Giustizia: amnistia subito! azione non-violenta per aiutare il Governo a decidere di Marco Pannella Notizie Radicali, 28 novembre 2013 L'iniziativa nonviolenta, che ha visto la mobilitazione dei radicali e dei familiari dei detenuti davanti alle carceri di molte città italiane, deve necessariamente riprendere avendo come primo interlocutore il Governo in carica. Il solenne messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica dell'8 ottobre scorso ha trovato Camera e Senato distratti, inadeguati, quando non addirittura silenti. Più che di uno sgarbo trattasi di una profonda ferita istituzionale che finora - e sono passati 50 giorni - ha relegato il 1° messaggio del Presidente Napolitano, inviato secondo quanto previsto dall'art. 87 della Costituzione, nel limbo degli affari parlamentari di secondaria importanza. Ora, occorre che il Governo assuma di sé la responsabilità di rispondere adeguatamente a quanto proposto dal Presidente Napolitano nel suo messaggio. Occorre che il Governo che su quasi tutto ritiene di investire il Parlamento con i suoi disegni di legge, indichi i tempi per l'approvazione di un provvedimento straordinario che consenta al nostro Paese di uscire dalla flagrante violazione di diritti umani fondamentali, come sanzionato dalla Corte Edu con la sentenza Torreggiani. Sentenza che deve essere rispettata entro il 28 maggio prossimo con il ripristino della legalità europea e costituzionale italiana. Lo stesso Capo del Dap Giovanni Tamburino ha poco fa dichiarato che difficilmente l'Italia riuscirà a rispettare quanto previsto dalla Corte Edu senza percorrere nell'immediato la soluzione "indicata dal presidente Napolitano" con "interventi di carattere straordinario". L'iniziativa nonviolenta di Marco Pannella, di Rita Bernardini, dei radicali, dei detenuti e dei loro familiari, riprenderà nei prossimi giorni con un appello straordinario rivolto all'intera comunità penitenziaria affinché si mobiliti per dialogare con il Governo al quale si chiederà di fare, in coscienza, ciò che i principi ispiratori dello Stato di Diritto e della democrazia impongono. Nel corso della puntata di "Radio Carcere", andata in onda (come ogni martedì) nella giornata del 26 novembre e condotta da Riccardo Arena, Marco Pannella ha fatto esplicito riferimento alla ripresa della lotta nonviolenta che potrebbe culminare in una Marcia di Natale sull'amnistia che rievocherebbe quella del 2005 quando, con i radicali, marciarono Giorgio Napolitano, Francesco Cossiga, Massimo D'Alema, Don Mazzi e i cappellani di molti istituti penitenziari. Giustizia: Tamburino (Dap); difficile rispettare sentenza di Strasburgo entro maggio Ansa, 28 novembre 2013 Una sentenza quasi impossibile da rispettare, quella con cui la Corte dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l'8 gennaio scorso l'Italia a ridurre la popolazione carceraria entro un anno. "Difficilmente riusciremo a coprire quel gap di circa 10 mila persone in più rispetto ai posti disponibili", ha detto oggi Giovanni Tamburino, capo del Dap, il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, a margine della 18esima Conferenza degli Amministratori penitenziari organizzata dal Consiglio d'Europa a Bruxelles. "Nel 2010 - ha sottolineato Tamburino - abbiamo raggiunto il picco di 69 mila detenuti, oggi siamo a 64 mila, con un'altra diminuzione uguale avremmo risolto il problema". Per riuscirci, il capo del Dap dipinge un percorso a tre tempi. A corto termine la termine la soluzione "indicata dal presidente Napolitano" con "interventi di carattere straordinario, diretti ad una riduzione ragionevole e razionale, tale da non compromettere le esigenze di sicurezza". A medio termine "occorre completare il ciclo di costruzione di nuovi istituti penitenziari" per cui "ci vorranno 2-3 anni" e quindi, contemporaneamente, realizzare "modifiche sulle sanzioni alternative che ci portino più vicini all'Europa". Sì a caserme dismesse, no a isole-carcere Isole galleggianti idea stravagante, caserme interessanti. Un sì alle caserme dismesse, come soluzione per affrontare il sovraffollamento delle carceri, e un no alle isole galleggianti, considerate un'idea "stravagante". Per Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, l'uso delle vecchie caserme "è una cosa interessante", ha affermato a margine della XVIII Conferenza dei direttori delle carceri europee organizzata dal Consiglio d'Europa oggi a Bruxelles. "Già a San Vito al Tagliamento in Friuli - ha ricordato Tamburino - è stato creato un carcere da una caserma con un grande risparmio". Sono stati infatti spesi "poco più di 20 milioni in confronto ai 40 previsti per la costruzione di una prigione nuovà'. Pollice invece verso per le carceri galleggianti in vogo in Olanda. "Se ne parla da 10 anni ed è stata considerata nel nostro paese una soluzione stravagante". Il problema del sovraffollamento colpisce in particolare l'Italia, maglia nera in Europa, mentre altri paesi fanno registrare un trend inverso: in Svezia sono state chiuse recentemente delle prigioni ed in Olanda ci sono più posti che detenuti. Giustizia: si è concluso ieri "Il viaggio di Marco Cavallo nel mondo di fuori" di Stefano Cecconi Ristretti Orizzonti, 28 novembre 2013 Il grande cavallo azzurro di cartapesta (alto quasi 4 metri) che nel 1973 a Trieste ruppe i muri del manicomio di San Giovanni dando il via all'inarrestabile processo di cambiamento e alla Legge 180. Marco Cavallo, diventato storia della libertà riconquistata dagli internati e della possibilità che le persone hanno di realizzare i propri desideri, è rientrato ieri a Trieste. Partito da qui il 12 novembre da Trieste, ha viaggiato in tutta Italia attraverso 10 Regioni: Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Liguria, Toscana, Sicilia, Campania, Lazio, Abruzzo, Emilia Romagna e Lombardia. Ha fatto tappa nei sei manicomi giudiziari e in alcune delle sedi dei nuovi mini OPG. 16 le città che ha toccato in 13 giorni di viaggio per oltre 4.000 km. L'iniziativa, promossa dal Comitato stopOPG e dalle Edizioni alphabeta Verlag con la loro Collana 180 - Archivio critico della salute mentale, ha ricevuto anche la medaglia del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Tre chiari obiettivi nel messaggio di Stop Opg: chiedere la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dire no ai mini OPG o manicomi regionali e chiedere l'apertura di Centri di Salute Mentale h24. Ancora una volta Marco Cavallo ha aperto varchi nel muro del manicomio - oggi degli Opg - che è anche il muro della discriminazione, dei diritti e della dignità negati. Il muro che separa i "folli rei" dalla piena cittadinanza non è ancora abbattuto: per farlo bisogna abolire le parti del codice penale che mantengono separati i destini dei "matti" da quelli dei "sani". Ma si sono aperti due varchi importanti. Il primo a livello istituzionale/nazionale con la possibilità, finalmente, per stopOPG di lavorare con senatrici, senatori e deputati del nostro Parlamento, per correggere la rotta sulla chiusura degli Opg, preferendo alle Rems (Residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza ovvero mini OPG) Progetti Terapeutico Riabilitativi Individuali, con dimissioni e misure alternative alla detenzione (come peraltro già prevede la legge e due sentenze della Corte Costituzionale), cui dedicare i finanziamenti che la legge dispone. Non dimenticando che ciò vale sia per gli internati in Opg e sia per i detenuti in carcere. Il secondo varco è quello che si è aperto nei territori dove è passato Marco Cavallo, facendo incontrare e mobilitare insieme, lavoratrici e lavoratori della salute mentale, cittadini-utenti, familiari, giovani studentesse e studenti, Sindaci e rappresentanti delle Amministrazioni locali. Tutti uniti per affermare che la