Giustizia: la strage dei detenuti rinchiusi in cella; in 10 anni 2.200 vittime, 790 per suicidio di Antonio Manzo Il Mattino, 3 novembre 2013 Alfredo Liotta aveva quarantuno anni quando morì di anoressia nel carcere di Siracusa, il 26 luglio di un anno fa. Nel giro di sei mesi perse quaranta chili. La cartella clinica certificò: “Sindrome anoressica”. Scrisse il medico del carcere, il giorno prima: “Il detenuto mi chiede insistentemente di farlo morire”. E Alfredo Liotta il giorno dopo ottenne quel che voleva. Morire. Ma proprio in questi mesi, tra Roma e Milano, rischiano di morire anche due detenuti affetti da cancro, “per mancanza di cure”, come denuncia l’associazione Antigone. Per uno di questi a Roma, a gennaio scorso, sono saltate due visite mediche presso una struttura pubblica: la prima volta mancava la scorta della polizia penitenziaria; la seconda, invece, il detenuto ammalato e l’agente che lo accompagnava sono dovuti tornare al carcere, perché non avevano con sé i documenti clinici. “Non puoi mica scegliere, da detenuto, una clinica privata. Se salta la visita, come è capitato, si deve ricominciare a sperare nella lista di attesa” dice Simona Filippi, avvocato romano, difensore civico di Antigone. C’è chi rischia di morire, chi è morto e chi morirà, nell’inferno delle carceri italiane, ripetutamente denunciato dal presidente della Repubblica Napolitano, a San Vittore come, recentemente a Poggioreale. “Cambiare con urgenti rimedi è un imperativo giuridico e morale” disse il capo dello Stato. Perché nelle carceri c’è già chi ha già contato la morte, e sono in tanti i familiari che attendono giustizia, non intendono deporre le armi di una battaglia civile. Racconta Patrizia Savoca, la moglie di Alfredo: “Ai colloqui vedevo mio marito trascinato su una sedia a rotelle, sempre più magro, un barbone. Io, inutilmente a protestare e i medici, inutilmente, a visitarlo. Io non ho mai chiesto che mio marito non scontasse la pena in carcere, ma chiedevo solo un trattamento umano”. Ricorre sempre questa invocazione di umanità, nelle centinaia di lettere che ogni giorno arrivano alle associazioni di volontariato, a quelle che lottano in difesa dei diritti dei detenuti. O alle centinaia di lettere, telegrammi, mail, telefonate in diretta che vengono indirizzate alla redazione di Radio carcere, il programma di Riccardo Arena su Radio Radicale attentamente seguito nelle carceri italiane e che spesso diventa l’ultima istanza per la denuncia di violenze, soprusi, diritti umani violati. In Italia ci sono 66.888 detenuti a fronte di una possibilità delle carceri di ospitare, per regolamento, 44.608 detenuti. Tre metri quadrati per detenuto, è la regola. A San Vittore, il carcere milanese superaffollato c’è Gloria Manzelli, direttrice del carcere di San Vittore da nove anni. Il provvedimento svuota-carceri? “Efficace”. Ma il problema, in un carcere come quello di Milano è il fenomeno delle cosiddette porte girevoli, cioè quegli ingressi per poche ore o pochi giorni. Nelle 206 carceri italiane si vive un’autentica tragedia nazionale e il sovraffollamento è causa di malattie, depressioni, patologie acute. Metà dei carcerati italiani è affetta da epatite, il 30% è tossicodipendente, il 10% soffre di patologie psichiche, il 5% affetto da Hiv. Ma è sempre più alto il numero dei morti dietro le sbarre: tra il 2000 e il 2013 nelle carceri italiane si sono contati 2.222 de-tenuti morti, dei quali 794 per suicidio. Al ministero di Giustizia li definiscono “eventi critici”, con numeri drammaticamente in aumento. “Non c’è una sola lettera di aiuto - dice Simona Filippi, difensore civico dell’Associazione Antigone - dove si possa rintracciare il sospetto di una furberia del detenuto. Nelle carceri italiane sovraffollate il diritto alla salute, come lo garantisci?”. Ora sarà lei a difendere la ragione umanitaria invocata dai familiari di Alfredo Liotta che hanno denunciato il caso alla procura della Repubblica di Siracusa. Storie, richieste di aiuto, segnalazioni che i detenuti spediscono. “Ogni anno seguiamo circa 200 casi di persone ristrette in tutte le carceri d’Italia. A volte le segnalazioni riguardano casi di detenuti morti in carcere e prima di presentare un esposto, il difensore civico effettua in via preliminare diversi approfondimenti, con documentazione e informazioni”. Morire in carcere di anoressia è spesso la conseguenza di una malattia psichica, sottolineano i medici penitenziari italiani. Otto anni fa la Cassazione sentenziò che l’anoressia è incompatibile con il carcere quando la patologia è tale “da non poter essere fronteggiata nell’Istituto penitenziario” e può costituire causa di differimento della pena. I morti nelle carceri italiane sono cifre di una guerra al fronte del diritto violato tanto da indurre, varie Associazioni, a costituire un Osservatorio permanente sui morti in carcere. Radicali Italiani, Il detenuto Ignoto, Antigone, A buon diritto, e le redazioni di Radio carcere e Ristretti Orizzonti effettuano questo monitoraggio tragico. L’associazione Ristretti Orizzonti diretta da Ornella Favero quasi quotidianamente nelle newsletter aggiorna il numero dei morti per suicidio, tentato suicidio, disperazione. C’è ormai una graduatoria nelle lettere dalle carceri agli ultimi sportelli della disperazione: sono prevalenti, se non maggioritarie, quelle di detenuti che denunciano gravi condizioni di salute spesso determinate dalle condizioni di sovraffollamento, poi ci sono le lettere di chi invoca trasferimenti in istituti di pena non lontani dai luoghi di residenza, infine, ricorsi sulle condizioni generali del trattamento nelle carceri. I detenuti - dicono i volontari delle associazioni - hanno preso maggiore coscienza dei loro diritti dopo la sentenza Torreggiani dell’8 gennaio scorso che condanna l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: “Nessuno può essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti” Ma l’Europa è davvero lontana dall’Italia. Giustizia: la corruzione non porta in carcere, avere due mogli sì di Emiliano Liuzzi Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2013 Il Guardasigilli vuole riformare la custodia cautelare, che oggi riguarda 24mila persone: “odioso anticipo di pena”. Nella versione costituzionale dovrebbe essere il contrario: la legge come prerogativa del Parlamento. In tempi di larghe intese, soprattutto quando si parla di indulto e amnistia, argomenti sui quali il presidente della Repubblica ha speso il monito, è il ministro che mette fretta ai deputati. E detta le linee guida di quella che deve essere la legge. Anna Maria Cancellieri, in altri guai affaccendata, qualche giorno fa ha spedito alla commissione la relazione sulle carceri. Insostenibile, come ha ripetuto l’intero arco governativo, per chiudere con la più abusata delle affermazioni: “È l’Europa che ce lo chiede”. Prima di precisare: “Il ministero è al lavoro per una riforma della custodia cautelare”. Perché “spesso è una odiosa anticipazione della pena”. Che la situazione sia critica lo dicono anche i numeri. Dicono anche che ci sono in carcere, a oggi, due persone per bigamia e nessuno per corruzione. Ce ne sono un’infinità per reati contro il patrimonio e nessuno per frode fiscale. Ma vediamo meglio il dettaglio e quello che scrive Cancellieri. I detenuti in carcere sono 64.564 e, tra questi, sottolinea il ministro, 38.625 quelli definitivi, con condanne passate in giudicato, 24.774 quelli in custodia cautelare, 1.195 gli internati. E la politica è soprattutto sulla custodia cautelare che vuol lavorare. Con difficoltà visto che nei talk show la maggior parte degli esponenti di Pd e Pdl parlano di carcere preventivo, quando in realtà è la misura cautelare che il giudice applica se motivata dal pericolo di fuga, inquinamento delle prove o reiterazione del reato. Dei detenuti oggi in carcere in attesa della condanna di primo grado, 8.657 sono dietro le sbarre per spaccio di droga (14.378 sono invece quelli con condanna definitiva). È il numero più alto. 3564 invece devono rispondere di rapina, 2.792 di omicidio volontario. E ancora: 1.982 sono per estorsione, 1.824 per furto, 1.107 per associazione di stampo mafioso, 809 per ricettazione, 709 per violenza sessuale, 356 per associazione per delinquere, 320 per maltrattamenti in famiglia, 137 per sequestro di persona, 100 per pedofilia, fino ai 33 per bancarotta, 26 per strage e 11 dentro per truffa. Ma questi sono quelli in attesa di giudizio, dove i politici vorrebbero lavorare per liberare le carceri e do ve vuole che si lavori proprio il ministro Cancellieri. Tutti reati molto gravi e sui quali i giudici si sono espressi, spesso anche in seconda istanza grazie alla possibilità di ricorrere al tribunale della libertà. Sulla validità dell’indulto è la stessa Cancellieri che fa una premessa: “Prima dell’indulto del 2006 in carcere c’erano 61.400 persone. Con il provvedimento di clemenza uscirono 26.000 persone, di cui 22.000 subito nei mesi successivi”. Ma nel 2009 i detenuti erano già 69.000. Dunque, spiega Cancellieri senza giri di parole, è sul ricorso alla custodia cautelare che si dovrebbe lavorare. Sullo specifico della popolazione carceraria definitiva, le percentuali riflettono le tipologie di reato di quelli che sono in custodia cautelare: droga, furti, violenza. Omicidi volontari, preterintenzionali e colposi, peculato (11 detenuti). Cambia invece la cifra dei fondi che all’amministrazione penitenziaria