Giustizia: è ora che la sinistra prenda le distanze dai "profeti delle manette"... di Stefano Anastasia Il Manifesto, 30 novembre 2013 Scambio di colpi tra Luigi Manconi e Marco Travaglio, su l’Unità di martedì e il Fatto di mercoledì scorso. Attacca Manconi, replica (e contrattacca) Travaglio. Il presidente della commissione diritti umani del Senato accusa il condirettore del quotidiano di Padellaro di usare impunemente la parola “clandestino”, su cui la destra ha costruito nel tempo il suo ministero della paura; replica Travaglio che in maggioranza con la destra (fino a ieri) c’è stato il suo contraddittore. Si può discutere - e si è molto discusso - dell’opportunità delle larghe intese che furono. Così come della fiducia ad Alfano sul caso Shalabayeva, rinfacciata da Travaglio a Manconi, che pure è stato il principale divulgatore istituzionale dell’affaire kazacho. Fin dove arrivano i vincoli politici in un governo di coalizione? È una grande questione di etica pubblica, relativa alla responsabilità istituzionale. Ma non è questo che mi interessa discutere in questa brevissima incursione in una polemica altrui. Mi preme, piuttosto, rilevare come nella sua replica Travaglio non senta neanche la necessità di riconsiderare l’uso di quella parola stigmatizzante (“clandestino”) che ha fatto la fortuna della Lega e di tanti sindaci - sceriffo in molte contrade del nostro Paese, e anzi ne rivendica implicitamente la legittimità, continuando ad abusarne per qualificare gli immigrati soggiornanti senza permesso in Italia. Non solo: tra i gravi addebiti attribuiti da Travaglio a Manconi c’è anche l’indulto del 2006, e non tanto perché ne hanno goduto Berlusconi e Previti (con scarso successo, pare, a giudicare dalla notizia di questi giorni e dal perdurante ritiro a vita privata dell’ex - colonnello berlusconiano), ma perché ne avrebbero goduto “decine di migliaia di criminali”, che poi sarebbero quei poveri cristi in nome dei quali è stata crocifissa la ministra Cancellieri e che tutti dicono di voler far uscire di galera, chi - come Napolitano - anche grazie a un nuovo provvedimento di clemenza, chi - come i suoi critici - solo attraverso leggi di depenalizzazione. Del resto, il giornale di Travaglio apriva la prima pagina di ieri con un titolo - minaccia: “È fuori. Può finire dentro”. Ecco, allora, diciamola così: Berlusconi è decaduto, è ora che la sinistra (politica, sociale, culturale) prenda le distanze dai profeti delle manette che, per combattere l’arcinemico, hanno contribuito culturalmente a generare i massimi livelli di carcerazione e di controllo penale delle classi subalterne che la storia dell’Italia repubblicana ricordi. Giustizia: contro il sovraffollamento modificare le leggi su droghe e immigrazione di Silvia Barocci Il Messaggero, 30 novembre 2013 Se non è una rivoluzione, poco ci manca. Quanto può essere lontano dalla realtà italiana un carcere in cui i pasti si consumano in refettorio, i gabinetti non sono “a vista”, ciascun detenuto è fuori dalla cella per almeno otto ore al giorno (da trascorrere in attività lavorative o sportive) e i colloqui con i familiari possono avvenire anche via skype? Se non proprio con simili “comfort”, i nostri sovraffollati penitenziari (64.139 detenuti contro una capienza regolamentare di circa 47mila posti) dovranno invertire la rotta e velocemente: la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato tempo all’Italia fino al 28 maggio del 2014 prima di prendere in esame i 2.800 ricorsi che potrebbero costare allo Stato tra i 60 e i 70 milioni di multa ogni anno. In 33 pagine di rapporto, consegnato l’altro giorno al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, la Commissione per le questioni penitenziarie presieduta da Mauro Palma ha segnato la strada del cambiamento. Tant’è che molte delle proposte di modifica normativa saranno trasfuse nel provvedimento - un decreto legge oppure un ddl - che il Guardasigilli presto porterà in consiglio dei ministri. Per superare la condizione di “passività e segregazione” del nostro modello di detenzione, la Commissione guarda alle “migliori prassi in ambito europeo”, non chiudendo la porta a un “provvedimento eccezionale”, quale l’amnistia, per facilitare l’avvio di misure strutturali. Che si basano su tre pilastri: più misure alternative alla detenzione, più celle “aperte”, meno custodia cautelare in carcere. Da accompagnare, in ogni caso, ad un intervento di depenalizzazione dei reati minori. Ecco allora che almeno cinque nuove norme delle numerose proposte dalla Commissione presto entreranno nel decreto Cancellieri. Innanzitutto una modifica alla legge Fini - Giovanardi sugli stupefacenti, così da creare un reato autonomo per i casi di “lieve entità” (punito con una pena massima di 4 o 5 anni) che, grazie a un bilanciamento di aggravanti e attenuanti, eviterà in futuro la cella al piccolo spacciatore (attualmente in carcere ve ne sono circa 3mila). E ancora: aumentare da 45 a 60 giorni ogni sei mesi il periodo di liberazione anticipata per buona condotta, eventualmente facendo retrocedere la misura al 2010; istituire un garante nazionale per i detenuti; facilitare il rimpatrio degli stranieri, eventualmente riducendo il limite di pena, nei casi di condanne non gravi, e favorendo il reinserimento nel Paese di origine; anticipare in carcere le procedure di identificazione degli stranieri, così da evitare che a pena scontata siano trattenuti per altro tempo nei Centri di identificazione e di espulsione. I “saggi” propongono molto altro ancora, inclusa l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, oppure l’introduzione di un nuovo reato, il furto di lieve entità, con pene più basse. L’obiettivo è sempre lo stesso: il carcere deve rimanere una “extrema ratio”. Giustizia: dalla Camera arriva primo ok alla riforma della custodia cautelare Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2013 Stop alle manette facili per chi è in attesa di giudizio. La commissione Giustizia della Camera rivoluziona il carcere preventivo modificando le norme sulle misure cautelari. L’obiettivo è chiaro: restituire natura di extrema ratio alla carcerazione preventiva, rendendo più stringenti i presupposti e le motivazioni e ampliando al contrario le misure alternative. Niente prigione, ad esempio, se in corso di processo basteranno il divieto di esercitare una professione e il ritiro del passaporto o l’obbligo di dimora. Il testo, che sarà formalmente licenziato la prossima settimana dopo i pareri delle altre Commissioni, approderà in aula il 9 dicembre. Soddisfatta il presidente della commissione giustizia Donatella Ferranti (Pd): “si tratta di un provvedimento che rappresenta una riforma strutturale che potrà anche incidere sul dramma del sovraffollamento carcerario, un provvedimento indispensabile per ripristinare una cultura delle cautele penali fondata sul pieno rispetto del principio costituzionale della presunzione di innocenza”. Ecco, in sintesi, le principali novità. Carcere extrema ratio - Saltano gli attuali automatismi applicativi: la custodia cautelare potrà essere disposta soltanto quando siano inadeguate le altre misure coercitive o interdittive. Tali misure, a differenza di quanto è oggi, potranno però applicarsi cumulativamente. Carcere o arresti domiciliari off - limits, invece, quando si ritiene di concedere la condizionale o la sospensione dell’esecuzione della pena. Giro di vite su presupposti - Per giustificare il carcere, il pericolo di fuga o di reiterazione del reato non dovrà essere soltanto concreto (come è oggi) ma anche attuale. Valutazione stringente - Il giudice non potrà più desumere il pericolo solo dalla semplice gravità e modalità del delitto. Per privare della libertà una persona l’accertamento dovrà coinvolgere elementi ulteriori, quali i precedenti, i comportamenti, la personalità dell’imputato. Motivazione articolata - Gli obblighi di motivazione si intensificano. Il giudice che dispone la cautela non potrà infatti più limitarsi a richiamare ‘per relationem’ gli atti del pm ma dovrà dare conto con autonoma motivazione delle ragioni per cui anche gli argomenti della difesa sono stati disattesi. Misure interdittive più efficaci - Aumentano (dagli attuali 2 mesi) a 12 mesi i termini di durata delle misure interdittive (sospensione dell’esercizio di potestà dei genitori, sospensione dell’esercizio di