Il senso della pena spiegato ai reclusi dai costituzionalisti Onida e Pugiotto Il Mattino di Padova, 18 novembre 2013 Venerdì scorso nella Casa di reclusione di Padova due costituzionalisti fra i più autorevoli del nostro Paese, il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida e Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale dell’Università di Ferrara, hanno tenuto una lezione sul disegno costituzionale della pena, con particolare attenzione all’ergastolo, a un pubblico di “studenti” molto particolari: mescolati insieme, c’erano detenuti, ergastolani delle sezioni di Alta sicurezza, insegnanti delle scuole di Padova, da anni coinvolti in un progetto di confronto tra il carcere e la società. Tutti accomunati dalla convinzione che il dibattito sul senso della pena non debba essere lasciato alla politica, e nemmeno a una informazione spesso superficiale e poco attenta, ma debba essere riportato dentro alla società, nelle scuole, nelle famiglie, nei quartieri Due costituzionalisti fra gli ergastolani Il 15 novembre alcuni detenuti ed ergastolani del carcere di Padova hanno potuto passare un giorno di vita vera. E hanno potuto conoscere e ascoltare per quattro ore questi due straordinari costituzionalisti, Andrea Pugiotto e Valerio Onida. Dopo una loro introduzione sull’argomento in agenda, l’ergastolo e la funzione costituzionale rieducativa della pena, hanno risposto alle nostre domande. Alcuni ergastolani hanno detto che molti di loro ormai non hanno più nessun motivo per vivere e forse continuano a respirare solo perché sono già morti dentro. E che è vero che lo Stato si deve difendere, ma non dovrebbe farlo dimostrando di essere peggiore del male che combatte, aggiungendo male ad altro male. Altri hanno evidenziato che tutti gli altri detenuti hanno una meta da raggiungere, invece loro non ne hanno nessuna, perché la pena finirà solo quando smetteremo di respirare. E che il male si dovrebbe combattere con il bene e non con altro male, perché la legalità prima di pretenderla va data. Altri ancora invece hanno detto che molti forse continuano a vivere per vendicarsi di loro stessi, perché la vita per un uomo né morto né vivo non è nient’altro che una lunga morte. E probabilmente molti di loro continuano a vivere perché non hanno abbastanza vita, per scegliere di morire. Alcuni detenuti hanno detto che il carcere in Italia alla lunga ti leva persino la fiducia in te stesso, ti toglie qualsiasi fede, ti respinge dal mondo, ti getta lontano da qualsiasi speranza e ti fa diventare un rifiuto della società. E molti pensano che se nessuno dà fiducia, perché dovrebbero cambiare o smettere di essere cattivi? Altri hanno parlato del regime di tortura del 41 bis (carcere duro) che prevede che l’effettuazione del colloquio visivo con i figli minori, già limitato nella durata a soli dieci minuti senza vetro divisorio, avvenga in assenza dei familiari che vengono allontanati dalla sala colloqui e non possono restarci neanche di là dal vetro divisorio. E questo determina grave turbamento nei bambini che si distaccano con difficoltà e paura dalla madre, perché non vogliono rimanere da soli con l’altro genitore che conoscono appena. Molti detenuti ed ergastolani hanno pensato che il modo con il quale lo Stato si comporta con i delinquenti dimostri chi è più fuori dalla legge, perché credono che la riabilitazione dovrebbe essere sempre, e per tutti, e che sia sbagliato ripagare il male con altro male. E che il carcere è diventato un luogo che non ha più nulla di umano, un posto d’ingiustizia, di esclusione e di annullamento della persona umana, dove si vive una vita non degna di essere vissuta. Sia il Professor Andrea Pugiotto che il Presidente Emerito della Corte costituzionale Valerio Onida hanno risposto con calore sociale e umanità alle nostre domande. Ed entrambi sono stati d’accordo sia sull’abolizione dell’ergastolo, soprattutto quello ostativo che ti leva qualsiasi speranza, sia sul principio costituzionale rieducativo della pena che prevale su qualsiasi altra funzione. Poi hanno ribadito che un essere umano in carcere non perde il diritto di avere diritti e che un carcerato resta un membro della famiglia umana. Finito l’incontro, Nadia Bizzotto, della Comunità Papa Giovanni XXIII, che era tra il pubblico, mi ha lasciato dicendomi “Finché c’è vita c’è speranza”. Le ho risposto con un sorriso, ma il mio cuore ha pensato che “in carcere finché c’è vita c’è anche sofferenza”. Carmelo Musumeci Portare nel cuore la speranza che si può cambiare un sistema che tende a scartare “i cattivi” La redazione di Ristretti Orizzonti, di cui faccio parte, ha organizzato una giornata di “studi in carcere” con due costituzionalisti, in cui si è parlato di come una pena debba essere un percorso che serva al reinserimento nella società, oltre e più che un mezzo restrittivo, dunque punitivo per aver commesso un fatto di una certa gravità. Durante l’intervento del professor Onida mi ha colpito molto un passaggio, dove spiegava che il 41 bis è un regime di detenzione usato per spezzare ogni collegamento del detenuto con il mondo esterno criminale. Io non sono convinto che questo modo di combattere un sistema criminale sia efficace, per tanti motivi che partono dal fatto che tenere una persona in cattività in condizioni poco umane è controproducente sia per il detenuto che per lo Stato. Come può crescere un figlio di una persona ristretta in questo