota 18,44% e ancor più bassi sono i valori di Milano (5,67%), Napoli (8,25%), Roma (8,76%) e Torino (8,82%). Giustizia: Battaini (Consiglio Europa), l’indulto sarebbe una misura importante Adnkronos, 6 novembre 2013 Per ridurre il sovraffollamento delle carceri italiane l’indulto “potrebbe essere molto importante”. Lo ha detto il vice segretario generale del Consiglio d’Europa, Gabriella Battaini, a Strasburgo al termine di un incontro con il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri. “Nel corso dell’incontro “è stata menzionata la questione dell’indulto, che potrebbe essere molto importante, ma non è stata centrale nella nostra discussione”, ha sottolineato Battaini. Il Consiglio d’Europa, ha continuato, “è con il ministro Cancellieri per sostenere le sue iniziative per una riforma profonda della giustizia senza la quale è impensabile andare avanti”. Battaini ha inoltre sottolineato “la visione straordinaria su come concepire il carcere, anche come luogo di vita in cui continuare a vivere con dignità e lavorare per essere utili a se stessi e alla comunità”. Giustizia: Corleone (Garante detenuti Toscana) “non bloccare la riforma delle carceri” www.gonews.it, 6 novembre 2013 “Non vorrei che qualcuno avesse sollevato il caso Cancellieri per bloccare il processo riformatore di cui le carceri italiane hanno bisogno”. A dirlo Franco Corleone, garante della Regione Toscana per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, in merito alla vicenda che ha coinvolto il ministro della giustizia sul caso Ligresti, a margine della sua visita nella casa circondariale di Siena. “Mi auguro che le polemiche di questi giorni non impediscano la realizzazione di un piano di riforme molto forti. E’ un timore che ho ed è anche fondato”, ha spiegato il garante che poi ha aggiunto: “So che nei prossimi giorni sarebbe stato presentato un decreto legge con misure molto incisive per cambiare le cose. Anche se non sarà dimissionato, non so se il ministro Cancellieri avrà la forza per continuare su quella strada”. “Pensare che questa vicenda sia stata creata strumentalmente - ha concluso Corleone - sarebbe preoccupante”. “Chi in Parlamento si lamenta di segnalazioni che giudica improprie ha solo una cosa da fare: approvare la legge per l’istituzione del garante nazionale”. E’ quanto auspica Franco Corleone. “Abbiamo un obbligo di convenzione Onu per approvare la legge e nominare il garante. Il Parlamento cosa aspetta? Oggi discuterà della vicenda Cancellieri ma se si trovasse un’altra giornata per approvare quella legge sarebbe più utile”, ha aggiunto il garante toscano spiegando che il garante nazionale avrebbe le funzioni di “un organo terzo con compito di affrontare tutte le questioni dei detenuti verso la magistratura di sorveglianza e verso l’amministrazione penitenziaria”. Giustizia: Moretti (Ugl); la Polizia penitenziaria è esclusa dal piano della Cancellieri Adnkronos, 6 novembre 2013 “Anche se il ministro Cancellieri ha confermato un impegno a 360 gradi sui problemi delle carceri, di fatto la Polizia Penitenziaria appare completamente abbandonata, tanto che nella Legge di Stabilità il fondo di 50 milioni di euro destinato all’aumento del turnover per il prossimo anno non prevede alcuna riserva di posti per il Corpo”. Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti. “Ciò non significa solo che non sarà possibile reintegrare completamente il turnover - spiega - ma anche che si verificherà una disparità tra le Forze dell’Ordine, con un ulteriore assottigliamento dell’organico della Polizia Penitenziaria, già sotto di oltre 7.500 unità. Inoltre, per un corretto funzionamento delle nuove strutture che si intendono aprire entro marzo 2014, su un totale di oltre 4.000 posti detentivi sono indispensabili non meno di 1.500 agenti”. “Se si pensa quindi - prosegue il sindacalista - che i progetti di modifica gestionale della carcerazione e di riduzione del sovraffollamento possano essere affrontati senza un ripianamento della pianta organica, si commette un grave errore che nel tempo potrebbe avere ripercussioni significative sulla sicurezza interna alle strutture, ampiamente inadeguate a sostenere un tipo di gestione detentiva cosiddetta “aperta”. Come più volte sollecitato - conclude Moretti - restiamo in attesa di un confronto urgente con il ministro, considerata anche la totale disattenzione dell’attuale vertice del Dipartimento’’. Giustizia: il Quirinale e la richiesta di grazia a Berlusconi “che non è stata mai presentata” di Marzio Breda Corriere della Sera, 6 novembre 2013 È da tre mesi che il presidente della Repubblica cerca di ricondurre alla ragione la rincorsa politico-giudiziaria (e di sterilizzare le conseguenti febbri polemiche) sulla grazia a Silvio Berlusconi. Eppure i suoi sforzi per chiarire come stanno le cose, sgombrando attese improprie e interpretazioni interessate, non sembrano serviti a nulla. Dal centrodestra, infatti, c’è chi a giorni alterni insiste nel rivendicarla come un indispensabile strumento di “pacificazione” e ieri l’ha fatto (attraverso un’intervista destinata a uscire nel prossimo libro di Bruno Vespa) lo stesso Cavaliere. Per il quale Giorgio Napolitano “sarebbe ancora in tempo” a concedergli il provvedimento di clemenza e a garantirgli così la fatidica “agibilità politica”. L’anticipazione diffusa nelle ultime ore è troppo laconica per valutare su che cosa si fondino davvero le aspettative dell’ex premier. Una cosa però appare chiara: nessuno, né Berlusconi, né per lui la sua famiglia o i suoi avvocati, ha ancora presentato una domanda in tal senso. E questo fa venir meno una delle precondizioni indicate dal capo dello Stato nel messaggio del 13 agosto, quando il Quirinale volle