sono stati assegnati nel corso degli anni. Oggi un detenuto costa mediamente 123,78 euro al giorno, rispetto ai 190,21 euro del 2007 (quando in carcere c’erano 48.693 persone). La soluzione, dunque, alla commissione giustizia, che aveva fatto esplicita richiesta, l’aveva già prospettata il ministro: lavorare sulla custodia cautelare e sulle pene alternative. Si legge al punto 7 della relazione: “Sono in fase di studio avanzato proposte di interventi sulla legislazione processuale con specifico riferimento ai settori delle misure cautelari personali, delle impugnazioni e dei meccanismi diretti a deflazionare il carico di lavoro degli uffici inquirenti”. E poi entra nel dettaglio: “Il sistema delle misure cautelari personali sollecita una rinnovata considerazione, nella prospettiva di contenere gli eccessi di ricorso a dette misure che, se non adeguatamente calibrate sulle reali ed effettive esigenze legate all’accertamento processuale, rischiano di atteggiarsi a una mera, quanto odiosa, quanto indebita, anticipazione di pena”. Sul versante invece dell’ordinamento penitenziario, “le proposte innovative di un testo unico dovrebbero riguardare la riscrittura del sistema sanzionatorio, in modo che la sanzione definitiva in carcere sia contenuta e riservata ai casi in cui la finalità rieducativa della pena non possa prescindere dalla privazione della libertà”. Giustizia: Cancellieri “Giulia Ligresti poteva morire”. Letta la difende “Chiarirà in Aula” Corriere della Sera, 3 novembre 2013 Il ministro riferirà in parlamento martedì alle 16. Il Guardasigilli: “Sono stata umana. Non mi dimetto, intervenuta in altri 110 casi simili”. Il Pd: non minimizzi Il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, riferirà al Parlamento sul “caso Giulia Ligresti” martedì alle 16, a Palazzo Madama. La Cancellieri è chiamata a rispondere sull’opportunità politica dell’intervento per favorire il passaggio di Giulia Ligresti dal carcere ai domiciliari, per motivi umanitari. “Sono serenissima e tranquilla, pronta a rispondere a qualunque domanda. Il mio è stato un intervento umanitario, mosso da un detenuto che poteva morire. Se fosse morta cosa sarebbe accaduto?” ha detto il ministro della Giustizia, intervistata dal Tg1. “Non siamo tutti uguali davanti alla legge? Certo! Non ci sono detenuti di serie A e serie B. Dobbiamo lottare per migliorare il sistema carcerario, ma queste cose non aiutano” ha sottolineato ancora la Cancellieri. Il Pd però avverte il ministro: “Non minimizzi”. “Noi siamo i primi a non accettare facili strumentalizzazioni della vicenda - spiega Danilo Leva, responsabile Giustizia del Pd - ma, allo stesso modo, non ne consentiamo una sua minimizzazione. Le carceri sono piene di migliaia di persone, poveri Cristi, che non hanno il numero di cellulare del ministro o di altri parlamentari da poter chiamare. Per loro e per i loro familiari c è bisogno di chiarezza e trasparenza”. L’intervento di Palazzo Chigi Siamo certi che il ministro Cancellieri fugherà ogni dubbio, spiega una nota di Palazzo Chigi. “Il governo ha voluto che il chiarimento in Parlamento avvenisse immediatamente perché non devono esserci zone d’ombra. Siamo sicuri che il ministro fugherà ogni dubbio” si legge in una nota diffusa da Palazzo Chigi. “Siamo sicuri che le argomentazioni che il ministro Cancellieri svilupperà convinceranno le Camere e fugheranno ogni dubbio. Le parole del procuratore Caselli hanno peraltro già dato un fondamentale contributo di chiarezza”. Al congresso dei Radicali Il ministro della giustizia è intervenuta sabato pomeriggio al congresso dei Radicali italiani a Chianciano Terme: “Vado a Strasburgo a testa alta - ha detto - l’Italia può dimostrare di essere un paese degno e civile”. Cancellieri ha concluso il suo intervento dedicato alla situazione delle carceri spiegando che un ministro della Repubblica ha il “dovere di osservare le leggi dello Stato senza cedimenti o tentennamenti, ma credo che abbia anche il diritto di essere un essere umano”, ribadendo di non voler dimettersi perché “ho la coscienza a posto. Certo se dovessi diventare un peso o se il Paese non mi volesse più sono pronta ad andarmene subito, ma me lo devono chiedere”. “Lo rifarei, certo che lo rifarei” ha poi ribadito il ministro ai giornalisti che le chiedevano se si fosse pentita della telefonata con la compagna di Salvatore Ligresti. “Io ho la responsabilità delle carceri e sono intervenuta con il Dap dicendo attenzione che Giulia Ligresti potrebbe compiere gesti inconsulti. State attenti”. Ha infine ribadito la disponibilità a fornire documentazione relativa ad altri 110 casi simili a quelli di Giulia Ligresti. Grillo Intanto però anche il M5s interviene sulla vicenda Cancellieri. Dal suo blog Beppe Grillo lancia una stoccata verso il Quirinale, e palazzo Chigi: “La Idem a causa dell’ICI non pagata ha dato le dimissioni in dieci giorni. La Cancellieri forse non le darà mai. Il motivo - spiega - è semplice. La Cancellieri fa parte di quel mondo composto da politici, banchieri, istituzioni, finanzieri, inestricabile come una foresta pietrificata”. E su Facebook il senatore M5S Giarrusso scrive che il Movimento 5 stelle presenterà lunedì la mozione di sfiducia”. Critiche Nel post, che riporta l’integrale della mozione di sfiducia Grillo annota anche: “Nessun monito da parte di Napolitano per questo scandalo per l’ingerenza di un ministro su una detenzione, avvenuta grazie a rapporti di lunga data con Ligresti. Non un fiato da Capitan Findus Letta. Hanno paura di essere travolti e credono che il silenzio li salverà, ma - avverte - sono già condannati”. Atto di accusa L’atto di accusa del documento, che si conclude con la richiesta di dimissioni del ministro, afferma che “un ministro della Giustizia che si sia lasciato condizionare nel suo operato dai suoi rapporti personali con la famiglia Ligresti - e dai rapporti economici poco chiari del figlio - agendo, oltretutto, con una marcata disparità di trattamento verso gli altri detenuti non eccellenti, ed utilizzando i magistrati che operano all’interno del ministero, è un’ombra indelebile sulla sua figura istituzionale da un punto di vista etico, morale e politico. Per tutti questi motivi esposti in premessa, visti gli articoli 94 della Costituzione e 115 del Regolamento della Camera dei deputati; esprime sfiducia al Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri e lo impegna a rassegnare le dimissioni”. Giustizia: difendo la Cancellieri dalla cultura del sospetto di Luigi Manconi www.huffingtonpost.it, 3 novembre 2013 A leggere i quotidiani e i commenti di tanti parlamentari, viene da pensare che la politica “di sinistra” sia quella tesa a protrarre la carcerazione in custodia cautelare di una donna diagnosticata come anoressica e che non intende nutrirsi. E io che ritenevo, al contrario, che una politica equa (e, se vogliamo, “di sinistra”) fosse semmai quella capace di far uscire dal carcere Giulia Ligresti e le altre tante persone che vi si trovano, nonostante la dichiarata incompatibilità tra carcere e condizioni di salute. Di conseguenza, provo a rovesciare lo schema di ragionamento che il Conformismo Nazionale sta diffondendo a piene mani in queste ore. Di fronte a una detenuta che rifiuta di nutrirsi è buona prassi e indice di una elevata sensibilità istituzionale (e umana, il che non guasta) attivarsi per capirne le ragioni e verificare che non stia maturando una incompatibilità con lo stato di detenzione. Questo ha fatto, opportunamente, il Ministro Cancellieri quando le è stata segnalata la gravità delle condizioni di salute di Giulia Ligresti. E questo hanno fatto, opportunamente, i funzionari dell’Amministrazione penitenziaria e i sanitari che hanno valutato il caso. E alla fine la decisione di scarcerare Giulia Ligresti non è stata certo presa dal Ministro o dai suoi uffici, ma - come è giusto che sia, in nome della separazione dei poteri e della indipendenza della magistratura - da un giudice che ha ritenuto di poter attenuare le misure cautelari a suo carico. Analogo comportamento è stato adottato in passato a favore di detenuti privi di nomi e cognomi importanti, che si trovavano in condizioni simili: e mi auguro che così sempre venga fatto. Purtroppo, però, queste elementari considerazioni, derivanti da un minimo di fiducia nello Stato di diritto, sono contestate sulla base di una cultura del sospetto assai diffusa, soprattutto a sinistra; oltre che, evidentemente, su una falsificazione totale dei dati di realtà. Si legge e si sente dire ossessivamente che il Ministro avrebbe “fatto pressioni sul magistrato che doveva decidere della scarcerazione”. Ma che sciocchezza. Nessuna pressione sul magistrato, come ha affermato autorevolmente il Procuratore della Repubblica Giancarlo Caselli. Dunque, solo una cultura del sospetto può dare per certo che il comportamento giustamente e istituzionalmente premuroso del Ministro Cancellieri sia riservato alla sola Giulia Ligresti ed esclusivamente perché amica di famiglia: cosa ne sanno, quei tetri sospettosi, di quanti e quali casi passino per la sua scrivania e di come vengano trattati? Chi lo ha detto che per Giulia Ligresti sì e per altri no? Forse l’astio che emerge in questa circostanza si deve anche al fatto che il Ministro Cancellieri si è schierato incondizionatamente a favore di un provvedimento di clemenza di cui potrebbero beneficiare decine di migliaia di detenuti senza nome e senza famiglia, e spesso