pubblico ufficio o servizio, divieto di esercitare attività professionali o imprenditoriali) per consentirne un effettivo utilizzo quale alternativa alla custodia cautelare in carcere. Reati gravi e di mafia - Per i delitti di mafia e associazione terroristica resta la presunzione assoluta di idoneità della misura carceraria. Per gli altri delitti gravi (omicidio ad esempio, violenza sessuale, sequestro di persona per estorsione) vale invece una presunzione relativa: niente carcere se si dimostra che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Controlli rafforzati - Cambia in profondità la disciplina del riesame delle misure cautelari personali. Il tribunale del riesame avrà 30 giorni di tempo per le motivazioni a pena di perdita di efficacia della misura cautelare. Dovrà inoltre annullare l’ordinanza liberando l’accusato (e non come oggi integrarla) quando il giudice non abbia motivato il provvedimento cautelare o non abbia valutato autonomamente tutti gli elementi. Tempi più certi anche in sede di appello cautelare e in caso di annullamento con rinvio da parte della Cassazione. Giustizia: Rita Bernardini (Radicali); sui Referendum un’occasione sprecata Notizie Radicali, 30 novembre 2013 “Una occasione sprecata. Perché sicuramente, se fossimo stati ascoltati, se vivessimo in uno Stato di diritto, quello che si è verificato con il controllo delle firme non sarebbe il responso che ci è stato dato oggi”. Lo ha detto la segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini, intervistata in diretta a Radio Radicale sulle notizie per cui non sarebbe stato raggiunto il quorum delle 500 mila firme per i referendum sulla giustizia. Bernardini ha ricordato che “tutto è giocato sul filo”, e che “abbiamo tutta la documentazione di decine di pacchi di firme arrivati in ritardo alla Cassazione per ritardi non nostri, ma delle società di spedizione, o addirittura degli stessi Comuni. Ancora in questi giorni arrivano le firme dalle segreterie comunali, per esempio...”. “Lo voglio dire da Radio Radicale: il fatto che sia Corrado Carnevale presidente dell’Ufficio centrale sul referendum è per me una garanzia. Conosco lo scrupolo dell’uomo”, ha detto la Bernardini. Ma, ha aggiunto, “ovviamente c’è il rammarico politico. Da una parte dobbiamo constatare l’atteggiamento della sinistra nei confronti dei referendum, tanto che in alcune feste de L’Unità i nostri militanti sono stati persino allontanati mentre tentavano di raccogliere le firme, e raccoglievano le firme su tutti i quesiti, anche su immigrazione e droga, che teoricamente dovrebbero essere temi cari alla sinistra. Vorrei poi ricordare le dichiarazioni di Renzi, che disse che le riforme, e in particolare quella della giustizia le doveva fare il Parlamento e non si fanno per referendum”: “Dall’altra parte la riflessione da fare sul centrodestra. Intanto per la firma tardiva di Berlusconi, che ha sottoscritto i 12 Referendum solo i primi giorni di settembre. Sappiamo tutti che quel momento di pubblicità ha fatto affluire molti cittadini ai tavoli. Ma sappiamo che nel Pdl c’è stato chi ha remato contro, qualcuno non ha raccolto affatto le firme, soprattutto nel nord Italia. Risposte seppure non vicine alle promesse che erano state fatte sono arrivate molto significative da Puglia, Campania e Calabria. E pensare che c’era chi, come Brunetta, diceva “siamo noi che stiamo raccogliendo le firme”, e prometteva che sarebbero state oltre i 5 milioni”. Certo, il gran numero di firme che ci è stato consegnato dal Pdl, comunque insufficiente, risentiva anche della scarsa capacità di questo movimento a raccogliere le firme secondo quanto prevede la legge”, ha concluso la segretaria di Radicali Italiani. Cicchitto: se falliti referendum riforma in parlamento “Se non sono state raccolte firme sufficienti” per i quesiti referendari dei Radicali sulla giustizia, “allora si ripropone l’esigenza di lavorare in Parlamento per la riforma della giustizia, dalla separazione della carriera, al ridimensionamento della custodia cautelare, alla responsabilità civile dei giudici, ad altri temi. Da questo punto di vista l’intervista del presidente Speranza esprime una consapevolezza sulla gravità della situazione. Evidentemente sui contenuti la questione è del tutto aperta”. Lo sottolinea il deputato del Nuovo Centro Destra Fabrizio Cicchitto, presidente della Commissione Esteri. Emilia Romagna: quando è lo Stato a violare la legge”, Garante detenuti a “Fine pena mai” Ristretti Orizzonti, 30 novembre 2013 Alla data del 31 ottobre, negli istituti di pena italiani si registrava la presenza di 64.323 detenuti: duemila in meno rispetto al mese di giugno, ma la capienza regolamentare delle nostre carceri si attesta sulle 47.000 unità. Il sovraffollamento, con le sue conseguenze drammatiche, è dunque il sintomo di una malattia ormai cronica. E il dato numerico, di per sé, esprime la necessità di rimettere mano a un insieme di riforme in grado di dare conto di una diversa visione del carcere e della pena. Tossicodipendenza, immigrazione, recidiva e custodia cautelare (oltre alla carenza di risorse) costituiscono i nodi ineludibili della questione carceraria italiana. Di questo si è parlato oggi pomeriggio nel quarto di cinque appuntamenti raccolti sotto il titolo “Fine pena: mai”, organizzati dall’associazione Progrè all’auditorium Enzo Biagi (Biblioteca Sala Borsa, Bologna). “Qual è il risultato di un sistema che non permette alcuna risocializzazione, fallendo il suo primo e più importante scopo? Come si può pensare che la pena finisca uscendo da quelle mura, se chi ne esce è quasi sempre destinato a rientrarci”: sono le domande su cui si sono confrontati l’ex presidente della commissione parlamentare per la tutela dei diritti umani, Pietro Marcenaro, la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, e Ornella Favero, direttrice di “Ristretti Orizzonti”, la più nota fra le pubblicazioni realizzate all’interno delle carceri italiane. All’ultimo momento, per impegni istituzionali, è venuta a mancare la presenza del ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, e questo ha privato certe domande e certe sollecitazioni di risposte immediate. Ma per Desi Bruno la prima necessità è insistere sul tema dei diritti come limite invalicabile del potere punitivo. Esistono alcuni diritti elementari dell’individuo che vengono prima di qualsiasi esigenza di difesa sociale: profili minimi sui quali non si può venire a patti, sui quali non si può transigere. Dopo la “Sentenza Torreggiani”, con la quale la Corte di giustizia europea ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani, di fronte al permanere di una prospettiva di vita che si concretizza in quello che è stato definito come “trattamento inumano e degradante”, “non ce la si può cavare con piccoli correttivi: una pena così congegnata - sottolinea la Garante - non potrà mai essere rieducativa, e uno Stato che non riesce a soddisfare quelle garanzie minime di tutela della dignità umana non può punire”. Di questa opinione anche Marcenaro, che ha ricordato le sentenze delle Corti supreme di Stati Uniti e Germania, assai simili nell’affermare che se uno Stato non può garantire una detenzione dignitosa, deve rinunciare alla detenzione. Marcenaro ha aggiunto che va condotta una battaglia culturale per rompere un’ottusa equivalenza, “quella che non sa distinguere fra pena e carcere, mentre invece si tratta di ricorrere al carcere solo in condizioni estreme. Perciò, la politica, oggi, deve trovare il coraggio di sfidare l’impopolarità puntando a modificare le leggi che contribuiscono gravemente al sovraffollamento”. Marcenaro e Favero hanno convenuto sul fatto che chi ha avuto la possibilità di entrare in un carcere e di vedere come vivono i detenuti, il più delle volte rimane scioccato ed è costretto ad abbandonare certi pregiudizi. Dalla Garante regionale, infine, la duplice sottolineatura sulla gravità di una situazione in cui, come stabiliscono ripetute sentenze, “è lo Stato italiano a violare la legalità. Non basterà aumentare i metri quadrati pro - capite, né portare a otto ore al giorno l’apertura delle celle per rispondere all’ultima, pesante sentenza della Corte Europea”. Questi obiettivi quantitativi vanno senz’altro perseguiti, ha detto Desi Bruno, “perché è in gioco la dignità elementare della persona detenuta, ma risulteranno inadeguati se