chiarire formalmente i limiti entro i quali la sua (eventuale) azione avrebbe potuto dispiegarsi. Il nodo, allora come adesso, ruotava intorno al medesimo punto equivoco: la convinzione che il presidente possa cancellare, in assoluta e insindacabile autonomia, gli effetti di una pena comminata da un tribunale, “liberando” motu proprio il condannato dalle conseguenze afflittive - cioè il carcere - per ragioni umanitarie. Napolitano spiegò che la realtà costituzionale, pur riconoscendogli in esclusiva la titolarità di quel potere, non consente scelte senza vincoli. Vale a dire che, in materia di clemenza, non esistono istituti giuridici alternativi cui il capo dello Stato possa ricorrere, traducibili in funzione di salvacondotto. Vanno perciò valutate “specifiche norme di legge”, una precisa “giurisprudenza”, “consuetudini costituzionali” e “prassi seguite in precedenza”, secondo le quali diventa “essenziale” un preciso passaggio: la presentazione di una domanda ad hoc. Cosa mai avvenuta e che il Cavaliere sembra escludere in quanto - stando alla logica che lo ispira - ciò equivarrebbe di per sé a un’ammissione di colpevolezza. Tutto dovrebbe invece partire proprio da lì (a parte l’ovvia accettazione della pena e almeno un inizio di espiazione). La domanda, insomma, permetterebbe agli uffici tecnici del Colle di aprire “un esame obiettivo e rigoroso” della questione, per poi verificare se “sussistano le condizioni” tali da “motivare un eventuale atto di clemenza individuale che incida sull’esecuzione della pena principale” (esclusa invece la pena “accessoria” dell’interdizione dai pubblici uffici con relativa incandidabilità: particolare decisivo, questo, in cui gli aspetti giuridici del rebus berlusconiano si sovrappongono fatalmente a quelli politici). Il memorandum di ferragosto di Giorgio Napolitano era insomma trasparente e avrebbe dovuto tagliare corto su un certo gioco di speculazioni politico-giudiziarie, legate alla stessa sopravvivenza del governo. Perciò ha destato un certo stupore, ieri, vederlo rilanciato dal Cavaliere in persona. Come se quel lungo comunicato esplicativo non fosse mai esistito e tutte le suggestioni emotive legate alla grazia fossero riproponibili oggi, in una chiave magari politica e comunque preelettorale. Giustizia: legale Provenzano ricorre a corte Strasburgo per revoca del 41bis Ansa, 6 novembre 2013 “Mio cliente purtroppo non è anoressico ma nutrito con sondino”. Il legale del boss Bernardo Provenzano, l’avvocato Rosalba Di Gregorio, ha presentato un’istanza cautelare alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo in cui chiede la revoca del 41 bis e la sospensione dell’esecuzione della pena, per motivi di salute, per il capomafia. “Mi sono rivolta di nuovo a Strasburgo - spiega ironicamente il legale facendo riferimento al caso Ligresti- perché non ho la fortuna di avere un cliente anoressico e con figli piccoli anche se Provenzano da mesi non riesce a mangiare autonomamente e si nutre con un sondino”. L’istanza, presentata con urgenza, si inserisce nel procedimento pendente avviato dall’avvocato del boss davanti alla corte di Strasburgo. Il legale aveva chiesto ai giudici di condannare l’Italia per il trattamento carcerario disumano riservato al capomafia. La decisione di sollecitare un intervento cautelare sulla vicenda nasce dal rigetto della revoca del 41 bis per Provenzano deciso dal tribunale di sorveglianza di Roma. “Non entro nelle valutazioni sull’opportunità dell’operato del ministro della Giustizia nella vicenda Ligresti - conclude - ma il fatto che il Guardasigilli debba occuparsi di casi di detenuti con problemi di salute e sollecitare Dap e magistrato di sorveglianza significa che gli organi competenti non stanno facendo il loro lavoro”. Veneto: carceri fuorilegge, quasi 3.200 detenuti in celle da 2 mila posti di Fabiana Pesci Il Mattino di Padova, 6 novembre 2013 Non solo Ligresti. Il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri si è interessata anche alla situazione di un detenuto padovano. Cancellieri si è occupata del caso di Stefano Carnoli (nella foto), detenuto nel carcere Due Palazzi della città del Santo. Carnoli aveva vinto un ricorso perché a Padova la sua cella era troppo piccola. Senza interpellarlo, senza sapere che da tre anni era il bibliotecario del carcere e collaborava con l’associazione Ristretti Orizzonti, il detenuto era stato trasferito nel carcere di Cremona. Indignati dal fatto che una persona potesse essere trattata come un pacco la cooperativa AltraCittà e la redazione di Ristretti Orizzonti” hanno tentato in tutti modi di riportarlo a Padova. La mobilitazione corale (associazioni, volontari, bibliotecari) è partita dal mattino di Padova per sbarcare su Repubblica, raccontata da Corrado Augias. È allora che la richiesta di spiegazioni è arrivata al ministro Anna Maria Cancellieri che, in risposta ad Augias il 24 luglio, aveva affermato che “avendo fatto ricorso per il sovraffollamento, doverosamente è stato predisposto il suo trasferimento”. Una fotografia impietosa, che riflette un’immagine i cui contorni sono caratterizzati da sovraffollamento cronico, mancanza di personale. Protagonisti dello scatto, i detenuti veneti, che hanno sfondato quota 3 mila 170 a fronte di una capienza regolamentare degli istituti di pena ferma a 1985 posti disponibili. Ristretti Orizzonti, testata giornalistica che si occupa di condizione carceraria e volontariato dietro le sbarre, da sempre raccoglie ogni dato possibile relativo alle case di reclusione e circondariali del Veneto e d’Italia. Obiettivo, fare sistema, dar vita a un confronto con le istituzioni per migliorare le condizioni di vita di chi deve pagare il conto perché ha