Giustizia: le Associazioni; non è un "gesto umanitario", ma favoritismo inaccettabile di Thomas Mackinson Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2013 Il Guardasigilli è intervenuto in decine di altri casi. Ma spuntano casi in cui, sollecitata a un intervento, ha risposto picche. E intanto il numero dei suicidi in cella è cresciuto, una quarantina dall'inizio del 2013: "Non avevano il cognome e il numero giusto". L’affaire Cancellieri-Ligresti innesca la corsa (e la conta) al “gesto umanitario”. Il ministro tenterà di placare la bufera ribadendo in aula di non aver tentato alcun favoritismo per Giulia Ligresti ma di essere intervenuta in quello come in decine di altri casi, come confermano i dirigenti del Dap. Che, sentiti da Repubblica, citano anche un altro caso di detenuto che proprio comune non è, quel Valter Lavitola le cui vicende incrociano quelle di Berlusconi nelle aule di giustizia. Il vice del Dipartimento amministrazione penitenziaria Cascini: “Io non ho fatto proprio nulla. Ho solo detto a Cancellieri ‘ministro stia tranquilla’ la Ligresti è seguitissima. Lei come altri detenuti a rischio, pure per Lavitola ci siamo allertati”. Si schiera con il ministro Avvenire che in un articolo di oggi cita alcuni casi, anonimi per ragioni di privacy, di interessamento a seguito di appelli giunti al dicastero di via Arenula e presi in considerazione dal Guardasigilli attraverso il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Fra questi, c’è “la lettera scritta da R., campano 48enne allocato in una casa lavoro dell’Emilia Romagna in procinto di essere trasferito a Favignana, nel Trapanese, difficilmente raggiungibile dai familiari, che risiedono in Campania. Per evitarlo, il detenuto attua uno sciopero della fame, rifiuta di assumere medicine e scrive al ministro. A metà agosto R. viene trasferito in una casa lavoro in Abruzzo, più vicina alla sua famiglia”. A Ferrara 81enne detenuto morto dopo sciopero della fame. La cronaca rivela però che i gesti umanitari mancati sono la regola, l’interessamento “sollecitato” un’eccezione: non più tardi di quattro giorni fa un 81enne è morto nel carcere di Ferrara dopo uno sciopero della fame. L’uomo, di origini calabresi, era recluso nella sezione sicurezza, separato dagli altri detenuti. “Forse non aveva il numero del ministro”, è la battuta che gira tra volontari e secondini dell’Arginone. Carlo Mazzero, direttore della casa circondariale di Massa Marittima intervenendo a Linea Notte (Rai3) è stato tranciante sul caso Ligresti: “Con 67mila detenuti e 40mila posti abbiamo molti casi di grandissima difficoltà, di vera e propria disperazione, di cui ci facciamo carico. E il telefono, diciamo così, per loro non squilla”. Favero (Ristretti Orizzonti): “Non avrei parlato di gesto umanitario”. Da Padova, Ferrara, Milano le reazioni di chi lavora tutti i giorni a contatto con i carcerati variano dall’incredulità allo sdegno e fino alla rabbia. “Altro che gesto umanitario. Questa storia dimostra ancora una volta che se non hai certi natali puoi morire di stenti in una cella”. Usa parole durissime Ornella Favero, direttore di “Ristretti Orizzonti”, il giornale della Casa di reclusione di Padova e dell’Istituto di pena femminile della Giudecca. “Fossi stata nel ministro non avrei parlato di un gesto umanitario, né liquidato le pressioni sul Dap come un doveroso interessamento per minimizzare le implicazioni della vicenda. Piuttosto avrei ammesso l’evidenza e per salvare una parvenza di dignità avrei aggiunto “vorrei farlo per ogni detenuto””. Il caso del detenuto bibliotecario da Padova a Cremona. Nessun favoritismo, certo. Per il detenuto comune. Ornella Favero lo può testimoniare direttamente. Racconta le difficoltà riscontrate da “Ristretti Orizzonti” su un caso che si è risolto solo pochi mesi fa, a luglio, e che chiama in causa proprio il ministro Cancellieri. “Tre mesi fa si è chiusa l’incredibile vicenda di un detenuto che è anche il nostro bibliotecario, Stefano Carnoli. Da Padova è stato trasferito d’ufficio a Cremona perché il magistrato di Sorveglianza aveva accolto il suo reclamo contro il sovraffollamento ai sensi delle indicazioni della Corte Europea per i diritti umani (stabilisce i 3 metri quadrati come spazio minimo per una persona in cella, ndr)”. Per “rispettare” questo diritto ecco il trasferimento d’ufficio, deciso dal Ministero, in un carcere dove i centimetri erano rispettati, con la brusca interruzione però di un percorso di rieducazione che a Padova andava avanti da tre anni e a Cremona sarebbe stato impossibile. La vicenda ha un epilogo positivo, ma non grazie all’interessamento umanitario della Cancellieri. “Quando a Cremona è stato chiaro che non c’era alcun percorso di riabilitazione possibile si è messa in moto una campagna di sensibilizzazione su vasta scala. La Cancellieri ha risposto che doveva rimanere a Cremona ma che “avrebbe vigilato”. Nel caso dello sconosciuto Carneroli sono stati l’associazione e i giornali. “A fine luglio il Dap decide di fare marcia indietro, optando per una valutazione di ordine realmente umanitario e non burocratica. Ma su sollecitazione di Adriano Sofri e di Corrado Augias che hanno pubblicato le lettere e fatto proprio il suo appello”. Il numero dei suicidi in carcere cresciuto del 300%. Si dice “basito” del comportamento del Ministro Achille Saletti, presidente dell’associazione Saman che nelle carceri svolge attività di aiuto soprattutto alla popolazione di tossicodipendenti. “Quello che è capitato a Giulia Ligresti succede a migliaia di detenuti senza nome che non ricevo alcun trattamento di favore. E il nodo è proprio questo: se è lodevole che il ministro si interessi alle condizioni di un carcerato lo è molto meno che lo faccia nei confronti di uno solo, anche perché la Cancellieri sa che il numero di suicidi in carcere è cresciuto del 300% negli ultimi 10 anni e solo dall’inizio dell’anno se ne contano una quarantina. E non mi risultano telefonate dirette a perorare un trattamento migliore o una qualche soluzione personale”. Il caso Musumeci: “Siamo carne viva immagazzinata”. A volte, invece, non c’è ragione umanitaria che tenga. “La storia di Carmelo Musumeci - ragiona la Favero - è emblematica. Il suo è un caso che dovrebbe smuovere le coscienze e invece dimostra che senza santi in Paradiso non vai proprio da nessuna parte”. Condannato all’ergastolo per omicidio è detenuto dietro le sbarre del Due Palazzi in regime “ostativo” da 20 anni: nonostante abbia fatto passi enormi (si è laureato in giurisprudenza, ha scritto una proposta di legge contro l’ergastolo, collabora con la rivista Ristretti Orizzonti) gli è inibito ogni beneficio penitenziario: zero permessi, semilibertà o affidamento ai servizi sociali sono chimere. Ha scritto a Napolitano proprio nei giorni in cui l’attenzione del Presidente era rivolta alla condanna a un anno dell’ex premier Berlusconi. “Siamo come carne viva immagazzinata in una cella e destinata a morire”, scriveva. Ma nessuna telefonata è arrivata dal Quirinale o dal Ministero della Giustizia. Anche lui, evidentemente, non aveva i numeri. Giustizia: 306 i detenuti suicidi nelle prigioni italiane, in meno di cinque anni di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 2 novembre 2013 Sono 306 i detenuti suicidi nelle prigioni italiane, in meno di cinque anni. Di cui 103 stranieri e 203 italiani. Troppi. Un grave sintomo di un sistema al collasso, che non solo è sovraffollato e congestionato, ma che soprattutto toglie dignità e speranza ai reclusi. Yassine El Baghdadi, 17 anni, è morto il 17 novembre 2009 nel carcere minorile Meucci di Firenze, dove era recluso da tre mesi per un tentativo di furto. Non ce la faceva più e ha deciso di farla finita: nel momento della doccia, ha bagnato e arrotolato un lenzuolo, l’ha legato stretto alle sbarre della finestra del bagno, è salito su una scarpiera, si è legato il lenzuolo al collo, si è lasciato cadere ed è morto