senza avvocato. Un provvedimento che quasi certamente non ci sarà perché si scambia per verità incontrovertibile il sospetto - eccolo, ancora una volta - che esso possa essere fatto a beneficio di un solo privilegiato (che comunque in carcere non andrà mai). Piuttosto che avvantaggiare quest’ultimo, meglio nessun diritto per nessuno e la sistematica violazione dei diritti umani che si manifesta ogni santo giorno nelle nostre carceri sovraffollate. Emerge così un’utopia regressiva nascosta in quella sorta di rancorosa lotta di classe giustizialista che, incapace di garantire i diritti dovuti a tutti i cittadini, si contenta di sottrarli a chi riesce in qualche modo a beneficiarne (certo: anche grazie alla diseguale forza delle proprie relazioni sociali). Se non possiamo essere uguali nei diritti è meglio esserlo nei non diritti? Tutti sulla forca pur di essere tutti allo stesso livello? È all’opera un meccanismo demagogico feroce: in nome di un presunto egualitarismo si propugna un livellamento delle garanzie verso il basso. Si ritiene, cioè, che l’assunto della legge “uguale per tutti” possa essere trasformato in una sorta di scadimento di tutti i diritti e di tutte le tutele verso la più deficitaria delle applicazioni, mentre dovrebbe essere l’esatto contrario. E in questo meschino surrogato di lotta di classe si ricorre al carcere in luogo dei buoni e vecchi metodi del conflitto sociale. Ma quelli sì che avevano una loro nobiltà. Invece qui siamo alla torva invocazione del carcere come strumento di giustizia sociale. Giustizia: la Cancellieri pubblichi il suo cellulare, così tutti i detenuti la potranno chiamare di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2013 Il ministro della Giustizia non conosce o non capisce il dovere di imparzialità a cui è tenuto ogni membro del governo e della Pubblica amministrazione. Sicuramente conosce, ma non capisce (come la gran parte dei suoi colleghi di Casta), l’art. 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ma anche Napolitano e Letta jr., per non parlare dei partiti della maggioranza, hanno idee molto confuse in materia. Infatti il primo tace. E il secondo biascica che la ministra “chiarirà tutto”: come se non fosse tutto abbastanza chiaro. Lei intanto ha capito che la farà franca e ripete che sparlare con la moglie di un arrestato - a sua volta padre di tre arrestati - dei magistrati che hanno disposto gli arresti, e poi raccomandare presso i sottoposti una delle persone arrestate, è cosa assolutamente normale per un ministro della Giustizia. Anzi, “doverosa”. Anzi, non farlo sarebbe “colpevole omissione”. Non le passa neppure per l’anticamera del cervello che intercedere per una detenuta amica sua, figlia di un amico suo, fra l’altro datore di lavoro di suo figlio, significa tradire i doveri di imparzialità e di servizio all’intera Nazione. Ed è ridicolo affannarsi a citare altre analoghe “segnalazioni” come prova che lei tratta tutti i detenuti allo stesso modo. Se la famiglia Ligresti non possedesse il numero di cellulare dell’amica ministra, questa non avrebbe mai potuto “segnalare” il caso di Giulia, malata di anoressia, ai vicedirettori del Dap. E questo non fu soltanto un trattamento privilegiato. Peggio: un attestato di somma sfiducia nell’amministrazione penitenziaria e giudiziaria che la Cancellieri dirige. Il messaggio che lancia con queste scriteriate dichiarazioni è terrificante: la ministra della Giustizia pensa che i magistrati e i funzionari delle carceri siano dei sadici aguzzini che se ne infischiano abitualmente dei detenuti a rischio, al punto che senza, le sue personali segnalazioni per questo o quel detenuto, nelle carceri italiane sarebbe una strage quotidiana. Sul sito del ministero, in alto a sinistra, c’è una frase in grassetto: “Percorsi chiari e precisi: un tuo diritto”. Ritiene la ministra Cancellieri che quello seguito per Giulia Ligresti sia un “percorso chiaro e preciso”? O non somiglia piuttosto alla classica scorciatoia, alla solita corsia preferenziale di cui troppo spesso godono gli amici degli amici nel Paese che punisce la conoscenza e premia le conoscenze? La questione è tutta qui. Altro che “critiche da matti”, altro che “attacchi falsi”, altro che “paese di Cesare Beccaria”. Quello della Giustizia è il solo ministro ad avere rilievo costituzionale: l’art. 110 della Carta gli affida il compito di curare “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Se la Guardasigilli ritiene che quei servizi siano così mal organizzati da lasciar morire come le mosche i detenuti malati, li riformi. Lasci perdere, per decenza, le citazioni di Stefano Cucchi, i cui familiari purtroppo non conoscevano nessun ministro. E pubblichi subito il suo numero di cellulare sul sito del ministero, affinché tutti gli altri detenuti malati possano chiamarla, con pari opportunità rispetto a Giulia Ligresti e famiglia. Ma, per favore, non parli più di “dovere d’ufficio” e di “coscienza a posto”. In quale posto: a casa Ligresti? Giustizia: Cascini (Vice Capo Dap); il ministro mi chiamò, ma non feci nulla di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 novembre 2013 Per Francesco Cascini, giovane magistrato da poco nominato vice capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, era il primo giorno di vacanza, il 18 agosto, quando arrivò la telefonata del ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri. “Mi disse di essere amica dei Ligresti, famiglia nota anche perché il padre e due figlie erano state arrestate un mese prima, e un altro figlio era latitante - ricorda Cascini. Mi segnalò il caso della figlia minore Giulia, dicendomi di essere molto preoccupata, perché si trattava di una persona che aveva avuto problemi di anoressia. Da quel che sapeva le sue condizioni di salute stavano peggiorando, e temeva che potesse lasciarsi andare a gesti disperati o di autolesionismo”. Per Cascini la telefonata del ministro non era insolita: “Da quando s’è insediata s’è dedicata con particolare attenzione ai problemi del carcere, e con lei o con il capo della sua segreteria ci sentiamo quasi tutti giorni. Così come quasi tutti i giorni arrivano segnalazioni su detenuti con problemi particolari; spesso anche dall’ufficio del ministro, con un appunto autografo del Guardasigilli: “Per Cascini, che possiamo fare?”. Di solito sono i casi più gravi o dolorosi”. È questo tipo di attenzioni, anche sollecitate da via Arenula, che secondo il vicedirettore del Dap dimostra l’infondatezza del teorema sui detenuti di serie A, seguiti sulla base di indicazioni altolocate, e detenuti di serie B abbandonati a se stessi. “Per quanto mi riguarda - sostiene Cascini, avviene esattamente il contrario: noi ci occupiamo soprattutto dei reclusi di cui non si interessa nessuno. Io nell’ultimo anno ho fatto ai diversi direttori di carcere 1.200 richieste sulle condizioni di detenuti che esprimono disagio psichico o fisico, soprattutto stranieri abbandonati a se stessi. Le informazioni ci arrivano in ogni modo, per cognizione diretta o su interessamento di qualcuno dall’esterno: familiari, garanti per i diritti, dal Quirinale, dai radicali. E dal ministro. L’unica differenza, in questo caso, è che il ministro ha avuto notizia di un detenuto a rischio non per le sue funzioni istituzionali bensì per un rapporto privato di amicizia. Su questo ognuno può avere le proprie opinioni, ma per me che ricevo l’indicazione non cambia nulla: io devo verificare la situazione e prendere, eventualmente, le iniziative dovute”. Rieccoci allora a quella telefonata di metà agosto, peraltro arrivata quando le precarie condizioni di salute di Giulia Ligresti erano già all’attenzione di psicologi e periti del penitenziario. Che cosa fece Cascini dopo la chiamata del ministro? “Niente - risponde lui - perché, come le dissi sapevo già di quel caso particolare seguito con attenzione da chi di dovere. Il mio ufficio si era attivato sin dai primi sintomi di malessere, e rassicurai il ministro. Per questo io, a mia volta, non ho chiamato nessuno, e soprattutto lei non mi ha più chiesto nulla. Il mio collega Pagano (l’altro vicedirettore del Dap chiamato dalla Cancellieri, ndr), invece, ha telefonato al provveditore regionale, che gli ha risposto la stessa cosa: sulla situazione di Giulia Ligresti erano tutti allertati e le sue condizioni erano seguite con attenzione, in pratica 24 ore su 24”. Sono particolari che, da soli, possono far capire le differenze tra due casi che qualcuno ha voluto mettere sullo stesso piano: l’ormai famosa telefonata di Annamaria Cancellieri e quella altrettanto famosa che fece Silvio Berlusconi alla questura di Milano, sulla vicenda di Ruby: a parte gli interessi privati in gioco, l’allora presidente del Consiglio non chiamò uno dei suoi principali collaboratori col quale parla quasi ogni giorno, bensì un funzionario mai sentito prima, provocando un’attivazione che nel “caso Cancellieri-Ligresti” non c’è stata poiché quel che di legittimo doveva attivare s’era già attivato. “È del tutto evidente che io non mi sia sentito pressato o condizionato dalla segnalazione del ministro - spiega Cascini - anche perché quella richiesta di interessamento non è stata la prima, né probabilmente l’ultima. Ricordo quando mi telefonò all’uscita dal carcere di Regina Coeli dove aveva incontrato un uomo che aveva ucciso la moglie malata terminale, per non vederla più soffrire, detenuto e disperato da tanto tempo. Mi chiese se si poteva fare