commesso un errore. Le carceri in Veneto Dieci istituti di pena, uno per provincia, cui si sommano strutture doppie e triple rispettivamente a Padova e Venezia. Il report di Ristretti Orizzonti dimostra una volta di più che in Veneto, come nel resto d’Italia, la situazione carceri è esplosiva. I dati sono riferiti al giugno del 2013 e dimostrano che il problema del sovraffollamento è ormai cronicizzato. A Belluno, a fronte di una capienza regolamentare di 92 posti, sono presenti 136 detenuti (cinque dei quali sono donne). A Padova i numeri più allarmanti: nella casa di reclusione il limite è stato doppiato. Oltre novecento detenuti (915) contro un numero dichiarato di 439 posti a disposizione. Limite raggiunto anche nella casa circondariale, con 208 “celle” occupate su spazi sulla carta per 210 persone. Tutto esaurito anche nell’istituto di pena di Rovigo, con 76 carcerati. Stessa situazione anche nella casa circondariale di Treviso, con 293 persone detenute contro spazi per solo 128 carcerati. È l’istituto di pena femminile l’unico carcere del Veneto a non patire il sovraffollamento: a giugno 2013 erano solo settantacinque le detenute, contro una capienza massima di 104 persone. Troppi carcerati anche al “Santa Maria Maggiore” di Venezia, con 284 detenuti nelle celle, a fronte di un numero di posti dichiarato fermo a 168. A Vicenza il limite è stato addirittura doppiato: 319 persone in carcere, contro un limite di 146. E anche a Verona l’aria che si respira è pressoché identica, con 865 carcerati rinchiusi i una struttura che ne potrebbe contenere al massimo 594. Strutture sotto organico Ristretti Orizzonti ha raccolto anche i dati relativi alle persone che sono impiegate all’interno degli istituti di pena. Seondo il report mancano all’appello oltre cento persone. Numeri che se possibili aggravano una condizione definita drammatica dalle organizzazioni sindacali che tutelano la polizia penitenziaria, così come dalle associazioni di volontariato che ruotano attorno all’universo carcere. A Belluno, tra personale in forza (cioè al lavoro) e in organico c’è un gap di due unità. Alla casa circondariale di Padova mancano sette persone, alla casa di reclusione addirittura venticinque. Rovigo è ferma a meno sette, Treviso a meno sei, all’istituto femminile di pena Giudecca ne mancano quattordici, al Santa Maria Maggiore tredici, a Verona quindici e a Vicenza quattro. Gli stranieri Gli stranieri carcerati, molti dei quali ancora in attesa di giudizio, sono oltre 1800, 105 a Belluno, 175 nella casa circondariale di Padova, 389 nella casa di reclusione della città del Santo, quaranta a Rovigo, 170 a Treviso, 34 nel carcere femminile della Giudecca, 194 al Santa Maria Maggiore, 177 a Vicenza, 582 a Verona. “È ora di fare qualcosa, ci sono oltre mille detenuti in più rispetto alla capacità delle carceri venete. E manca personale, stanno venendo meno i fondi per finanziare i progetti”. Giampietro Pegoraro, coordinatore veneto della polizia penitenziaria della Cgil, dipinge un quadro a tinte fosche. “Bossi-Fini, Fini-Giovanardi, ex Cirielli, vari pacchetti sicurezza stanno affossando il sistema carcerario”, spiega Pegoraro, “è ora di fare qualcosa, compresa una revisione del codice penale. A parte l’esperienza di Padova, dove lavora la cooperativa Giotto, sono ancora troppo poche le esperienze che permettono di impiegare i i detenuti in esperienze di lavoro. E sono ancora molte le amministrazioni cittadine che non si interessano da vicino del problema carcerario, convinte che non tocchi loro da vicino”. Roma: detenuto malato e in dialisi, ma non si chiama Ligresti... di Davide Falcioni www.fanpage.it, 6 novembre 2013 Il padre di un detenuto di 24 anni denuncia il costante aggravarsi delle condizioni di salute del figlio, malato di insufficienza renale, costretto alla dialisi e dimagrito di 15 chili: “Due anni senza adeguate cure lo hanno distrutto, ridotto a uno scheletro. E adesso, gli arresti domiciliari alla Ligresti, causa eccessivo dimagrimento e prostrazione psicologica… Ma allora, da chi bisogna farsi raccomandare per salvare il nostro ragazzo?”. Un ragazzo di 24 anni, detenuto del carcere di Regina Coeli a Roma, gravemente malato e sotto dialisi, ha affidato ai genitori un appello al ministro della giustizia Anna Maria Cancellieri, finita negli ultimi giorni al centro di furiose polemiche per la sua telefonata “solidale” con la detenuta Giulia Ligresti: “Quando ho sentito del caso di Giulia Ligresti e dell’intervento presso i Dap che ha risolto la sua detenzione facendole guadagnare gli arresti domiciliari - dice il padre del giovane detenuto al Corriere - mi sono chiesto: ma allora abbiamo sbagliato tutto? Tutti i nostri ricorsi dovevano andare al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria anziché al giudice competente? Oppure dovevamo rivolgerci anche noi al ministro Cancellieri?”. B.G., gravemente malato, durante la sua permanenza in cella ha perso 15 chili e - di fatto - non può neppure essere operato perché gravemente debilitato. La storia del 24enne non è isolata: sono centinaia i detenuti che versano in condizioni di salute talvolta serie. B.G viene ricoverato nel gennaio scorso: la sua vita è in pericolo da tempo, ma gli viene diagnosticata una grave insufficienza renale e dopo una settimana viene trasferito all’ospedale Sandro Pertini, sezione medicina protetta (la stessa dove venne ricoverato Stefano Cucchi). La diagnosi parla chiaro: insufficienza renale cronica. Dopo tre mesi viene dimesso e - malgrado la sua patologia non potesse essere curata dal centro clinico del carcere di regina Coeli - il ragazzo viene riportato in cella. Qui nessuno gli consente di seguire la dieta prescritta dai medici e le conseguenze non tardano ad arrivare: in breve tempo B.G. perde 15 chili. Ad ottobre viene nuovamente ricoverato: i sanitari del Pertini contestano “un quadro clinico caratterizzato da nausea, vomito, astenia e dimagrimento insorti da alcuni mesi”. Il 24enne pesa solo 63 chili, contro gli 83 di quando era stato arrestato. Non basta, evidentemente: qualche giorno fa, dimesso dall’Ospedale, viene nuovamente riportato in cella, “dove di nuovo non potrà essere assistito come la sua patologia richiede” spiega il padre. Che ricorda: “Abbiamo presentato istanza di scarcerazione per incompatibilità carceraria per gravi motivi di salute: la nostra richiesta è stata rigettata con la motivazione del pericolo di fuga. Ma dove può fuggire un ragazzo che non sta in piedi e che deve sottoporsi a dialisi in continuazione?”