impiccato. La sua era una storia di solitudine e disagio: “Se Yassine fosse stato italiano e avesse avuto alle spalle una normale famiglia italiana, non sarebbe mai finito in carcere”, commentarono i volontari di Altro Diritto Onlus, che da dieci anni frequentavano il Meucci. Anche Francesco Pasquini, 77 anni, si è ucciso impiccandosi con un lenzuolo, nel carcere di Lanciano, il 3 febbraio 2013. Yassine e Francesco sono il più giovane e il più anziano tra i 306 detenuti suicidi nelle prigioni italiane in meno di cinque anni, dal 1 gennaio 2009. Di questi, 103 erano stranieri e 203 italiani; 7 le donne, di cui 4 straniere. Secondo l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, i detenuti suicidi sono per la maggior parte giovani: 4 avevano meno di 20 anni, 84 tra 21 e 30 anni, 101 un’età compresa tra i 31 e i 40 anni, 68 tra i 41 e i 50 anni, 34 tra i 51 e i 60 anni, 12 tra i 61 e i 70 anni e 3 oltre i 71. L’impiccagione è risultato il “metodo” utilizzato con maggiore frequenza per togliersi la vita (222 casi), seguito dall’asfissia con il gas delle bombolette da camping in uso ai detenuti (59). Più rari i casi di avvelenamento con farmaci (16), soffocamento con sacchi di plastica (5) e dissanguamento (4). Tutte e 7 le donne si sono suicidate impiccandosi. In quali carceri si è registrato il maggior numero di suicidi (10)? Non a caso, a Sollicciano (Firenze) e Poggioreale (Napoli), che sono anche quelle che soffrono maggiormente il sovraffollamento. I numeri dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere parlano di un forte malessere “al di là del muro”, dove vivono 100 mila persone, tra carcerati e carcerieri. Un mondo in cui dovrebbero farsi strada la rieducazione, la legalità, il rispetto della dignità, per restituire alla società persone libere e responsabili. Per produrre, in definitiva, più sicurezza. Questo è il senso della pena detentiva, il significato imposto dalla Costituzione e dalle successive scelte riformatrici. Eppure, la realtà è lontana anni luce. Il sistema carcere sembra aver gettato la spugna sua possibilità di trattare i detenuti con dignità e di “risocializzarli”. Continua a considerare la chiave il simbolo della sicurezza, ma più sono le mandate, più sale la recidiva. Il carcere “chiuso”, senza progetti di recupero sociale, diventa un “cimitero dei vivi”, ma soprattutto è patogeno e criminogeno: produce il 70% dei recidivi in circolazione. Tutto ciò al prezzo di 116,68 euro al giorno per ogni detenuto. Oggi i detenuti sono quasi 65 mila, negli ultimi 20 anni sono più che raddoppiati Le gravi condizioni igieniche e di vivibilità, peggiorate dal cronico sovraffollamento - 147 detenuti per ogni 100 posti, tra i Paesi del Consiglio d’Europa fanno peggio solo Serbia e Grecia -, hanno trasformato la pena in tortura legalizzata: i cosiddetti ospiti sono costretti a vivere in celle anguste, con infiltrazioni d’acqua, umide, buie; fanno i turni per stare in piedi e sgranchirsi le gambe, mangiano a un passo dal water. In alcuni casi, dormono a terra su materassini di gommapiuma fetidi e rosicchiati dai topi, tra scarafaggi e insetti di vario genere. C’è un dato su cui riflettere. Secondo il Centro Studi di Ristretti Orizzonti, “i suicidi sono cresciuti del 300%” dagli anni Sessanta ai giorni nostri. I motivi? Quarant’anni fa, “i detenuti erano prevalentemente criminali professionisti (che mettevano in conto di poter finire in carcere ed erano preparati a sopportarne i disagi), mentre oggi buona parte della popolazione detenuta è costituita da persone provenienti dall’emarginazione sociale (immigrati, tossicodipendenti, malati mentali), spesso fragili psichicamente e privi delle risorse caratteriali necessarie per sopravvivere al carcere”. Sul tema è intervenuto anche il Papa il 23 ottobre incontrando i cappellani delle carceri italiane. Francesco, raccontando che spesso la domenica telefona ai detenuti di Buenos Aires, ha detto: “È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano liberamente nelle acque”. “Papa Francesco ha ragione, il nostro è un sistema penale classista”, ha commentato Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. “Non è un carcere per ricchi. In carcere troviamo i più poveri, due detenuti su tre fanno parte del sottoproletariato urbano. C’è chi sta dentro perché vende cd contraffatti”. Aggiunge Gonnella: “Nelle galere italiane abbiamo tassi di alfabetizzazione e malattie (Tbc e scabbia) che ci riportano all’Italia del secondo dopoguerra e dimostrano quanto detto dal Papa. Ventidue anni fa, i detenuti erano 31.053. 12 anni fa erano 55.393. Oggi sono 64.798. Il 35,19% è composto da stranieri. Il 39,44% ha un’imputazione o condanna per violazione della legge sulle droghe. Il 53,41% è dentro per reati contro il patrimonio. Solo il 10,2% ha una condanna o un’imputazione di mafia e dintorni. 24.364 detenuti (il 60,45% delle persone condannate) deve scontare una pena residua inferiore ai 3 anni. Sono 647 i detenuti in possesso di una laurea, 22.117 quelli con la licenza di scuola media inferiore, 789 gli analfabeti”. Giustizia: no, non c’è nessuno scandalo di Franco Corleone (Garante dei diritti dei detenuti della Toscana) Messaggero Veneto, 2 novembre 2013 La bufera che si è scatenata contro il ministro della Giustizia Cancellieri per un presunto intervento di favore verso la figlia di Salvatore Ligresti è un frutto avvelenato di quell’incattivimento assai diffuso che vede in sospetto ogni misura che rispetti garanzie e regole dello stato di diritto, soprattutto se rivolte ai potenti caduti in disgrazia. Un ministro della giustizia, quando riceve una segnalazione - da avvocati, amici o sconosciuti non importa - sul rischio che corre un detenuto, ha il dovere di intervenire attraverso l’azione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Sarebbe invece riprovevole se il ministro avesse trascurato altrettanto gravi denunce, privilegiando invece solo questo caso. I garanti dei diritti dei detenuti (può valere come autodenuncia) intervengono frequentemente, con lettere e telefonate ai direttori di carcere o ai responsabili del Dap per far conoscere episodi di ordinaria drammaticità che mettono a rischio la vita e la salute dei detenuti. Non nascondo di essermi rivolto anche ai magistrati di sorveglianza per sollecitare decisioni che non ammettevano ritardi. Il Comitato Nazionale di Bioetica recentemente ha approvato un documento dal titolo eloquente, “La salute dentro le mura”, che denuncia le disfunzioni del sistema sanitario e le drammatiche condizioni di vita delle carceri. La salute è un diritto costituzionale per tutti i cittadini, ma in particolare per le persone private della libertà, perché il loro corpo è nella piena e incontrollata disponibilità dello Stato, con il rischio che si trasformi in arbitrio. Uno scandalo c’è. Ed è il silenzio che si è steso sul messaggio al Parlamento del Presidente Napolitano sulla condizione delle carceri e la ineludibilità di interventi di riforma radicale, non escludendo anche straordinarie forme di clemenza come l’amnistia e l’indulto. E c’è un altro scandalo. La distrazione con cui la politica considera la condanna dell’Italia da parte della Corte europea per i diritti umani per trattamenti crudeli e degradanti. Il nostro Paese ha avuto un anno, fino a maggio 2014, per adottare rimedi sostanziali. C’è poco tempo e l’Italia si avvia dunque con allegra irresponsabilità ad assumere nel giugno 2014 la direzione dell’Unione europea con il marchio dell’infamia per violenza e tortura sistematica. Questa vicenda dimostra un assoluto strabismo. Da una parte abbiamo dati impressionanti sull’eccesso di custodia cautelare e su un numero irrisorio di misure alternative (compresi gli affidamenti terapeutici per i tossicodipendenti); dall’altra la rivolta “morale” per la concessione degli arresti domiciliari per una detenuta, Giulia Ligresti (restituiamo identità personale a una persona in quanto tale e non come