qualcosa per aiutarlo, come per la tossicodipendente che aveva visto a Sollicciano e pure l’aveva mossa a compassione. A volte riusciamo a fare qualcosa, altre volte no, ma il nostro impegno vale per tutti”. Anche per Giulia Ligresti, se fosse stato necessario. “Non è vero che ci siamo interessati perché era amica del ministro, ma se il caso non ci fosse stato noto io mi sarei attivato eccome; me ne sarei interessato personalmente, come faccio o cerco di fare per ogni situazione a rischio di cui vengo a conoscenza, in un modo o nell’altro. E sarebbe assurdo il contrario”. Giustizia: strategia del Guardasigilli; quello di Giulia Ligresti? solo un caso come altri 110 di Silvia Barocci Il Mattino, 3 novembre 2013 Giulia Ligresti come centinaia di altri detenuti che solo negli ultimi tre mesi le hanno scritto o espresso a voce accorati appelli nel corso di una delle tante visite in carcere. È di questo che dovrà convincere le Camere, martedì prossimo, il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri: non c’è stata alcuna disparità di trattamento, perché “non esistono detenuti di serie A e di serie B”. La mozione di sfiducia presentata dal Movimento 5Stelle ruota attorno al sospetto di un Guardasigilli che avrebbe “ricevuto ed esercitato pressioni” perché condizionata dai suoi rapporti personali con la famiglia Ligresti. L’equazione dei grillini è pesantissima e, di fatto, offre una diversa prospettiva alla solidarietà che il Pdl sta dando al ministro: quella telefonata agli uffici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per sensibilizzarli sulle condizioni di salute di Giulia Ligresti non sarebbe tanto diversa dalle chiamate che Silvio Berlusconi fece a Milano, in Questura, per far rilasciare Ruby. Cancellieri lo ripete, in modo accorato, al congresso dei Radicali, a Chianciano: quella di Ruby è “un’altra storia e il paragone non tiene. Io ho fatto solo il mio dovere: sono il ministro della Giustizia e ho la responsabilità dei detenuti”. Ma in Parlamento dovrà spiegare e motivare tutto ciò. Per questo ha dato incarico ai suoi uffici di compiere un’attenta ricognizione di quanti detenuti le abbiano scritto in questi mesi, a quanti di essi sia stata data risposta, e per quanti ci sia stata un’attenzione particolare. Numeri, casi e statistiche per dimostrare che l’intervento sulla figlia del patron della Fonsai non è stato un’eccezione. Anzi, di quella telefonata ai vice capo del Dap, Francesco Cascini e Luigi Pagano, non è affatto pentita: “Lo rifarei: io ho la responsabilità delle carceri. Al Dap ho detto: attenzione, Giulia Ligresti potrebbe compiere gesti inconsulti”. La prima scrematura, tra lettere e mail indirizzate al ministro in Via Arenula, è di circa 110 richieste di aiuto, negli ultimi tre mesi, provenienti da detenuti di tutta Italia. Spesso sono i più stretti collaboratori della Cancellieri a leggerle e sottoporle all’attenzione dell’Amministrazione penitenziaria. Ma in circa una quarantina di casi, quelli più critici, le lettere sono passate per le mani del ministro, che le ha lette e sottolineate prima di inoltrarle al Dap con un suo appunto, a mano: “si può fare qualcosa?”. C’è chi ricorda la storia del detenuto di Regina Coeli condannato a 16 anni per aver ucciso la moglie malata terminale. Nel carcere romano lo chiamano lo “scriba”, perché è un uomo colto, ex funzionario dello Stato, che scrive lettere per conto di detenuti semianalfabeti o che non trovano le parole per raccontare emozioni o dolori ai propri familiari. Lo “scriba” ha scritto anche alla Cancellieri, che si è informata su di lui. E lo stesso ha fatto - raccontano al ministero - per decine di altri detenuti. Nel carcere di Sollicciano era rimasta molto colpita da una giovane tossicodipendente, che chiedeva di essere trasferita in una comunità. “Possibile che non si può fare niente? Perché sta qui in carcere?”, ha chiesto al Dap. No, non era possibile, perché in passato aveva già tentato la fuga più volte. In settembre un’altra mail, lunghissima, così riassumibile: “Ho 75 anni e sono detenuto a Regina Coeli. Sono su una sedia a rotelle e ho un aneurisma. Non ce la faccio a stare qui dentro”. La segreteria della Cancellieri si è attivata e ha chiesto informazioni al Dap. Nel frattempo, però, il detenuto aveva ottenuto dal Tribunale di sorveglianza un differimento della pena per motivi di salute. Ecco - tornano a dire al ministero - in Parlamento il ministro citerà questi casi, del tutto analoghi a quelli di Giulia Ligresti, anoressica e a rischio suicidio. “Se si fosse uccisa io non sarei stata responsabile?”, ripete la Cancellieri. Ma un’altra risposta, altrettanto convincente, dovrà trovarla anche per spiegare il perché, subito dopo l’arresto dei Ligresti, abbia telefonato all’amica di vecchia data, Antonella Fragni, compagna di Salvatore, per esprimerle solidarietà e dirle “qualsiasi cosa io possa fare conta su di me”. Giustizia: ministro Bonino; le carceri diventate discarica problemi sociali, è una vergogna La Presse, 3 novembre 2013 L’emergenza carceri “è una vergogna”. Così Emma Bonino, ministro degli esteri, da Chianciano Terme (Si) dal congresso dei radicali italiani. “I problemi sociali non devono trovare una discarica nelle carceri, ma vanno governati e legalizzati, possibilmente non rimossi, e chiusi nella discarica che sono diventate le carceri che non hanno più a vedere con il senso della pena”, ha aggiunto Bonino citando Cesare Beccaria. “Questa ragione sociale per noi - dice Bonino, ministro degli Esteri e storica esponente radicale - non è venuta meno, ma si rafforza, da lì dobbiamo partire per capire se abbiamo ancora la volontà di continuare questa battaglia così lunga e faticosa e impopolare nella classe dirigente di questo paese. Una battaglia che però non sarebbe impopolare davanti a una opinione pubblica informata”. Giustizia: Salatto (Ppe); prevedere pene alternative e ridurre l’uso della custodia cautelare Agenparl, 3 novembre 2013 Purtroppo è proprio vero: l’Italia è un Paese mediterraneo influenzato da quell’antico bizantinismo tipico del Sud dell’Europa, con tutto ciò che ne consegue. Siamo quindi una terra del “dire” e non del “fare”. Siamo come quei tifosi che il lunedì discutono animosamente dei risultati calcistici, come fossero provetti direttori tecnici, senza però mai essersi cimentati sul campo... Alcuni esempi? Prendiamo la vicenda carceri per la quale, peraltro, siamo sotto accusa da parte dell’Ue. Discutiamo da giorni e giorni sull’ipotesi amnistia o indulto, come soluzione per il sovraffollamento di detenuti, ben sapendo che una tale soluzione non verrà mai varata visto che deve essere votata dai due terzi del Parlamento. Ma allora perché non provvedere immediatamente, prevedendo pene alternative per la custodia cautelare che vede 25 mila reclusi circa in attesa di giudizio, ben sapendo, per esperienza consolidata, che circa il 50 per cento sarà assolto nei tre gradi di giudizio? Perché non depenalizzare alcuni reati per i quali la carcerazione sembra, a detta di tutti, un’esagerazione? E perché la Bonino, espressione autorevole di quel partito Radicale così impegnato su questo tema, non conclude trattati con quei Paesi verso i quali sarebbe giusto e logico inviare i detenuti stranieri che invece affollano le nostre celle? Altro argomento: il rapporto tra partiti e governo. È davvero incredibile vedere come sia quelli che compongono la maggioranza che quelli dell’opposizione siano critici verso chi guida il Paese a ogni piè sospinto. Il tutto aggravato dal fatto che le critiche non propongono soluzioni alternative plausibili con le doverose coperture finanziarie. No, ci si limita soltanto a dire che così non va. Da noi, appena viene varato un Governo, già si discute come farlo cadere e sostituire. Facendo così si alimenta senza adeguate soluzioni solo quella generica sfiducia che contribuisce ad alimentare la crisi politica, economica e sociale nella quale da tempo viviamo. Si vara un esecutivo delle larghe intese, come in altri Paesi dell’Ue, salvo poi disarticolare dall’interno le forze politiche che dovrebbero sostenerlo. Faide interne che nulla hanno a che fare con i problemi dei cittadini. Si chiede stabilità, autorevolezza delle istituzioni, quale condizione per una possibile ripresa e gli si getta fango quotidiano, complici i mezzi di informazione. Può una nazione riprendersi quando il tessuto sociale è disarticolato, sfilacciato, alle prese con un continuo antagonismo fine a se stesso? Se a tutte queste domande non si daranno risposte adeguate, la luce che s’intravede alla fine del tunnel non è l’uscita, ma un diretto che ti viene addosso... Con le conseguenze che è lecito immaginare. E quando si dice: “Che Dio ci aiuti”, bisogna anche sapere che la risposta è “Aiutati che Dio ti aiuta”. Certo, se pensiamo che i prossimi protagonisti candidati alla guida del Paese saranno un redivivo Berlusconi, un populista Renzi e un comico, Grillo, avremo bisogno di un aiuto in più. Ci servirà anche l’illuminazione dello Spirito Santo. Potito Salatto, eurodeputato del PPE, vicepresidente della delegazione Popolari per l’Europa al Parlamento europeo Giustizia: Sappe; la Polizia Penitenziaria è attenta, sensibile e umana verso tutti i detenuti Comunicato stampa, 3 novembre 2013 “Non entro nel merito della vicenda di Giulia Ligresti, della sua detenzione nel carcere di Vercelli e di interessamenti istituzionali autorevoli per le sue condizioni di vita in