. “Se nostro figlio - conclude il padre - avesse avuto un’adeguata assistenza sanitaria all’insorgere dei primi sintomi, la sua patologia - in origine banale - non sarebbe degenerata. Due anni senza adeguate cure lo hanno distrutto, ridotto a uno scheletro. E adesso, gli arresti domiciliari alla Ligresti, causa eccessivo dimagrimento e prostrazione psicologica… Ma allora, da chi bisogna farsi raccomandare per salvare il nostro ragazzo?”. Brian Bottigliero detenuto. Famiglia: Cancellieri ci aiuti o nuovo caso Cucchi Brian Gaetano Bottigliero ha 24 anni, è in carcere a Regina Coeli ed esce dalla cella 3 volte a settimana. Esce per fare la dialisi: Brian ha bisogno, urgente, di un trapianto di reni. Senza non avrebbe futuro. Ma per ora il trapianto non lo può fare: in carcere ha perso troppi chili, la sua magrezza è eccessiva. Brian è in carcere da oltre due anni: è in attesa della sentenza d’appello, in primo grado è stato condannato a 9 anni per una rissa con un ferito grave. Sono due anni che Brian sta male, due anni che lui e la sua famiglia chiedono che venga scarcerato: perché il suo stato di salute non è compatibile con il carcere. Due anni di richieste al giudice e al tribunale della libertà, finché non è esploso il caso Giulia Ligresti, rapidamente scarcerata per motivi di salute come emerso dalle intercettazioni che hanno coinvolto il ministro Cancellieri. Ed è al ministro della Giustizia che i familiari di Brian si rivolgono, proprio nello stesso giorno in cui il ministro pronuncia la sua difesa in aula sul caso Ligresti. Sperando che quello di Brian non diventi un nuovo “caso Cucchi”. Dice Antonio Bottigliero al Corriere della Sera: “Quando ho sentito del caso di Giulia Ligresti e dell’intervento presso i Dap che ha risolto la sua detenzione facendole guadagnare gli arresti domiciliari - dice Antonio Bottigliero, il padre di Brian - mi sono chiesto: ma allora abbiamo sbagliato tutto? Tutti i nostri ricorsi dovevano andare al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria anziché al giudice competente? Oppure dovevamo rivolgerci anche noi al ministro Cancellieri?” Sono due anni che Brian esce dal carcere per essere ricoverato nel reparto protetto dell’ospedale Pertini di Roma, nello stesso reparto dove finì Stefano Cucchi. Due anni di permessi di scarcerazione negati. Per pericolo di fuga o per pericolo di reiterazione del reato. “Se nostro figlio avesse avuto un’adeguata assistenza sanitaria all’insorgere dei primi sintomi, la sua patologia - in origine banale - non sarebbe degenerata”, sottolineano. “Due anni senza adeguate cure lo hanno distrutto, ridotto a uno scheletro. E adesso, gli arresti domiciliari alla Ligresti, causa eccessivo dimagrimento e prostrazione psicologica… Ma allora, cosa dobbiamo per salvare il nostro ragazzo?”. Siena: il Garante; carcere sovraffollato, tre docce per cinquanta detenuti di Natascia Malesi La Nazione, 6 novembre 2013 Le strutture penitenziarie della Toscana finiscono nel mirino del Garante dei detenuti Franco Corleone, che con una serie di sopralluoghi iniziati proprio ieri da Siena - e precisamente dalla casa circondariale di Santo Spirito - farà il punto sullo stato di salute delle carceri toscane e sulle condizioni degli oltre 4700 detenuti che le abitano, circa 900 in più rispetto al limite di capienza stabilito. Il sovraffollamento delle carceri è una delle grandi emergenze italiane. Non fa eccezione Siena, dove si registra una presenza media di detenuti superiore alle 70 unità a fronte dei 50 posti disponibili. Corleone l’ha definita “una situazione di relativo sovraffollamento” e ha parlato di “struttura in forte miglioramento”. Restano, però, alcune zone d’ombra e disagi legati ad una struttura non facilmente ampliabile. “Gli spazi per la socialità sono molto ridotti. E’ positivo che in una sezione che ospita 22 detenuti le celle siano sempre aperte e che nell’altra restino aperte per più di 8 ore al giorno, ma non è accettabile che per più di 50 detenuti ci siano solo tre docce”. Corleone interviene con suggerimenti precisi come la rimozione delle bocche di lupo che limitano l’ingresso di aria e luce in alcune celle e, insiste sul fatto che sarebbe opportuno destinare gli spazi liberi non alla detenzione ma alla socialità. Nell’attesa che prendano corpo i progetti in cantiere: la nascita di una biblioteca interna, di una piccola pizzeria aperta all’esterno e l’adozione di schede telefoniche per i detenuti, Corleone lancia un appello che speriamo non cada nel vuoto. “Qualcuno regali alla struttura penitenziaria un tappeto in erba sintetica per il campo di calcetto”. Nella sua analisi il Garante non fa sconti. Conferma che a Siena il clima tra detenuti e polizia penitenziaria è buono ma rilancia puntando sulla necessità di introdurre misure alternative alla detenzione. Non parla esplicitamente di amnistia e di indulto, ma chiarisce il suo punto di