regime? Sicuramente, questo figlio crescerà con sentimenti di odio, di vendetta verso le istituzioni. Dunque è impensabile credere che il 41 bis sia il mezzo per spezzare una catena di male, anzi rischia di essere solo un incentivo a proseguire una vita dedita a combattere contro la società. Dico questo perché sono figlio di un ex detenuto, dunque so cosa prova un figlio nel vedere un genitore per una manciata di minuti dietro a un bancone. Devo dire che questo incontro mi ha rincuorato, é molto bello scoprire persone che mettono nel proprio lavoro una grande passione, come il professor Pugiotto: il suo lavoro ha un obiettivo che ci accomuna, l’abolizione dell’ergastolo. Non credo che la società sia pronta per questa scelta, ma è già un inizio parlarne. A una nostra domanda su cosa potevamo fare per proseguire questa lotta, la risposta è stata far conoscere, portare fuori da queste mura di cemento la realtà di vite di persone che hanno sbagliato, ma restano esseri umani, dunque che possono cambiare. Questo con la redazione lo facciamo sempre, non solo scrivendo i nostri articoli, lo facciamo con il progetto “Scuola-Carcere” che vede entrare oltre questa “linea di confine” della galera migliaia di studenti ogni anno. Loro sono il futuro e in loro noi confidiamo per un cambiamento di mentalità, e per questo portiamo la nostra storia, che dice che il carcere è un argomento che riguarda tutti, è parte integrante della società. Il professor Onida, parlando del reinserimento, non ha usato il termine “cambiamento” di un detenuto, ha parlato di essere “liberi”. Questa libertà che citava, non è la libertà che si acquista uscendo dal carcere, bensì è quella libertà interiore che un detenuto acquista in un percorso rieducativo, o di risocializzazione, come l’ha definito il professore. Trovo molto bello usare questo termine come un sentimento, perché è un sentimento che si prova quando credi in qualcosa di diverso da quello in cui hai sempre ostinatamente creduto. Bisogna crederci in quello che si fa, portare nel cuore la speranza che si può e che si deve cambiare un sistema che tende a scartare, a dimenticare persone che, pur avendo commesso errori, possono dare qualcosa di buono al nostro Paese. Lorenzo Sciacca Giustizia: le carceri e la sinistra senza anima di Luigi Manconi L’Unità, 18 novembre 2013 Vito Manciaracina, 78 anni, condannato in via definitiva all’ergastolo, detenuto presso il Centro clinico del carcere di Bari, affetto da paralisi degli arti inferiori, epilessia e demenza senile. Il 7 novembre scorso, la Procura della Repubblica ha chiesto il rigetto dell’istanza di sospensione della pena. Così come la richiesta alternativa di poterlo trasferire in un’idonea struttura sanitaria. Brian Gaetano Bottigliero, 25 anni, condannato in primo grado a nove anni di reclusione, detenuto nel carcere romano di Regina Coeli. Nel gennaio scorso gli viene diagnosticata un’insufficienza renale cronica. In attesa di un trapianto di rene, è sottoposto a dialisi tre volte alla settimana. Le richieste di termine o quantomeno di attenuazione delle misure cautelari, sono state rigettate dal magistrato competente perché sussisterebbe a suo carico un “pericolo di fuga”. Vincenzo Di Sarno, 35 anni, condannato in via definitiva, detenuto nel carcere napoletano di Poggioreale, affetto da un tumore al midollo spinale. Gli è stata rigettata l’istanza di scarcerazione per incompatibilità con lo stato detentivo. Le tre vicende qui sintetizzate, che gridano vendetta davanti a Dio e agli uomini, rappresentano altrettanti casi di stridente e crudele incompatibilità tra condizione patologica e reclusione in cella. E si tratta di vicende che, secondo un’opinione diffusa, dovrebbero rappresentare plasticamente quella “disparità nel trattamento” dei detenuti che il caso di Giulia Ligresti avrebbe evidenziato. Le cose non stanno propriamente così. E, infatti, su quelle tre storie di sofferenza e agonia in stato di privazione della libertà qualcuno ha presentato interrogazioni in Parlamento, ha sollecitato l’attenzione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, della magistratura di sorveglianza e dei tribunali e ha informato il ministero della Giustizia. Qualcuno, appunto, solo qualcuno. Eppure sono tre settimane almeno che l’intera polemica sul “caso Ligresti-Cancellieri” ruota intorno alla presunta Ingiustizia Assoluta di un interessamento istituzionale che privilegerebbe solo ed esclusivamente i detenuti “eccellenti” e quelli che vantano importanti relazioni familiari o sociali. Io so che il ministero della Giustizia e il suo attuale titolare, ma anche quello precedente, Paola Severino, in decine e decine di casi non si sono comportati affatto così: e hanno mostrato sollecitudine e hanno operato attivamente a favore di detenuti anonimi, privi di risorse materiali e immateriali, di avvocati e di tutele. Ma su questo già ha risposto e, se crede, risponderà ancora Annamaria Cancellieri. Qui mi preme evidenziare altro. Ovvero il fatto che, se la Ligresti ha ricevuto l’attenzione del ministro e, a seguire, del sistema dell’informazione e del Parlamento, Manciaracina, Bottigliero e Di Sarno sono stati ignorati da tutti. E, insieme a loro, sono stati ignorati decine e decine di detenuti che patiscono condizioni assai simili. Per quanto riguarda l’informazione, a parte questo giornale, il Sole 24 Ore, il Manifesto, il Tempo, un articolo del Fatto e il settimanale