non vi sarà un investimento sull’umanizzazione della pena, offrendo al detenuto occasioni di attività (studio, lavoro, socializzazione)”. E a proposito di umanizzazione della pena, il Parlamento potrebbe dare un segnale immediato, modificando la disciplina dei colloqui con i familiari, così da consentire quel minimo di intimità che oggi manca in quasi tutte le carceri italiane. Abruzzo: in attesa del Garante i Radicali istituiscono il “Referente dei Detenuti” Ristretti Orizzonti, 30 novembre 2013 “I detenuti non potevano più attendere che la Regione si decidesse a nominare il Garante e così abbiamo provveduto noi”. Con queste poche parole, Alessio Di Carlo, segretario di Radicali Abruzzo, ha annunciato l’iniziativa della istituzione del “Referente dei Detenuti”. “Abbiamo ricercato - ha detto l’esponente radicale - una figura di indiscusso profilo nel campo della difesa dei diritti umani e della attività di volontariato in favore dei detenuti, individuandola nella persona di Francesco Lo Piccolo, che già da anni è inserito stabilmente nella realtà penitenziaria abruzzese essendo presidente della Onlus Voci di dentro, che si occupa del reinserimento degli ex detenuti, e della cooperativa sociale Alfachi, che si occupa di creare occasioni di lavoro per detenuti ed ex detenuti”. Di Carlo ha spiegato che “al Referente dei Detenuti spetterà il compito di svolgere le stesse mansioni di ispezione, segnalazione, controllo, iniziativa e proposta previste dalla legge regionale sul Garante dei detenuti, che la Regione, nonostante gli oltre due anni trascorsi dalla sua approvazione, non ha ancora attivato”. “Naturalmente - ha detto ancora il segretario di Radicali Abruzzo - per poter svolgere il suo incarico il Referente dei Detenuti dovrà essere affiancato dai parlamentari abruzzesi e dai consiglieri regionali che si renderanno disponibili ed a cui abbiamo inviato una lettera aperta in tal senso”. Di Carlo ha concluso auspicando che in ogni caso il Consiglio Regionale proceda, sin dalla prossima riunione del 3 dicembre, alla designazione della figura istituzionale, preannunciando che anche in tale ipotesi il Referente dei Detenuti sarà a disposizione, offrendo la propria esperienza in favore della popolazione carceraria abruzzese. Napoli: morte di Federico Perna; la madre “era malato, l’hanno lasciato morire in cella di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2013 Il 34enne, tossicodipendente affetto da cirrosi epatica ed epatite C, è deceduto nel carcere di Napoli l’8 novembre. “Avevamo più volte chiesto il trasferimento. Da una settimana sputava sangue, aveva chiesto di essere ricoverato” Federico come Stefano. Ascoltando la storia di Federico Perna, 34 anni, il pensiero va subito a Stefano Cucchi, che di anni ne aveva appena 31. Anche Federico è morto nelle mani dello Stato, di quello Stato che avrebbe dovuto punirlo per i reati commessi, certo, ma anche curarlo. Perché quel ragazzo di 34 anni della provincia di Latina, tossicodipendente da 14, oltre a dover scontare un cumulo di pene che lo avrebbe tenuto dentro fino al 2018 (l’ultima condanna per lo scippo di un telefonino), era malato di cirrosi epatica e di epatite C cronica, aveva problemi di coagulazione del sangue e disturbi psichici. Eppure aveva già scontato tre anni, rimbalzando da un carcere all’altro - Velletri, Cassino, Viterbo, poi di nuovo Cassino, Secondigliano, Benevento, ancora Secondigliano - ed era finito a Poggioreale, “undicesimo detenuto in una cella di undici metri quadrati”. È lì che è morto, l’8 novembre, “dopo una settimana che sputava sangue”, in circostanze - come dicono le autorità in questi casi - ancora da chiarire. “Mi hanno dato tante versioni diverse - racconta la mamma di Federico, Nobila Scafuro, al Fatto Quotidiano: mi hanno detto che era morto nell’infermeria del carcere, poi in ambulanza, poi nel reparto dell’ospedale Federico II di Napoli. Ho telefonato alla direzione del carcere, vivendo a 300 chilometri di distanza, non mi sono stati neanche a sentire. Io mi sono dovuta andare a cercare il morto vagante”. Così come la famiglia Cucchi, anche la signora Scafuro ha deciso di diffondere le immagini - terribili - di suo figlio sul lettino dell’obitorio. Nel caso di Stefano, la scelta fu determinante ai fini dell’interessamento mediatico. I risultati dell’autopsia, eseguita il 14 novembre, non sono ancora arrivati - “il magistrato si è riservato 90 giorni di tempo, ma spero che la verità emerga prima” - ma per la mamma di Federico una cosa è certa: “Mio figlio non doveva stare in carcere. Lo scorso anno, attraverso il nostro avvocato, Camillo Autieri, abbiamo presentato tre referti di medici legali e primari ospedalieri e abbiamo chiesto l’incompatibilità carceraria. Ma le istanze sono state tutte rigettate dai magistrati di sorveglianza”. “Ora abbiamo fatto richiesta per conoscere le motivazioni”, conferma il legale. Per tenere buono Federico in cella, denuncia la famiglia, gli venivano somministrate pesanti dosi di psicofarmaci e tranquillanti: “Valium, Rivotril, più le medicine passate dal Sert”. “Questo faceva sì che il ragazzo non potesse provvedere alla propria cura quotidiana - spiega l’avvocato Autieri - e non avesse, in più di un’occasione, la capacità di discernimento”. Esattamente come nel caso della famiglia Cucchi, nessuno fa mistero della tossicodipendenza di Perna. “L’ho visto con lo zigomo gonfio - prosegue la signora Scafuro - e un suo compagno di cella lo ha convinto a dirmi che gli avevano dato un pugno. Non era la prima volta, a Viterbo c’è una denuncia penale: lo hanno picchiato perché teneva una lattina di Coca Cola in fresco sotto il rubinetto dell’acqua”. Ipotesi naturalmente tutte da accertare. Negli ultimi giorni, però, le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate: “Da una settimana sputava sangue dalla bocca, il martedì prima di morire aveva chiesto di essere ricoverato”. La Procura della Repubblica di Napoli ha aperto un’inchiesta e si annuncia fin d’ora una battaglia di perizie. Proprio come nella vicenda Cucchi. La madre del ragazzo si è rivolta alle associazioni che si occupano di detenuti: Ristretti Orizzonti ha contribuito a diffondere la storia e le immagini di Federico, Antigone sta seguendo il caso da vicino. “In questa fase posso solo auspicare una rapida soluzione dell’inchiesta”, commenta Mario Barone, presidente di Antigone Campania e membro dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione. Intanto il Movimento 5 stelle ha presentato alla Camera un’interrogazione al ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria è a conoscenza della situazione - anche perché sono già state presentate due interrogazioni parlamentari - , anche se il Fatto ha più volte cercato, senza esito, di mettersi in contatto con il vice capo vicario Luigi Pagano. “Non ho il numero del ministro Cancellieri, ma vorrei porle tre domande - conclude la madre - : perché Federico era ancora dentro, visto che era malato gravissimo? Perché non è stato ricoverato martedì, quando ha chiesto non di andare in discoteca ma di essere curato? E perché l’hanno massacrato di botte?”