cella. Quel che mi preme mettere in luce è la professionalità, la competenza e l’umanità che ogni giorno contraddistingue l’operato delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria con tutti i detenuti, famosi e non, per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative come il sovraffollamento, le gravi carenze di organico di poliziotti, le strutture spesso inadeguate”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Siamo attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso. Negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato la vita ad oltre 16.000 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 113mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo”. Numeri su numeri che raccontano un’emergenza purtroppo ancora sottovalutata, aggiunge Capece: “Nei 206 istituti penitenziari nel primo semestre del 2013 si sono registrati 3.287 atti di autolesionismo, 545 tentati suicidi, 1.880 colluttazioni e 468 ferimenti: 3.965 sono stati i detenuti protagonisti di sciopero della fame, mentre purtroppo 18 sono i morti per suicidio e 64 per cause naturali. Il sovraffollamento ha raggiunto livelli patologici, con oltre 65mila reclusi per una capienza di 40mila posti letto regolamentari. Il nostro organico è sotto di 7mila unità. La spending review e la legge di Stabilità hanno ridotto al lumicino le assunzioni, nonostante l’età media dei poliziotti si aggira sui 37 anni. Altissima, considerato il lavoro usurante che svolgiamo”. Giustizia: caso Cucchi, l’ospedale Pertini risarcirà la famiglia con 1,34 milioni Il Messaggero, 3 novembre 2013 Il Pg appella sentenza di primo grado. Nel giugno scorso la Corte d’assise ha condannato cinque medici e assolto tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria. Sarà di un milione e 340mila euro la cifra pattuita tra l’ospedale Pertini e la famiglia Cucchi per il risarcimento del danno conseguente alla morte di Stefano, il giovane deceduto quattro anni fa durante il ricovero in ospedale una settimana dopo il suo arresto per droga. La cifra è stata ufficializzata oggi, dopo le indiscrezioni uscite nei giorni scorsi dopo la notizia dell’avvenuto accordo sul risarcimento. L’intesa ospedale-famiglia porterà una conseguenza importante nel processo d’appello che sarà fissato nei primi mesi del prossimo anno: la famiglia Cucchi (padre, madre, sorella e nipoti di Stefano), infatti, non sarà presente come parte civile nei confronti di medici (gli unici condannati, cinque su sei per omicidio colposo) e infermieri, mentre contesterà la sentenza di assoluzione emessa nei confronti degli agenti della polizia penitenziaria. Sono trascorsi quattro anni da quando, il 22 ottobre 2009, Stefano Cucchi morì nel reparto detenuti dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma una settimana dopo il suo arresto per droga, e più di quattro mesi dalla sentenza con la quale la III Corte d’Assise della capitale condannò per omicidio colposo cinque dei sei medici imputati e mandò assolti tre agenti della Penitenziaria e tre infermieri. “Il risarcimento è limitato esclusivamente alla responsabilità sanitaria. L’obiettivo della famiglia è quello di avere giustizia non a metà, ma a 360 gradi. Per questo, andremo in appello anche e soprattutto sulla posizione degli agenti per i quali con soddisfazione la Procura generale ha chiesto alla Corte d’assise d’appello un giudizio completo e non limitato”. È il commento di Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. “Per noi non è importante il risarcimento ma il riconoscimento. È come chiedere scusa. E per questo lo accettiamo: un risarcimento serve ai vivi e non ai morti”, ha detto nei giorni scorsi il padre di Cucchi, Giovanni. Parole cui fanno eco quelle di Ilaria, la sorella: “Possiamo dire che non avremo pace fino a quando non avremo verità e giustizia - ha detto - Quei medici hanno fatto gravissimi errori, ma devono esser assicurati alla giustizia coloro che lo hanno pestato. Senza quel pestaggio, riconosciuto dalla stessa Corte, Stefano non sarebbe morto”. I pm Vincenzo Barba e Francesca Loy intanto nei giorni scorsi hanno proposto appello contro la sentenza con cui la III Corte d’assise nel giugno scorso ha condannato per omicidio colposo (e non per abbandono d’incapace come chiesto) cinque dei sei medici imputati (un sesto medico fu condannato per falso ideologico), e assolto tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria. Il loro atto d’appello che si aggiunge a quello nei giorni scorsi proposto dalle parti civili, che però hanno appellato solo la sentenza assolutoria degli agenti, dopo essersi accordati con l’ospedale per il risarcimento dei danni. Secondo i pm Cucchi stato “pestato” nelle celle del tribunale di Roma e “abbandonato” da medici e infermieri che lo ebbero in cura nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini. In trentasei pagine, la procura contesta punto per punto la sentenza. Ecco che allora ritorna in primo piano la figura di Samura Yaya, detenuto gambiano che disse di aver visto e sentito il “pestaggio” ma ritenuto inattendibile dalla Corte con motivazioni che i pm definiscono “non condivisibili”. “Tutte le testimonianze raccolte - si legge nell’appello - confermano quanto riferito riguardo al comportamento degli agenti che in seguito alle insistenti richieste del Cucchi lo colpivano con una spinta e dei calci, in modo da farlo cadere a terra e procurargli le lesioni che ne hanno determinato il ricovero”. Anche la Procura generale, in aggiunta ai pm, ha proposto appello contro la sentenza della Corte d’Assise di Roma. L’atto d’appello è firmato dal sostituto procuratore generale, Mario Remus; è proposto in maniera autonoma, in aggiunta a quello depositato dai pm, studiando il quale “il giudice di secondo grado - si legge nel documento - avrà una cognizione ampia sull’intera vicenda che ha condotto al decesso di Cucchi e potrà verificare la sussistenza di tutti i delitti contestati. La Corte d’Assise d’appello potrà così esaminare l’intero quadro probatorio, comprese le configurazioni giuridiche più appropriate”. La finalità dell’appello del pg - quattro pagine con connotazioni tecniche - è quella di formulare una serie di osservazioni “per togliere eventuali dubbi” sulla configurazione dei reati e sulle condanne da infliggere, nella consapevolezza “la Corte d’Assise d’appello potrà esaminare l’intero quadro probatorio, comprese le configurazioni giuridiche più appropriate”. Il pg contesta la decisione della Corte d’assise di concedere a gli imputati condannati le attenuanti generiche (“Tali statuizioni sono state fatte in violazione di legge”, si legge), concludendo con la richiesta “di dichiarare la penale responsabilità degli imputati, applicando le pene che saranno chieste dal rappresentante del Pubblico Ministero in udienza”. Giustizia: la famiglia Cucchi accetta il risarcimento “aiuteremo chi esce dalla droga…” di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2013 Il nostro sogno è quello di creare qualcosa per il recupero e il reinserimento sociale e lavorativo degli ex tossicodipendenti”. Nel giorno in cui la famiglia Cucchi decide di rendere noto l’ammontare del risarcimento, un milione e 340mila euro, concordato con i medici dell’ospedale Pertini condannati per la morte di Stefano, la sorella Ilaria guarda già oltre. “Innanzitutto questi soldi ci servono per far fronte alle spese legali, passate e future. Al resto non abbiamo ancora pensato, ma prima o poi vorremmo realizzare il nostro sogno: aiutare i ragazzi che escono dalla droga a reinserirsi nella comunità”. Venerdì scorso il Forte aveva rivelato che l’accettazione del risarcimento da parte dei Cucchi (la madre Rita, il padre Giovanni, Ilaria e i suoi figli minori), “un’ammissione di responsabilità”, avrebbe comportato il ricorso in appello esclusivamente per quanto riguarda la posizione dei tre agenti penitenziari assolti in primo grado. Il 30 ottobre sono infatti scaduti i termini per impugnare la sentenza della Corte d’Assise di Roma che ha riconosciuto le sole colpe mediche (cinque i professionisti condannati), ma, pur non rinviando gli atti in Procura, ha indicato che la strada per far luce sul pestaggio ricevuto dal ragazzo romano quattro anni fa forse non è quella battuta finora. “Potrebbe addirittura ipotizzarsi - hanno scritto i giudici - che il Cucchi fosse stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione domiciliare”. Oltre ai pubblici ministeri e alla parte civile (e agli stessi medici, ovviamente in senso contrario), ha depositato ricorso anche la Procura generale, secondo cui “il giudice di secondo grado avrà una cognizione ampia sull’intera vicenda” e “potrà esaminare l’intero quadro probatorio, comprese le configurazioni giuridiche più appropriate”. Finora l’accusa nei confronti dei tre agenti penitenziari, che hanno avuto in custodia Cucchi nelle celle del Tribunale di Roma, è stata di lesioni lievi. La famiglia di Stefano ha sempre chiesto che fossero invece processati per omicidio preterintenzionale e l’apertura della Procura generale sembra andare in questa direzione. Ilaria si augura, infine, che in appello non si registrino nuovamente frizioni con l’accusa e che “non si continui a difendere l’operato dei magistrati in nome di uno spirito di corpo”. Lombardia: l’appello dell’Arcivescovo Angelo Scola a Maroni “Aiutate famiglie e detenuti” di Andrea Montanari La Repubblica, 3 novembre 2013 L’invito dell’arcivescovo alle istituzioni