Tempi, a quelle vite che si spengono in carcere è stata dedicata appena qualche riga nelle pagine locali di alcuni quotidiani. E dai quasi mille parlamentari -mi scuso anticipatamente in caso d’errore - solo una o due interrogazioni. Nessuna, sempre che non mi sbagli, è stata presentata da uno tra i moltissimi deputati e senatori che hanno pensato fosse brillante - forse addirittura esilarante - ripetere ad libitum la genialissima battuta sui “fortunati” che dispongono del telefonino del ministro. E nemmeno hanno presentato agguerritissime interrogazioni o hanno compiuto penetranti visite ispettive tutti quei parlamentari così tanto, ma così tanto “di sinistra”, e così tanto, ma così tanto “dalla parte dei cittadini”. E ovviamente non uno (ma bastava anche mezzo) di quei fichissimi super-garantisti che spuntano come funghi a destra. Si è palesata in tal modo, e fino in fondo, l’ipocrisia un po’ oscena di tante parole udite nelle scorse settimane: a conferma del fatto che la pretesa battaglia egualitaria contro i privilegi di Giulia Ligresti dissimulava una assai diversa, e meno rispettabile, pulsione. Non una richiesta di eguaglianza che portasse l’anonimo detenuto, in caso di grave patologia, a ottenere quel trattamento che la legge prevede per lui come per Giulia Ligresti, bensì il livellamento anche di quest’ultima verso l’azzeramento delle garanzie e dei diritti. Per lei come per tutti i Vito Manciaracina d’Italia (per non parlare di quelli che, a loro disdoro, oltre che detenuti sono addirittura stranieri). Post scriptum. Sono decisamente un uomo all’antica. Lo deduco, tra l’altro, dallo stupore che mi coglie nell’apprendere che un connotato di forte identità di una componente del Partito democratico, quella che si vorrebbe di sinistra (ahi, quanti delitti si commettono in tuo nome), sarebbe rappresentato dalla richiesta imperiosa di dimissioni di Annamaria Cancellieri. Tale richiesta, va da sé, verrebbe fatta in nome della “legalità”. Che, poi, un comportamento ritenuto tanto scorretto da richiedere le dimissioni di un ministro, riguardi una detenuta riconosciuta incompatibile e “legalmente” scarcerata, sembra irrilevante; e che, ancora, il ministro sotto accusa sia quello che, forse, più ha fatto per modificare il nostro infernale sistema penitenziario, alla sinistra del Pd sembra interessare poco o punto. Ha ben altro a cui pensare. Giustizia: storia di Carmelo, l’ergastolano che aspetta Papa Francesco di Agnese Moro La Stampa, 18 novembre 2013 Questa settimana vorrei condividere con voi, purtroppo sintetizzandola, una lettera che Carmelo Musumeci, ergastolano senza speranza di uscire, scrive dal carcere di Padova a Papa Francesco. Almeno per non dimenticare che anche i colpevoli sono sempre e ancora donne e uomini, come noi. “Papa Francesco, scusa, sono di nuovi io. (…) Se scrivo di nuovo è per raccontarti un episodio della mia infanzia. Papa Francesco, una volta in collegio un prete mi raccontò la storia di un bambino che parlava con Gesù. Si chiamava Marcellino. Era un trovatello. Ei frati si erano presi cura di lui. Un giorno Marcellino aveva trovato nel solaio del convento un grande crocefisso con un Gesù inchiodato. Lui iniziò a parlargli. E Gesù a rispondergli. (…) La storia finiva bene. Bene per modo di dire, a seconda dei punti di vista: Marcellino si era gravemente ammalato. Ed era morto. E Gesù se l’era portato in cielo. Papa Francesco, anch’io volevo che la mia storia finisse bene. E dopo un paio di giorni che avevo sentito questo racconto ero andato in chiesa di nascosto per parlare con Gesù. Lui stava inchiodato in un grosso crocefisso di legno con la testa inclinata da un lato. Gli parlai guardandolo negli occhi. Gli domandai cosa dovevo fare nella vita. Se c’era differenza fra morire e vivere. E poi piansi davanti a lui per essere nato diverso dagli altri bambini. Piansi per i sogni che avevo diversi dagli altri bambini. Piansi per essere nato grande. Piansi per essere nato senza amore intorno a me. Piansi perché immaginavo che un giorno sarei diventato quello che non avrei voluto. Piansi per la vita che non avrei mai avuto. Piansi perché non riuscivo a smettere di piangere. Papa Francesco, quel giorno chiesi a Dio se faceva morire anche a me. E se mi portava in cielo con lui, come aveva fatto con Marcellino. (…) Papa Francesco, devi sapere che Gesù non mi rispose mai. (…) Papa Francesco, ti ho raccontato questo episodio della mia infanzia perché nella mia prima lettera ti avevo scritto che gli uomini ombra del carcere di Padova ti aspettavano, io per primo. (…) Io lo sapevo che non saresti potuto venire, non so se neppure Papa Francesco potrebbe osare tanto da andare a trovare gli ultimi dannati della terra, ma il bambino dell’episodio che ti ho raccontato, che è ancora dentro di me, crede ancora ai miracoli”. Anche io ci credo Carmelo, e sono certa che verrà. Giustizia: una umiliante débâcle del sistema giudiziario italiano di Rita Bernardini Notizie Radicali, 18 novembre 2013 La segretaria di Radicali Italiani ha partecipato a una sessione della Quinta Conferenza Mondiale Science for Peace della Fondazione Umberto Veronesi (“Sistemi Giudiziari e carcerari in Europa”). Pubblichiamo di seguito la sua relazione sulla situazione italiana. La débâcle del sistema giudiziario italiano ha raggiunto proporzioni tali da minare le fondamenta dell’irrinunciabile principio democratico dello “stato di diritto”. A