. Federico faceva di cognome Perna. Napoli: dopo il caso di Federico Perna, evitiamo che a morti seguano altri morti di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2013 Terribili e già visti gli ingredienti della vita e della morte di Federico Perna nel carcere napoletano di Poggioreale, proprio il carcere visitato da Giorgio Napolitano prima che annunciasse il messaggio alle Camere dell’8 di ottobre scorso. Poggioreale, un carcere simbolo della tragedia italiana, dove i detenuti sono ammassati, costretti a una vita degradante, resi numeri dal sovraffollamento. Un carcere dove i detenuti non hanno spazio vitale e la dignità umana è oggettivamente calpestata. La madre chiede giustizia e giustizia va assicurata. Ancora una volta, per sperare di avere giustizia, una mamma deve farsi violenza e pubblicare sui media la foto di un corpo martoriato. Il ministro della Giustizia ha disposto un’indagine interna all’Amministrazione penitenziaria. Nel frattempo si spera che scorra l’indagine penale e che l’autopsia sia fatta coscienziosamente e restituisca chiarezza sulle cause della morte. Federico Perna muore a 34 anni. La sua è una storia carceraria abbastanza comune, là dove ciò che è comune coincide oggi con ciò che è tragico. Ha problemi di tossicodipendenza. È malato di epatite C, appunto come tanti detenuti, purtroppo. Sta molto male, come tanti detenuti. Chiede aiuto, ne riceve poco. I magistrati non lo ritengono incompatibile con il carcere nonostante valutazioni difformi, pare, dei medici che invece propendevano per la non compatibilità con la detenzione. La vicenda di Federico Perna ci impone una riflessione sul caso in questione e una di carattere più generale. Sul caso in questione, va rivendicata un’indagine condotta con determinazione, la quale chiarisca se c’è stata violenza e se c’è stata negligenza medica. Intorno alle questioni di carattere più generale, la vicenda carceraria va affrontata e decisa subito per evitare che morti seguano a morti. Bisogna intervenire su più piani: modificare in modo radicale la legge sulle droghe, liberticida e proibizionista; bisogna assicurare diritti a chi non ne ha istituendo un garante nazionale delle persone private della libertà, come ci impongono le Nazioni Unite; va introdotto il delitto di tortura nel codice penale italiano, che ridarebbe dignità a un sistema giuridico oggi in crisi di identità democratica. Napoli: sulla morte di Federico a Poggioreale, indagano Procura e Ministero Giustizia di Rosa Palomba Il Mattino, 30 novembre 2013 Non era “un po’ nervoso”. E nemmeno inappetente. Tossiva e vomitava sangue. Come può accadere ai malati terminali della cirrosi epatica. Come del resto era scritto nella infausta diagnosi legata a Federico Perna, l’ultimo morto negli inferi delle carceri italiane. Più che un certificato medico, un ultimatum peraltro associato a una sindrome psichiatrica “border line”. Qualunque cosa alla fine sia successa nell’inferno del padiglione Avellino, cella 6, carcere di Poggioreale a Napoli, è dall’inizio che ci sarebbe stata una pesante anomalia. Proprio come spesso è capitato per i mille morti dal 2002 al 2012 nei penitenziari d’Italia. Adesso, sulla vicenda legata al decesso del giovane, indagano i giudici della Procura di Napoli e gli ispettori nominati dal ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri. Di reati ne aveva commessi tanti il detenuto morto l’8 novembre in circostanze equivoche, però con quei referti, “non doveva stare lì ma in un ospedale”, dicono adesso i suoi familiari e il penalista Camillo Autieri. Se poi è vero quello che racconta sua madre Nobila Scafuro, allora la detenzione di Federico Perna assumerebbe più i toni di una condanna a morte che di un regime punitivo - restrittivo. E ieri, dopo la denuncia della donna, che invoca verità e giustizia, il Guardasigilli ha disposto una “rigorosa indagine amministrativa interna al carcere napoletano di Poggioreale”. Il compito è stato affidato a Giovanni Tamburino, capo del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ieri intanto, il ministro Cancellieri ha anche espresso “le sue condoglianze e la sua personale vicinanza alla mamma del giovane” e ha “auspicato che sul caso sia fatta completa chiarezza, assicurando la massima collaborazione alla Procura della Repubblica che ha già avviato una propria inchiesta”, parallela a quella del Dap. “Percosse, richieste di aiuto ignorate abbandono sanitario e umano”, è l’accusa della madre di Federico. Verificheranno gli ispettori che dovranno anche accertare se il decesso dell’ammalato di cirrosi epatica, sia morto nell’infermeria del penitenziario o in ambulanza”. “Ho saputo che mio figlio era morto grazie alla lettera di un altro detenuto. Neanche lui sapeva bene dove è avvenuto il decesso. Adesso la mia forza è la mia rabbia”. All’indagine disposta dal ministero, anche il compito di verificare se con quella patologia, il Federico potesse stare in una cella con altre undici persone. Se quella condizione insomma, non fosse fortemente pericolosa per sé e per gli altri. Un’altra brutta pagina dell’emergenza carceri in Italia e in particolare a Napoli dunque, a poche settimane dalla presentazione a Strasburgo del “piano” individuato dal ministro Cancellieri. Una sorta di corsa contro il tempo, prima che la Corte di giustizia europea applichi le penalty già annunciate. Per l’Italia, il rischio di una nuova bocciatura anche per “crudeltà”. Mio figlio vomitava sangue aveva chiesto aiuto da tempo, di Giuseppe Crimaldi Ha implorato fino all’ultimo. Fino a quando le forze lo hanno sostenuto Federico Perna ha chiesto aiuto, cercato un sostegno, un’attenzione che non è mai arrivata. Né dall’esterno né dall’interno: nemmeno da quella invisibile catena di solidarietà che pure tiene stretti i detenuti all’interno di un istituto penitenziario. Vivere e morire nel carcere napoletano di Poggioreale a 34 anni. Per chi è abituato a ragionare in termini di fredde statistiche la morte di Federico Perna è la numero 142 dall’inizio dell’anno in un carcere; per chi invece crede che quello alla salute e alla dignità della persona restino ancora diritti primari e inviolabili dell’essere umano la vicenda impone che sia fatta luce fino all’ultimo angolo inesplorato della sua condizione, di uomo e di recluso. Saranno ora due inchieste a cercare di illuminare le troppe zone grigie che ancora restano: la prima, aperta dalla Procura della Repubblica di Napoli; e una seconda ordinata dal ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. “Non ho il numero del ministro Cancellieri - aveva detto due giorni fa Nobila Scafuro, madre di Federico - ma le vorrei porre tre domande: perché Federico era ancora dentro, visto che era malato gravissimo? Perché non è stato ricoverato quando ha chiesto di essere curato? È vero che l’hanno massacrato di botte?”. Invece ieri è stato proprio il Guardasigilli, in Parlamento, a esprimere le sue condoglianze alla mamma del giovane. Poco dopo la Cancellieri spiegherà di avere già avviato un’indagine amministrativa per ricostruire eventuali responsabilità nella vicenda del detenuto. Federico Perna - che era nato e vissuto a Pomezia - è morto tre settimane fa, l’8 novembre. Tutto ebbe inizio alle 17: qualcuno dalla cella numero 6 del padiglione Avellino (riservato ai detenuti “comuni”) urlava, chiedendo agli agenti di polizia penitenziaria di correre, di fare presto, perché Federico stava malissimo. Erano le voci dei suoi dieci compagni di sventura. Inizia un vorticoso giro di chiamate che coinvolgono i vertici della direzione del carcere di Poggioreale, che decide di allertare un’ambulanza per il trasporto in ospedale. Riverso sul pavimento, in preda a sbocchi di sangue dalla bocca, l’uomo non riusciva più a respirare. Morirà pochi minuti dopo, senza nemmeno il tempo del ricovero. In realtà il calvario di Federico era iniziato molto prima. Da dieci giorni accusava delle emorragie, sputava sangue e quando tossiva accusava lancinanti fitte al petto. Che la sua condizione fosse al limite del compatibile con il regime carcerario - per non parlare di quello di Poggioreale - lo attestavano le cartelle cliniche. Gli ultimi 14 anni, in un’odissea scandita dal dramma delle tossicodipendenze, gli avevano minato il fisico e spappolato il fegato. Era stata l’epatite C, in breve degenerata in cirrosi, a dargli il colpo di grazia. Perna avrebbe avuto bisogno di un trapianto di fegato e a desso - come spiega al Mattino il suo difensore, l’avvocato Camillo Autieri - saranno i certificati medici a dimostrare che non si è ottemperato a quanto chiedevano i medici: e cioè che era stato dichiarato incompatibile con la detenzione in carcere. “C’erano - aggiunge il penalista - due diversi rapporti clinici, stilati dai dirigenti sanitari delle carceri di Viterbo e Napoli Secondigliano”. Già, perché nel suo lungo viaggio giudiziario Federico aveva conosciuto prima il penitenziario di Cassino, poi quello di Viterbo; poi, ancora, Secondigliano e infine Poggioreale. “Presentammo nel tempo due istanze di scarcerazione - spiega Autieri - La prima a giugno 2006 e la seconda a settembre 2011, al Tribunale di Sorveglianza di Napoli. Risultato: entrambe le domande - suffragate da perizie e certificazioni esterne (una stilata addirittura dall’ospedale viterbese Belcolle, ndr) e anche interne, convergenti nel sostenere l’assoluta incompatibilità di Perna con il regime carcerario - vennero respinte. Adesso che è stata aperta un’inchiesta della Procura di Napoli, potremo avere accesso a quegli atti e conoscere le motivazioni”. Ma chi era Federico Perna? E perché era finito in galera? “Tutto