vista, spiegando che “nel Paese di Beccaria - cioè dello Stato di diritto -, si dovrebbero punire con il carcere solo i reati gravi e soprattutto i reati della modernità non quelli del secolo scorso”. Un altro modo di dire che se per molti che hanno violato ad esempio l’art.73 della legge sulle droghe, fossero previsti misure alternative alla detenzione ma altrettanto efficaci, “forse l’Italia non sarebbe un Paese condannato dall’Europa per tortura”. Ma non è finita qui, Corleone chiama in causa anche il Comune chiedendogli un impegno concreto per l’istituzione di una casa della semilibertà. Siena non può essere paragonata ad altre città ma la sua situazione è una importante cartina di tornasole per sottolineare l’urgenza di trasformare il carcere in un luogo dal quale si esce rieducati e pronti ad essere reinseriti in società. Non a caso, proprio da qui mentre in Parlamento si discutono le sorti del ministro Cancellieri, Corleone parla per la prima volta di un rischio sabotaggio delle grandi riforme, compresa quella del sistema carcerario. “Non vorrei che qualcuno avesse sollevato il caso Cancellieri per bloccare il processo riformatore: è un timore che ho e credo fondato”. Poi aggiunge: “nei prossimi giorni sarebbe stato presentato un decreto legge con misure molto incisive. Ora alla luce di quanto accaduto, non so se il ministro avrà la forza per continuare su quella strada”. Infine, a chi in Parlamento si lamenta di segnalazioni che giudica improprie, Corleone risponde che c’è solo una cosa da fare: approvare la legge per l’istituzione del Garante Nazionale per i detenuti, adeguamento peraltro richiesto dall’ONU. E il riferimento alle polemiche di questi giorni torna di nuovo prepotente. “Credo sarebbe più utile dedicare un’intera sessione parlamentare a fare pulizia di tutte le leggi criminogene in vigore. Per cambiare le cose nelle carceri questa è la nostra ultima occasione. L’Italia ha, infatti, tempo fino a fine maggio 2014, altrimenti la condanna dell’Europa sarà pesante”. Come dire che una condanna del genere alla vigilia del semestre europeo dove l’Italia ricoprirà la presidenza non è certamente un bel biglietto da visita. Pavia: già 136 nuovi detenuti a Torre del Gallo, operative 3 sezioni su 4 della nuova ala di Anna Ghezzi La Provincia pavese, 6 novembre 2013 Centotrentasei detenuti arrivati in dieci giorni e sistemati nelle tre sezioni già operative della nuova ala di Torre del Gallo insieme ai detenuti protetti già ospitati a Pavia. Vengono principalmente dal carcere di Opera, alcuni detenuti comuni da san Vittore hanno invece trovato posto nella vecchia ala. Lunedì, martedì e mercoledì scorso sono arrivati a gruppi di trenta e a stento i medici del carcere sono riusciti a visitarli tutti entro le 24 previste, anche a causa delle difficoltà logistiche di spostamento da un’ala all’altra del carcere: ci vogliono da 30 a 45 minuti per passare da una parte all’altra, tra controlli di sicurezza e porte che si aprono solo quando quella precedente è stata chiusa, come prevedono le norme di sicurezza. In questi giorni sono stati anche trasferiti da Pavia ad altre strutture quasi tutti i 120 detenuti dell’alta sicurezza, inviati a Voghera e ad altre regioni d’Italia, ne mancano ancora una trentina: in questo modo il vecchio stabile è tornato sotto il limite massimo di capienza tollerata: ci sono 362 detenuti a coppie di due nelle celle da sette metri quadri che fino a poche settimane fa ne ospitavano tre. Nella nuova ala, invece le celle sono da 21 metri quadri, con 7 metri per ogni detenuto come chiede l’Unione europea, e al momento ospitano 163 detenuti. “Ci sono stati diversi problemi - spiegano dal Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria - talvolta non funzionano le celle automatiche e vanno aperte a mano, si sono già bloccati più volte i cancelli per lo smistamento”. Gli agenti effettivi sono 251. “Abbiamo avuto alcune riunioni organizzative con la direzione - spiega Fabio catalano, Fp Cgil - per evitare di sacrificare ferie e riposi sono stati soppressi alcuni posti di servizio: prima c’erano due agenti per ogni reparto, che conta dai 75 ai 50 detenuti, ora ce n’è solo uno”. Nella nuova ala il reparto psichiatrico al momento è vuoto, e l’infermeria non è attiva, così i detenuti e i medici devono affrontare spostamenti non facili. “Stiamo provvedendo a tutto ciò che è necessario per garantire l’assistenza e la sanità penitenziaria sulla base degli ingressi attuali e futuri” fanno sapere i vertici dell’Azienda ospedaliera. In arrivo 3 infermieri supplementari, a breve ne arriveranno altri 4, e sono state predisposte 243 ore supplementari di presenza dei medici al mese oltre a 90 ore supplementari di presenza dello psicologo. Tempio Pausania: i programmi dell’Ute per i detenuti, oggi l’inaugurazione La Nuova Sardegna, 6 novembre 2013 Tra le tante collaborazioni che la direzione del carcere di Nuchis sta attivando con le associazioni dell’alta Gallura figura ora anche quella con l’Università della Terza Età. La direttrice della struttura carceraria, Carla Ciavarella, e la presidente dell’Ute Tempio, Lina Rosa Antonia, hanno trovato un facile punto d’intesa per una partnership che, inaugurata quest’oggi, ha tutte le carte in regola per durare nel tempo. Quest’oggi, alle 15, dentro il carcere, si terrà, infatti, l’inaugurazione del programma di attività che la Ute ha ideato per i detenuti della struttura. Alla presenza del sindaco di tempio, Romeo Frediani, e di altre autorità, i detenuti interessati alle proposte culturali dell’Ute potranno assistere al concerto di Maria Laura Solinas. La performance della solista mezzo soprano consisterà nell’esecuzione di un saggio di musica classica e di