piena cittadinanza per tutti vuol dire più servizi sociali e sanitari, lavoro, casa, relazioni umane, vera inclusione. Allora la psichiatria diventa un tassello per affermare la salute mentale, parte di un grande mosaico sociale che restituisce diritti e dignità ad ogni persona. Come dimostra la nota diffusa questo pomeriggio dall'Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Milano, Pierfrancesco Majorino che, a seguito del confronto ospitato a Palazzo Reale per salutare Marco Cavallo ha dichiarato che: "La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) deve essere accompagnata da soluzioni rispettose della dignità e dei diritti delle persone. Per questo, anche da Milano, diciamo no ai cosiddetti mini-OPG, che ripropongono la logica dell'internamento. E chiediamo che vengano potenziati i Centri di salute mentale, nei quali sviluppare inclusione sociale, lavorativa e abitativa. Però il Governo deve mettere a disposizione le risorse adeguate, altrimenti tutto ricadrà sui territori che, ancora una volta, verrebbero lasciati soli ad affrontare i problemi in modo emergenziale". Il prossimo giovedì 28 novembre il Comitato stopOpg farà un bilancio di questo "tour" con la Presidente della Camera Laura Boldrini, presentando le proposte per continuare la campagna per l'abolizione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e per il diritto alla tutela della salute mentale. Giustizia: la storia di Patrik Oliora Nnamdi… tre anni in cella per quasi omonimia di Valter Vecellio Notizie Radicali, 28 novembre 2013 Mille e cento in carcere per una C. Più di tre anni, chiuso in una cella per una omonimia… È la storia di Patrik Oliora Nnamdi: il 22 ottobre 2010 viene prelevato dalla Grecia dove vive e catapultato a Roma, rinchiuso nel carcere di Rebibbia, trattato come se si trattasse del peggior criminale. Lui si protesta innocente, dice che le accuse nei suoi confronti sono infondate. Niente da fare, non viene creduto. E così, in attesa di un processo che non viene mai, trascorre giorni e giorni in cella. Fino a quando non viene scarcerato, con tante scuse: sì, è davvero innocente come ha sempre detto… No, non è colpevole di nulla… Ma allora se Patrik è innocente, se non è colpevole di nulla, perché l’hanno preso e portato in Italia senza troppi complimenti, l’hanno chiuso in carcere e ce lo hanno tenuto per oltre tre anni? Risposta: perché si sono sbagliati. Come si sono sbagliati? Che errore hanno fatto? Cercavano Patrick Oliora Nnamdi. Ma attenzione, il Patrick ricercato ha la C tra la I e la K, mentre il Patrik catturato, la C non ce l’ha. Un’omonimia, insomma. E d’accordo, un errore si può fare. Ma qui un innocente è stato tra le sbarre per ben tre anni. Com’è stato possibile? Sì, d’accordo: il nome è simile, una C può sfuggire; e poi entrambi, l’innocente e il ricercato sono nigeriani, l’età pressappoco la stessa… Può insomma capitare un errore, un equivoco… Che sia capitato, non c’è dubbio; che debba capitare è altro discorso. Perché il Patrik innocente protestava la sua estraneità alle accuse, perché non lo si è ascoltato? Non tanto per credergli, solo per farsi venire un dubbio; e magari si potevano comparare le impronte digitali, e anche dare un’occhiata alla fotografia del Patrick ricercato e compararla con il Patrik arrestato. Roba che si risolve in tre ore, e l’equivoco si sarebbe chiarito subito. Ci hanno invece messo tre anni. La terza sezione della Corte d’Appello di Roma ha disposto la scarcerazione del Patrik innocente in fretta e furia. Ora bisognerà vedere come verrà risarcito. Ma esiste poi un risarcimento per tre anni di carcere da innocenti? E ora un’altra storia, quella di un detenuto, C.P. Ha 47 anni, ha trascorso più tempo in carcere che da uomo libero. La prima volta che lo hanno condannato era poco più che maggiorenne, ora sta finendo di scontare la pena nel carcere di Enna, cuore della Sicilia. “Purtroppo”, dice. Come purtroppo? Non è contento di uscire? “È un momento che sogno da anni, ma ogni giorno che passa si trasforma in un incubo. Fuori da qui, infatti, io sono solo e non so dove andare”. Eccolo, dunque, l’incubo di C.P.: il carcere in fondo è una sicurezza; la libertà gli fa paura. Racconta: “Il carcere di Enna tra i tanti che ho girato mi ha ridato la speranza e la fiducia nella vita. Da qualche mese infatti lavoro, con quello che qua dentro chiamano art. 21, pulendo le stanze dell’amministrazione e della direzione. Dopo anni di diffidenza la fiducia che mi è stata data, sia dalla direttrice del carcere che dal capo dell’area educativa, mi hanno ridato forza. La mia vita non è stata facile. Sono stato abbandonato da piccolo e ho trascorso la mia infanzia in istituto, ho lavorato e per un periodo avevo anche aperto una piccola ditta e vivevo con una ragazza di Bergamo con la quale sognavo un futuro migliore. Purtroppo quando sbagli una volta è difficile ricominciare. Per noi è tutto più complicato e spesso la strada più facile è quella di tornare a rubare”. C.P. si trova nel carcere di Enna da 19 mesi: “Qui”, dice, “ho trovato degli operatori che mi ascoltano, che mi hanno guardato, per la prima volta, come un uomo. Lavoro e ho avuto l’opportunità di frequentare la scuola e un corso professionale di computer dove ho imparato tanto. Dentro il carcere sono al caldo, ho un pasto, ho un letto, posso lavarmi. Ma appena fuori? Quando questi cancelli si apriranno io mi troverò davanti al baratro. Non ho un lavoro, non ho una famiglia, non ho soldi, non ho una casa. Io il mio debito con la giustizia l’ho pagato e voglio cambiare vita. Vivo nel terrore perché so già che se nessuno mi aiuterà io in carcere ci tornerò presto. Si parla tanto di carceri sovraffollati, di disumanità, di disservizi, io ad Enna ho ricominciato a sorridere e vorrei poterlo fare fuori, in quella società che oltre che civile dovrebbe essere responsabile dando corso a quel reinserimento di cui tanto si parla. Attraverso le pagine di questo giornale voglio chiedere aiuto perché la vita è bella e non voglio sprecarla dentro una cella di un carcere”. Qualche numero merita di essere ricordato, per inquadrare la situazione generale, che pure non va dimenticata come molti vorrebbero e fanno: la popolazione carceraria conta circa 64.800 reclusi di cui meno di 39.000 condannati definitivamente. Circa 24.600 detenuti sono in attesa di processo di primo grado o di appello o, ancora, di ricorso. A fronte di questi numeri, la capienza regolamentare delle carceri è di 47.615 posti, le celle misurano 12mq bagno compreso e nelle stesse sono detenute da 2 a 4 persone. Secondo l’art. 22 del codice penale, i condannati all’ergastolo dovrebbero trascorrere la notte in celle singole ma, a causa del sovraffollamento, tutto questo non succede. È giusto sapere che, secondo le statistiche, dei 24.600 detenuti in attesa di processo, circa la metà sarà assolta e sicuramente farà causa allo Stato per ingiusta detenzione. Nella relazione del guardasigilli sull’amministrazione della Giustizia del 2011 si legge che lo Stato ha speso circa 46 milioni di euro in risarcimenti nei confronti di persone detenute ingiustamente. Cosa si può e si deve fare. Tutti i discorsi su amnistia e l’indulto auspicati dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dal ministro Anna Maria Cancellieri (che il Governo non ha mai smentito, e da cui non si è mai dissociato) e condivisi da vari esponenti politici si sono arenati, congelati. Gli unici che continuano la battaglia sono i radicali con Marco Pannella, Rita Bernardini, e gli altri dirigenti e militanti impegnati in scioperi della fame e della sete, assieme alla comunità penitenziaria. Conquistato il messaggio del Quirinale alle Camere, ora occorre conquistare l’iniziativa del Governo e il dibattito in Parlamento. Saranno questi