parente di qualcuno), colpita da una grave forma di anoressia e con il timore di un ricorso al suicidio. La concessione di questa misura deriva dall’esito di una perizia del 6 agosto, antecedente alla telefonata del ministro Cancellieri al Dap che già per altro monitorava il caso. Il problema che dovrebbe angosciare le coscienze è che dal fondo del pozzo troppe poche voci si levano e si fanno ascoltare: troppi detenuti senza voce parlano solo con il proprio corpo, tagliandosi o cucendosi la bocca. Il rischio di questa sollevazione è che invece di rafforzare i diritti degli ultimi, si consolidi l’assenza dei diritti per tutti. Non voglio cedere alla facile tentazione di vedere trame e complotti. Mi colpisce però che il caso Cancellieri sia esploso alla vigilia di decisioni incisive per aggredire le ragioni del sovraffollamento e per rendere più umana la vita negli istituti di pena. Temo che proprio queste misure si vogliano delegittimare. Se non se ne facesse di nulla, per le carceri potrebbe venire l’ora dell’apocalisse. Giustizia: i confini di un ruolo e le parole inopportune di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 2 novembre 2013 Più delle intercettazioni, a crocifiggere la Guardasigilli amica dei Ligresti è l’autodifesa: che quasi teorizza come il sistema ordinario non assicuri sufficienti tutele dei detenuti diverse da quelle “segnalazioni” che il ministro giura di coltivare sempre “nello stesso modo”. “C’è modo e modo” di esprimere solidarietà ad “amici di vecchia data”: verrebbe da dirlo ad Annamaria Cancellieri usando le sue stesse parole nell’inappropriata telefonata alla compagna di Salvatore Ligresti. La responsabile del dicastero della Giustizia quel 17 luglio scorso stava infatti dicendo “c’è modo e modo” proprio di un arresto appena eseguito, per di più aggiungendo “non è giusto, non è giusto”, “è la fine del mondo”, “sono davvero dispiaciuta”: e lo stava dicendo alla compagna dell’arrestato, padre di altre due arrestate e di un indagato in quel momento ricercato e in seguito latitante, nonché ex datore di lavoro del figlio del ministro uscito dopo un solo anno dal gruppo con 3,6 milioni di liquidazione. Più che farsi inchiodare dal suo amicale “qualsiasi cosa io possa fare tu conta su di me”, il ministro rischia di restare crocefissa alla propria autodifesa: come se tutto il problema si riducesse al fatto che l’aver allertato due vicedirettori del Dipartimento penitenziario non abbia (per sua fortuna) sortito “alcuna interferenza” sul procedimento che poi indusse i pm torinesi di Caselli a prendere atto dei problemi di salute della detenuta Giulia Ligresti attestati da una perizia, a dare parere favorevole agli arresti domiciliari e ad accettare il patteggiamento a 2 anni e 8 mesi. Se negli stessi giorni di luglio la vicenda di Alma Shalabayeva aveva palesato nei “non sapevo” del ministro dell’Interno Alfano l’inadeguatezza alle emergenze del Viminale, ora stupisce che anche l’attuale Guardasigilli mostri una così relativa consapevolezza del proprio ruolo, al punto da non cogliere l’evidente profilo di inopportunità nel momento in cui non frappone il diaframma della sopravvenuta funzione al comprensibile affetto per i vecchi amici: i quali, peraltro, appaiono i primi a poter far equivocare l’interessamento del ministro, vista la raccomandazione che Salvatore Ligresti afferma di aver speso presso l’ancora premier Berlusconi, nell’interesse e su richiesta dell’allora prefetto Cancellieri, in un frangente nel quale a dire di Ligresti ella avrebbe desiderato non spostarsi dalla sede che occupava. E non conta tanto l’attendibilità di Ligresti, tutta da soppesare visto il suo fardello penale, né l’aspro commento proprio all’indomani della telefonata di “dispiacere” del ministro (“Ma non ti vergogni di farti vedere adesso? Ma tu sei lì perché ti ci ha messo questa persona...”) fatto a un interlocutore dalla compagna di Ligresti. Conta invece che la responsabile della Giustizia, nel momento in cui dichiara solennemente che sulla salute della detenuta Giulia Ligresti “non intervenire sarebbe stata una colpevole omissione” ed “era mio dovere invitare il Dap a porre in essere gli interventi tesi ad impedire eventuali gesti autolesivi”, non si renda conto di stare così accreditando una sconfortante ammissione: e cioè di stare teorizzando che l’ordinario sistema penitenziario non appresti sufficienti tutele della salute e degli altri diritti dei detenuti diverse da quelle “segnalazioni” che il ministro rivendica di aver coltivato sempre “nello stesso modo” e “da chiunque fossero inoltrate”. Ma il punto sta proprio qui: nell’accesso all’attenzione del ministro o del suo staff come condizione per l’esercizio o il ristabilimento di diritti. L’hanno avuto i suoi amici nel caso dell’arrestata Ligresti. L’ha avuto chi in altri casi ha trovato il modo di fare arrivare una mail sul tavolo giusto. L’hanno avuto, con la forza dei loro scritti in quello stesso luglio, opinionisti come Corrado Augias e Adriano Sofri per il bene del detenuto-modello trasferito per cieca burocrazia dal carcere dove stava riabilitandosi. Ma “sensibilizzare” la Giustizia non può restare privilegio di chi abbia il numero di telefono del ministro o la ventura di conoscere un giornalista. Giustizia: Cancellieri; vado a Strasburgo a testa alta, bisogna cambiare cultura Adnkronos, 2 novembre 2013 “Abbiamo lavorato molto e andrò a Strasburgo a testa alta a dimostrare che l’Italia è un Paese civile e vuole essere degno della sua tradizione di civiltà”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri nel suo intervento al 12° Congresso dei Radicali Italiani a Chianciano. Il Guardasigilli ha detto che da quando è giunta a via Arenula si è messa al lavoro per studiare un problema che non conosceva: “ho scelto la squadra migliore che c’era sul campo, persone sensibili e serie su questo tema, ho letto libri importanti e parlato con magistrati di sorveglianza. E poi ho visitato le carceri e lì ho trovato insieme l’inferno e il paradiso”. Da un lato le condizioni e le sofferenze dei detenuti in situazioni di grave disagio, comprese molte madri, e dall’altro il paradiso “di un volontariato meraviglioso che lavora al loro fianco”. Bisogna cambiare cultura e sensibilità “C’è un sacco di gente meravigliosa che lavora nelle carceri, un mondo bellissimo da cui prendere spunto per potere cambiare la cultura e la sensibilità. C’è tanta gente pronta a lavorare e a mettercela tutta”. Così il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, nel suo intervento a Chianciano al congresso dei radicali. “In questi 6 mesi - ha aggiunto - abbiamo lavorato molto e ora siamo pronti ad andare a Strasburgo per raccontare cosa l’Italia sta facendo e lo faccio a testa alta perché l’Italia è un paese civile. Il tema delle carceri va affrontato non solo dal punto di vista del sovraffollamento ma per le opportunità di vita e di lavoro che si possono offrire”. Serve “una rivoluzione copernicana, nell’affrontare il problema carceri non solo per il sovraffollamento, ma anche per la possibilità di vita e di lavoro. A Strasburgo dirò che è stato intrapreso un vasto programma, ma bisogna rimuovere le condizioni di detenzione degradanti, come espresso dal più alto livello delle istituzioni del paese. Il Capo dello Stato Napolitano ha inviato un messaggio al Parlamento per invitare i legislatori a considerare la drammatica condizione carceraria e il pronunciamento della corte europea dei diritti dell’uomo”, ha aggiunto Cancellieri. Ligresti: intervenuta in almeno 110 casi analoghi “Sono intervenuta in almeno 110 casi, segnalando al Dipartimento di amministrazione penitenziaria casi analoghi a quello di Giulia Ligresti, cioè casi di detenuti per i quali c’erano questioni particolarmente delicate di salute o motivi umanitari”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, specificando di essere intervenuta presso il Dap anche con “note scritte di mio