musica italiana melodica. Il concerto segnerà l’avvio di un percorso che, secondo le inclinazioni e lo stile dell’Ute, attraverserà più contesti culturali, offrendo conferenze e lezioni su temi di varia natura: in particolare, storia, letteratura, arte, tradizioni popolari, geografia, archeologia, musica, astronomia, scienze naturali, diritto e biologia umana. Potranno beneficiarne i venti detenuti che si sono iscritti all’Ute e ai percorsi universitari tradizionali. La collaborazione con l’Ute arricchisce il pacchetto di proposte formative che la Direzione della casa di reclusione di Nuchis intende offrire alla popolazione carceraria. In questa direzione vanno anche i rapporti già fruttuosamente intrapresi con altre associazioni e soggetti del mondo culturale gallurese. Basterebbe pensare alle rassegne letterarie curate dalla Libreria Max 88 e dall’associazione Carta Dannata, ma anche ai progetti di formazione scolastica che si giovano della partecipazione di diverse scuole superiori. Tutto nel segno di una creativa interazione tra il carcere e il territorio. Castelvetrano (Tp): parte progetto per il reinserimento dei detenuti di Mariano Pace www.castelvetranonews.it, 6 novembre 2013 Interventi ed iniziative per favorire il processo di “rieducazione e reinserimento sociale” di parecchi detenuti, ospiti della Casa Circondariale di Castelvetrano. Un’azione rivolta particolarmente a quei detenuti, chiamati a scontare pene molto lunghe. Detenuti che a sentire alcuni operatori del settore ed esperti in materia vivono una condizione di isolamento sociale ed emarginazione. “Dimenticati dal mondo” per loro stessa definizione. A promuovere l’importante azione sociale: la dottoressa Maria Galfano, psicologa, volontaria da un anno presso il carcere di Castelvetrano. “Mi piace citare il seguente passo tratto dall’opera “Resurrezione” di Tolstoj-dice la dottoressa Galfano-noi tutte persone agiate, ricche non ci preoccupiamo affatto di distruggere le cause che portano tanti ragazzi in carcere ma vogliamo rimediare la faccenda castigando i ragazzi”. La finalità dell’iniziativa-prosegue la psicologa-volontaria- è quella di far conoscere all’esterno le condizioni della pena facendo parlare proprio loro: “i dimenticati”. A collaborare con la dottoressa Galfano anche l’educatrice del carcere di Castelvetrano Selenia Conigliaro. Suo il merito della creazione di una biblioteca anche alla terza sezione quella dei sex offenders, dando anche a loro, “gli ultimi “la possibilità di trascorrere qualche ora fuori dalle celle in compagnia di libri. Un prezioso contributo all’iniziativa arriva anche dal Vescovo di Mazara del Vallo Monsignor Domenico Mogavero. Infatti grazie al suo “si” alcuni articoli scritti dai detenuti saranno pubblicati all’interno della rivista della diocesi Condividere grazie anche all’apporto di Max Firreri, vice direttore della rivista. Un progetto “dietro le sbarre” che coinvolgerà anche il carcere di Trapani. Non meno importante ed efficace la collaborazione dell’Associazione Verbum Caro di Marsala che da anni si occupa di detenuti ed ex detenuti. Ha infatti attivato a Castelvetrano, all’interno sempre del carcere, un laboratorio di artigianato finalizzato alla creazione da parte dei detenuti di braccialetti ed altri lavori fatti a mano. E’ gestito da volontari come la dottoressa Micaela Cianciolo e padre Jean Paul. “Come sosteneva Dostoevski-aggiunge la dottoressa Galfano-il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni. Io spero che questo sia l’inizio di qualcosa di più grande-conclude Galfano-di riuscire a creare nuovi laboratori con nuovi volontari che abbiamo voglia di aiutare quelle persone che sono già state condannate e stanno pagando la loro pena e per questo non meritano un’altra condanna dalla società”. Piacenza: domani Convegno "Lavorare per una pena utile”, promosso da Garante dei detenuti www.piacenza24.eu, 6 novembre 2013 “Lavorare per una pena utile”, è il convegno promosso dal Garante per i diritti delle persone private della libertà Alberto Gromi e dall’assessore al Nuovo Welfare Giovanna Palladini. A illustrare il programma dell’iniziativa anche Elena Foletti, funzionaria dei servizi sociali del Comune di Piacenza. Il convegno si terrà all'auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano giovedì 7 novembre dalle 8,45 alle 13,30. Verranno prese in considerazione quattro esperienze che hanno visto detenuti in altre città uscire dal carcere e iniziare a lavorare con cooperative che hanno permesso loro di ottenere un impiego serio ed evitare di ricadere nel circolo della criminalità. "Perché un carcere che non garantisce il lavoro durante e dopo la pena non serve a nulla" chiosa Alberto Gromi garante dei detenuti che aggiunge: "In questo modo la pena diventa inutile". Un problema che tocca da vicino Piacenza soprattutto per quanto riguarda il lavoro dietro le sbarre: "Per i detenuti il lavoro in carcere è fondamentale - spiega Gromi - perché lavorando riescono a tenersi occupati evitando l'alienazione del non fare nulla per tutto il giorno. Inoltre con un impiego riescono ad inviare alle proprie famiglie quello che riescono a guadagnare: non è tanto però per loro è importante riuscire ad aiutare almeno un po' le famiglie a casa. A Piacenza però i detenuti che lavorano in carcere alle Novate sono diminuiti in maniera esponenziale: non ci sono più fondi e mancano i soldi per pagare i detenuti lavoratori". Pescara: dalla band "Highway 61", un tributo a Johnny Cash per i detenuti del San Donato di Andrea Di Nisio www.cityrumors.it, 6 novembre 2013 Che cosa lega la Folsom Prison della California col carcere di San Donato a Pescara? Johnny Cash, il celeberrimo cantautore country - rock