gli obiettivi che si cercherà di perseguire nei prossimi giorni e settimane. Nel frattempo il ministro Cancellieri fa sapere che si lavora per una riforma della custodia cautelare che interesserebbe 24.600 detenuti. Un significativo esempio di quello che si può fare, viene da oltre oceano, dal Brasile. Tremila detenuti vivono in carceri senza armi né guardie penitenziarie e con in mano le chiavi delle loro stesse celle. Non evadono, ma rimangono nei centri per scontare la pena lavorando e, una volta usciti, solo un ex detenuto su 10 torna a delinquere. Utopia? Fate voi. Questi comunque sono i numeri di un metodo innovativo di detenzione sperimentato da un gruppo di associazioni brasiliane, le Apac; un metodo ormai adottato ufficialmente dal Governo, per dare respiro al quarto sistema carcerario più popoloso al mondo. Un modello, quello delle Apac, che ha abbattuto il tasso di recidiva fino al 15 per cento, i costi di due terzi, e garantisce ai “recuperandi” - questo il termine che sostituisce la parola “detenuti” nel gergo Apac - condizioni di vita dignitose, pur senza negare gli aspetti legati alla pena e alla detenzione. Nato negli anni ‘70 da un’idea dell’italiano Mario Ottoboni, volontario in Brasile per garantire supporto morale ai carcerati, il metodo APAC è cresciuto e si è affermato a livello internazionale. Grazie al supporto della ong italiana Fondazione Avsi si è esteso in oltre 40 centri riconosciuti in tutto il Brasile ed è stato scelto dalla Commissione Europea - il 26 novembre se ne discute nel corso della più importante piattaforma europea di dibattito sul tema dei diritti umani, gli EDD13 - e dalla World Bank come un esempio da seguire per garantire carceri dignitose. Non si tratta soltanto di un modello di recupero, ma di una modalità alternativa di espiazione della pena, senza alcun coinvolgimento della polizia penitenziaria: sono gli stessi “recuperandi” che hanno in mano le chiavi delle celle e diventano responsabili della sicurezza e delle fughe, in un’ottica di autogestione che ha migliorato sensibilmente le condizioni di vita nei centri. Punto fondamentale è il riconoscimento da parte della persona che ha commesso il reato di aver sbagliato e di voler ricominciare. È il giudice che ha il compito di identificare i potenziali “recuperandi” e di seguirli durante il percorso di compimento della pena e di recupero. Un’inedita alleanza tra associazioni, sistema pubblico e imprese, infine, contribuisce al successo del metodo. Nello stato brasiliano di Minas Gerais, per esempio, una partnership tra Apac e il centro Fiat brasiliano consente ai condannati di confrontarsi con l’economia reale. Giustizia: Berlusconi; per le inchieste in corso non ci sono ipotesi d'arresto Il Velino, 28 novembre 2013 Allo stato della situazione giudiziaria di Berlusconi è "fantascienza la possibilità teorica di essere ora arrestato non avendo più lo scudo dell'immunità". È quanto scrive Luigi Ferrarella a pagina 6 del Corriere della Sera dopo il voto di ieri sulla decadenza di Berlusconi da senatore. "Le esigenze cautelari che in presenza di gravi indizi possono giustificare un arresto, infatti, devono essere anche "attuali": e invece tutti tre i fronti giudiziari aperti sono già cristallizzati o in conclusioni di indagini, come a Bari per l'accusa di aver indotto Tarantini a mentire sul giro di prostitute; o in rinvii a giudizio, come a Napoli l'accusa di corruzione e finanziamento illecito ai partiti per la compravendita del senatore De Gregorio; o addirittura in motivazioni di sentenze di primo grado come a Milano, dove il deposito di quelle del "processo Ruby" a Fede-Mora-Minetti determinerà per forza una indagine su Berlusconi per i casi di possibili false testimonianze o inquinamenti probatori segnalati ai pm dal Tribunale. Nemmeno è realistico che Berlusconi venga arrestato in esecuzione di un cumulo di futuribili sentenze definitive tale da revocargli il beneficio dell'indulto che gli ha abbuonato 3 dei 4 anni di condanna in Cassazione per la frode fiscale sui diritti tv Mediaset, e da fargli saltare l'affidamento in prova ai servizi sociali (o in subordine la detenzione domiciliare) che ha chiesto come misura alternativa al carcere per i 12 mesi di condanna Mediaset sopravvissuti all'indulto. L'affido ai servizi sociali, che il Tribunale di sorveglianza di Milano inizierà a esaminare in aprile, si esaurirà infatti ben prima che arrivino in Cassazione eventuali future sentenze, tanto più che i 12 mesi teorici diventeranno 10 mesi e mezzo grazie ai 45 giorni di sconto della "liberazione anticipata". Da non confondere con i "lavori socialmente utili", l'affidamento in prova ai servizi sociali consisterà nel rispetto di blande prescrizioni accompagnate da qualche ora al giorno di impegno lavorativo nell'ente che l'ex premier sceglierà: non frequentare pregiudicati, non uscire di casa dopo le 11 di sera e prima delle 6 del mattino, non viaggiare all'estero (gli è stato ritirato il passaporto) o di notte, non uscire dalla Lombardia senza autorizzazione per necessità documentate, e non dimenticare di mantenere contatti e relazionarsi con l'assistente sociale designato. Quanto alla revoca dell'indulto a seguito di ulteriori verdetti definitivi, Berlusconi ha sì una condanna di primo grado a un anno per concorso nella rivelazione di segreto dell'intercettazione tra il Ds Fassino e Consorte di Unipol, ma quando arriverà in Appello sarà dichiarata già estinta dalla prescrizione nel frattempo maturata due mesi fa. Farà poi Appello contro i 7 anni del processo Ruby per concussione e prostituzione minorile, e il secondo grado e la Cassazione non saranno definiti prima quantomeno del 2015. Le altre pendenze (le indagini di Bari, Napoli e Milano) sono ancora più indietro, tutte appunto nella fase preliminare o al massimo sulla soglia dell'inizio del primo grado". Giustizia: Bernardo Provenzano al 41-bis nonostante gravissime condizioni di salute di Valter Vecellio Notizie Radicali, 28 novembre 2013 Non si scriverà, oggi, in questa nota, delle vicende relative a Silvio Berlusconi. Ne parlano e scrivono tutti, non c'è bisogno di unirsi al coro. Cercheremo invece di sollevare una questione scandalosa, che quasi nessuno, osa trattare: lo scandalo Provenzano. Proprio lui, il boss di Cosa Nostra, sodale - fino a un certo punto, almeno - di Totò Riina e Leoluca Bagarella. Provenzano, arrestato da tempo, si trova ora sottoposto al regime del 41bis, nonostante le sue conclamate gravissime condizioni di salute. Più volte i radicali hanno sollevato il suo caso. E ora meritoriamente interviene anche l'Unione delle Camere Penali. Una nota, è da prevedere, che sarà in larga misura ignorato. Vediamo dunque di che cosa si tratta. "Ci sono nomi", si legge nel comunicato, "che da soli e più di altri, evocano vicende criminose e gravissimi delitti, cui corrisponde il pianto di molte vittime. Spesso si tratta di persone di cui le sentenze passate in giudicato hanno già tracciato il percorso giudiziario, definendo intrecci e scenari delle loro condotte. Fra questi vi è sicuramente Provenzano che da sette anni è detenuto in uno dei tanti penitenziari di massima sicurezza italiani, dopo oltre 40 anni di latitanza durante i quali si sono svolti diversi processi che hanno definito le sue gravissime responsabilità rispetto ad un fenomeno, quello mafioso, che ha segnato la storia italiana. Le cronache giornalistiche, di recente, sono tornate ad occuparsi ancora di lui, a più riprese, con notizie che coinvolgono aspetti non secondari del trattamento delle persone che sono nelle mani dello Stato. Provenzano è imputato nel processo sulla cd. trattativa Stato/Mafia, ma la sua posizione è stata stralciata perché gli esperti nominati dal Giudice hanno accertato che lo stesso non può validamente