dirlo è stato il Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa in una risoluzione del 2 dicembre 2010 a seguito della quale l’Italia veniva sottoposta ad “osservazione speciale” per i tempi eccessivi dell’amministrazione della Giustizia. Il confronto con gli altri stati europei è umiliante per il nostro Paese: dall’analisi che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha compiuto sulle proprie decisioni nel cinquantennio 1959-2009 risulta che per l’eccessiva durata dei procedimenti civili e penali l’Italia ha riportato 1.095 condanne, la Francia 278, la Germania 54 e la Spagna 11.Quanto alla violazione dei diritti dei propri cittadini riscontrate dalla Corte di Strasburgo, nel 2012 lo Stato italiano è stato condannato a versare indennizzi per 120 milioni di euro, la cifra più alta mai pagata da uno dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. Inoltre, in una classifica rovesciata, l’Italia è prima per le sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo e non eseguite: ben 2.569 rispetto alle 1.780 della Turchia e alle 1.087 della Russia. Non va meglio, il nostro Paese, per i “trattamenti inumani e degradanti” negli istituti penitenziari. Secondo i dati “ufficiali” in ogni 100 posti vengono dislocati 147 detenuti. Ma, se si tiene conto dei reparti chiusi per ristrutturazioni, delle celle inagibili e di quelle inutilizzate per mancanza di personale, il sovraffollamento è più che emergenziale: in 100 posti, le nostre istituzioni accalcano ben 178 detenuti. Tra i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa solo 5 hanno superato la soglia dei 130 detenuti per 100 posti disponibili: Cipro, Ungheria, Italia, Grecia e Serbia. L’Italia è anche al terzo posto per numero assoluto di detenuti in attesa di giudizio, dopo Ucraina e Turchia. Secondo un recente rapporto del Servizio Studi del Senato italiano (maggio 2013), che limita il confronto ad “alcuni Paesi europei che si ritengono più significativamente comparabili con l’esperienza italiana, per popolazione, territorio e appartenenza all’Europa continentale”, l’Italia destina alla “giustizia” (senza le carceri) la stessa percentuale di PIL, cioè lo 0,4 per cento, di Germania e Spagna e molto di più della Francia che si attesta allo 0,2 per cento del Pil. Se poi consideriamo l’amministrazione penitenziaria, la nostra percentuale di Pil è dello 0,2 per cento, che è identica a quella di Spagna e Francia e doppia rispetto a quella della Germania (0,1 per cento). Questa débâcle del sistema giudiziario italiano, dunque, non è nemmeno giustificabile con minori stanziamenti che l’Italia destina al “sistema giustizia” rispetto ad altri Stati Europei. Giustizia: Erri De Luca, Magistratura Democratica… e il virus pacifico di Alessandra Ballerini La Repubblica, 18 novembre 2013 C’è una polemica di questi giorni che mi coinvolge particolarmente. Sia perché conosco, direttamente o indirettamente una gran parte dei protagonisti, sia perché alcuni di loro e il tema sotteso alla polemica mi sono molto cari. La libertà di opinione è uno dei fondamenti della nostra democrazia e pensare che illustri magistrati, giornalisti e intellettuali possono averne timore tanto da essere tentati di ricorrere alla censura, mi rattrista e preoccupa. Oggetto del contendere è un breve e appassionato brano del poeta Erri De Luca, scritto per Magistratura Democratica. Si tratta di un testo scritto e messo in stampa prima delle interviste dello scrittore circa la lotta No Tav e dunque estranea ai diverbi tra il poeta e il magistrato ex democratico Caselli. Il testo di De Luca racconta col suo tipico e inarrivabile trasporto il mito di Euridice che “alla lettera significa trovare Giustizia. Orfeo va oltre il confine dei vivi per riportarla sulla terra”; il poeta ricorda “ho conosciuto e fatto parte di una generazione politica appassionata di giustizia perciò innamorata di lei al punto da imbracciare le armi per ottenerla. Orfeo scende impugnando il suo strumento e il suo canto solista. La mia generazione è scesa in coro dentro la rivolta di piazza. Non dichiaro qui le sue ragioni: per gli sconfitti nelle aule dei tribunali speciali quelle ragioni erano delle circostanze aggravanti, usate contro di loro. C’è nella formazione di un carattere rivoluzionario il lievito delle commozioni. Il loro accumulo forma una valanga. Rivoluzionario non è un ribelle, che sfoga un suo temperamento, è invece un’alleanza stretta con uguali con lo scopo di ottenere giustizia, liberare Euridice. Innamorati di lei, accettammo l’urto frontale con i poteri costituiti... Ci furono azioni micidiali e clamorose ma senza futuro. Quella parte di Orfeo credette di essere seguito da Euridice, ma quando si voltò nel buio delle celle dell’isolamento, lei non c’era”. Apriti cielo! Certa pessima stampa ha immediatamente approfittato della ghiotta occasione per bollare come terroristi il poeta e i magistrati che hanno osato pubblicare il suo scritto nella loro agenda. C’è chi ha c iesto che la Agenda andasse al macero perché poteva infiammare giovani menti (di magistrati!). A nulla sono valse né la nota scritta a margine del brano in cui si condanna e rifiuta decisamente qualsiasi forma di violenza qualunque ne sia la motivazione, né la replica di Md agli attacchi in cui si spiega che “l’articolo è la rappresentazione, con il linguaggio e il punto di vista di un artista, del sentimento di giustizia di parte di una