statunitense, riproposto dalla giovane band abruzzese Highway 61, in un concerto - tributo in programma venerdì 8 novembre, presso la casa circondariale del capoluogo adriatico. L’evento nasce dall’impegno di Innocent Smith, un’associazione di recente costituzione, il cui singolare nome deriva dal protagonista del romanzo Le avventure di un uomo vivo di Gilbert Keith Chesterton. I ragazzi di Innocent Smith sono impegnati in attività di crescita e animazione per la comunità carceraria e presenteranno alla cittadinanza le loro attività il 16 Novembre a Pescara. L’altra realtà coinvolta nella realizzazione del concerto in carcere è, insieme a La stella del mare, al CSV Pescara e alla Fondazione Santa Caterina, la giovane band degli Highway 61, che proporrà ai detenuti un percorso di canzoni e letture dell’artista americano scomparso nel 2003. Saliranno sul palco anche i detenuti stessi, impegnati a declamare testi che racconteranno la vicenda umana di Cash e le traduzioni delle canzoni. “Nella vita - dicono i promotori dell’evento - è possibile ricominciare sempre. Cash lo ha dimostrato: aveva tutto, donne, soldi, droga, ma non aveva l’essenziale. Proprio per questo, non si è mai arreso, e ha sempre iniziato a cercare qualcosa di più grande”. Immigrazione: sgomberato il Cie di Gradisca d'Isonzo, i migranti trasferiti in Sicilia di Luigi Murciano Il Piccolo, 6 novembre 2013 La vicenda del centro immigrati inizia nel 2000, nel pieno dell’emergenza clandestini sul confine goriziano, quando l’allora ministro Bianco indica nell’ex Polonio un sito ideale per un centro di prima accoglienza per i profughi. Con i governi Berlusconi si scopre che Gradisca ospiterà invece proprio un Cpt, una struttura per immigrati irregolari. Dopo anni di battaglie legali e proteste, la struttura apre i battenti nel marzo 2006. A partire dal 2008 le tensioni si acuiscono: evasioni e danneggiamenti si succedono a intervalli regolari. Il Cpt diventa Cie e prende in consegna soprattutto stranieri provenienti dalle carceri. Nel 2009 un pacco bomba firmato da nuclei anarchici esplode nell’ufficio dell’allora direttore Dal Ciello. Un provvedimento del ministro Maroni porta a 18 mesi i tempi di permanenza. Nel 2012 il consorzio Connecting People e funzionari della Prefettura vengono rinviati a giudizio con l’ipotesi di false fatturazioni e presenze degli ospiti “gonfiate”. Il Cie di Gradisca, ormai in ginocchio, sarà svuotato. Da subito. La clamorosa decisione è stata presa ieri dal Ministero dell’Interno ed è trapelata nel tardo pomeriggio: per disposizione del Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del Viminale sarà attuato un maxi-trasferimento di ospiti al Cie di Trapani. Secondo alcune indiscrezioni, potrebbe essere il primo passo verso una temporanea chiusura del centro in attesa che sia ripristinata la sua completa funzionalità dopo i tumulti degli ultimi mesi che lo hanno praticamente distrutto. Scatola vuota Il provvedimento preso ieri riguarda ben 38 clandestini che questa mattina alle 11.30 partiranno alla volta della Sicilia. A questi vanno sommati i 12 stranieri irregolari per i quali in queste ore sono state accelerate le operazioni di rimpatrio o di allontanamento dall’ex Polonio. Altri potrebbero avere la stessa sorte nelle prossime ore. Di fatto, dunque, da oggi l’ex Polonio - che ospitava poco più di una sessantina di persone - diventa una scatola praticamente vuota. È invece pienamente operativo il vicino Cara-Cda, che ospita profughi e richiedenti asilo e non presenta profili di criticità. Il giallo della chiusura Un provvedimento talmente forte che in serata si sono diffuse voci - non confermate - sul fatto che tale provvedimento del Viminale possa costituire il preludio ad una possibile chiusura temporanea dell’ex caserma Polonio. Provvedimento a lungo invocato dal centrosinistra (sia a livello nazionale che locale, in primis dal governatore Serracchiani), ma che sarebbe tutt’al più finalizzato al completamento dei lavori di ripristino delle sezioni letteralmente devastate dai migranti nel corso degli ultimi tre anni. L’impressione è che la situazione sia molto fluida, al punto che neppure Prefettura e Questura hanno confermato o smentito qualsivoglia scenario. Il realismo del sindaco Senza conferme ufficiali da parte delle istituzioni statali, il sindaco della cittadina isontina Franco Tommasini non pare volersi fare troppe illusioni. Ma è convinto che il momento per chiedere a gran voce la chiusura del Cie è non era mai stato più propizio. “La chiusura mi sembrerebbe in questo momento un passaggio logico - afferma senza mezze misure -. Sappiamo perfettamente in che situazione si trovi la struttura in questo momento. Presenta condizioni precarie per la sicurezza e la dignità sia dei trattenuti sia di chi vi lavora, operatori e forze dell’ordine su tutti. Non c’erano mai state sinora condizioni più adatte di queste per chiedere la chiusura del Cie. Auspico - conclude - che ora la politica possa fare sentire la sua voce in questa fase di transizione. Ma non mi faccio illusioni, e non voglio che se ne facciano i miei concittadini”. La reazione dei poliziotti “A quanto pare quella presa a Roma è una decisione politica, non operativa - commenta Angelo Obit, segretario provinciale del Sindacato Autonomo di Polizia/Sap. Di fatto lo Stato si arrende a chi ha devastato il centro. Persone, lo ricordo, in attesa di espulsione e rimpatrio perché provenienti dal circuito carcerario e ritenute pericolose. Persone che con i disperati di Lampedusa o i richiedenti asilo del Cara non c’entrano nulla. Il messaggio che passa con questo provvedimento - conclude amaro - è che con la violenza si può ottenere tutto, persino la sospensione di