pugno per segnalare situazioni particolarmente delicate dal punto di vista sanitario o umanitario”. Quello di Giulia Ligresti, arrestata nell’ambito dell’inchiesta Fonsai e poi passata ai domiciliari, quindi, per il titolare della Giustizia non è un caso eccezionale, e il ministro Cancellieri è più che “serena”. Martedì il ministro riferirà in Senato, “pronta a rispondere a ogni domanda”. E, a quanto si apprende da via Arenula, al ministero stanno raccogliendo un dossier che documenta le segnalazioni fatte dal ministro al Dap in altri casi di detenuti che si trovavano appunto in condizioni delicate, per motivi di salute o umanitarie. Giustizia: bene ministro, ma le galere abbondano di detenuti con patologie gravi di Maurizio Gallo Il Tempo, 2 novembre 2013 Siamo totalmente d’accordo col ministro Cancellieri sull’obbrobrio della carcerazione preventiva. E non ci vogliamo accodare a quanti hanno urlato allo scandalo per la promessa d’aiuto della Guardasigilli a una “illustre” detenuta malata. Ma la pietas, come la legge, deve essere uguale per tutti. E nelle sovraffollate carceri italiche i malati abbondano, sono spesso privi di assistenza medica e non hanno possibilità di usufruire di misure alternative, come i domiciliari concessi alla figlia di Ligresti. I radicali sono da sempre i primi a denunciarlo, noi de Il Tempo ne abbiamo parlato in un’inchiesta choc sul degrado delle celle italiane. Gli esempi si sprecano: A.A. è italiano, ha 51 anni, ed è prigioniero due volte, perché sta in cella ed è costretto su una carrozzella. Il suo corpo è scosso da forti tremori. Soffre di “stipsi ostinata” e cistite, porta permanentemente il catetere, non riesce a deambulare e a mantenere la posizione eretta. È “assolutamente incapace” di accudire in maniera autonoma alle più elementari funzioni della vita quotidiana. E le sue condizioni peggiorano giorno dopo giorno. A. A. ha chiesto più volte misure alternative al carcere, ma gli sono state rifiutate. Il secondo: M.C., anche lui italiano, 43 anni, è affetto da “beta talassemia di grado severo”, una malattia ereditaria che comporta forte anemia e non può essere curata con interventi di emergenza come le emotrasfusioni, ma richiede “una continua e approfondita attività di monitoraggio e di intervento terapeutico”. Interventi impossibili in prigione, tanto che solo nei primi due mesi dell’anno scorso M.C., che ha anche patologie come gastrite, duodenite, problemi alla tiroide, ipertrofia ventricolare e bronco-pneumopatia cronica ostruttiva, è stato ricoverato tre volte al Pertini per trasfusioni di sangue. Anche lui resta in cella. Sono due dei numerosi casi, rilevati nel penitenziario romano di Rebibbia Nuovo Complesso, e citati nel IX rapporto della Onlus “Antigone” sulle condizioni di detenzione nel Belpaese. Titolo emblematico: “Senza dignità”. Anche se non esistono dati ufficiali, infatti, molti galeotti sono malati. Nel 2012 - a quanto risulta a Il Tempo - nelle celle ci sono stati 56 suicidi, 1.308 tentativi di togliersi la vita e 97 decessi per “cause naturali”. Di questi ultimi, 8 sono avvenuti nel Lazio, 4 in Abruzzo, uno in Molise. E le cose non sono migliorate quest’anno. “Nelle nostre prigioni vi sono serie difficoltà a garantire diritti fondamentali, come quello alla salute. Il risultato è che, dall’inizio del 2013 nella nostra regione si sono registrati ben 14 decessi - ha spiegato il Garante per i detenuti del Lazio Angiolo Marroni - Cinque suicidi, tre per malattia e cinque per cause da accertare. Quotidianamente riceviamo segnalazioni che riguardano attese di mesi per interventi chirurgici e ogni tipo di prestazione, per non parlare di visite prenotate fuori dal carcere da mesi che saltano all’ultimo momento per mancanza degli agenti che dovrebbero garantire la scorta”. Passando a un’altra regione, La Toscana, si scopre che l’anno passato i detenuti malati superavano il 70%. Le patologie più comuni sono i disturbi psichici (26%), le malattie dell’apparato digerente (19,3%), quelle infettive e parassitarie (12,5), come epatiti e tubercolosi. Frequenti anche problemi ostearticolari, bronco-pneumopatie croniche ostruttive, metaboliche e del ricambio, come il diabete mellito, che dipendono dal tipo di dieta e dall’assenza di movimento, mentre le malattie dell’apparato cardio-vascolare colpiscono classi di età più bassa che all’esterno. Circa il 25 per cento degli “ospiti” dei penitenziari della Penisola, poi, sono tossicodipendenti, e 500 disabili che vivono in condizioni penose. “In un istituto campano c’era un detenuto con emiparesi che piangeva raccontando di come dovesse muoversi strisciando nella cella perché la porta era troppo piccola per fare passare la carrozzella - racconta Irene Testa, segretaria dell’Associazione “Il detenuto Ignoto”. E già avere una carrozzella è considerata una fortuna. Anche nell’ultima visita che ho fatto a Rebibbia, dove esiste un’intera sezione dedicata ai disabili, ho dovuto constatare che mancano gli strumenti per condurre una vita dignitosa e i detenuti dovevano trascinarsi da soli fino al water per fare i loro bisogni. Le malattie più diffuse - continua Testa - sono la scabbia, l’Hiv, la sifilide. Le condizioni igieniche, spesso, sono spaventose e capita che l’amministrazione non ha i soldi per distribuire il sapone o gli stracci per pulire le celle, di conseguenza i detenuti provvedono con i loro indumenti. Qualcuno si è ferito cadendo dal letto a castello, quattro brande una sull’altra per fare entrare più gente nel carcere sovraffollato. A Regina Coeli - conclude Testa - alcuni ragazzi malati psichici si facevano i bisogni addosso nel letto e nessuno li aiutava, se non i loro compagni di cella. I casi di anoressia letale sono frequenti, anche perché ci sono prigioni nelle quali il cibo scarseggia e gli stranieri, che non hanno denaro e parenti in Italia, non possono provvedere in altro modo. E c’è addirittura chei è morto di ipotermia perché non riusciva a proteggersi dal freddo”. Giustizia: Orfini (Pd); intervento giusto, ma deve dirci se fa così per tutti… di Giovanna Casadio La Repubblica, 2 novembre 2013 Matteo Orfini: se uno ha problemi di salute non deve stare in carcere, il punto è capire se ci sono stati favoritismi. “La genesi dell’intervento del ministro Cancellieri è sicuramente opaca. Ma l’intervento nel merito è ineccepibile”. Matteo Orfini, democratico, frena sulle dimissioni, a patto che il Guardasigilli sia in grado di fare piena chiarezza. Orfini, cosa dovrebbe dire la Cancellieri per essere convincente? “Innanzitutto credo che la Cancellieri debba venire al più presto in Parlamento a spiegare i contorni di questo caso. La cosa grave non è l’intervento in sé, perché se una persona ha i problemi di salute che aveva la figlia di Ligresti, ritengo che non debba stare in carcere. Il punto è che la Cancellieri e il Dap devono chiarire se questo tipo di comportamenti avvengono per ogni singolo detenuto che si trovi in una situazione analoga”. Però i poveracci restano in galera. “Lo scandalo non è quello di avere fatto questo intervento per la figlia di Ligresti, bensì se non è stato fatto per tutti gli altri in condizioni analoghe”. Il M5 Stelle ha presentato una mozione di sfiducia, lei non condivide? “La reazione dei 5Stelle è becera, nel senso che non porta a vedere il merito della questione, ovvero che chi soffre di problemi di salute non deve stare in carcere. In questo caso poi, parliamo di custodia cautelare, un problema nei problemi. Le mozioni di sfiducia andrebbero presentate al contrario se non si interviene per i poveri cristi incarcerati per la Bossi-Fini o la Fini-Giovanardi e non perché si tira fuori dal carcere una persona malata, questo sarebbe giustizialismo degno della peggiore destra”. Dalle intercettazioni risulta un rapporto di amicizia intrecciato al lavoro del figlio alla base dell’interessamento del Guardasigilli. “La genesi dell’intervento è sicuramente opaca, ed è uno degli aspetti