cominciò con gli spinelli - ricostruisce la mamma, Nobila Scafuro. Poi, a poco a poco, soldi e vizio presero il sopravvento: Federico entrò nel tunnel della droga”. A vent’anni il ragazzo commette il primo scippo. Poi una rapina. Lo arrestano e lo scarcerano, in conseguenza di quel pendolo perennemente oscillante che è il nostro sistema giudiziario. Ma la tossicodipendenza lo risucchia sempre e di nuovo in quel maledetto vortice. E così - quando è libero - Federico torna a commettere scippi per trovare i soldi per la dose. Stavolta però è arrivato all’eroina. E quando, nel 2010, lo riarrestano, scatta la detenzione per il cumulo delle pene. Chi commette reati non è mai giustificabile: ma quando di mezzo c’è la droga, anche per un ragazzo come Federico - nato e cresciuto in una famiglia sana - tutto si fa più tetro. Basta leggere le lettere spedite alla madre. “Cara mamma, a Cassino sono stato ricoverato e dopo tre ore mi hanno dimesso perché facevo casino, avevo epistassi nasale e tachicardia. Sono senza soldi, ti prego fammi un vaglia. Sappi che ti voglio tanto bene e sei sempre nel mio cuore”; oppure: “Mamma, quando ti ho visto a colloquio mi è sembrato di vedere il sole. Mi stanno rovinando, da due anni mi fanno cambiare carceri e io non ce la faccio più. Ho commesso un reato ed è giusto che sconti il carcere, ma non una pena inumana”. Poi c’è una lettera, una delle ultime ricevute dalla signora Scafuro. Forse la più inquietante. Perché in essa Federico fa riferimento a un episodio che si sarebbe verificato quando era recluso a Cassino. “Mamma, mi hanno trasferito a Viterbo perché quando ero a Cassino ho litigato con tre guardie e mi è venuta l’epistassi e la tachicardia”. Anche su questi punti ora la famiglia di Federico Perna chiede di fare luce. Ci sono stati pestaggi? Qualcuno gli ha inflitto punizioni non dovute? “Mio figlio - conclude la signora Scafuro - era un tossicodipendente ma ad ucciderlo non è stata la droga. Abbandonato alla sua malattia e a un degrado umano e morale incivile e intollerabile. Io non so se abbia anche subìto dei pestaggi. Ma una cosa la so: mio figlio è stato assassinato dallo Stato”. Napoli: Poggioreale un girone infernale per i detenuti, anche dodici in soli 30 metri quadrati Il Mattino, 30 novembre 2013 A settembre, uscendo dal padiglione Avellino - lo stesso nel quale era detenuto Federico Perna - Giorgio Napolitano aveva gli occhi lucidi. L’emozione si trasforma sempre in un pugno allo stomaco per chi varca il portone del carcere napoletano di Poggioreale. Ma quel giorno di fine estate al capo dello Stato, che proprio da Napoli aveva lanciato un appello che suonava anche come un monito al Parlamento italiano proprio sulla necessità di affrontare i nodi legati alla drammatica condizione carceraria, gli occhi brillavano anche di speranza. Aldilà delle sbarre, dalle celle, le voci della popolazione detenuta lo avevano incoraggiato ad andare avanti nella convinzione di sollecitare un provvedimento di clemenza per quella gente privata della libertà e costretta a scontare la pena in condizioni poco, poco umane. Nella casa circondariale più affollata d’Italia e d’Europa si finisce con l’espiare due volte le colpe commesse: e ci si convince presto di essere nel centro popolato da un’umanità dolente. Siete qui, benvenuti a Poggioreale. Benvenuti all’inferno in terra. Con una media di presenze che si assesta intorno alle 2.600 unità la casa circondariale del capoluogo campano straccia ogni record negativo che continua a sovraesporre l’Italia agli strali (legittimi e giusti) dell’Europa, che ci osserva da vicino anche nell’ottica del rispetto delle minime condizioni di dignità umana e personale che una nazione civile dovrebbe riservare a chi è in carcere. Perché se i numeri indicano 2.400 - 2.600 “ospiti”, la verità è che in ogni caso si tratta di una cifra doppia rispetto a quante Poggioreale ne dovrebbe e potrebbe contenere. Quest’anno si è addirittura registrata una punta di 2.900 reclusi. Assurdo. Come assurdo è il lavoro - e le responsabilità conseguenti - che finiscono con il ricadere anche sul personale amministrativo e sui sorveglianti, costretti a gestire l’impossibile e a garantire, comunque, un superlavoro allucinante. Qualche esempio: sempre quest’anno l’amministrazione penitenziaria di Poggioreale ha dovuto garantire qualcosa come 115.050 colloqui tra detenuti e loro familiari. Con un unico, desolante risultato: qui tutti - a cominciare dai detenuti per finire agli uomini che indossano la divisa blu della polizia penitenziaria - finiscono con il condividere un’esistenza negata due volte. Percorrere i corridoi sui quali si affacciano le celle è come sgranare un rosario di umanità e di dolore. E a poco servono i pur encomiabili tentativi di ammodernare una struttura che resta, comunque, di ispirazione architettonica ottocentesca e che risente di diversi interventi di edilizia penitenziaria stratificatisi nel tempo. Celle piccole, e persino le più ampie diventano invivibili quando a popolarle sono dieci, dodici persone costrette ad una promiscuità indegna di un Paese che vuol dirsi civile. Si dorme in letti a castello, posizionati spesso in modo tale da garantire a chi occupa l’ultimo piano uno spazio dal soffitto inferiore ai trenta centimetri. Dodici padiglioni e una sola cucina per l’intero istituto. Nessun recluso al 41 bis, e dunque a Poggioreale le porte sono più che mai “girevoli”, nel senso che qui vi approdano tanti “primari” (reclusi alla prima esperienza carceraria), e moltissimi in attesa di giudizio. Gli stranieri in media sono circa in 300. Circa mille i condannati definitivi. A dirigere Poggioreale c’è Teresa Abate, che si avvale di cinque vicedirettori a tempo pieno e di uno distaccato. Tutti svolgono egregiamente il loro lavoro, facendo - come detto - anche più del dovuto. Si tenga conto che il numero previsto dalla pianta organica per una simile struttura prevedrebbe un direttore e tre vicedirettori. Poi c’è l’ultima novità che taglia - da un paio di mesi - il tetto massimo di spesa consentito ai detenuti. I rigori della spending review si sono abbattuti anche sulla popolazione dei detenuti. Una circolare inviata a tutte le direzioni delle carceri dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha infatti rimodulato i massimali delle spese programmabili all’interno dei penitenziari. Nella circolare si faceva esplicito riferimento alla situazione economico - finanziaria nazionale, e si stabiliva - restringendo i tetti di spesa finora rimasti validi - che per ogni settimana non si potrà superare la soglia dei 150 euro per l’acquisto di tutto quanto è possibile comprare tra le mura del carcere: sigarette, articoli sanitari, ma anche beni alimentari. Il tetto massimo mensile oggi dunque è stato ridotto e fissato a 500 euro al massimo di spese. Cagliari: a Buoncammino detenuti e agenti soffrono freddo, cantiere del nuovo carcere bloccato Ristretti Orizzonti, 30 novembre 2013 “L’improvvisa ondata di freddo intenso, che ha colpito da qualche giorno la Sardegna, con temperature intorno allo zero anche a Cagliari, ha messo a dura prova i detenuti e gli Agenti della Casa Circondariale di viale Buoncammino. In assenza di riscaldamento nelle celle, i cittadini privati della libertà hanno dovuto aumentare il numero delle coperte per far fronte al gelo”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che ha appreso della circostanza da alcuni familiari dei detenuti preoccupati per i parenti. “La situazione più delicata - sottolinea la presidente di SdR - è quella dei ricoverati nel Centro Clinico le cui condizioni di salute precarie richiedono una particolare attenzione. È evidente che dopo un inizio d’autunno piuttosto mite, il repentino abbassamento delle temperature ha colto tutti di sorpresa costringendo la Direzione a correre ai ripari. L’auspicio è che al più presto venga ripristinato il riscaldamento anche perché alcune celle, dove non batte mai il sole e dove si registra una maggiore umidità, si trasformano in breve tempo in ghiacciaie micidiali per chi è costretto, per problemi di salute, a trascorrere la maggior parte delle ore senza svolgere alcuna attività”. Nuovo carcere: opere pubbliche rischia fallimento “La presentazione di un’istanza di fallimento nei confronti della società Opere Pubbliche, relativamente ai contenziosi ancora in atto nel Villaggio