regole democraticamente votate e alle quali la politica non è sinora stata capace di proporre delle alternative”. La situazione oltre le sbarre Anche ieri, intanto, si sono registrati momenti di tensione. Gli ospiti hanno trascorso la giornata ammassati nell’unica camerata ritenuta agibile e sul pavimento del corridoio che conduce al centralino. Due immigrati hanno compiuto atti di autolesionismo: uno ha ingoiato diversi oggetti tra cui mollette, chiavi e pezzi di plastica. Un secondo si è ferito alla testa sbattendosela nelle sbarre. Sullo sfondo, altre tre situazioni arroventano il caso-Cie: oggi i dipendenti denunceranno gli ennesimi ritardi nell’erogazione dei salari; sabato la galassia di movimenti e associazioni anti-centro protesterà davanti alla struttura; domenica invece è annunciato a Gradisca il segretario del Carroccio Matteo Salvini. Pilozzi (Sel): bene chiusura lager del Cie di Gradisca d’Isonzo Dichiarazione del deputato Sel Nazzareno Pilozzi: “Con soddisfazione apprendo che - per disposizione del Ministero dell’Interno, dopo le proteste degli ultimi giorni e grazie all’azione della politica e delle associazioni - il Cie di Gradisca d’Isonzo è stato chiuso temporaneamente. Dopo averlo visitato nei mesi scorsi, insieme ai referenti dell’associazione Tenda per la Pace e i Diritti e a Marco Furfaro, responsabile Immigrazione Sel - punto di riferimento, come anche Serena Pellegrino, di un fondamentale lavoro sociale - lo avevo definito ‘una gabbia in condizioni di assoluta precarietà igienica e sociale’, un lager che mi aveva lasciato allibito. Alcuni ospiti, pur di evadere, si autoinfliggevano lesioni e ferite, nella speranza di dover essere tradotti, seppur temporaneamente, in strutture ospedaliere esterne. Ritengo pertanto, unendomi alle voci politiche che stanno sostenendo questa linea, che il Governo dovrebbe procedere alla chiusura definitiva della struttura di Gradisca d’Isonzo, come di molte altre sul territorio nazionale, in nome di un generale ripensamento delle politiche di accoglienza dell’immigrazione, nella prospettiva di una maggiore tutela per i diritti delle persone”. Turchia: Corte Europea Diritti Umani condanna Ankara per due casi di tortura Aki, 6 novembre 2013 La Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato la Turchia a una sanzione da 22mila euro per un caso di “tortura” in carcere nel 1999 e a settemila euro per un altro caso del 1993, riguardante l’arresto di un minore. Il primo caso riguarda Mesut Deniz, 38enne attualmente detenuto nel carcere Sincan di Ankara, che ha denunciato torture all’epoca del suo arresto il 5 ottobre 1999. Secondo la Corte, Deniz ha subito maltrattamenti mentre era in mano alla polizia e le autorità turche non hanno lanciato indagini tempestive in seguito alle sue denunce, negandogli quindi l’opportunità di un risarcimento. Deniz ha denunciato varie forme di tortura da parte della polizia, tra le quali l’elettroshock. Fu inoltre appeso al soffitto per le braccia, picchiato sui genitali e costretto a giacere su una superficie ghiacciata. I referti medici dei giorni successivi all’arresto parlano di ferite su tutto il corpo. Un’inchiesta fu aperta in Turchia nel 2000 a carico di un poliziotto, che poi fu assolto nel 2007. Deniz provò a impugnare la sentenza, ma questa possibilità gli fu negata perché non si era costituito parte civile nel processo di primo grado. Il secondo caso riguarda Cuneyt Ertus, che ha denunciato torture al momento del suo arresto nel 1993 a Hakkari, quando aveva 15 anni, con l’accusa di aver preso parte a una manifestazione a sostegno dei militanti curdi del Pkk. I genitori di Ertus denunciarono il poliziotto responsabile dei maltrattamenti, ma la procura decise per il non luogo a procedere, decisione avallata poi nel grado successivo del giudizio, così come quella di non concedere un risarcimento. Russia: Nadia Tolokonnikova trasferita in una colonia penale in Siberia Adnkronos, 6 novembre 2013 Lo rende noto il marito mentre fonti ufficiali parlano di spostamento in corso. L’attivista dell’opposizione russa Nadia Tolokonnikova è stata trasferita in una nuova colonia penale, la numero 50 nella località di Nizhny Ingash, nel territorio di Krasnoyarsk, in Siberia, a 4.400 chilometri da Mosca. Lo ha reso noto in un tweet, citando una “fonte affidabile”, Pyotr Verzilov, il marito della giovane donna condannata a due anni di carcere per aver preso parte all’esibizione anti Putin delle Pussy Riot nella chiesa di Cristo il salvatore. Verzilov denuncia che il trasferimento è una punizione per la sua denuncia delle condizioni da gulag della colonia penale in cui si trovava in Monrovia. Sempre oggi, dopo 16 giorni in cui nessuno ha più avuto notizie di Nadia, il garante del Cremlino per i diritti umani Vladimir Lukin ha confermato, sulla base di informazioni del Servizio federale per le carceri, che la ragazza è in viaggio per una nuova colonia penale e che le sue condizioni di salute sono “soddisfacenti”. I sostenitori di Tolokonnikova da giorni presidiano la sede moscovita dell’agenzia sollecitando informazioni. Tunisia: Marzouki, presto libero blogger detenuto per caricature Maometto Asca, 6 novembre 2013 Il presidente tunisino Moncef Marzouki ha promesso oggi la scarcerazione di Jabeur Mejri, condannato insieme a Ghazi Beji (oggi latitante) a 7 anni e mezzo di carcere per la pubblicazione di alcune caricature satiriche del profeta Maometto sulla sua pagina Facebook, nel 2012. Parlando a France Info, Marzouki ha però spiegato di voler “aspettare prima una tregua politica nel Paese. Attualmente - ha detto - ci sono molte tensioni legate a questa lotta contro il terrorismo e non vorrei che la mia decisione sollevasse dei dibattiti”.