che la Cancellieri deve chiarire. Ma l’intervento nel merito è ineccepibile, non è che siccome è la figlia di Ligresti deve ammalarsi in carcere. Il comportamento è lecito, il punto è capire se c’è stato un favoritismo, allora sarebbe grave”. Per evitare che il governo traballi si assolve la Cancellieri? “Il primo a essere intransigente sarà il premier Letta, se emergeranno elementi discutibili”. Giustizia: responsabilità magistrati e custodia cautelare, questi veri problemi di Davide Giacalone Il Tempo, 2 novembre 2013 Il ministro della giustizia, Annamaria Cancellieri, si è messa in un brutto guaio. Forse qualcuno ricorda che (1985) il presidente della Repubblica (Sandro Pertini) chiese le dimissioni del ministro del lavoro (Gianni De Michelis), perché quest’ultimo aveva stretto la mano, a Parigi, a un latitante (Oreste Scalzone). Allora la cosa si risolse con una lettera di scuse, in cui il ministro descriveva l’assoluta casualità dell’incontro con una sua vecchia conoscenza. Ammise l’errore. Il ministro Cancellieri, invece, punta alla versione umanitaria: sono intervenuta a proposito di una detenuta in gravi condizioni di salute, come ho fatto anche per altri. Ci sono due cose, in tale linea difensiva, che non vanno. La prima: la famiglia della detenuta è la stessa che aveva assunto e lautamente pagato il figlio del ministro. La seconda: se un detenuto è in cattive condizioni di salute non deve intervenire il ministro (essendo escluso che conosca tutti i casi del genere, ed essendo doppiamente escluso che telefoni a tutti i familiari dei malati), deve provvedere il sistema carcerario, anche dichiarando l’incompatibilità con la restrizione. Forse le converrebbe dire la verità, che dall’esterno sembra piuttosto evidente: avendo un rapporto di amicizia con i familiari dei detenuti in questione (i Ligresti), e forse anche un debito di gratitudine, il ministro, imbarazzata, ha ritenuto non possibile far proseguire il suo silenzio e ha fatto una telefonata di solidarietà a un’amica, quella, comprensibilmente provata, ha invocato aiuto. Fin qui, non mi pare grave. Poi il ministro ha mosso il Dipartimento amministrazione penitenziaria, commettendo un errore del quale farebbe bene a scusarsi in fretta. Altrimenti la faccenda cambia natura e serve a far cadere il governo. Tale, infatti, sarebbe la sorte dell’esecutivo, considerato che la dottoressa Cancellieri non è un ministro qualsiasi, ma chi fu agli Interni, nonché candidata di Scelta Civica per il Quirinale. Il ministro, però, dovrebbe avere la capacità non solo di rimediare ad un errore, ma anche di affrontare la vera questione, che ha rilevanza generale: l’abuso di carcerazione cautelare. Uno scandalo “storico”, che di volta in volta emerge con il caso del Tizio o del Caio, per poi reimmergersi sotto le ondate populiste che reclamano arresti senza processi. Posta la responsabilità politica di entrambe gli schieramenti, da troppi anni si fa finta di non vedere che tale abuso è possibile perché la magistratura distorce la legge e cancella le garanzie. So di sostenere una cosa grave, ma so anche che nessuno è in grado di confutarla. Gli articoli 274 e 275 del codice di procedura penale sono chiari e prevedono la custodia cautelare in relazione a specifici criteri, ove il reato contestato abbia pericolosità sociale; la prevedono come eccezionale, e ancora più eccezionale quella in carcere; stabiliscono le ragioni per cui non può essere disposta (ivi comprese quelle di salute, sempre ricordando che stiamo parlando di cittadini indagati e non colpevoli). Non serve lavorare su questi testi. Sono perfettibili, come tutto, ma quel che dispongono è lampante. Il fatto è che a giudicare è un falso giudice, il gip (giudice delle indagini preliminari), e un falso tribunale (quello del riesame, che per orrore e decenza ha perso la denominazione beffarda di “tribunale della libertà”). Sono falsi perché o dipendono dalle indagini svolte dalla procura, che chiede la misura cautelare e, naturalmente, la motiva considerando ricorrenti tutte le ragioni per privare della libertà (e del patrimonio) dei presunti innocenti, oppure gareggiano con la procura a chi prende il provvedimento più a favore di telecamera. Il ministro della giustizia ha il dovere di sollevare la questione di un sistema in cui sia il magistrato che chiede l’arresto, sia il giudice che la convalida, sia il tribunale che la santifica, nessuno di costoro porta con sé la minima responsabilità dell’avere devastato vite di persone che poi, dopo anni, si dimostreranno essere quel che la Costituzione imponeva di considerarle: innocenti. I politici passati in quel dicastero hanno ripetutamente avuto paura di toccare il problema, sapendo d’essere sotto scacco delle procure. Lo faccia il ministro Cancellieri, tranquillizzandoci sulla sua tranquillità. Giustizia; ma veramente il ministro Cancellieri è ancora lì? di Alessandro Gilioli L’Espresso, 2 novembre 2013 Ma l’avete letta l’autodifesa surreale del ministro Cancellieri? Una manciata di righe in cui non si capisce se sono di più le bugie o le omissioni. Tra queste ultime, è evidente, il fatto di essere da molti anni amica di famiglia del miliardario pregiudicato e pluri-indagato Ligresti, nonché di avere avuto il figlio a libro paga (e che paga!) dal medesimo. Così come quella frase che rivela tutta la complicità tra potenti - “qualsiasi cosa io possa fare conta su di me” - e che testimonia una volta di più come questo Paese si divida in due: chi conosce qualcuno e chi non conosce nessuno. Ma quello che è ancora più incredibile è la faccia tosta nel sostenere di essersi comportata nello stesso modo per tutti i detenuti che nelle carceri compiono atti di autolesionismo o si suicidano: centinaia se non migliaia i primi, che non vengono nemmeno censiti; più di 40 i secondi solo quest’anno, e mancano ancora due mesi alla fine del 2013. Ancora più grottesco è cercare di far passare la propria azione ad personam come un dovere (“non intervenire sarebbe colpevole”), nella convinzione evidente che gli italiani siano tutti idioti con l’anello al naso, che non capiscono la differenza tra un dovere - che per definizione è erga omnes - e un privilegio, che è solo verso l’amico di famiglia, il miliardario potente, il proprietario di mass media. E poi:” Non c’è stata alcuna interferenza con gli organi giudiziari”, dice il ministro. Vedremo, si spera che un’inchiesta lo stabilisca, però curiosamente Giulia Ligresti pochi giorni dopo l’intervento di Cancellieri è uscita di galera (al contrario di altri per cui il ministro non si è attivata). E comunque - se pure fosse vero - sarebbe del tutto ininfluente nel giudizio sul comportamento del ministro: se anche il suo intervento fosse stato finalizzato a dare alla figlia di Ligresti una branda più comoda o una cella più ampia delle altre detenute - quelle figlie di un dio minore - già questo sarebbe abbastanza per far tracimare lo schifo. Il solo tentativo di privilegiare un detenuto sugli altri è di per sé più che sufficiente, per uno che fa il ministro della Giustizia, per togliere il disturbo. Non è che Cancellieri oggi dovrebbe dimettersi: si doveva dimettere già ieri, un minuto dopo che era uscita la verità sul suo comportamento familistico. Qualunque cosa con questo abbia ottenuto. Ha preferito aggiungere al suo pessimo agire una nota piena di omissioni e bugie, prendendoci per i fondelli. Pronto Letta? Renzi? Gli altri? Ci siete? Dite qualcosa? Giustizia: Camera; proposta di relazione Ferranti (Pd) sul Messaggio di Napolitano 9Colonne, 2 novembre 2013 La presidente della Commissione Giustizia, Ferranti (Pd) ha presentato, in qualità di relatrice, una proposta di relazione da inviare all’Aula sul messaggio inviato alle Camere dal presidente della Repubblica sull’emergenza carceri. Il voto dovrebbe esserci mercoledì 6: entro martedì 5 i gruppi potranno infatti presentare modifiche o integrazioni alla proposta della relatrice. La