generazione, i giovani degli anni ‘70. Un sentimento estremo e per molti versi, secondo noi, delirante. Tuttavia un sentimento reale”. Non censurabile «perché siamo talmente convinti della bontà e superiorità della nostra idea democratica e liberale di giustizia, saldamente ancorata alla legalità, che non temiamo il confronto con nessuno”. Ad oggi però il tentativo di censura continua e le presentazioni dell’Agenda sono state sospese. Per dirla con le lucide parole di Luigi Manconi “I primi esponenti di Magistratura democratica, li ho conosciuti un secolo fa, nel corso della mobilitazione per l’abrogazione dei reati di opinione. Oggi come emerge anche da quest’ultima polemica, la questione non può dirsi ancora completamente risolta: e non solo nei suoi riflessi penali. Io la vedo in maniera molto semplice: se la scrittura di Erri De Luca piace (e c’è a chi piace) si pubblichino i suoi racconti. Se non piace non li si pubblichino. Le sue idee politiche, note a chiunque le volesse conoscere, non devono avere alcun peso nella valutazione.” De Luca recita “Povera è una generazione nuova che non s’innamora di Euridice e non la va a cercare anche all’inferno.” L’inferno sono le carceri, i Cie, le Opg, i campi rom, le celle di sicurezza. L’inferno è il luogo dove c’è legge (a volte) ma non v’è di giustizia. Portare la giustizia all’inferno, senza armi, credo sia, almeno sulla carta, l’ideale di noi tutti: avvocati, magistrati, scrittori. E augurarsi, come scritto nella Agenda, che la passione per la giustizia si diffonda come un virus allegro e pacifico, credo sia un auspicio condivisibile e non censurabile. D’altronde avere fame e sete di giustizia è biblicamente motivo di beatitudine. Giustizia: il caso Cancellieri divide il Pd, ipotesi di rimpasto Asca, 18 novembre 2013 Domani la riunione del gruppo Pd alla Camera, mercoledì alle 10,30 il voto dell’Aula di Montecitorio sulla mozione di sfiducia presentata dal Movimento 5 Stelle nei confronti di Annamaria Cancellieri a cui potrebbe aggiungersene un’altra di alcuni esponenti del partito di Guglielmo Epifani che nei giorni scorsi aveva confermato la fiducia nei confronti del ministro di Giustizia. Il guardasigilli, secondo alcune indiscrezioni, potrebbe però dimettersi prima del voto della Camera aprendo così la strada a un rimpasto di governo. “Il Pd dice di non poter sfiduciare la Cancellieri perché non si può votare la mozione del M5S, segnalo che ne possiamo presentare una noi. Martedì presenterò un testo all’assemblea del gruppo. Basta con l’ ipocrisia”. Lo scrive Pippo Civati, tra i candidati alla segreteria del Pd, nel suo blog. Questa opinione è condivisa da Matteo Renzi, ospite ieri sera di “Che tempo che fa” su Raitre, il primo a parlare in casa Pd di dimissioni del guardasigilli: “Il punto vero è che il ministro della Giustizia anche secondo me si deve dimettere. Prima della discussione della mozione faccia un passo indietro”. Anche Gianni Cuperlo, altro candidato alla segreteria del Pd, in una intervista a “Repubblica”, non difende il ministro di Giustizia: “C’è una questione di opportunità politica. Credo che il ministro Cancellieri, per la sua storia, sia la prima persona interessata a valutare, con Letta, se ci sono le condizioni per continuare a fare il guardasigilli con serenità”. Stefano Fassina, viceministro dell’Economia, anche lui del Pd, manifesta dubbi sulla sfiducia nei confronti di Cancellieri nel corso di una intervista al Tg3: “Civati deve ricordarsi che fa parte di un partito e che decisioni così rilevanti si prendono insieme. E’ un’idea di partito inaccettabile quella in cui uno si sveglia e presenta una mozione di sfiducia”. Sul caso del guardasigilli aggiunge: “Il ministro Cancellieri deve valutare la posizione di una parte significativa della maggioranza: è evidente che il rapporto si è incrinato e che una valutazione vada fatta”. Dario Franceschini, ministro per i Rapporti con il Parlamento, pone una questione di metodo: “Si può discutere del caso ma non votare una mozione di sfiducia presentata dal Movimento 5 Stelle. Mi pare un atto dovuto che la maggioranza la respinga”. Sono state le notizie di alcune telefonate che evidenzierebbero altri contatti nel corso dell’estate tra il guardasigilli e Antonino Ligresti, fratello di Salvatore, a riaprire le polemiche dopo le comunicazioni di Cancellieri in Senato e alla Camera dello scorso 5 novembre che sembravano aver chiarito la propria posizione dopo la pubblicazione delle prime intercettazioni telefoniche che mostravano preoccupazione per lo stato di salute di Giulia Ligresti, figlia di cari amici di famiglia, detenuta nel carcere di Novara. Nell’ eventualità di dimissioni o di sfiducia della Camera nei confronti del guardasigilli, prenderebbe quota l’ipotesi di un rimpasto dell’ esecutivo. Dopo la scissione di Scelta Civica, sono i montiani a premere per questa soluzione facendo presente che Mario Mauro, ministro della Difesa, avvicinatosi alle posizioni dell’Udc di Pier Ferdinando Casini, non li rappresenta più nel governo di larghe intese. Un ruolo maggiore lo chiede pure la nuova formazione capeggiata da Angelino Alfano dopo la scissione dal Pdl. Le controversie nel Pd riguardano, oltre il caso Cancellieri, i risultati dei congressi territoriali. “E’ la prima volta da vent’anni che D’Alema perde un congresso, era un suo disegno quello di dire “Renzi vince le primarie, ma nei segretari di circolo e tra gli