Penitenziario di Uta dove stanno sorgendo le strutture che sostituiranno la Casa Circondariale cagliaritana di viale Buoncammino, potrebbe avere conseguenze deleterie per il completamento dei lavori. Circa milioni di euro investiti per dare gambe al progetto, ormai fuori tempo massimo, darebbero vita a un’incompiuta”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialisti Diritti Riforme”, con riferimento alla nuova clamorosa azione di protesta degli operai che ha sortito un ulteriore intervento parzialmente risolutore del prefetto Angelo Sinesio, in qualità di Commissario straordinario del Governo per le Infrastrutture. “Sorprende - sottolinea Caligaris - che il Ministero della Giustizia guardi con indifferenza quanto sta accadendo nel cantiere limitandosi a garantire attraverso gli Agenti di Polizia Penitenziaria il controllo degli operai - detenuti impegnati nell’allestimento delle celle. Le preoccupazioni dei lavoratori che hanno occupato il cantiere con il sostegno dei sindacati sono invece condivise da alcuni privati, ancora in attesa del pagamento delle somme relative agli espropri dei terreni, e da aziende creditrici per forniture e lavori. Dalla situazione sembrano emergere responsabilità del Ministero delle Infrastrutture che ha effettuato il passaggio del Villaggio Penitenziario al Ministero della Giustizia con un cantiere ancora aperto”. “Il prematuro subentro del Ministero della Giustizia ha creato nuove difficoltà e ulteriori spese determinando un fosco futuro per i lavoratori. È sempre più opportuna dunque - conclude la presidente di SdR - l’effettuazione di indagine parlamentare, come peraltro già richiesta, per approfondire le problematiche e accertare le eventuali responsabilità di una storia infinita che iniziata nel 2006 doveva concludersi nel 2011 e siamo invece ormai nel 2014”. Lucca: la deputata Pd Raffaella Mariani “serve un progetto comune per il carcere” Il Tirreno, 30 novembre 2013 “Un progetto comune per il carcere, per costruire condizioni di tutela per chi ci lavora, facilitare il reinserimento dei detenuti e migliorare la sicurezza nella nostra città”. Lo dice la deputata Pd Raffaella Mariani, che sabato ha fatto visita alla casa circondariale di San Giorgio incontrando il direttore. “Nel nostro sistema giudiziario, a partire dagli stessi valori della Costituzione, la pena detentiva si esplica anche in un percorso di riabilitazione, con l’obiettivo del reinserimento nella comunità per garantire sicurezza e coesione sociali. Per tentare di avvicinarsi al dettato costituzionale è indispensabile un progetto complessivo, fatto di attività diversificate e fondato sulla costante interazione con le istituzioni e la società. Oggi - , continua la parlamentare - i numeri del San Giorgio parlano chiaro: 170 detenuti su 113 posti effettivi, per 2/3 in attesa di giudizio, con il 65% di stranieri e moltissimi casi di tossicodipendenza e problemi psichiatrici. Tutto in una situazione di grande difficoltà per il personale: l’organico della polizia penitenziaria resta sottodimensionato, anche se è cresciuto di 20 unità negli ultimi due anni”. Si stanno comunque facendo cose importanti: “Sono stati completati - aggiunge - una serie di interventi, dal rifacimento del tetto di una sezione e delle docce di un’altra, all’installazione di due nuove caldaie. Restano da finanziare i lavori per la portineria, l’infermeria e il completamento del consolidamento del muro di cinta e da ultimare i lavori alla palestra. Importante sarebbe infatti poter garantire spazi adeguati per i corsi di cucina, teatro, giardinaggio e informatica, a cui si aggiunge quello avviato dalla Scuola edile, organizzati grazie al sostegno di associazioni come il Comitato San Francesco”. In un periodo in cui anche dal livello nazionale stanno arrivando importanti segnali, con l’attenzione del ministero e l’appello del presidente della Repubblica “è necessario - continua la parlamentare - poter contare sulla certezza e l’organicità di un progetto complessivo di recupero, con la presenza costante delle istituzioni. L’attenzione a chi sta dentro il carcere, per lavoro da un lato e per scontare una pena dall’altro, è il primo passo verso la consapevolezza che la sicurezza di tutti noi dipende concretamente da quanto si è in grado di fare in termini di percorsi di reinserimento efficaci, ancora più importanti quando coinvolgono persone che non hanno commesso reati contro la persona come la maggioranza dei detenuti del San Giorgio”. Grazie all’aiuto “dei volontari dello storico gruppo, delle associazioni che hanno dedicato sforzi economici e sensibilità ed un maggiore coinvolgimento di tutte le istituzioni locali sarà sicuramente possibile concorrere al miglioramento delle condizioni della attuale struttura, contribuendo a intensificare il sostegno a chi oggi con sacrificio opera in una situazione di difficoltà”. Frosinone: carcere di Paliano apre porte all’assemblea Confederazione italiana agricoltori Ansa, 30 novembre 2013 Un carcere di massima sicurezza apre le porte per ospitare l’assemblea elettiva della Confederazione italiana agricoltori (Cia) della provincia di Frosinone. L’appuntamento, che si terrà nella sala dell’Unità d’Italia, si svolgerà domenica nel supercarcere di Paliano, in Ciociaria. “La scelta, decisamente insolita, di celebrare il nostro congresso in carcere - dice Ettore Togneri, presidente uscente e ricandidato alla guida della Confederazione - è nata dalla volontà di riaffermare il principio del lavoro come fonte di legalità e occasione di riabilitazione umana e sociale. La Cia è coinvolta in alcuni progetti di agricoltura nel supercarcere di Paliano che impegnano stabilmente - spiega - i detenuti con eccellenti risultati tanto che presto, oltre alle coltivazioni e alle altre attività già avviate all’interno dell’istituto, si aggiungerà anche un caseificio per la lavorazione del latte e derivati. Ringrazio la direttrice del carcere - conclude Togneri - per la sua disponibilità e per lo spirito di autentica condivisione dei progetti che ci vedono impegnati in favore dei detenuti e per la valorizzazione del mondo agricolo”. Padova: a scuola di carcere… delegazione brasiliana studia il sistema padovano di Luca Preziosi Mattino di Padova, 30 novembre 2013 Riduzione della recidiva e lavoro in carcere. Questi gli obiettivi della visita avvenuta ieri mattina in carcere a Padova, da parte di una delegazione brasiliana composta dal magistrato Luis Carlo Resende e dal rappresentante Apac Valdes Antonio Pereira (Associazioni di protezione e assistenza ai condannati), alcuni loro colleghi e esponenti del Dipartimento di amministrazione penitenziaria brasiliano. Accompagnata da Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, la commissione sudamericana ha avuto modo di vedere con i propri occhi quanto è stato realizzato all’interno della casa di reclusione a favore dei detenuti. Vere e proprie imprese create affinché non solo possano redimersi, ma possano imparare un lavoro utile a migliorare la loro qualità della vita sia all’interno del penitenziario che fuori una volta scontata la pena. All’interno del carcere vige un regime di semilibertà, almeno per i detenuti che non hanno compiuto reati gravissimi, che permette loro di stare fuori dalle celle per quasi dodici ore. Molti di loro sono impegnati in attività lavorative che avvengono nel cuore della struttura che, grazie ad Officina Giotto, ha realizzato progetti di recupero importanti. Dalla famosa pasticceria che produce dolci e panettoni marchiati “Giotto” e che ogni giorno escono fuori dal carcere per raggiungere anche lo stesso Brasile, alle biciclette (23 detenuti producono circa 150 biciclette al giorno per le più grandi case produttrici italiane, tra cui Bianchi e Legnano), alle valigie che vengono assemblate in laboratorio, alle keys per la firma digitale che riforniscono tutta Italia, ai due call-center dove i detenuti offrono assistenza per l’ospedale di Padova e attraverso cui passano molte delle telefonate degli utenti che devono prenotare visite mediche. Una macchina perfetta, anche se il penitenziario soffre non poco il sovraffollamento. Nato per contenere 350 reclusi, oggi ce ne ospita circa 900, a fronte di 320 agenti di polizia penitenziaria. Ormai noto in tutta Italia, il carcere di Padova ha ospitato la delegazione brasiliana sia per mostrare l’attività di Officina