stessa Ferranti ha però tenuto a precisare che il documento è solo un approfondimento istruttorio, una relazione che contiene la situazione attuale delle carceri da una parte e l’iter dei rimedi strutturali e straordinari suggeriti dal Capo dello Stato per ridurre il sovraffollamento penitenziario. “Una simile attività istruttoria - ha concluso la presidente - non può che essere condotta con la massima oggettività e deve trovare il proprio momento di sintesi in una relazione priva di elementi volti ad orientare politicamente l’Assemblea”. Da segnalare in ogni caso che, parlando della necessità, evidenziata da Napolitano, di aumentare la capienza complessiva delle carceri, la Commissione allarga il discorso alla “necessità di recuperare l’intero sistema penitenziario gravemente depauperato in termini di risorse umane ed economiche” a partire dai fondi per il lavoro dei detenuti per finire alle carenze di organico di educatori e agenti di polizia penitenziaria. Quanto ad amnistia e indulto, si sottolinea che i detenuti che devono scontare una pena inferiore a tre anni e che quindi beneficerebbero di un indulto analogo a quello del 2006 sono poco più di 23mila, un terzo dell’intera popolazione carceraria. Ma i reati per i quali si registra una maggiore presenza in carcere sono produzione e spaccio di stupefacenti, rapina, furto, ricettazione, estorsione, violenze sessuali, omicidio volontario e resistenza e oltraggio. Bergamo: contro il sovraffollamento del carcere celle aperte durante il giorno di Luca Balzarotti Il Giorno, 2 novembre 2013 La Casa Circondariale di Bergamo scoppia. I detenuti sono 530. Almeno un terzo è di troppo. Via Gleno non fa sconti. Le sbarre nascondono uno scenario simile a quello bresciano. A Canton Mombello l’estate “aperta” è un ricordo recente. Non fa più caldo, ma la tensione da sovraffollamento è una realtà con cui anche Bergamo si è dovuta misurare. Il direttore della Casa Circondariale è corso ai ripari con un progetto iniziato in questi giorni: tutti i giorni, dalle 8 alle 20, le celle saranno aperte per ridurre lo stress da detenuto. “L’apertura sarà graduale”, spiega Antonino Porcino, che dalla metà degli anni ottanta dirige il carcere bergamasco. Il progetto è stato modellato sulle indicazioni contenute nella circolare del Dap - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - che ha introdotto il “regime aperto”. Otto ore fuori dalle celle per le persone recluse di “media e bassa pericolosità”. Bergamo è andato oltre, regalando altre quattro ore d’aria e un preciso programma di attività che andrà a regime nelle prossime settimane. Le prime a beneficiare della decisione di via Gleno sono state le donne. “Gradualmente - annuncia Porcino - il progetto interesserà l’80 per cento delle sezioni del carcere. Aprire le celle vuol dire offrire ai detenuti ampia possibilità di movimento all’interno della sezione, rispettando alcune regole di convivenza e di riservatezza”. La prima - banale solo all’apparenza - sarà insegnare che “non si entra nella cella di un’altra persona a meno che non sia invitati a farlo”, spiega il direttore della Casa Circondariale. “Come succede nelle case”. Le ore di “regime aperto” saranno un’alternanza di tempo libero e attività. Una palestra necessaria a preparare il detenuto al reinserimento nella società civile dopo il periodo di reclusione. “Non basta svuotare le celle - osserva Porcino - la vera sfida è riempire di contenuti queste ore. Penso ad esempio a un’occasione di festa come può essere la castagnata che abbiamo organizzato per i detenuti con figli. O alle attività scolastiche e ai laboratori che permettono di sviluppare tecnica e creatività”. Il progetto proseguirà fino a maggio e sarà destinato solo alla cosiddetta microcriminalità. “Sarebbe meno difficoltoso attuarlo se il numero di detenuti fosse inferiore”, sottolinea il direttore della struttura di via Gleno. “Indulto e amnistia? Sarebbero una manna dal cielo. Ci consentirebbero di lavorare meglio. Storicamente l’indulto va a incidere sul 30-40 per cento delle presenze”. L’attività di reinserimento dei detenuti nella Casa Circondariale di Bergamo ha già prodotto risultati incoraggianti. Sono 30 i carcerati che beneficiano della semilibertà o che hanno ottenuto il benestare per svolgere lavori di pubblica utilità. Napoli: lo Stato non paga la Comunità e i tossici sfrattati tornano in prigione Dimitri Buffa Il Tempo, 2 novembre 2013 Mancano i soldi per l’affitto? La comunità terapeutica per il recupero dei tossicodipendenti, convenzionata con lo Stato (nella fattispecie la comunità Arcobaleno di Castel Volturno) un bel giorno viene sfrattata dal proprietario che non vedeva la pigione dame-si e tutti i tossicodipendenti in loco che stavano agli arresti domiciliari per curarsi, così come prevede l’unica norma che si salva all’interno della legge Fini-Giovanardi, vengono rispediti in galera con il timbro del Tribunale di sorveglianza di Napoli. Questa storia che ha dell’incredibile è stata raccontata giovedì scorso intorno alle otto di sera in una lunga intervista a Riccardo Arena, il meritevole conduttore di Radio carcere, rubrica bisettimanale che Arena tiene il martedì e il giovedì sera su Radio radicale, da uno degli ex “ospiti” della comunità in questione: il signor Eugenio, un giovane che stava scontando in comunità un residuo pena di oltre 4 anni e sei mesi per reati compiuti nel 2005 quando era tossicodipendente. Pena poi andata definitiva circa sette anni e mezzo dopo. Eugenio si trovava nella comunità sfrattata insieme ad altri 21 giovani, tutti nelle sue stesse condizioni di arresto domiciliare in comunità. Ciri stava lì da mesi come lui e chi da anni. Quasi tutti ormai rinati a una nuova vita dopo indicibili fatiche e sacrifici. Anche dei loro familiari. Poi un bel giorno la burocrazia colpisce: lo Stato, le Regioni, non erogano più soldi per le comunità convenzionate per il recupero dei drogati. I proprietari dei terreni e dei fabbricati pazientano un anno, magari due.. Poi iniziano le procedure di sfratto esecutivo. Totale? Secondo il drammatico racconto del ragazzo, che è stato mandato tre mesi a Poggioreale, dieci in una stanza (ed è stato il più fortunato perché poi almeno ha trovato un magistrato che si prendesse la responsabilità di rimandarlo a casa agli arresti in cura al Sert ndr), i 22 in cura si ritrovano sparpagliati per le carceri super affollate di mezza Italia. E lì ancora si trovano. Lui, Eugenio, che era di famiglia ab -bastanza facoltosa, riesce a ottenere un provvedimento provvisorio del magistrato di Napoli che invece di rispedirlo subito in carcere lo affida per l’intanto a un Sert di Napoli con l’obbligo di controlli bisettimanali sulle urine e con una terapia psicanalitica. Il provvedimento però dopo due settimane non viene confermato dal tribunale di sorveglianza di Napoli, presieduto da Angelica Di Giovanni, magistrato già balzato agli onori della cronaca quando stava per mettere in carcere il giornalista Lino Jannuzzi anni orsono. Poi dopo tre inutili mesi passati in una cella sovraffollata, in un carcere in cui circolava liberamente la droga come in quasi tutte le galere patrie, finalmente un altro tribunale di sorveglianza, stavolta a Santa Maria Capua Vetere, lo ha rimesso ai domiciliari consentendo a Eugenio di continuare a curarsi e a ricostruire la propria vita. Questa vicenda che ha dell’inaudito, anche perché gli altri 21 ricoverati nella comunità Arcobaleno di Castel Volturno sono tuttora detenuti, non la avrebbe conosciuta nessuno se non esistesse Radio radicale e la rubrica Radio carcere. Che ha fatto di più per i detenuti e la giustizia sostanziale in Italia di quanto siano riusciti sinora a fare gli ultimi tre o quattro ministri guardasigilli. Livorno: il nuovo padiglione del carcere delle Sughere sarà funzionante a gennaio di Carlo Fantoni Il Tirreno, 2 novembre 2013 “Il nuovo padiglione delle Sughere è pronto. Entro l’anno