partecipare al processo né essere giudicato perché le sue condizioni di salute fisica e mentale non lo consentono. Egli è infatti ormai ridotto ad uno stato quasi vegetativo: affetto dal morbo di Parkinson e da altre patologie si trova costretto costantemente in un letto, nutrito artificialmente, incapace di attendere agli atti più elementari di vita quotidiana. Il suo grave stato psicofisico si è potuto verificare anche attraverso i video ripresi in carcere che, in diverse occasioni, i media hanno trasmesso. L'evidente contraddizione fra il riconoscimento del grave stato di salute dell'imputato, che non gli consente di partecipare validamente al processo, e il suo mantenimento in stato di detenzione, per di più in un regime inumano, non è stata fin qui meritevole di alcuna attenzione, neppure tra coloro che, d'abitudine, si indignano per le violazioni dei diritti fondamentali. Se una Autorità Giudiziaria ha accertato l'irreversibile processo degenerativo fisico e psichico di uomo, al punto da rendere impossibile la sua partecipazione ad un processo, ciò significa evidentemente che egli è incompatibile con ogni forma di detenzione, figurarsi il regime del "carcere duro", di cui all'art. 41 bis dell'ordinamento penitenziario. Un regime che mira a condizionare il comportamento processuale dei detenuti - di cui i penalisti sono tra i pochi a denunciare la vera natura di "tortura legalizzata" - sempre ingiusto anche nei confronti di persone in buone condizioni ma che svela la propria intollerabile natura vessatoria rispetto a chi non è più in possesso delle proprie facoltà fisiche e mentali. Questa situazione, dunque, richiede l'intervento immediato dei magistrati competenti, del Dap, ma anche della Ministro della Giustizia, se veramente si vuole dimostrare di aver voltato pagina rispetto ai diritti dei detenuti, specialmente quelli in condizioni di salute estreme: senza distinzioni, senza discriminazioni, senza privilegi. Non lo impone solo il senso di umanità, o il rispetto delle Convenzioni e della Costituzione, ma anche e soprattutto il fatto che lo Stato deve dimostrare che è proprio il rispetto della legalità a renderlo più forte della criminalità". Calabria: progetto per migliorare le condizioni di salute dei pazienti detenuti www.strill.it, 28 novembre 2013 La Regione Calabria, in partnership con Lombardia e Toscana e l'Amministrazione Penitenziaria, partecipa al progetto proposto dalla Regione Emilia-Romagna "La presa in carico del paziente affetto da patologie complesse negli Istituti penitenziari: profili epidemiologici e contesto ambientale" che è stato approvato dal CCM, Centro Nazionale per la Prevenzione ed il Controllo delle Malattie, presso la Direzione Generale Prevenzione del Ministero della Salute, come primo tra i progetti del 2013. Il progetto, che si svilupperà nell'arco di un biennio - si legge in una nota dell'ufficio stampa della Giunta regionale - persegue la finalità di costruire un profilo della salute delle persone detenute e di quei fattori che possono influire negativamente sulle condizioni sanitarie, in particolare di quelle ambientali, e costruire modelli e strategie d'intervento per migliorarne le condizioni di salute, condivisi tra le Regioni partecipanti e l'Amministrazione Penitenziaria, così come previsto dalla normativa di trasferimento delle funzioni della sanità penitenziaria alle Regioni. Le criticità del contesto penitenziario e le precarie condizioni di salute dei detenuti richiedono lo sviluppo di una complessiva risposta organizzativa che, nel rispetto dei compiti dell'Amministrazione Penitenziaria e delle Regioni, può consentire di produrre indicazioni di carattere generale sulla gestione delle patologie croniche anche alla luce delle significative criticità ambientali che caratterizzano il contesto carcerario. Pertanto rientrano tra le attività del progetto la definizione di un modello condiviso tra le Regioni partecipanti, la raccolta e l'analisi dei dati sulle condizioni di salute della popolazione detenuta, la condivisione tra le Regioni coinvolte di software informativo o software gestionale per la raccolta di informazioni sanitarie individuali dei detenuti, la realizzazione di un report sulle condizioni ambientali sfavorevoli per la salute in alcuni Istituti di pena ritenuti rappresentativi degli Istituti penitenziari di ogni Regione, la definizione profili di salute nelle carceri delle Regioni partecipanti; le stesura di linee guida operative sulla riduzione dei rischi e sulla gestione delle emergenze connesse a problematiche legate alle condizioni di salute dei pazienti, e alle sfavorevoli condizioni ambientali; la realizzazione di percorsi formativi rivolte al personale sanitario e penitenziario, ed infine la diffusione dei risultati attraverso documentazione e momenti di presentazione. "Si tratta di un risultato che accogliamo con particolare soddisfazione- ha dichiarato il Presidente Scopelliti - perché dimostra come la Regione Calabria, sebbene in piano di rientro, sia considerata fra quelle che in questo specifico delicato settore di sanità pubblica possono esprimere attività progettuali e prassi operative condivise con regioni storicamente considerate di punta nell'assistenza sanitaria nazionale". Puglia: "Made in carcere", le esperienze di Lecce e Trani raccontate ai ragazzi www.leccenews24.it, 28 novembre 2013 Le esperienze delle donne detenute nelle carceri di Lecce e Trani, aderenti al progetto "Made in Carcere", sono state raccontante questa mattina ai ragazzi dell'associazione "Salviamo il bianco" presso il Liceo Classico Calamo di Ostuni. Presente anche l'ideatrice del marchio, Luciana Delle Donne. La speranza è sempre l'ultima a morire, soprattutto quando si parla di voler ricominciare da capo. Partire da zero, dagli errori commessi. Riabilitarsi, ritrovare sé stessi. Perché per riacquisire stima da parte degli altri, bisogna anzitutto analizzare il proprio io. A volte però le parole non bastano. A volte, per recuperare quel gap tra la dignità andata persa - o meglio, che si crede di aver perso - e la volontà di gridare al mondo quanto sia bello ritornare alla quotidianità, c'è bisogno di qualcuno abile a farlo comprendere. Il lavoro nobilita. Nobilita dappertutto, ovunque lo si stia praticando. Perfino in carcere. Risiede anche in tali motivazioni il marchio "Made in Carcere" fondato da Luciana delle Donne, che stamattina ha incontrato i ragazzi dell'associazione "Salviamo il bianco", raccontando l'esperienza quotidiana del lavoro da parte delle donne detenute nelle carceri di Lecce e Trani. "il lavoro in carcere: una 2a chance"; così era intitolato il dibattito avuto presso il Liceo Classico Calamo di Ostuni. Luciana Delle Donne ha sottolineato quanto sia "necessario riportare la speranza nei luoghi della sofferenza e che, attraverso questa innovativa esperienza, possiamo dimostrare che fare del bene fa bene: se lavoriamo per un benessere comune è molto più facile essere felici". Gli studenti, incuriositi e affascinati dal tema, hanno posto molte domande a Luciana Delle Donne, spinti dal "mistero" della vita e delle condizioni carcerarie. Presenti inoltre il Presidente dell'associazione "salviamo il bianco", Paolo Pecere ed i giovani Fabrizio Monopoli e Giuseppe Francioso i quali, tra le altre cose, hanno preannunciato l'istituzione di un premio/borsa di studio nei prossimi mesi, rivolto agli studenti delle scuole superiori di Ostuni, grazie ai fondi raccolti con la distribuzione del materiale di "Made in Carcere". Il progetto "Made in Carcere" - Il marchio Made in Carcere nasce nel 2007 grazie all'idea di Luciana Delle Donne, fondatrice di Officina Creativa, una cooperativa sociale non a scopo di lucro. In sostanza, vengono prodotti dei manufatti definiti "diversa(mente)" utili