iscritti non ce la fa. D’Alema pensa che se vinciamo noi distruggiamo la sinistra, dimenticando che l’hanno distrutta loro la sinistra che noi dovremo ricostruire”, dichiara il sindaco Firenze a “Che tempo che fa” facendo presente che i dati lo danno vincitore anche tra gli iscritti in attesa delle primarie dell’8 dicembre in cui potranno votare tutti gli elettori piddini. Per il Comitato Cuperlo il 43,9% dei voti degli iscritti sarebbe andato al proprio candidato mentre Renzi si attesterebbe non oltre il 42.1%. Secondo i renziani, il sindaco di Firenze avrebbe il 46% e Cuperlo il 38,6%. Renzi torna intanto a rassicurare sul futuro dell’esecutivo presieduto da Enrico Letta nel caso venga eletto segretario del Pd: “Ci sono momenti in cui bisogna fare un passo indietro. Mi piacerebbe giocare la partita per il Paese, ma ora c’è un governo in carica e credo che sarebbe ingiusto da parte mia mettere l’ambizione personale prima degli interessi del Paese”. Bari: viaggio nel carcere di Altamura, dove gli orchi chiedono aiuto di Tommaso Forte www.lagazzettadelmezzogiorno.it, 18 novembre 2013 Il carcere dei pedofili. Un istituto penitenziario, l’eccellenza nell’Italia meridionale, in cui i molestatori, gli orchi, i torturatori di corpi innocenti, vengono inseriti in un percorso di redenzione. Sono pedofili e violentatori seriali gli ospiti del carcere di Altamura. La maggior parte ha commesso reati sessuali all’interno della famiglia. Padri su figlie, o patrigni su figli adottivi, spesso con la connivenza della madre. A volte amici dei genitori, ma comunque quasi sempre persone nella cerchia familiare. Un’astuzia, quella del pedofilo, che utilizza tecniche con una matrice comune: la seduttività. E la cosa che comunque sconcerta di più che l’elemento tipico dell’abuso sessuale all’interno di queste famiglie è il silenzio. Un altro dato da non sottovalutare: l’imbarazzo della famiglia. Non solo. C’è poi la sottomissione della famiglia, della moglie e, in alcuni casi, anche delle vittime. E nel carcere di Altamura ci sono orchi di diverse età, dai 18 ai 70 anni. Tutti stanno scontando una pena per reati gravi: violenza sessuale. La maggior parte degli autori di questo reato è costituita da persone appartenenti a tutte le classi sociali, persone che sono conosciute dalla vittima come amici di famiglia, insegnanti, parenti: persone di cui il piccolo si fida. Le violenze avvengono soprattutto dentro casa e non riguardano solo le famiglie degradate. Il fenomeno si diffonde sempre di più anche su internet. In alcuni casi, per fortuna rari, le violenze sono tali da arrivare perfino ad uccidere le piccole vittime, spesso, portatrici di handicap. E la cosa più triste è che talvolta in carcere le vittime incontrano gli stupratori. Cioè, figli e madri che hanno una servitù nei confronti del killer degli innocenti. La norma carceraria questo non lo può vietare. Quindi le visite tra vittime e carnefice sono costituzionali. I dati - Ottanta i detenuti, di cui una forte presenza della provincia di Bari, di Lecce e Brindisi. Quindi, la Terra di Bari è, forse, prima in classifica nella media regionale per reati di abusi sessuali. Un dato allarmante. Ma è la triste verità. Un’etichetta infame difficile cancellare, specie, poi, se i reati sono in continuo aumento. Una percentuale preoccupante, che deve far riflettere le istituzioni su una serie di attività sociali che rafforzino la prevenzione, specie nelle scuole. Ma perché la provincia di Bari è l’epicentro di reati di pedofilia e di violenze? L’eccellenza del carcere - Caterina Acquafredda è il direttore dell’istituto penitenziario ed è impegnata in un continuo sforzo di aggregazione sociale per i detenuti. Per loro ha avviato corsi scolastici, teatrali e di florovivaismo. Dunque, quei piccoli segnali che avviano un detenuto alla serenità carceraria. “Il carcere è lo strumento per cui questi uomini possono riscattarsi e ritornare ad affrontare una vita serena. Serena, poiché, hanno avviato e partecipato ad una serie di progetti di integrazione sociale e di formazione professionale che, di fatto, gli consentiranno di affrontare un nuovo percorso di vita. La partecipazione a progetti di riabilitazione è un’occasione per scongiurare la recidività e incrementare l’auto stima graduale, ma anche per incrementare l’inserimento all’interno della comunità. Chiuderli in cella ha poco valore educativo. Abbiamo educatori straordinari che hanno una capacità di ascolto innata e sanno, soprattutto, essere razionali nella gestione umana con il detenuto. Non solo. L’istituto penitenziario di Altamura è un vera comunità di ascolto ed una unità terapeutica di grande livello, come una famiglia che ode ogni giorno i propri figli. Infine, le celle sono sempre aperte, poiché, è in atto il controllo dinamico da parte della polizia penitenziaria. Il nostro è un modo diverso di fare vigilanza, ovvero, dalla sorveglianza- custodia alla sorveglianza-conoscenza. C’è un sereno confronto tra i detenuti all’interno del carcere, in quanto le celle sono composte solo da due letti e la fiducia è palese”. Dunque i pedofili, giorno dopo giorno, devono affrontare il “mostro interiore” e rimettere le cause per cui hanno fatto del male. Quel male che, forse, è stato più scaltro nell’appropriarsi delle loro perversioni. E gli assistenti sociali, gli psicologi, gli psichiatri devono fare un duro lavoro. Un pentimento che non avviene mai con immediatezza