per far fronte alla crisi che colpisce i milanesi. Il governatore: “Appena approvati 50 milioni”. Majorino: “Facciamo un fondo misto tra Comune e Curia”. L’arcivescovo Angelo Scola chiede alle istituzioni di aiutare i poveri colpiti dalla crisi. L’appello dell’arcivescovo è arrivato al termine della messa in ricordo dei caduti in Sant’Ambrogio nel corso di un incontro informale con il governatore Roberto Maroni, presente alla cerimonia. È stata la crisi infatti il punto di partenza del breve faccia a faccia tra Scola e il presidente della Regione, che ha messo l’accento sui tagli del governo. “Siamo partiti dalla difficoltà per chi ha una responsabilità istituzionale come il presidente - ha confermato l’arcivescovo - e lui mi ha descritto un po’ come intende venire incontro ai problemi della vita quotidiana soprattutto di chi è più marcatamente nel bisogno, partendo dalla situazione di fatica delle famiglie, al pagamento degli affitti, ai carcerati”. Pronta la risposta di Maroni. “Lo stiamo già facendo - spiega il governatore -. Abbiamo appena approvato 50 milioni di euro per il fondo sostegno affitti”. Si è parlato anche di Expo 2015, nella speranza che possa trasformarsi in una “occasione di grande ripresa per Milano”. La Regione ha confermato lo stanziamento di 1,5 milioni di euro per il restauro del Duomo, più altri 3 milioni per interventi su altre chiese e monumenti. L’appello di Scola arriva dopo l’allarme della Caritas Ambrosiana, che ogni mese distribuisce 63mila pacchi alimentari alle famiglie più bisognose, ormai costrette a tagliare su cibo e salute. Sono invece oltre 12mila le famiglie aiutate dalla Diocesi di Milano da quando, nel 2009, l’allora arcivescovo Dionigi Tettamanzi creò il fondo Famiglia Lavoro. Nella prima fase del fondo, sono stati raccolti 14 milioni di euro che sono serviti ad aiutare 9mila famiglie. Il cardinale Scola ha rilanciato il fondo aggiungendo all’aiuto economico anche quello per la formazione e riqualificazione professionale, oltre al micro credito per le piccole attività professionali. Da allora, cioè nei primi dieci mesi di quest’anno, sono stati raccolti 4,3 milioni di euro e aiutate altre 1.200 famiglie. A far proprio l’appello di Scola è l’assessore comunale alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino. “Con la Curia abbiamo già collaborato bene sulla Social card e sul tema dei senzatetto - sottolinea l’assessore. Diamoci un obiettivo: un fondo misto e strutture unificate contro la povertà entro il 2015. I nostri 25 milioni l’anno più i 4,5 della Curia insieme potrebbero essere una leva ancora più forte”. Sassari: Puggioni (Simspe); nel carcere di Bancali personale sanitario pronto ad emergenze di Vincenzo Garofalo La Nuova Sardegna, 3 novembre 2013 “L’istituzione del punto di primo intervento per le emergenze sanitarie nel carcere di Bancali, per quanto previsto dalle norme e non ancora attuato, dal punto di vista dell’assistenza sanitaria ai detenuti non cambierebbe più di tanto l’attuale situazione”. Marco Puggioni, segretario regionale della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe), interviene dopo i casi di emergenza sanitaria verificatisi nei giorni scorsi nel carcere sassarese. Da più parti si è invocata come panacea per tutti i problemi di assistenza ai detenuti, l’istituzione del Punto di primo intervento, non ancora attuato nella nuova struttura di Bancali. “Il personale che lavora in carcere frequenta da anni corsi di formazione per l’emergenza, l’ultimo dei quali organizzato in data 17 ottobre da Simspe in associazione con i cardiologi dell’Arca e la partecipazione non solo del personale sanitario e parasanitario, ma anche del personale della Polizia penitenziaria”, spiega il segretario Simspe. Per quanto riguarda i due episodi che si sono verificati ultimamente a Bancali, con il necessario trasferimento di tre detenuti all’ospedale Santissima Annunziata, Puggioni precisa: “Per il primo episodio, quello del detenuto extracomunitario vittima di un atto di autolesionismo, il paziente dopo un primo intervento da parte del medico del carcere è stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale civile di Sassari, a causa di profonde ferite auto procuratesi agli avambracci. Dopo essere stato valutato dai colleghi del pronto soccorso è stato inviato in ortopedia e successivamente in chirurgia d’urgenza dove è stato suturato”. Sul secondo episodio, con un agente e due detenuti feriti durante una rissa, il segretario Simspe spiega: “La presenza del Punto primo intervento non avrebbe certamente potuto evitare l’invio in ospedale di due pazienti detenuti. Invio indispensabile in quanto i due presentavano ferite da taglio e trauma cranico. Si fa presente che prima dell’invio in ospedale i due pazienti sono stati stabilizzati clinicamente dal medico di turno in carcere, applicando il protocollo previsto dalle linee guida per i traumi cranici. I pazienti sono stati accompagnati uno con un’ambulanza non medicalizzata e l’altro con l’auto della polizia penitenziaria, senza dunque sguarnire il territorio”, precisa Puggioni. “Accettati in pronto soccorso con codice giallo, in seguito sono stati monitorati in carcere dal personale medico, con particolare attenzione al paziente che al pronto soccorso aveva addirittura rifiutato la visita”. Mantova: viaggio nel carcere fantasma abbandonato al degrado dopo 12 anni di lavori di Gabriele Moroni Il Giorno, 3 novembre 2013 Nel 1988 il Muro di Berlino deve ancora cadere, le due Germanie rimangono divise. In Romania Nicolae Ceausescu si avvia al sanguinoso tramonto della sua dittatura. In Italia due ragazzi che si chiamano Cesare Casella e Carlo Celadon vivono dall’inizio dell’anno sequestrati nell’Hotel Aspromonte. Nel 1988 a Revere, 35 chilometri da Mantova, iniziano i lavori per la costruzione del nuovo carcere, sulla statale Abetone Brennero, di fronte all’ospedale del Destra Secchia. Trentadue celle destinate ad accogliere una sessantina di detenuti a custodia attenuata, in attesa di giudizio, condannati per reati minori o con pene inferiori a un anno. Lavori appaltati del Comune con mutuo concesso a carico del ministero della Giustizia. Carcere modello: gli ospiti avrebbero potuto lavorare spostandosi nell’area dei laboratori di falegnameria e carpenteria, nei giardini e negli orti. Nel 2000, dopo dodici anni, varie interruzioni e 5 miliardi di vecchie lire spesi, i lavori si bloccano definitivamente. Per completarli sarebbero occorsi altri 2 miliardi, mai saliti da Roma perché nel piano di riassetto degli istituti carcerari quello di Revere non è stato definito. Nel 2003 il progetto viene archiviato. Il carcere fantasma oggi è lì, monumento al degrado, icona dello spreco del pubblico denaro. Costruzione abbandonata, fatiscente, in rovina, locali saccheggiati a più riprese e ancora nessun risultato per il suo riutilizzo. Sergio Faioni, sindaco di Revere, avvia un malinconico excursus storico: “Fino agli anni ‘70, quando Revere aveva 5mila abitanti rispetto ai 2.524 attuali, era sede di pretura. Come capoluogo di mandamento aveva un carcere, nel centro del paese, vicino al municipio. Quando il carcere venne dismesso, c’era un solo detenuto che la sera cenava con la famiglia del custode”. Nel 2003, l’anno dello stop finale, la Federazione Italiana Comunità terapeutiche presenta una proposta per la trasformazione del carcere mancato in una struttura per attività di recupero dei tossicodipendenti. Nel 2006 il dipartimento di Giustizia minorile si dichiara interessato alla trasformazione dello stabile in istituto di pena per minori. Nel 2011 il ministero della Giustizia cede la struttura al Comune che, chiavi in mano, potrebbe definirne l’uso. Da allora il libro dei sogni è rimasto aperto. “È uscito - dice il sindaco - il progetto di realizzare nell’area delle celle sia degli appartamenti protetti per pazienti dimessi dall’ospedale sia degli alloggi per gli infermieri. Un complesso con farmacia, fisioterapia, tavola calda. Ci siamo rivolti alla Asl di Mantova. La risposta è stata che di questi tempi la Regione è più orientata a tagliare posti letto che ad aumentarli. Una signora che gestisce una cooperativa di ex detenuti ci ha chiesto informazioni, ma la cifra necessaria per la ristrutturazione è molto elevata. Qualche mese fa ci è arrivata una mail dove si chiedeva se il posto poteva essere utilizzato per l’addestramento di cani da ricerca. Le macerie ci sono, ma si deve pensare alla messa in sicurezza. In tutto questo, mi chiedo che senso abbia un nuovo piano carceri anziché investire sulle strutture esistenti”. Mura stinte, slabbrate, corrose. Controsoffitti cadenti. L’erba cresce alta, circonda le palazzine ultimate o quasi, come gli uffici della direzione, il parlatorio, la cappella. L’azione erosiva di pioggia e neve. Quella rapace dei ladri di rame, termosifoni, infissi. Rifugio di animali e vagabondi, unici abitatori del carcere fantasma. Padova: vigili urbani in carcere per insegnare l’educazione stradale ai detenuti Il Mattino di padova, 3 novembre 2013 Iniziativa della Polizia municipale e del gruppo "Pradegai". Da chi è in cella domande anche banali, ma dovranno ricominciare a guidare una volta scontata la pena. I vigili in carcere per insegnare l’educazione stradale ai detenuti. Perché? Anche i detenuti, una volta scontata la pena, dovranno essere in grado di guidare e rispettare le regole del codice della strada. È lo spirito con cui gli agenti della