Giotto, sia per confrontarsi con le nuove avanguardie in termini di sistemi carcerari offerti proprio dal Brasile: tremila detenuti che vivono in carceri senza armi né guardie. Sembra un’utopia, e invece è il risultato dell’innovativo sistema carcerario, sperimentato in Brasile dalle Apac, presentato ieri dai delegati. Le Apac sono centri di recupero coordinati da associazioni, dove i condannati si autogestiscono e grazie ai quali il tasso di recidiva è sceso dall’85% al 15%, abbassando di due terzi i costi e garantendo ai “recuperandi” condizioni di vita dignitose e un più semplice reinserimento in società. Trento: detenuto malato di tubercolosi evade dal Reparto infettivi del Santa Chiara Il Trentino, 30 novembre 2013 Quella tra mercoledì e giovedì è stata una notte agitata all’ospedale Santa Chiara di Trento. L’intera struttura è stata messa sottosopra dagli uomini della squadra volante della polizia che erano alla ricerca di detenuto che era ricoverato nel reparto infettivi ed è scappato durante la notte. Si tratta di un cittadino tunisino che era stato ricoverato con la diagnosi di tubercolosi. Era stato trasferito agli infettivi per questo motivo e ha approfittato del fatto di non essere ricoverato nel reparto destinato ai detenuti per dileguarsi. Ha atteso la notte ed è evaso. Un controllo, però, ha rilevato che il tunisino era scomparso. È stato subito dato l’allarme. Sul posto è arrivata la polizia. Il personale dell’ospedale e gli agenti hanno letteralmente setacciato tutto il Santa Chiara. Hanno guardato dappertutto. Infatti c’è molta preoccupazione per la malattia dalla quale è affetto l’uomo. Il timore è che potrebbe diffonderla. Per questo sia i medici e gli infermieri che gli agenti lo hanno cercato per tutta la notte. Ma del tunisino nessuna traccia. Il timore di una diffusione della malattia era abbastanza elevato. Per questo è stato fatto ogni sforzo. Il personale dell’ospedale si è dato da fare al massimo e anche gli agenti della volante hanno cercato di capire dove possa essere andato a finire il detenuto evaso. L’uomo è stato cercato anche fuori dall’ospedale nei luoghi che frequentava e anche nelle case di amici. Ma la lunga ricerca non ha prodotto alcun risultato. Le ricerche sono andate avanti anche ieri per tutta la giornata, ma il tunisino sembra essere sparito nel nulla. Sono state avvertite anche le compagnie dei carabinieri sul territorio e le questure delle città vicine. Ormai sembra sicuro che o il tunisino sia riuscito a lasciare la città o che abbia raggiunto un rifugio sicuro. La preoccupazione è che possa contagiare qualcuno. Il fatto che il tunisino fosse ricoverato nel reparto infettivo dimostra che lo stadio della malattia comunque era abbastanza avanzato. Da qui la preoccupazione di medici e forze dell’ordine. Per questo le forze dell’ordine hanno moltiplicato gli sforzi. La fuga, comunque, non è stata ancora interrotta. I controlli, però, vanno avanti a ritmo serrato. Si cerca in tutti gli ambienti che il tunisino frequentava e anche nelle zone battute dai suoi connazionali. Alba (Cn): doppio appuntamento sulle carceri, nell’ambito del progetto “Vale di più!” www.cuneocronaca.it, 30 novembre 2013 Sabato 30 novembre con Pietro Buffa, giovedì 5 dicembre con Davide Dutto e Davide Sordella. Sabato 30 ad Alba alle 18 nella Libreria La Torre in via Vittorio Emanuele II 19/G incontro con Pietro Buffa, già direttore della Casa di Reclusione di Torino e ora Provveditore regionale alle carceri dell’Emilia Romagna. Dopo il “Mercatino dei prodotti dal carcere e dai terreni confiscati alle mafie “Vale la pena!” svoltosi per il terzo anno consecutivo in piazza Pertinace in concomitanza del Palio degli Asini domenica 6 ottobre scorso e dopo l’allestimento di “angoli” promozionali in una ventina di vetrine del centro storico di Alba, sempre nell’ambito del progetto “Vale di più!”, promosso da CIS - Compagnia di Iniziative Sociali di Alba, con il sostegno economico della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, sono altre due le ulteriori iniziative che andranno a completare il quadro progettuale previsto. Sabato 30 novembre, alle 18 la nuova sede della Libreria La Torre nella Galleria della Maddalena, via Vittorio Emanuele II 19/G, ospita l’incontro pubblico con Pietro Buffa, già Direttore della Casa di Reclusione di Torino ed ora Provveditore regionale alle carceri dell’Emilia Romagna. L’occasione è la presentazione del suo ultimo libro, pubblica dalle Edizioni Gruppo Abele di Torino, e intitolato in modo significativo “Prigioni. Amministrare la sofferenza”. Nel momento in cui le istituzioni pubbliche italiane sono chiamate dal Presidente della Repubblica Napolitano a misurarsi con la situazione delle strutture detentive italiane e con il sistema “giustizia” nel suo complesso, l’appuntamento permette di ascoltare una testimonianza diretta di uno dei massimi esperti della materia, che ha dimostrato di saper amministrare uno dei più grandi carceri del paese, il “Lorusso - Cutugno” delle Vallette di Torino a fronte di una capienza regolamentare inferiore ai 1000 posti letto in questi anni è stato chiamato ad ospitare sino ad oltre 1500 detenuti. Accanto all’esperienza personale Pietro Buffa ha sempre coltivato l’analisi e la riflessione, rispetto ad un mestiere che implica necessariamente un coinvolgimento che va ben oltre il dato professionale. Giovedì 5 dicembre, alle 11 presso le nuove sedi del Consorzio CIS e della Cooperativa sociale Orso in via Santa Barbara 5/A ad Alba, avrà luogo la presentazione di alcune iniziative progettuali tra dentro e fuori il carcere. Una mostra di fotografie di Davide Dutto “pure in carcere ‘o sanno fa”, la proiezione di un cortometraggio del regista Davide Sordella “La squadra”, la presentazione di un nuovo progetto di inserimenti lavorativi nell’ambito di detenuti ed ex - detenuti dal titolo “To make a difference” saranno seguita da un aperitivo aperto a tutti gli interessati, con i prodotti del carcere. L’iniziativa in collaborazione con l’Associazione Sapori Reclusi, sarà anche il momento di inaugurazione delle nuove sedi di CIS e di Cooperativa Orso ad Alba ed un momento di approfondimento e di dibattito sul tema del carcere, delle sue difficoltà e delle sue potenzialità: una comunità penitenziaria alla ricerca di senso e di attuazione del mandato costituzionale del recupero e reinserimento. Il Ministero di Giustizia ha aggiornato le proprie statistiche ufficiali secondo le quali i detenuti in Italia sono 64.758, dei quali 12.333 in attesa del primo giudizio, per una capienza regolamentare “prevista” di 47.615 posti letto.” Napoli: le detenute di Pozzuoli scrivono al Papa “Venga a prendere un caffè da noi…” Adnkronos, 30 novembre 2013 “Santità, venga a prendere un caffè da noi”. È questo l’appello lanciato dalle detenute del carcere di Pozzuoli a Papa Francesco e contenuto in una lettera scritta dalle recluse e consegnata, tramite il cappellano, all’assessore alle Pari opportunità della Provincia di Napoli, Giovanna Del Giudice, durante la visita effettuata presso la struttura penitenziaria lo scorso 19 novembre. In quella occasione Del Giudice incontrò la direttrice Stella Scialpi, soffermandosi presso il laboratorio della “Cooperativa Lazzarelle” dove le detenute producono l’omonimo caffè, ricevendo da alcune lavoratrici la richiesta di adoperarsi perché Papa Francesco potesse conoscere la loro realtà ed, eventualmente, valutare la possibilità di una sua visita alla struttura. “Santità - è scritto nella missiva inviata al Papa e consegnata questa mattina all’arcivescovo di Napoli, cardinale Crescenzio Sepe - sappiamo quanto le stia a cuore la nostra situazione di detenute e desideriamo esprimerle dal profondo del nostro cuore il desiderio di poterla avere tra noi per gustare la gioia dell’incontro della misericordia di Dio”. “Carissimo Padre Francesco - scrivono ancora le detenute di Pozzuoli - permetteteci di chiamarvi Padre, perché così veramente la sentiamo e restiamo in ansiosa attesa di una sua risposta al nostro invito. Sappiamo che non le possiamo offrire altro che sbarre e corridoi con cancellate, tuttavia lungo quei corridoi e dietro quelle sbarre vi sono duecento donne che, come Maddalena, si inginocchiano davanti a lei per sentirsi dire: “Va e d’ora in poi non peccare più”. “Grazie Padre Francesco, l’attendiamo e venga a prendere un caffè