perché, tendono alla negazione. È allora che subentra la bravura di chi sa ascoltarli ed aiutarli. La capacità di ascolto - Don Saverio Colonna è il padre della Comunità di Fornello che, da sempre, segue i detenuti del carcere di Altamura. D’altronde, la presenza di santini è immagini sacre è molto forte tra le mura carcerarie. C’è chi tra le mani tiene un rosario e la bibbia appoggiata su uno sgabello. La fede è ormai, quasi, l’unica speranza per chi è solo. Poi c’è la nuova chiesa allestita dal vescovo Mario Paciello con una donazione. Una chiesa che non è solo chiesa, ma anche contenitore culturale. “Chi sta dietro le sbarre - spiega don Saverio - non è un marziano né tanto meno un mostro. Non è affatto diverso da noi. Il detenuto vive le stesse debolezze che sono dentro di noi. Siamo chiamati tutti a vigilare su noi stessi: nessuno deve credersi immune dalla possibilità di commettere reati, piuttosto con umiltà riconosciamo il male che c’è in noi per accostarci alle ferite degli altri. Non dimentichiamo le parole della Bibbia: “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” e “Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi”. Nei miei incontri quotidiani con i detenuti comprendo sempre più la verità di queste parole”. Le storie - Lorenzo, 34 anni di Lecce. Tra un anno tornerà a casa perché il suo percorso è quasi giunto al termine. Lo incontriamo nella sala colloqui alla presenza degli agenti di polizia. È felice di discutere in un incontro e di raccontarsi. Ha alle sue spalle un triste passato. Difficile da raccontare. “Hanno fatto bene a fermami”. È la prima frase di Lorenzo che con emozione ricorda quanto era irruento, senza mai narrare la sua storia. “Penso sempre al mio passato a agli anni che mi sono bruciato. Ero una testa dura, ribelle e non prendevo in considerazione i consigli della mia famiglia. Oggi, però, posso affermare di essermi pentito. E questo grazie al percorso di riabilitazione e di riscatto sociale del carcere. Un carcere che è, di fatto, la mia seconda famiglia”. La domanda è d’obbligo. Pensi al tuo futuro? “Penso a mio figlio di nove anni. L’amore vero della mia vita. Quando finirà tutto, la prima cosa che farò e quella di rifarmi una famiglia”. Ci riuscirà? “Ho raccontato del mio male a mio padre”. Così, si racconta Gianluca, 41 anni di Roma. “Ero una testa di coccio, irruento, dunque, sono qui a scontare la mia pena”. E aggiunge. “Per fortuna sono qui. Ho preso coscienza dei miei errori. Chiedo scusa a tutti”. Gianluca è teso, si emoziona e sogna un futuro diverso. Una vita, forse, che gli darà un percorso migliore. Ma, in ogni caso, la sua famiglia gli è stata sempre vicina. Non è solo, insomma. “Mi sento a casa mia. E l’amore che ricevo dagli operatori sociali mi fa sentire tranquillo e per questo sono pronto, quando uscirò dal carcere, ad una realtà da uomo diverso”. Il dolore per la figlia - Cosimo, 26 anni è di Bari. Esile, un paio di occhiali e jeans. Sembra un ragazzo come tanti, mite, silenzioso. In realtà è ben altro. La presenza dei giornalisti lo incuriosisce e lo rassicura, poiché, anche lui ha avviato la rivoluzione interna. “Penso a mia figlia di cinque anni e il mio cuore è sempre a lei. Mi sento in colpa perché non posso esserle vicino come un padre normale. Ma avrò il modo per riscattarmi” . Per un attimo si commuove quando pensa ai femminicidi e quando si parla di donne maltrattate. Soffre, si vede. “Non sopporto gli uomini che picchiano donne, non posso accettarlo. Ho paura che quello che succede agli altri possa succedere anche mia figlia”. Sensi di colpa? Viterbo: detenuto malato di tumore, mi sento un condannato a morte in carcere www.tusciaweb.eu, 18 novembre 2013 A Luciano, 26 anni, detenuto a Mammagialla, un anno fa è stato diagnosticato un tumore maligno. In una lettera a Radio Radicale racconta come gli siano stati negati i domiciliari, nonostante il parere dei sanitari. “Mi sento un condannato a morte, vegeto nella mia cella. Sono un morto vivente”. Luciano ha 26 anni, deve scontare trent’anni per omicidio. Rinchiuso nel carcere di Mammagialla, un anno fa gli è stato diagnosticato un tumore maligno con metastasi. La sua condizione, hanno certificato i medici, non è compatibile con il regime detentivo, ma il giudice gli ha negato per due volte i domiciliari. Luciano, che si trova nella sezione di alta sicurezza, ha raccontato la sua storia in una lettera letta durante una trasmissione che si occupa della situazione carceraria, in onda su Radio Radicale. “Nel novembre 2012 - scrive Luciano a Radio Carcere - mi è stato diagnosticato un tumore maligno con diverse metastasi. Dopo accertamenti, la direzione sanitaria del carcere di Viterbo ha certificato la mia incompatibilità con il regime detentivo e io ho fatto istanza al magistrato di sorveglianza per ottenere la detenzione domiciliare, per evitare di morire qui dentro. Invece il magistrato ha rigettato la mia istanza e io ho dovuto fare i salti mortali per essere curato qui dentro”. Luciano racconta d’essere stato sottoposto a dodici cicli di chemioterapia e a ventidue cicli di radioterapia. “Purtroppo non sono servite a molto, il tumore è rimasto lì”. In compenso ha dovuto fare i conti con gli effetti di una terapia devastante. “Non è possibile immaginare come mi sentivo: senza capelli, il viso gonfio, poter dormire solo due ore per notte da seduto, continua nausea, difficoltà respiratorie. La direzione