quali borse, accessori, originali e tutti colorati. Sono prodotti "utili e futili", confezionati da donne finite ai margini della società. Manufatti che nascono dall'utilizzo di materiali e tessuti esclusivamente di scarto, provenienti da aziende italiane che credono molto nell'iniziativa e particolarmente sensibili alle tematiche sociali ed ambientali. A venti detenute viene offerto un percorso formativo, con lo scopo di un definitivo reinserimento nella società lavorativa e civile. Non a caso, lo scopo principale del progetto "Made in Carcere" è diffondere la filosofia della "seconda opportunità. Una sorta di doppia vita, tanto per le stesse detenute quanto per i tessuti. Un messaggio di speranza, di concretezza e solidarietà, ma anche di libertà e rispetto per l'ambiente. Napoli: storia di Federico, malato e picchiato fino alla morte a Poggioreale di Irene De Arcangelis La Repubblica, 28 novembre 2013 Né dove né perché. Non si conosce la causa della morte, non si sa dove il giovane si è spento. L'unica cosa che la madre ha visto con i suoi occhi sono stati i lividi che il figlio, quando era ancora vivo, aveva su tutto il corpo. "Lo picchiavano perché chiedeva di aprire l'acqua nel bagno della cella oppure perché non si sentiva bene". Incompatibile con il regime carcerario per i medici degli istituti di Velletri e Secondigliano, Federico Perna, 32 anni, muore a Poggioreale. È successo l'8 novembre scorso. Sua madre, Nobila Scafuro, aveva subito lanciato l'allarme. Troppi punti interrogativi e buchi nella dinamica di quanto accaduto. Soprattutto, troppe risposte mancanti quanto alla salute di Federico e troppe incongruenze con i pareri dei medici che avevano visitato il detenuto. Una storia cominciata e finita male. La madre che viene addirittura a sapere della morte del figlio con una lettera scritta da un compagno di cella. Cella dove vivevano in undici, nel padiglione Avellino. Così la signora segnala la vicenda alla redazione "Ristretti orizzonti", e ieri torna alla carica nella rubrica "Radio Carcere" di Radio Radicale. L'avvocato Riccardo Arena, che cura la rubrica, punta sul problema di salute e sui due referti medici delle carceri di Velletri e di Secondigliano che avevano confermato la diagnosi: Federico era affetto da cirrosi epatica, aveva problemi circolatori e alla coagulazione del sangue. Aveva bisogno di un trapianto di fegato. Le sue condizioni fisiche lo rendevano incompatibile con la detenzione. "In uno dei due referti venivano pure diagnosticati alcuni problemi di natura psicologica, come una sindrome border line", continua l'avvocato Arena. Insomma, una situazione drammatica che mette il punto: Federico non poteva stare in carcere. "Federico - continua Arena - è stato trasferito nel carcere di Poggioreale, il più sovraffollato d'Italia se non d'Europa: i suoi ultimi momenti li ha passati in una cella di undici metri quadrati con altre undici persone. Non era la struttura detentiva dove portare un detenuto nelle sue condizioni". Denuncia la madre di Federico: "Non lo curavano, era imbottito di Valium, Rivotril e di farmaci passati dal Sert. Dormiva sempre e, quando non dormiva, spesso veniva picchiato. Questo non solo a Poggioreale ma anche in altre carceri dove ha soggiornato. Ovunque avvengono questi pestaggi, anche per futili motivi. A mio figlio - continua - capitò perché chiedeva aiuto in quanto non si sentiva bene, oppure perché voleva che gli aprissero l'acqua nel bagno della cella. Lo vedevo sempre pieno di lividi". Infine le ultime ore di Federico piene di misteri. "Le versioni sono diverse, dicono che è morto nell'infermeria del carcere di Poggioreale, di attacco cardiaco e senza la possibilità di essere salvato con il defibrillatore, poi - aggiunge la madre - ci dicono che è morto in ambulanza, poi ancora che è morto prima di essere caricato in ambulanza o addirittura in ospedale, e anche su questo ci hanno nominato più di una struttura possibile. Non sappiamo dove sia morto e il personale del carcere di Poggioreale non ci agevola dandoci le necessarie informazioni - spiega ancora la madre di Federico - quindi non sappiamo neanche dov'è. È stato torturato e ammazzato dallo Stato, così come gli altri morti di carcere a Poggioreale". Ora i familiari attendono i risultati dell'autopsia, che si è svolta giovedì 14 novembre, mentre sulla morte di Federico è stata aperta un'inchiesta con l'ipotesi di omicidio colposo. Napoli: sulla morte di Federico Perna sono state presentate 2 interrogazioni parlamentari www.articolotre.com, 28 novembre 2013 Federico Perna, giovane di 34 anni, di Pomezia, è morto l’8 novembre scorso mentre scontava una pena nel carcere di Poggioreale a Napoli. Una pena che gli è costata la vita. Federico era gravemente ammalato da tempo e aveva bisogno di cure, è deceduto dopo “una settimana a sputare sangue”, come ha riferito in una intervista la madre. Il giovane era detenuto dal 2010, aveva problemi di tossicodipendenza e nel 2004 aveva contratto l’epatite C, presto degenerata in cirrosi epatica. Aveva bisogno e diritto di cura: “Condizioni cliniche generali scadenti, aspetto pallido, trascurato nella cura della persona [...] tale situazione necessitava di approfondimento clinico-diagnostico in ambiente ospedaliero [...] Il carcere al momento non è compatibile con lo stato di salute del detenuto ed è peggiorativo della sua salute”: così si legge in un referto medico datato 2012. In un altro, redatto poco dopo nel carcere di Secondigliano, si legge: “Si ribadisce l’inadeguatezza all’allocazione in una sezione detentiva comune” e si fa riferimento alla mancanza di posti letto nel centro clinico, ragione che avrebbe portato i solleciti del medico ad esito negativo. Federico ha subito persino un ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, nel 2004, è la vittima numero 139 in carcere. Il ragazzo, nelle sue lettere alla madre lo diceva chiaramente: “Mamma, qui mi stanno ammazzando, portami a casa”. La mamma ogni tanto lei lo vedeva con dei lividi, piuttosto messo male e lui le rispondeva, riferisce la madre: “Mi menano le guardie”. Sulla morte di Federico Perna sono state presentate due interrogazioni parlamentari. Varese: carcere dei Miogni addio… e detenuti trasferiti a Busto Arsizio? La Prealpina, 28 novembre 2013 Comunicazione ufficiosa al Comune che è disposto a rilevare gratis dallo Stato il vecchio carcere. Il carcere di Varese è destinato alla chiusura. I detenuti verranno trasferiti a Busto. È una prospettiva già emersa, già discussa e già osteggiata da più parti a livello locale, con l'aggiunta di una presa di posizione, contraria, espressa dalla Regione. Eppure la prospettiva resta, anzi sarebbe qualcosa di più: una decisione presa. Non c'è niente di ufficiale ma martedì 26 novembre il vicesindaco Carlo Baroni, terminata la riunione di giunta in cui è stata deliberata la richiesta di acquisire a titolo gratuito la struttura penitenziaria di via Morandi, ha rivelato che nelle intenzioni ministero c'è la conferma dello smantellamento dei Miogni. "Ci è stata fatta in via informale questa anticipazione". Da chi? Si dice il peccato e non il peccatore. Ma è una voce fondata. Ora, resta da capire quali sarebbero i tempi e le modalità, se si tratta di una prospettiva a medio o lungo termine; di certo sarebbe legata ad adeguamenti del carcere di Busto Arsizio che andrebbe ad assorbire Varese. A rafforzare l'ipotesi della chiusura dei Miogni, il fatto che al Comune di Varese è stato suggerito di inserire la struttura di via Morandi tra le richieste dei beni demaniali da ricevere in "regalo". E infatti sindaco e assessori hanno appunto approvato l'aggiunta dei Miogni all'elenco dei dodici beni (già deliberati la scorsa settimana) che il Comune è disponibile a ricevere, senza spese e senza