dalle Lazzarelle”, termina l’invito delle detenute di Pozzuoli a Papa Francesco. Immigrazione: Garante detenuti; al Cie di Roma Ponte Galeria ora è emergenza freddo Ristretti Orizzonti, 30 novembre 2013 Il garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni: “fra le piogge torrenziali ed i primi veri freddi della stagione, gli oltre cento ospiti della struttura costretti a sopravvivere tra i disagi”. Da giorni sotto le piogge torrenziali e, per di più, senza riscaldamenti per difendersi dai primi veri freddi dell’inverno. È questa la situazione attuale degli oltre 100 ospiti extracomunitari del Centro di Identificazione ed Espulsione (C.I.E.) di Ponte Galeria. A denunciarla, il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Nonostante i livelli di affollamento siano fra i più bassi registrati negli ultimi mesi (la struttura ha, infatti, una capienza di circa 360 posti complessivi nei due settori maschile e femminile) la qualità e le condizioni di vita all’interno del C.I.E. sono tutt’altro che migliori. Nei giorni scorsi, caratterizzati da piogge torrenziali, è stato necessario l’utilizzo di un’autovettura per consentire agli operatori ed ai volontari di accedere al centro guadando un’enorme lago che si è formato proprio all’ingresso del Centro. La notte, poi, gli ospiti sono costretti a fare i conti con il mancato funzionamento dell’impianto di riscaldamento di cui è dotato ogni modulo abitativo della struttura. Un disservizio che, a quanto hanno appreso gli operatori del Garante che settimanalmente visitano la struttura, permane da diverso tempo. A questi disagi, la settimana scorsa si è anche aggiunto un guasto che ha comportato la sospensione dell’erogazione di acqua corrente nella struttura, “Nonostante l’encomiabile impegno della cooperativa Auxilium, che gestisce il CIE e lo spirito di sacrificio delle forze dell’ordine che ne garantiscono la sicurezza, - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - periodicamente siamo costretti a documentare disservizi e tensioni all’interno della struttura di Ponte Galeria. Lo scorso anno, ad esempio, nel bel mezzo dell’inverno, gli ospiti erano costretti a vivere in ciabatte per prevenire i rischi di fuga. Chi ha la responsabilità della gestione di queste strutture deve mettere in preventivo che le condizioni di vita nel CIE sono pesantissime e i lunghi tempi di permanenza le trasformano in veri e propri luoghi di detenzione dove, paradossalmente, mancano le garanzie che ci sono nelle carceri. Eppure basterebbero sensibilità e senso pratico per disinnescare tante piccole criticità che potrebbero sfociare in tensioni e malumori” Ucraina: lettera dal carcere della Tymoshenko “Kiev entri nella Ue, anche se resto in cella” di Andrea Bonanni La Repubblica, 30 novembre 2013 “Non ho alcuna speranza che si firmi l’accordo adesso. Ma per l’Ucraina la porta resta aperta”. Angela Merkel al suo arrivo a Vilnius per il vertice europeo sul partenariato orientale delude le aspettative di quanti ancora credevano nella possibilità di un accordo dell’ultimissima ora tra Kiev e Bruxelles. Tra questi c’è anche Yiulia Tymoshenko, l’ex premier ucraino ora agli arresti, che ha scritto una lettera aperta ai leader europei per invitarli a firmare il trattato di associazione Ue - Ucraina rinunciando a porre come condizione la sua liberazione. Una tesi appoggiata anche dai primi ministri bulgaro e polacco. Ma la soluzione non sembra a portata di mano. Il vertice Ue sul partenariato orientale ha riunito ieri e oggi a Vilnius i ventotto capi di governo dell’Ue con i leader di Ucraina, Georgia, Armenia, Azerbaigian, Moldavia e Bielorussia. Ma la questione ucraina pesa come un macigno sul successo dei lavori dopo che, una settimana fa, Kiev ha deciso di annullare all’ultimo momento la sigla dell’accordo di associazione con l’Unione europea che era ormai in dirittura d’arrivo. All’origine del voltafaccia ucraino ci sono sia le forti pressioni di Mosca, contraria all’intesa, sia il desiderio del presidente Viktor Yanukovich di tenere agli arresti la Tymoshenko, ma anche e soprattutto un braccio di ferro sulle condizioni economiche legate all’intesa. Yanukovich ha definito “umiliante” il finanziamento di 610 milioni offerto dalla Ue. E il vice primo ministro ucraino, Sergei Arbuzov, ha detto di aver già comunicato a Bruxelles quali sono le esigenze finanziarie di Kiev: circa 15 miliardi di euro l’anno per adeguarsi agli standard europei come richiesto dal trattato di associazione. Ieri sera, alla vigilia dell’apertura formale del vertice, c’è stato un incontro tra Yanukovich, il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy e il presidente della Commissione Barroso. Nonostante il voltafaccia di Kiev, l’Unione europea afferma di essere pronta a firmare l’accordo anche subito, ma naturalmente alle condizioni che erano state concordate. Il presidente del Consiglio Enrico Letta, arrivato a Vilnius nel pomeriggio, si dice “preoccupato” per la rigidità dimostrata dagli ucraini: “lavoreremo in queste ore per vedere se è possibile recuperare. Continuo a pensare che con l’Ucraina e con questi paesi si debba avere un meccanismo che non crei un’alternativa Ue - Russia, altrimenti il problema diventa oggettivo”. In realtà tutta la partita del partenariato orientale, fortemente voluta dai nuovi Stati membri dell’Est, Polonia in testa, si gioca proprio sullo sfondo del rapporto con Mosca. L’obiettivo è attrarre le repubbliche ex sovietiche nell’orbita gravitazionale europea: una prospettiva che il Cremlino vede con sospetto. Ma le difficoltà, su questa strada, sono sia di ordine politico sia di ordine economico, soprattutto quando si parla di un gigante come l’Ucraina che ha fortissimi legami con la Russia da cui dipende per l’approvvigionamento energetico. Come ha ricordato Putin al recente incontro di Trieste con Letta, Russia e Ucraina hanno un accordo di libero scambio. Ciò significa che un’eventuale intesa analoga tra l’Ucraina e la Ue permetterebbe ai prodotti europei di entrare sul mercato russo attraverso la porta ucraina senza pagare dazi. E questa è una prospettiva che Mosca non può accettare senza reagire. La presidenza di turno lituana della Ue, comunque, ha respinto fermamente l’ipotesi di un negoziato a tre tra Bruxelles, Mosca e Kiev per cercare di sbloccare la situazione. Ieri intanto, in attesa di trovare una via di uscita dalla crisi ucraina, il vertice ha visto la sigla di accordi di associazione con la Georgia e con la Moldavia e una intesa sulla facilitazione dei visti con l’Azerbaigian. L’Armenia, invece, ha preferito sottoscrivere l’accordo di unione doganale con la Russia. Quanto alla Bielorussia, il dittatore Lukashenko, amico di Berlusconi, ha disertato l’incontro mandando in rappresentanza il ministro degli esteri. Fino a che non ci sarà un significativo cambiamento nel rispetto dei diritti fondamentali, i rapporti tra Bruxelles e Minsk restano congelati a tutti gli effetti. Usa: alcuni prigionieri Guantánamo non vogliono rimpatrio, temono di essere uccisi Ansa, 30 novembre 2013 Gli sforzi dell’amministrazione Obama per chiudere Guantánamo si scontrano con una nuova difficoltà: i detenuti che non vogliono essere rimpatriati. Lo riporta il Wall Street Journal citando alcune fonti. Due cittadini algerini prigionieri a Guantánamo stanno combattendo legalmente per evitare il trasferimento nel loro paese di origine, dove temono - riferiscono i loro legali - di essere reclutati dagli estremisti islamici e di essere uccisi perché non condividono il loro impegno alla violenza. Il previsto rimpatrio è il “più duro abuso politico” nei loro confronti, afferma Robert Kirsch, legale di Belckcem Bensayah, uno dei prigionieri algerini che sta combattendo legalmente per non essere rimpatriato. Svezia: detenuto evade per farsi curare dal dentista, dopo visita si consegna alla polizia Ansa, 30 novembre 2013 Un detenuto svedese è evaso da una prigione per farsi curare un mal di denti e si è poi consegnato alla polizia. L’evasione gli è costata l’allungamento di un giorno della pena. Il prigioniero, 51 anni, è fuggito dal penitenziario di Oestragaard. “Avevo tutta la faccia gonfia, non ce la facevo più”, ha raccontato a un quotidiano spiegando: “da quattro giorni mi lamentavo inutilmente con i responsabili del carcere...”. Ora, ha aggiunto, “mi resta da pagare il dentista”. Fattura inevasa.