il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria lo consegnerà alla direzione, ed entro gennaio sarà funzionante”. A distanza di due anni dalla chiusura delle due sezioni che portarono al trasferimenti di trecentocinquanta persone, Marco Solimano, garante dei detenuti, ha annunciato questa svolta tanto attesa per la casa circondariale livornese ieri pomeriggio, di fronte ai componenti della commissione Politiche Sociali. Verso la normalità. “Con la destinazione della struttura alla media sicurezza, che sembra ormai certa - commenta Solimano - la vita in carcere potrà normalizzarsi”. Durante l’esposizione Solimano racconta che “i carcerati ospitati nella struttura sono centosessanta. In alcune celle vivono anche quattro persone. La media è di tre metri quadrati a testa quando i regolamenti ne stabiliscono sette”. E poi: “Con la nuova struttura aumenteranno anche gli spazi per la socialità, le energie positive portate dalle associazioni potranno trovare collocazione. Ma l’importante è che ai detenuti livornesi si potrà così garantire il loro diritto a stare vicino agli affetti e alla cura degli affari legali. Oggi se un livornese viene arrestato può finire anche fuori regione”. Niente padiglione femminile. Ma c’è anche una nota dolente. “Purtroppo non credo che sarà contemplata la riapertura di un padiglione femminile”, aggiunge il garante dei detenuti che annuncia anche altri cambiamenti che consentiranno di migliorare la vita all’interno delle Sughere: “Sono terminati i lavori di ristrutturazione delle celle dell’ufficio matricole con l’aggiunta di sei nuovi vani”. Gli spazi per l’orientamento. Questi nuovi spazi avranno una valenza molto rilevante. “È importante - riprende Solimano -perché serviranno per l’orientamento verso coloro che affrontano la prima carcerazione, che non saranno così mandati subito nei reparti, e per i detenuti che hanno incompatibilità con altri che si trovano già all’interno. Mentre nello spazio liberato dall’attuale ufficio matricole verrà approntata la nuova infermeria”. Nuovi percorsi lavorativi. Ma le novità riguarderanno anche la vita fuori dal carcere: “A breve l’amministrazione comunale firmerà un protocollo d’intesa con il Ministero di Giustizia per aprire nuovi percorsi lavorativi per soggetti volontari che dimostrino la volontà di risarcire la società per le offese arrecate”. Carceri: Sindacato, allarme pidocchi al Bancali di Sassari Nicotra (Osapp), evitato contagio di massa grazie a direzione (ANSA) - SASSARI, 2 OTT - Allarme pidocchi nel carcere di Sassari “Bancali”. A lanciarlo è il segretario generale aggiunto dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma Polizia penitenziaria), Domenico Nicotra, che rende nota l’ennesima disavventura riconducibile all’ingresso in istituto di un detenuto italiano infestato da pediculus humanus capitis (pidocchi). Solo grazie all’azione della Direzione e dal comandante del Reparto è stato possibile evitare un contagio di massa. “Infatti - ha sottolineato Nicotra - a causa dell’inspiegabile assenza da parte della competente Asp di idonea profilassi solo l’immediato, ed autonomo, intervento dell’Amministrazione penitenziaria locale, che ha provveduto all’acquisto delle medicine necessarie assieme al preventivo isolamento sanitario, è stata scongiurata l’emergenza sanitaria”. “Se adesso - ha aggiunto il sindacalista dell’Osapp - oltre ai problemi di carenza di organico e di risorse economiche dell’Amministrazione bisogna fare i conti con le lacune della Sanità pubblica è innegabile che il destino delle patrie galere abbia toccato il fondo”. Torino: Cerutti (Sel); alle Vallette nessun favoritismo, ma tanto sovraffollamento Agi, 2 novembre 2013 “Possiamo affermare con convinzione che a Torino non vi è alcun favoritismo nel trattamento dei detenuti: dietro le sbarre le persone sono tutte uguali e il sovraffollamento rende le loro condizioni di permanenza nella struttura piuttosto pesanti”. Così l’esponente piemontese di Sel Monica Cerutti, che riferisce che “recentemente abbiamo voluto visitare la Casa Circondariale di Torino per constatare di persona le condizioni in cui versano tutti i detenuti. In particolare - spiega - abbiamo affrontato queste problematiche in un braccio della sezione femminile, con le detenute e la stessa Jonella Ligresti. Abbiamo riscontrato come quelle celle fossero al completo, offrendo a tutte le detenute, compresa la Ligresti, uno spazio angusto per 22 ore al giorno, essendo solo due le ore d’aria”. Secondo quanto riferisce Monica Cerutti al momento della sua vita nel carcere torinese, i detenuti erano complessivamente 1.540, di cui 783 italiani e 757 stranieri. Le donne 133, due delle quali con tre bambini. “In totale - aggiunge - la Casa circondariale di Torino potrebbe ospitare 1.139 detenuti: al momento della nostra visita vi erano 401 detenuti in più, pari circa a un sovraffollamento del 33%”. “L’affaire Cancellieri - prosegue Cerutti - rischia di gettare ombre pressanti sul sistema penitenziario piemontese ed è per questo che la ministra deve chiarire al più presto e senza appello in che modo il suo intervento può aver inciso sulla decisione di concedere i domiciliari a Giulia Maria Ligresti. In un momento tanto delicato per il sistema carcerario italiano non si può insinuare nella popolazione il dubbio che possano esistere detenuti di serie A e detenuti di serie B”. “La ministra - conclude - martedì in Senato chiarisca la sua posizione in merito alla questione Ligresti perché ne va della credibilità del sistema penitenziario piemontese, ma nel minuto successivo il Governo ci dica come intende muoversi per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri”. Teatro: premio della Critica Teatrale 2013 a “Passi sospesi” di Michalis Traitsis di Giuseppe Barbanti La Nuova Venezia, 2 novembre 2013 “Passi sospesi” si intitola il progetto, diretto da Michalis Traitsis di Balamòs Teatro, mirato ad avvicinare alla esperienza teatrale i detenuti degli Istituti Penitenziari di Venezia. Per l’attività svolta da pedagogo, formatore nonché regista nella realtà lagunare avviando sin dal lontano 2006 questo progetto Michalis Traitsis riceve oggi venerdì 1 novembre nel Teatro Paisiello di Lecce il prestigioso premio della Critica Teatrale 2013 assegnatogli dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. Dopo l’encomio della Presidenza della Repubblica della scorsa primavera , arriva un altro importantissimo riconoscimento per il progetto teatrale “Passi Sospesi”, portato avanti da Traitsis nella Casa di Reclusione Femminile alla Giudecca , e nella Casa Circondariale Maschile di Santa Maria Maggiore. In questi anni sono stati allestiti e rappresentati , sotto la direzione del regista greco, con il coinvolgimento di detenute e detenuti gli spettacoli “Storie Sconte”, “Vite Parallele”, “Eldorado”, “storie italiane”, “Le Troiane”, “Appunti Antigone” Michalis Traitsis dal 2006 conduce intensi laboratori teatrali presso le carceri cittadine, , curando l’organizzazione in altre realtà di progetti pedagogici specifici che prevede laboratori teatrali misti tra studenti e detenute/detenuti. Nel 2012 è stato firmato un Protocollo d’Intesa tra il Teatro Stabile del Veneto, gli Istituti Penitenziari di Venezia e Balamòs Teatro che prevede una collaborazione con artisti ospiti del Teatro Stabile del Veneto presso gli Istituti Penitenziari di Venezia, per condurre incontri di laboratorio e ideare progetti pedagogici specifici in collaborazione con il Teatro Goldoni . Peraltro nell’ambito del progetto teatrale “Passi Sospesi” sono già stati invitati registi, attori, musicisti, coreografi, designer, a collaborare negli allestimenti degli spettacoli e a condurre incontri di laboratorio: si ricordano, particolare ,Elena Souchilina, Carlo Tinti, Roberto Mazzini, Stefano Randisi, Enzo Vetrano, Cèsar Brie, Fabio Mangolini, Maria Teresa Dal Pero, Pippo Delbono, Giuliano Scabia, Antonio Albanese e Alessandro Gassmann, il