oneri, dallo Stato. "Per il carcere andremmo ad acquisire gratuitamente la nuda proprietà" ha precisato il vicesindaco Carlo Baroni, che ha le deleghe ai lavori pubblici e al patrimonio. In altre parole: il Comune diventerebbe padrone della casa circondariale ma l'utilizzo lo avrebbe nel momento in cui la struttura dovesse chiudere. Nel frattempo, ogni tipo di spesa legata alla presenza di detenuti resterebbe a carico del Ministero. È chiaro che i Miogni, pur con tutte le lacune che si portano dietro da anni, sarebbero strategici per l'amministrazione locale. Il carcere si trova infatti in un comparto, nel centro cittadino, di cui il Comune è già proprietario della confinante (alle spalle) sede della polizia locale e del contiguo complesso dell'ex Ufficio d'igiene, con in mezzo l'area (sempre comunale) dove sorgerà il nuovo parcheggio multipiano (e lo realizzerà la municipalizzata Avt). Più di così. Si aprirebbero, con l'acquisizione gratuita del penitenziario, ampi scenari. Anche una demolizione. Tra l'altro, si è tornato a parlare negli ultimi tempi di un possibile trasloco dei vigili. Dove? È stata tirato in ballo anche l'ex caserma Garibaldi di piazza Repubblica, qualora dovesse essere sistemata e sfumasse il progetto d'insediare il nuovo teatro. Ma queste sono ipotesi che verranno valutate a tempo debito. Il dato di fatto, oggi, è che i Miogni tornano sulla graticola della chiusura. Benevento: detenuto tenta il suicidio tagliandosi le vene in cella Il Mattino, 28 novembre 2013 L'uomo salvato dagli agenti penitenziari. La scorsa settimana un suicidio nello stesso carcere. Tragedia sfiorata nel carcere cittadino di Contrada Capodimonte. Un detenuto, la scorsa notte, ha tentato il suicidio tagliandosi le vene. Provvidenziale l'intervento degli agenti della polizia penitenziaria accortisi del comportamento autolesionistico dell'uomo, originario del Napoletano, a quanto pare, non nuovo a gesti simili. A renderlo noto l'Osapp, Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria. La settimana scorsa, sempre nel carcere di Benevento, si era tolto la vita un ventinovenne di Taranto, trovato impiccato nella cella, dove era da solo. Teramo: agli "arresti domiciliari" rimane senza casa... e Alì si fa arrestare Il Centro, 28 novembre 2013 In questa Italia condannata dalla Corte Europea "per il trattamento inumano e degradante dei detenuti nelle carceri" si possono ancora strappare storie diverse. Come quella di Ali, 30 anni, tunisino accusato di spaccio. Il giudice gli ha concesso i domiciliari, ma il fratello lo ha cacciato di casa. E allora il giorno dopo Ali è tornato a Castrogno e ad un sorpreso agente ha detto: non so dove andare, mi dovete riprendere. È stato accontentato: il magistrato di turno lo ha fatto arrestare per evasione visto che lui dai domiciliari era effettivamente evaso per... tornare in carcere. Può far sorridere la storia di Ali, come fa sorridere il Totò che nel film di Rossellini "Dov'è la Libertà" racconta il barbiere Lojacono che, uscito di galera dopo aver scontato una condanna per omicidio, passa da un parente all'altro fino a quando, amareggiato e deluso, decide di tornare in carcere. Era il 1952 e Rossellini raccontava l'Italia del dopoguerra: non c'erano le carceri sovraffollate, il futuro era a portata di tutti e il principe de Curtis sapeva far ridere anche con il barbiere Lojacono. Ma Ali non è Lojacono: è un uomo che per pagare il suo debito con la giustizia deve tornare in cella perché la famiglia non lo vuole in casa. E lui, straniero senza patria, non sa dove andare. Può solo rientrare in carcere. Pavia: va a vuoto la ricerca di infermieri per il carcere di Torre del Gallo La Provincia Pavese, 28 novembre 2013 La popolazione carceraria di Torre del Gallo è in aumento. E l'Azienda ospedaliera sta reclutando personale medico e infermieristico per garantire la copertura dell'assistenza sanitaria a un numero maggiore di detenuti. I 5 medici necessari per ampliare i turni ci sono. Stanno invece andando deserte, invece, le chiamate degli infermieri. Ne servono 4. I dirigenti dell'Azienda Ospedaliera stanno passando al setaccio tutti gli iscritti in graduatoria che, puntualmente, declinano. "Ci sono effettivamente problemi nel reclutare infermieri per questo lavoro - conferma Domenico Mogavino, della segreteria provinciale Cisl - . Sappiamo che quando viene resa nota la sede di lavoro i convocati preferiscono rinunciare. È una cosa che stupisce anche noi del sindacato, in tempi di crisi come questi". Chi già lavora, anche come precario, in una cooperativa o in una rsa, non accetta la sede in carcere. Uno stipendio medio di 1200 euro al mese. "Eppure è un incarico destinato a essere stabilizzato - dice Mogavino -. Forse andrebbero previsti degli incentivi". L'azienda ospedaliera ha predisposto 243 ore supplementari di presenza di medici al mese oltre a 90 ore supplementari per lo psicologo. "Stiamo predisponendo una proposta per la Regione, per la gestione della sanità in carcere" dice Danilo Mazzacane, della dirigenza medica Cisl. Milano: agente aggredito da un detenuto nell'Ipm "Cesare Beccaria". Ristretti Orizzonti, 28 novembre 2013 "Nella mattinata di ieri un minore zingaro, ristretto presso l'I.P.M. Beccaria di Milano ha chiesto ripetutamente sigarette all'agente di sezione ed ha perfino cercato di mettergli le mani in tasca per prendergli il pacchetto. L'agente, con i dovuti modi, vista la patologia psichiatrica del soggetto, non gli ha dato le sigarette e alcuni istanti dopo, mentre stava richiamando altri minori dall'ora d'aria, è stato preso a pugni in faccia. Immediatamente è intervenuto l'altro agente di sezione che ha fermato il minore e dato ausilio al collega, il quale è stato accompagnato al pronto soccorso del nosocomio cittadino, ove gli hanno dato una prognosi di 10 giorni". A darne notizia è Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe che esprime "vicinanza e solidarietà" al poliziotto ferito. "Il soggetto, in misura di sicurezza non condannato per vizio totale di mente. e quindi incapace d'intendere e volere, è stato assegnato per aggravamento della misura dopo essere scappato dalla comunità presso l'Ipm Beccaria. Pur avendo dubbi sulla legittimità del provvedimento in quanto dichiarato non compatibile con il carcere non è questo che il Sappe deve rilevare. Numerosi sono i giovani presenti nelle strutture minorili ed il Personale di Polizia Penitenziaria è visto come il nemico da combattere e tutto ciò non può che creare disagio mettendo in continuazione alla prova lo stesso, che spesso si trova ad operare in gravissime condizioni, nonostante la forte pazienza ed elevata professionalità. Gli organi competenti dovrebbero decisamente riflettere in merito a quanto sopra evidenziato e sarebbe opportuno pensare seriamente di trovare un'alternativa per questi detenuti che destabilizzano gli Istituti minorili minacciandone la vera natura trattamentale/educativa. La carenza già più volte segnalata di personale di Polizia Penitenziaria, complica notevolmente le cose e cio' che abbiamo notato negli ultimi periodi è che l'amministrazione, anziché incrementare le unità non ha fatto altro che diminuirle". Sanremo (Im): detenuto accusato di oltraggio, minacce e lesioni a un agente La Stampa, 28 novembre 2013 Pare che il recluso si fosse voluto "vendicare" del fatto che l’agente non gli avesse fatto fare un’ulteriore telefonata ai familiari al termine del tempo consentito. Nell’udienza del 25 giugno l’imputato racconterà la propria versione. Nel carcere di Sanremo in media ogni settimana si verificano tre aggressioni. Sempre più spesso i detenuti mostrano segni di insofferenza nei confronti degli agenti penitenziari. Ieri in Tribunale a Imperia è comparso, accusato di oltraggio, minacce e lesioni, il tunisino