polizia municipale hanno varcato i cancelli del Due Palazzi nei giorni scorsi per un incontro con chi sta scontando una pena, fatto di domande e risposte. L'iniziativa è stata realizzata dalla polizia municipale assieme ai servizi sociali, con la partecipazione del gruppo "Pradegai" di Treviso, composto da esperti in tema di sicurezza stradale. Una cinquantina di detenuti hanno assistito con interesse alle conversazioni degli esperti e degli ufficali della polizia municipale, Sono state ricordate le più importanti regole del codice della strada, utilizzando anche spot e video. "Le domande hanno dimostrato l'utilità dell'iniziativa, perché chi è fuori dalle dinamiche della città pone dei quesiti che a noi sembrano ovvi ma che tali non sono: come si affronta una rotonda, come si guida sulle riviere vicino al tram, e così via", sottolinea una nota del comando di via Gozzi. Altre iniziative del genere saranno organizzate in futuro coinvolgendo anche i detenuti in semilibertà cioè quelli che di giorno possono uscire per lavoro e che quindi sono tutti i giorni utenti della strada. Nel corso dello scorso anno scolastico la polizia municipale ha incontrato circa 17 mila studenti padovani. E nello stesso periodo nel carcere di Padova sono entrati circa 3mila studenti delle scuole superiori cittadine. Palermo: ecco come si vive in cella, in piazza l’iniziativa di “Carcere Possibile Onlus” di Giada Lo Porto Live Sicilia, 3 novembre 2013 Il problema del sovraffollamento delle carceri è uno dei nodi più difficili da dirimere ancora oggi in Italia. Per sensibilizzare le istituzioni e l’opinione pubblica l’associazione “Il Carcere Possibile” ha riprodotto una cella 3x3 in piazza Politeama “riempita”, spesso e volentieri, con oltre otto detenuti. Una cella 3x3, spazio vitale appena sufficiente per una sola persona, trasformata in dimora per circa otto detenuti. Quando va bene. Già perché, spesso, il numero supera di gran lunga le aspettative e allora si passa al gioco sadico del “riempi finché è possibile”. Peccato che le “cose” con cui riempire i metri quadri di superficie disponibile siano in realtà esseri umani. La precaria condizione di vivibilità dei detenuti in Italia, il paese con le carceri più sovraffollate dell’Unione europea, è uno dei nodi più difficili da dirimere ancora oggi nello Stivale. Convivenza forzata, spazi angusti e insufficienti, aria viziata, carenze igieniche con i servizi igienici posti, spesso, a pochi centimetri dal piano cottura e dalle brande. Insomma chi sta dietro le sbarre deve adattarsi e accettare passivamente la situazione. È questa l’immagine che traspare dopo aver trascorso pochi minuti all’interno della cella simulata in piazza Castelnuovo, a Palermo, dall’associazione “Il Carcere Possibile” in cui il respiro manca e sembra di soffocare. Tutto in barba all’articolo 27 della Costituzione italiana, dunque, secondo il quale “le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “I detenuti sono uomini non numeri”, lo ripetono in tanti, ci si riempie la bocca. Poi, però, lasciando da parte le belle parole e osservando da vicino la situazione ci si accorge che il quadro generale del problema è davvero inquietante. La difficoltà maggiore è proprio quella di dividere la superficie e l’aria a disposizione. E cosi scattano i turni per dormire e, perfino, quelli per rimanere alzati. “I detenuti in piedi devono avvicendarsi con quelli che stanno a letto - spiega Silvano Bartolomei, avvocato della camera penale di Palermo e membro dell’associazione “Il Carcere Possibile” -. Dobbiamo sensibilizzare le istituzioni, far capire che il problema che ci troviamo di fronte non è da sottovalutare e va risolto nell’immediato”. L’obiettivo della onlus è quindi quello di portare all’esterno la voce dei detenuti e sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema del sovraffollamento delle carceri. “La cosa più devastante è quella di avere la tazza nella stessa stanza - prosegue -, la privacy viene violentata costantemente. I condannati devono espiare la pena, è vero, ma non dovrebbe mai essere calpestata quella dignità che tutti gli uomini hanno e che durante un periodo detentivo spesso e volentieri devono sacrificare. È inaudito tutto questo”. E così il livello di decessi all’interno delle carceri registra livelli sempre più drammatici. “Gli atti di autolesionismo sono sempre più diffusi - conclude Bartolomei. I detenuti più fragili, non riuscendo a reggere lo stress e non sopportando più le condizioni di vita a cui sono costretti, arrivano a compiere il gesto estremo del suicidio”. Dal 2000 a oggi sono 2.170 i morti dietro le sbarre di cui oltre un terzo, 778, per suicidio. Roma: rinviate a giudizio 8 persone per morte di un agente di Polizia Penitenziaria www.sassarinotizie.com, 3 novembre 2013 Sono otto le persone per cui la Procura della Repubblica del Tribunale di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo per la morte nell'ottobre del 2011 dell'agente di Polizia Penitenziaria di Budoni, Salvatore Corrias. L'uomo il 20 ottobre, mentre si trovava in servizio nella struttura ospedaliera protetta "Sandro Pertini" di Roma, è rimasto schiacciato da un'anta del cancello d'ingresso scorrevole. Tra gli indagati per omicidio colposo figura anche il nome di Carmelo Cantone, direttore della casa Circondariale Rebibbia e dunque datore di lavoro di Corrias. Il pm ha chiesto il rinvio a giudizio perché si ritiene che si sia omesso di valutare il rischio derivante dall'utilizzo manuale del cancello carrabile da parte dei lavoratori, ai quali veniva fornita la chiave di sblocco per effettuare l'operazione, malgrado le numerose segnalazioni per i difetti di funzionamento e di manutenzione del cancello e la mancanza della certificazione CE. Salvatore Corrias, infatti, quel giorno di metà ottobre si trovava in servizio nella struttura ospedaliera ed essendosi reso conto che un'ambulanza con a bordo un detenuto non poteva uscire passando attraverso il cancello perché questo non si apriva, ha manualmente sbloccate l'anta scorrevole che, non avendo più freni, è uscita fuori dai binari ed è andata a finire sopra l'agente sardo. La morte di Corrias, 45enne originario di Budoni, da tempo residente a Roma con la moglie e i due figli, è stata da subito definita un incidente sul lavoro. Ma la procura della Repubblica romana ha voluto vederci chiaro e capire come mai gli agenti penitenziari dovessero aprire e chiudere manualmente un cancello che avrebbe dovuto essere meccanico e garantire la sicurezza. E perché il direttore della struttura carceraria, la società appaltatrice dei lavori per la costruzione e l'installazione del cancello e i responsabili della struttura ospedaliera, tutti iscritti nel registro degli indagati, abbiamo ignorato le segnalazioni che più volte sono state fatte riguardo il malfunzionamento del cancello. Reggio Emilia: ex calciatore professionista, oggi istruttore di calcio all’interno del carcere di Wainer Magnani La Gazzetta di Reggio, 3 novembre 2013 Paolo Mozzini, ex difensore della Reggiana e figlio di Roberto è l’allenatore del Daino Santa Croce, dei giovanissimi della Reggio Calcio ma è pure istruttore di calcio all’interno del carcere. Mozzini come nasce il suo impegno e in cosa consiste? “È un’attività che svolgo all’interno del carcere e ha una finalità molto semplice: far divertire e partecipare i detenuti. Organizzo, in modo particolare in estate, nel campo interno al carcere, un torneo interno tra i vari reparti. Un torneo a gironi stile Champions con tanto poi di semifinali e finali per decretare i vincitori”. Insegna anche il calcio? “Onestamente non riesco per il poco tempo, per cui ho preferito privilegiare il divertimento e il coinvolgimento del maggior numero possibile di detenuti”. È un impegno costante? “Vado tutti i giorni”. Solo maschi? “No, mi occupo anche della palestra del reparto femminile. Diciamo tutta l’attività sportiva al loro interno e quando posso li seguo nell’utilizzo degli attrezzi”. C’è anche un coinvolgimento esterno? “È stata istituita una selezione dei carcerati che ha affrontato, ad esempio, la squadra dei geometri”. Sono anche bravi? “Sì, ci sono alcuni che sono bravi ma soprattutto in partita sputano e si arrabbiano se qualcuno sbaglia un passaggio. Ci tengono da morire”. Cosa rappresenta per loro il calcio? “È un momento di sfogo e anche di divertimento”. Aiuta anche nel loro recupero? “No, non credo o per lo meno in minima parte. Per il loro reinserimento occorrono altre cose”. Cosa le ha insegnato questa esperienza? “Prima di tutto devo rimarcare che mi sono trovato bene, non ho mai avuto problemi, di nessun tipo. È una bella esperienza e ho capito che la semplicità è un valore. Queste persone con poco le rendi felici. Basta un paio di scarpe, una maglietta e per loro è tanto”. Fuori invece... “Noi non riusciamo ad apprezzare tutto quello che abbiamo a iniziare dalla libertà. Lo diamo per scontato e non ce ne rendiamo conto del bene prezioso che abbiamo. Spesso ci piangiamo addosso per la minima cosa, andiamo in crisi alle prime difficoltà”. Lei che insegna anche ai ragazzini, porta questo esempio? “Alleno dei bambini troppo piccoli e non capiscono ancora certi discorsi ma anche per loro il calcio è solo divertimento”. Se le capitasse di raccontare la sua esperienza ai giovani cosa direbbe? “Punterei sul fatto che la vita è breve e non bisogna sprecare il tempo facendo delle cavolate. Vorrei che venissero con me in