direttore dello Stabile che vi tornerà a dicembre. Motivazione Premio a Michalis Traitsis Si apprezza da sempre e moltissimo il lavoro di Michalis Traitsis, come artista innanzi tutto, come presenza registica capace di consegnare competenza e infondere fiducia in chi lavora con lui, ma anche per il modo rigoroso, colmo d’infinite attenzioni, con cui accudisce ogni cosa, i nodi essenziali, i passaggi principali, e contemporaneamente tutti i più piccoli particolari. Altrettanto rigorosa è la sua cura per Balamòs Teatro del Progetto teatrale “Passi Sospesi”, attivo dal 2006 presso gli Istituti Penitenziari di Venezia (Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore). Oltre all’allestimento di spettacoli teatrali (ricordiamo ancora la forza della forma e dell’agire poetico delle dieci donne che hanno interpretato nel 2011 e 2012 alla Giudecca Le Troiane di Euripide, tragedia sull’elaborazione del dolore al femminile) Traitsis sta promuovendo in carcere un’intensa attività di pedagogia teatrale, anche in collaborazione con il Centro Teatro Universitario di Ferrara, ospitando registi e attori teatrali per condurre incontri di lavoro con detenuti e detenute. Solo per citarne alcuni, ricordiamo nomi che vanno da Davide Iodice a Enzo Vetrano e Stefano Randisi, da Cèsar Brie a Pippo Delbono, da Giuliano Scabia a Alessandro Gasmann, fino a Judith Malina, incontro quest’ultimo su “Antigone”, che resterà certamente tra gli eventi più preziosi di quest’anno teatrale. Feconda anche la collaborazione con la Mostra Internazionale del Cinema di Venezia che ha permesso la realizzazione di altri appuntamenti con Abdellatif Kechiche, Fatih Akin, Mira Nair, Gianni Amelio, Antonio Albanese, anche questi documentati in video dalle immagini di Marco Valentini, testimone consapevole e appassionato, uno dei tanti qualificati collaboratori dei quali Traitsis ha saputo avvalersi. Immigrazione: nuova protesta nel Cie di Gradisca, incendio nelle stanze Ansa, 2 novembre 2013 Un nuovo episodio di protesta è avvenuto nella serata di ieri nel Cie di Gradisca d’Isonzo (Gorizia). Gli immigrati hanno dato fuoco alle stanze risparmiate dall’incendio di mercoledì scorso, rendendo di fatto completamente inagibili gli spazi coperti della struttura. Due immigrati, lievemente intossicati, sono stati trasportati al Pronto soccorso di Monfalcone. Gli altri ospiti sono stati portati nelle aree all’aperto del centro e hanno annunciato di voler dare vita a un nuovo sciopero della fame e della sete. Manconi: il Cie di Gradisca va chiuso Il presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, Luigi Manconi, ha presentato un’interpellanza urgente al ministro dell’Interno per avere notizie su quanto sta avvenendo nel centro di identificazione ed espulsione di Gradisca d’Isonzo (Gorizia). Negli ultimi giorni, riferisce una nota, nuovi disordini si sono verificati al Cie, dove sono attualmente 66 gli stranieri presenti, tutti concentrati nella cosiddetta zona rossa, essendo il resto della struttura non agibile da mesi per lavori di ristrutturazione. La notte tra il 30 e il 31 ottobre scorso alcune persone trattenute sono salite sul tetto dell’edificio mentre altre hanno bruciato materassi e danneggiato le stanze per protestare contro le condizioni di vita all’interno della struttura. Cinque delle otto stanze erano state dichiarate inagibili giovedì. Ieri notte, rileva ancora la nota, ancora proteste e danneggiamenti che hanno portato alla chiusura delle stanze rimaste. “Quanto è successo nelle ultime ore - afferma il senatore Luigi Manconi - dimostra come il Cie di Gradisca sia la manifestazione più drammatica della inefficacia di questi posti: condizioni di vita disumane e tensione altissima che si contiene con difficoltà. Quindi va chiuso al più presto. Io stesso, con una delegazione della Commissione per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, il 10 settembre scorso mi sono recato in visita al centro, riscontrando numerose criticità nelle condizioni di vita delle persone lì trattenute”. “Alla luce di questo ennesimo episodio - conclude - torno a chiedere al ministro dell’Interno Angelino Alfano di affrontare con urgenza e alla radice la questione dei Centri di identificazione ed espulsione e di riconsiderare l’intero sistema di gestione dell’immigrazione nel nostro Paese”. Torrenti (Regione). a Gradisca gesti drammatici e inutili “Questi gesti volontari da parte di alcuni trattenuti, che si verificano soprattutto nei fine settimana non fanno che peggiorare le condizioni già drammatiche di tutti gli altri e sono anche inutili”. Lo afferma l’assessore all’immigrazione del Friuli Venezia Giulia, Gianni Torrenti, che segue la vicenda delle proteste nel Cie di Gradisca d’Isonzo. “Inutili - prosegue Torrenti - perché è ormai maturata la consapevolezza dell’Amministrazione regionale, ma anche nella società civile, della necessità di affrontare alla radice il problema e si sta già esercitando una forte pressione per rivedere l’intero impianto dei Cie”. Secondo quanto riferisce Torrenti, i danni provocati alla struttura, in particolare dagli ultimi incendi, costringono i trattenuti a vivere in due sole stanze: “Purtroppo la situazione potrà normalizzarsi non prima di lunedì, con la bonifica delle zone interessate dagli incendi e anche grazie al trasferimento di alcuni trattenuti in altre strutture”. Polonia: riconosciuto lo status di “parte lesa” a un detenuto di Guantánamo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 novembre 2013 Walid Mohammed bin Attash, un cittadino yemenita che fa parte degli oltre 160 detenuti che si trovano ancora a Guantánamo, è la terza persona cui il Procuratore generale della Polonia ha garantito lo status di “parte lesa”. Si tratta di uno sviluppo assai importante, nell’ambito dell’indagine in corso ormai da cinque anni sul coinvolgimento della Polonia nel programma di detenzioni segrete diretto dalla Cia. Un’indagine che non ha mai brillato per velocità né per trasparenza e che riveste, invece, una grande importanza per mettere in luce le complicità e i comportamenti illegali dei paesi europei nella “guerra al terrore” lanciata dagli Usa all’indomani dei crimini contro l’umanità commessi l’11 settembre 2001. L’indagine, come ricorderanno i lettori di questo blog, ha preso le mosse nel 2008 a seguito delle rivelazioni sulla presenza in territorio polacco, intorno alla metà dello scorso decennio, di un centro di detenzione aperto per conto dei servizi segreti statunitensi. Un fatto che ormai in pochi si ostinano a negare. Secondo la legge della Polonia, una “parte lesa” può chiedere visione degli atti dell’indagine e contestare sul piano giudiziario l’eventuale decisione di non fornire documentazione che la riguardi nonché i ritardi nella conduzione delle indagini. Walid Mohammed bin Attash è sotto processo, di fronte a una commissione militare di Guantánamo, in relazione agli attacchi dell’11 settembre 2001. L’uomo è stato catturato in Pakistan nel 2003. Il 6 settembre 2006 l’ex presidente statunitense George W. Bush ha dichiarato pubblicamente che gli Usa avevano diretto un programma di detenzioni segrete, che questo programma aveva riguardato un gruppo di detenuti di “alto valore” e che Walid Mohammed bin Attash era tra questi. Secondo un rapporto confidenziale del Comitato internazionale della Croce Rossa alla Cia, i cui contenuti sono poi stati resi pubblici, tra il 29 aprile 2003 e il 4 settembre 2006 Walid Mohammed bin Attash è stato trasferito da un centro di detenzione segreto a un altro, sempre ad opera della Cia, e sottoposto a tortura. L’uomo ha denunciato alla Procura polacca che uno di questi centri segreti di detenzione era proprio in Polonia. La decisione di conferirgli lo status di “parte lesa” - che ovviamente non attenua le responsabilità che dovessero emergere da un processo ma conferma che la “guerra al terrore” è stata condotta con metodi illegali - sembra oggi dargli ragione.