Mohammed Bouhoud. L’agente Umberto Mariani era stato minacciato e ferito mentre si trovava con l’imputato. Pare che il recluso si fosse voluto "vendicare" del fatto che l’agente non gli avesse fatto fare un’ulteriore telefonata ai familiari al termine del tempo consentito. Nell’udienza del 25 giugno l’imputato racconterà la propria versione. Milano: Federico Corona chiarisce le condizioni del fratello Fabrizio in carcere di Sebastiano Cascone www.gossipblog.it, 28 novembre 2013 Federico Corona tuona contro il settimanale Oggi che ha pubblicato nell’ultimo numero la notizia del presunto suicidio del fratello Fabrizio, avvenuto lo scorso 19 ottobre nel carcere di Opera. Sulla pagina ufficiale Facebook, il comunicato stampa in formato video: Nel pezzo si fa riferimento al fatto che mio fratello Fabrizio abbia mantenuto un atteggiamento spavaldo e aggressivo dentro alle mura del carcere (“È rimasto un attaccabrighe, estremamente irritabile, rissoso e sempre pronto alle mani”). Tutto questo è falso, infondato diffamatorio. Gli avvocati vanno a trovare quasi quotidianamente Fabrizio e ci riassicurano che Fabrizio possa compiere un gesto del genere. Noi familiari andiamo a trovarlo ogni settimana e monitoriamo le sue condizioni. Siamo indignati per lo sciacallaggio mediatico di cui mio fratello è vittima. Un attentato alla dignità di un uomo che, da undici mesi sta scontando la pena a testa alta, affrontando le sue sofferenze, senza mollare un centimetro, figuriamoci se pensa di togliersi la vita. Da quando è rinchiuso sta comportando come un detenuto modello e ha un rapporto civile con gli altri detenuti. Ora verranno presi tutti i provvedimenti legali. Lo stesso magazine diretto da Umberto Brindani ha pubblicato la lettera di smentita degli avvocati: Dopo la pubblicazione della notizia sul settimanale Oggi, ci scrivono gli avvocati: “Egregio Direttore, nella nostra veste di difensori di Fabrizio Corona non possiamo non intervenire a proposito dell’articolo intitolato “Quel gesto disperato del detenuto Corona” apparso sul settimanale Oggi, da Lei diretto in data odierna (n. 49/2013) a pagina 42. Le notizie riportate in tale articolo sono assolutamente non corrispondenti alla verità. Non è vero che Fabrizio Corona abbia posto in essere un “gesto disperato”; non è vero che si sia coperto naso, bocca ecc.. con cerotti di tela; non è vero che sarebbe finito alcuni giorni in infermeria a causa di ciò. Allo stesso modo non corrisponde alla realtà che il trasferimento ad Opera si sarebbe reso necessario per “risparmiargli la ritorsione di altri detenuti a seguito di un suo presunto litigio”: la ragione è tutt’altra, e legata semplicemente alle esigenze dettate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Analogamente non è corrispondente alla realtà che Fabrizio Corona abbia un cattivo rapporto con gli altri detenuti e con gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Opera, né tantomeno che sia venuto alle mani con qualcuno di costoro. Per quanto ci consta è esattamente il contrario. Fabrizio Corona sta fisicamente e moralmente come può stare un detenuto, ossia con i comprensibili disagi che tale situazione comporta, ma senza “gesti disperati” e atteggiamenti aggressivi verso chicchessia. Considerata la situazione giudiziaria complessiva del nostro assistito e la sua condizione detentiva, considerata altresì la sua grande notorietà, La invito a pubblicare la presente per smentire le notizie apparse che hanno arrecato e possono ancora arrecare grave pregiudizio al signor Fabrizio Corona e che hanno inutilmente allarmato tutte le persone che lo conoscono e gli vogliono bene. Con riserva di tutelare gli interessi del nostro assistito nelle competenti sedi giudiziarie. Distinti saluti, Avv.to Ivano Chiesa e Avv.to Gianluca Maris”. Saronno: maxi striscione per la liberazione dei due marò detenuti in India www.varesenews.it, 28 novembre 2013 Azione notturna in piazza Santuario rivendicata dal gruppo “Campo Base”: “L’amministrazione comunale e il consiglio non hanno espresso alcuna solidarietà fino a oggi”. Solidarietà ai marò, con un maxi striscione per chiedere la liberazione dei due uomini trattenuti in India. Il grande manifesto con la scritta “Liberati i leoni di San Marco”, è stato affisso sull’ingresso del Palazzo dell’Insubria, in piazza Santuario, ed è stato rivendicato dal gruppo “Campo Base”. Sul posto anche un volantino che spiega la motivazione del gesto: “I militanti di Campo Base hanno voluto esprimere la massima solidarietà ai due Marò ingiustamente detenuti in India. Sabato scorso i famigliari dei due fucilieri di marina detenuti hanno organizzato una manifestazione a Roma, anche gli aderenti saronnesi di Campo Base con uno striscione con la frase: “ Liberate i Leoni di San Marco”, si sono voluti idealmente unire al corteo nazionale. Segnaliamo che l’Amministrazione e i partiti tutti non hanno promosso nessun azione di solidarietà verso i soldati imprigionati. Non bastano due righe a Loro dedicate dal Sindaco nel discorso tenuto per la commemorazione del 4 Novembre. Lo striscione è stato volutamente apposto all’entrata del consiglio comunale in piazza Santuario. Consiglio Comunale che avremmo voluto venisse dedicato a Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Sicuri di aver espresso il sentimento di solidarietà della parte migliore della Nostra città, non smetteremo di affiggere lo stesso striscione nei luoghi simbolo di Saronno fino alla liberazione dei due Marò”. Bologna: "Sport in carcere", progetto-pilota di Coni e Ministero della Giustizia di Fabio Casadio (Presidente Uisp Bologna) Ristretti Orizzonti, 28 novembre 2013 L'Uisp di Bologna da oltre trent'anni lavora all'interno degli istituti penitenziari cittadini (Casa Circondariale e Istituto Penale Minorenni) promuovendo l'attività motoria alle persone ristrette. Il 31 Ottobre scorso è stato firmato un protocollo tra il Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria della Regione Emili Romagna e Uisp - Unione Italiana Sport Per Tutti (livello nazionale e regionale). Già attivo da parecchi anni il protocollo di intesa anche con il Ministero della Giustizia e la Uisp nazionale. Assicurare a tutti, nessuno escluso, un percorso di sport e benessere è l'obiettivo statutario del nostro Ente, per questo il nostro impegno raggiunge la popolazione carceraria da alcuni decenni. Molte le discipline proposte: calcio, fitness, yoga per citarne alcune. Si è concluso la scorsa settimana il torneo di calcio che Uisp ha organizzato presso la Casa Circondariale, ma quotidianamente vengono assicurati interventi da parte di operatori qualificati nelle sezioni penali, giudiziario e femminile. Restiamo a disposizione per questa novità del mondo del Coni, vista la nostra attiva presenza all'interno dell'Istituto Penitenziario cittadino. Nel corso della nostra esperienza abbiamo potuto verificare la valenza positiva della pratica motoria e sportiva proposta a soggetti costretti dalla detenzione a lunghi periodi di inattività fisica e scarsamente portati al rispetto delle regole. Abbiamo quindi costruito un progetto (condiviso con l'equipe educativa) che prevede interventi quotidiani nei bracci segnalati dalla Direzione carceraria. Abbiamo la volontà di inserire il movimento nell'ambito della giustizia come una delle attività principali e trattamentali: per noi sport non è solo tornei e campionati, ma diventa un elemento del progetto di vita delle persone, una ri-educazione alla legalità. Nei momenti più duri, di emarginazione, la pratica sportiva si trasforma in uno degli aspetti della vita quotidiana, che aiuta a mantenere la dignità, trasmette valori di lealtà, rispetto delle regole e dell'altro, contribuisce a rafforzare il rapporto con il corpo e garantisce salute e benessere. Stati Uniti: screening aids obbligatorio per detenuti non migliorerebbe diagnosi Agi, 28 novembre 2013 Una significativa proporzione di persone con Hiv entra ogni anno nel sistema carcerario americano ma tuttavia, secondo un nuovo studio, fare uno screening per Hiv a tutti i nuovi arrivi delle carceri potrebbe non aiutare a migliorare le diagnosi. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Journal of the American Medical Association ed è stata condotta da David Wohl e colleghi della Univesrity of North Carolina. Gli scienziati hanno condotto test su 22.134 carcerati fra il 2008 e il 2009, usando sangue che avanzava dopo i test obbligatori per la sifilide. Nel complesso, l'1,45 per cento risultava positivo all'Hiv. Unendo a questi i dati del N.C. Department of Health and Human Services, si è svelato che il 93,8 per cento di queste persone aveva una registrazione di test Hiv positivo prima dell'incarcerazione. La relativamente bassa prevalenza di diagnosi di Hiv tra coloro che entrano prigione suggerisce, secondo gli autori, che sollecitare uno screening per Hiv dei detenuti in entrata potrebbe non essere giustificata. Stati Uniti: arrestato 1.500 volte in 40 anni per abuso di alcol e condotta molesta 9Colonne, 28 novembre 2013 L'uomo considerato il criminale arrestato il maggior numero di volte al mondo passerà in carcere ancora una volta il giorno del Ringraziamento. Henry Earl, 64enne del Kentucky, è stato infatti imprigionato ben 1.500 volte negli ultimi 40 anni. La maggior parte dei crimini riguarda l'abuso di alcol e condotta molesta. Il primo arresto risale al luglio 1970, nella contea di Lafayette, quando Earl aveva 20 anni. Per la terza volta nella sua lunga esperienza da prigioniero - che conta circa 6.000 giorni "al fresco" - l'uomo trascorrerà in carcere la festa tipica del novembre statunitens Afghanistan: il governo studia una legge che ripropone la lapidazione pubblica di Michele Farina Corriere della Sera, 28 novembre 2013 Frustate e Cherry Berry, locali occidentali e lapidazioni. Giovani maschi nella yogurteria chic appena aperta a Kabul, ragazze al piano di sotto con le famiglie: cartoline dall'Afghanistan della mancata parità tra i sessi. Parità che al ministero della Giustizia afghano stanno pensando di promuovere a modo loro. Aggiornando, si fa per dire, il codice penale. Per il reato di adulterio, la cosa migliore sarebbe lapidare i "colpevoli" sulla pubblica piazza: uomini e donne. Dopo la denuncia di Human Rights Watch, l'ha confermato al Wall Street Journal il direttore dell'ufficio legislativo del ministero, Abdul Raouf Brahawee: il gruppo che lavora alla riforma della giustizia sta valutando la reintroduzione della pena di morte per lapidazione tanto amata dai talebani. "Non c'è niente di strano - dice Brahawee - Lo prevede la Sharia". Detto, quasi fatto: "Non siamo soddisfatti dalla bozza di legge", precisa il direttore. Così l'Afghanistan corre verso il fatidico 2014 (ritiro completo degli stranieri) guardando indietro. "La lapidazione ha un grande significato simbolico in questo Paese: è quasi il marchio di fabbrica del regime talebano" dice al Wsj Heather Barr di Human Rights Watch. E non è l'unico segnale di ritorno al passato: la proposta, sostiene Barr, si inquadra in un più vasto piano per "ritirare" i diritti delle donne salvaguardati (sulla carta) dalla Costituzione. Piano che comprende una recente iniziativa legislativa per diluire in Parlamento la legge sulle violenze di genere. Il prossimo aprile ci saranno cruciali elezioni presidenziali. Pensare a questo piano come a una manovra elettoralistica per conquistare voti non consola, anzi fa ancora più paura. Nelle campagne i costumi non sono cambiati di molto da quando quindici anni fa governavano i talebani. La nostalgia della lapidazione non viene da imam o capi villaggio nelle province più conservatrici, arriva da tranquilli funzionari incravattati al ministero i cui rampolli, la sera, magari affollano i locali occidentali e vanno da Strikers a giocare a bowling. Qualcuno lo dica ai ragazzi e alle ragazze di Kabul che, complici i social network, si danno appuntamento e flirtano da Blue Flame: oltre alle pietre unisex per gli adulteri, la legge allo studio prevede altri rimedi taleban style. Come una dose di frustate (in pubblico) per i single (uomini e donne) che faranno sesso fuori dal matrimonio. Diversi osservatori occidentali a Kabul minimizzano: le autorità si sono impegnate a salvaguardare i diritti umani, se non vogliono perdere gli aiuti economici dall'estero non potranno promuovere il ritorno all'età delle pietre. Egitto: giovani condannate a 11 anni carcere, si dimettono sindacati studenti Aki, 28 novembre 2013 Si sono dimessi in massa i membri dei sindacati degli studenti dell’Università di Alessandria, in Egitto, dopo che 14 ragazze sono state condannate a 11 anni di carcere per aver preso parte a manifestazioni non autorizzate in base alla nuova legge che regola le proteste. “Ci siamo dimessi in segno di protesta per i ripetuti attacchi agli studenti nelle università egiziane e per il verdetto ingiusto emesso nei confronti di alcune studentesse universitarie”, si legge in un comunicato del sindacato studentesco dell’università di Alessandria. Le ragazze condannate ieri per “assemblea illegale e adesione a un gruppo fuorilegge” fanno parte del movimento "7 Elsob (7mattina, ndr)" a sostegno del deposto presidente Mohammed Morsi. Erano state arrestate durante una manifestazione ad Alessandria lo scorso 31 ottobre. La sentenza ha sollevato un coro di critiche. “I giudici non possono emettere sentenze così politicizzate”, ha detto il Partito di Libertà e Giustizia, braccio politico dei Fratelli Musulmani, in un comunicato. Anche la Gamaa Islamiya, che fa parte dell'Alleanza in difesa della Legittimità pro Morsi, ha parlato di “sentenza ingiusta che cerca di terrorizzare i cittadini in modo da evitare che contestino il golpe brutale”. Leader nasseriano Sabahi chiede la grazia per le 14 donne di Alessandria Il leader nasseriano Hamidi Sabahi, ex candidato alle elezioni presidenziali in Egitto, ha chiesto al presidente Adli Mansur un provvedimento di grazia per le 21 ragazze condannate ieri dal tribunale di Alessandria, 14 delle quali a 11 anni di carcere mentre le altre, minorenni, alla libertà vigilata, per aver manifestato in favore dei Fratelli musulmani e contro il governo. In un tweet Sabahi ha chiesto "al presidente Mansur di usare le sue prerogative di capo di stato ed emettere la grazia per le 21 ragazze che fanno capo ai Fratelli musulmani". Anche Sabahi critica il provvedimento, in particolare adottato contro le minorenni, pur ammettendo che "hanno compiuto un blocco stradale e partecipato ad una rissa durante una manifestazione ad Alessandria". Questa vicenda ha fatto scalpore in Egitto perchè è la prima volta che delle donne vengono condannate da un tribunale per una manifestazione di protesta e che tra loro vi sono anche ragazze minorenni. Oppositore al Najar: condanna ragazze Alessandria è suicidio della giustizia Il leader dell'opposizione di Alessandria, ex deputato dei Fratelli musulmani, Mustafa al Najar, ha condannato con forza la decisione del tribunale della sua città di comminare una pena di 11 anni di carcere a 14 ragazze per aver manifestato nella città portuale egiziana. Intervistato dal quotidiano locale "al Masry al-Youm" ha affermato che "si tratta del suicidio della giustizia in Egitto". In particolare Najar ritiene fuori luogo anche la condanna al gruppo di ragazze minorenni, che non sono state condannate al carcere ma ad un periodo di libertà vigilata, sostenendo che "non dormirà la notte chi tiene ai diritti umani nel paese e vede questi provvedimenti oscurantisti contro dei minorenni posti in stato di fermo".