carcere per fargli vedere un altro risvolto della vita e forse si renderebbero conto che sono dei privilegiati. Probabilmente capirebbero quali sono i veri valori della vita”. Quando si entra in un carcere si ha la sensazione della mancanza d’aria, l’è mai capitato? “Adesso capisco cosa significa vivere tra quattro mura. Anche quando giochiamo a calcio, tutto attorno c’è solo un muro alto e vedi solo il cielo”. Una strana sensazione. “C’è stato un periodo in cui avvertivo una strana sensazione ogni volta che mi chiudevano una cancello alle mie spalle. E quando uscivo dal carcere respiravo a pieni polmoni. È l’ansia da libertà che mi dicono avvertire chi esce dal carcere dopo tanto tempo”. L’indulto può servire a rendere le carceri più vivibili? “Non sono un politico, non me ne sono mai occupato, però bisogna pensare che sono persone, con una loro dignità”. Libri: “Oltre la cura... oltre le mura”, di Gloria Pellizzo e Valeria Calcaterra di Sarina Biraghi Il Tempo, 3 novembre 2013 È sofferenza quella di un bambino malato, è sofferenza quella di un detenuto. Una sofferenza diversa ma uguale, perché malgrado l’isolamento trova la sua ragione nella speranza. Lo sanno bene il chirurgo pediatra Gloria Pellizzo e Valeria Calcaterra, ricercatrice dell’Università degli Studi di Pavia, che insieme hanno firmato “Oltre la cura... oltre le mura” (Cantagalli), un libro per raccontare un “progetto”, lo straordinario incontro tra i bambini di un reparto di chirurgia e i detenuti di un carcere. Impossibile non commuoversi leggendo le autrici, le testimonianze di alcuni genitori e i contributi di Aldo, Giovanni e Giacomo, Pupi Avati, Rita Borsellino, Francesco Agnoli, Mario Melazzioni, Carlo Rossella, Pierre Martens, Don Giovanni d’Ercole. Impossibile non provare un sussulto guardando le foto di quegli occhioni che brillano per le lacrime trattenute, per un dolore difficile da sopportare...o quei sorrisi tenui frenati dalla paura della solitudine... o quei tatuaggi tipici di uomini forti che però hanno nello sguardo il senso di abbandono, nelle mani un tempo forti tutta la fragilità di chi non può agire... Ecco, la solitudine e l’incomunicabilità avvicina i due mondi perché se in carcere la colpa può apparentemente giustificare l’abbandono, in un reparto d’ospedale l’isolamento è la conseguenza amara dell’ingiustizia che si prova di fronte al dolore innocente. Le due autrici, con un progetto di reintegrazione sociale avvicinano due realtà: il Policlinico di Pavia e la Casa Circondariale. Obiettivo creare un’intesa solidale per un futuro migliore. Nasce così una collaborazione lunga due anni, ancora in corso, in cui i carcerati della Torre del Gallo si sono improvvisati cuochi, imbianchini, pasticceri, pittori e poeti, partecipando così alla vita del reparto di chirurgia pediatrica in base a quello che sanno fare e alla libertà di movimento che la pena che stanno scontando gli concede. Il libro fotografico è una parte del progetto. Le altre due parti sono: la produzione di biscotti “dietetici” (adatti ai bambini celiaci), distribuiti ogni settimana ai piccoli pazienti dai detenuti-panettieri; la ristrutturazione del reparto di chirurgia pediatrica fatta da quelli in semilibertà. Il ricavato della vendita del libro sarà devoluto al Comitato di Volontariato Oltre la Cura per il Bambino Operato. Perché anche chi soffre può amare e sorridere. Immigrazione: chiudere subito il Cie di Gradisca d’Isonzo, è il peggiore d’Italia di Manila Ricci www.huffingtonpost.it, 3 novembre 2013 Giovedì notte è avvenuta l’ennesima rivolta nel Cie di Gradisca, considerato il peggior Cie d’Italia, sempre che si possa fare una graduatoria della brutalità. A pochi giorni dall’approvazione, a Bologna, di un ordine del giorno in Consiglio Comunale che chiede la chiusura del centro di via Mattei, torna alla ribalta la condizione dei Cie e l’istituto della detenzione amministrativa in Italia. Nell’ultimo mese tutte le telecamere sono puntate su Lampedusa, non tanto per raccontare i volti disperati dei superstiti e dei loro familiari, né tanto meno per denunciare le responsabilità di quelle centinaia di bare che contengono i corpi inghiottiti dal Mare Mediterraneo, ma per enfatizzare lo spettacolo del confine che va in scena ogni giorno e la retorica della presunta invasione dell’Europa. Ma è nel cuore della Fortezza Europa che si consuma un’altra immane tragedia della migrazione, quella dei Cie, lager di Stato nei quali continuano ad essere privati della loro libertà migliaia di migranti sopravvissuti ai naufragi e al confine, colpevoli semplicemente di non aver un permesso di soggiorno. Immediata la presa di posizione del Progetto Melting Pot Europa dopo la rivolta al Cie di Gradisca per chiedere, dopo le numerose proteste di associazioni e reti antirazziste, la chiusura immediata di questo lager: “Duecento quarantotto posti ufficiali, da ormai due anni ridotti a sessantotto. E da questa notte il Cie può contare solamente circa 24 posti disponibili. Sono le cifre che raccontano la drammatica realtà del “mostro di Gradisca d’Isonzo”. Numeri che raccontano la disperazione di chi vi è trattenuto, la continua compressione dei diritti a cui sono costretti gli ospiti forzati che, a tempi scadenzati, danno vita a rivolte e proteste per rivendicare libertà, per lanciare l’allarme sulle condizioni disumane a cui sono sottoposti. L’ennesima è di questa notte. Materassi bruciati, vetrate frantumate, reti divelte. Così da oggi il Cie è nei fatti chiuso. Con sole 3 stanze funzionanti, 5 dichiarate inagibili già in mattinata dai Vigili del Fuoco, ed altre 23 in ristrutturazione dal 2011. Rimangono circa una cinquantina di migranti costretti all’attesa nel campo da calcio esterno. Sulla presenza del Cie nel territorio isontino si era già espresso il Consiglio regionale con una mozione che impegna la Regione ad agire nei confronti di Prefettura, Questura ed ente gestore affinché garantiscano i diritti minimi di comunicazione e quelli di accesso da parte dei consiglieri, evocando la chiusura qualora le condizioni di vita all’interno del centro continuassero ad essere deplorevoli. Anche la Provincia di Gorizia, con un comunicato di Giunta si era espressa chiedendo la chiusura immediata del centro, così come lo stesso Comune di Gradisca. Il Presidente della Commissione Diritti Umani del Senato si era espresso nella stessa direzione. Non mancano certo rapporti sulle condizioni di vita all’interno della struttura così come non manca documentazione che attesti le continue violazioni, della libertà personale e dei diritti di difesa, a cui spesso sono sottoposti i migranti “trattenuti” (il prossimo 8 novembre sul tema si terrà proprio un convegno a Trieste. Così come è ormai evidente il fallimento dei suoi stessi scopi, laddove milioni di euro vengono impegnati per la detenzione fino a diciotto mesi di chi è privo del permesso di soggiorno, con l’obbiettivo dichiarato di eseguirne l’espulsione, mentre invece i numeri dei cittadini stranieri espulsi, a fronte delle ingeniti somme investite, risulta pressoché ridicolo. Cosa manca allora? Perché ancora quel Cie rimane lì a ricordare la brutalità delle leggi dell’immigrazione italiane ed europee? Perché il sistema della detenzione amministrativa ha radici ben più profonde dei sui scopi dichiarati, affermatosi come perno strutturale nella gestione delle politiche migratorie europee, risulta essere un nodo imprescindibile per l’Europa di Shengen, discriminante stessa per l’appartenenza degli stati allo spazio comune. Si tratta insomma dell’altra faccia, quella interna, del meccanismo infernale che impone le morti nel mare a Sud di Lampedusa, un dispositivo che continuamente ripropone il confine come minaccia a chi pensava di averlo ormai attraversato una volta per tutte. A fronte di tutto ciò, quelle mura che delimitano le celle ormai distrutte del Cie di Gradisca risultano ancor più fastidiose, ancor più minacciose, richiamano con ancor più forza la necessità di mettere fine all’esperienza del Cie isontino così come degli altri. Si tratta però di produrre non solo denuncia, non solo dichiarazioni di intenti, non solo racconto, ma anche e soprattutto un’inversione culturale e sociale di quella tendenza che negli ultimi anni ha reso indifferente ai più la realtà dei Cie. Si tratta insomma di mettersi in cammino per dare forza a tutti quegli strumenti che possono permettere di ottenere la chiusura definitiva, formale ed ufficiale del Cie di Gradisca, così come la non riapertura di quelli di Modena, Bologna e Crotone, anche con il coraggio di riprendersi le strade e le piazze per affermare questa volontà, sancita anche da molte istituzioni locali. Non c’è più tempo per aspettare”. Inghilterra, rivolta nel carcere del paesino in cui è stato ucciso Joele, coinvolti 180 detenuti Ansa, 3 novembre 2013 Oltre 100 detenuti del carcere di Maidstone, nel Kent, stanno dando vita a una violenta protesta che ha richiesto l’intervento di squadre speciali di agenti, chiamati “tornado”. Ne dà notizia la tv britannica Skynews. Un portavoce del ministero della Giustizia ha confermato che “in un’ala del carcere è in corso un incidente e sono state dispiegate forze di sicurezza nazionali”. Secondo alcune fonti tra 160 e i 180 detenuti stanno mettendo a ferro e fuoco un’area della prigione che si trova nella cittadina dove lo scorso 20 ottobre è stato ucciso, massacrato di botte, Joele Leotta, diciannovenne della provincia di Lecco.