sanitaria del carcere ha fatto un’altra relazione dicendo di nuovo che ero incompatibile con il carcere, perché vi era un’impossibilità di gestire la mia malattia. Però il magistrato di sorveglianza ha rigettato di nuovo la richiesta per i domiciliari, sostenendo che non c’è un concreto pericolo di morte”. Rimane in carcere: “Oggi io, malato di tumore, mi trovo ancora qui, chiuso in una cella e non passa giorno in cui i medici del carcere mi dicano che non possono fare più nulla. Mi sento un condannato a morte, le mie difese immunitarie non ci sono più e ho il terrore anche di prendermi una semplice influenza. Vegeto in una cella, aiutato da un compagno di detenzione. Sono un morto vivente”. Il Presidente della Provincia scrive alla Cancellieri Il presidente della Provincia di Viterbo Marcello Meroi ha accolto l’invito di Riccardo Fortuna, pubblicato su Tusciaweb, e ha inviato al ministro Cancellieri una breve mail per chiedere informazioni sul detenuto Luciano, 26enne recluso a Mammagialla, affetto da un tumore che non gli lascerà scampo e a cui è stato più volte negato il permesso di terminare i propri giorni ai domiciliari. Di seguito il testo della mail inviata da Meroi al ministro. Ministro Cancellieri, questo detenuto (in riferimento a Luciano, ndr) non è “speciale”. Ma lei aveva detto che il suo intervento su qualche altra situazione era dettato solo da umanità, non altro. Venezia: il cappellano di Santa Maria Maggiore “giusto occuparsi di chi sta male in cella” di Alvise Sperandio Il Gazzettino, 18 novembre 2013 Il ministro Annamaria Cancellieri ha fatto bene. Spero che questo suo intervento serva ad aprire uno squarcio di speranza per tutti gli altri casi simili. Il cappellano di Santa Maria Maggiore don Antonio Biancotto commenta cosi, controcorrente, l’intervento del Guardasigilli sul caso di Giulia Ligresti, che ha tenuto banco nelle cronache di questi giorni. Il sacerdote lo dice partendo dalla sua esperienza personale di assistente spirituale che ormai da molti anni opera nella casa circondariale cittadina. “Qui da noi c’è un detenuto sui 40 anni, ortodosso, che quando viene da me a parlare non riesce neanche a sedersi. È affetto da un’ernia al disco di cui è stato operato, ma senza guarire. L’ho visto piangere ed essere trasportato fuori in barella, tra i dolori, dal punto di pronto intervento. Io mi domando: che senso ha che questa persona resti in carcere? Plaudo al fatto che il ministro si sia attivato per diverse situazioni altrettanto critiche perché non può stare tra le sbarre chi versa in una condizione di salute incompatibile con la detenzione”. Don Antonio, 56 anni, sacerdote da 1981, parroco a Rialto, è una persona mite, attenta, disponibile e dal piglio deciso: quasi tutti i giorni entra a Santa Maria Maggiore dove conosce tutti i suoi 290 reclusi che incontra a rotazione. “Di sotire ne ho viste tante - racconta - vengono da me per pregare o per questioni materiali. Negli ultimi mesi ho conosciuto quest’uomo dell’Est Europa, in attesa di giudizio. Quando ci vediamo, lo vedo molto sofferente per una malattia vera ed accertata e conosciuta dalle autorità competenti. Lui non me l’ha mai detto esplicitamente, ma è come se mi chiedesse di intercedere presso chi di dovere per potergli trovare una sistemazione più adeguata. Quando ho sentito le critiche al Guardasigilli per il caso Ligresti, la mia reazione è stata di approvazione: chi sta male non deve più stare in prigione, è possibile che uno Stato che si professa democratico non sia in grado di dotarsi di una serie di percorsi ed opportunità specifici per queste persone?”. Don Biancone allarga il ragionamento e conclude: “già l’ex cardinale arcivescovo di Milano, il compianto Carlo Maria Martini, ne parlava a metà anni Novanta: com’è possibile redimere un uomo che ha sbagliato se lo chiudo in una cella, magari in vita? Il carcere dovrebbe essere sempre l’ultima spiaggia, mettendo in campo, invece, un sistema di pene alternative che davvero favoriscano quella rieducazione come fine primario della pena che è sancita dalla Costituzione”. Massa: il “dottor cannabis” ancora in carcere per una mail smarrita Il Tirreno, 18 novembre 2013 Fa il medico anche in carcere. Gli altri detenuti sanno chi è, si fidano di lui e gli chiedono consigli e diagnosi. E lui non si tira indietro. Fabrizio Cinquini, il dottore di Pietrasanta finito agli arresti per la coltivazione e il possesso di 227 piante di marijuana che, ha sempre dichiarato, utilizza per studiare le qualità terapeutiche della cannabis, è ancora in carcere. Da luglio. Per colpa, come ha denunciato qualche giorno fa con una accorata lettera la moglie, Lucia Pescaglini, di una email andata perduta. Con quella lettera Cinquini, in base alla legge 199 del 2010, chiedeva di poter attendere a casa il giudizio, come già concesso dal Tribunale, ma nella sostanza tecnicamente negato a causa di una precedente condanna a suo carico per la quale - al momento dell’arresto nel luglio scorso - stava scontando la pena. La possibilità di uscire, però, c’è. E Cinquini ne ha fatto richiesta per scritto. Solo che nei passaggi burocratici previsti qualcosa è andato storto. “Basta un foglio dimenticato sulla scrivania e, se non hai nessuno fuori che ti aiuti, rischi l’ergastolo” commentava con amarezza qualche giorno fa la moglie. Anche di questo Fabrizio Cinquini ha parlato ieri alla consigliera regionale Laura Chincarini, esponente di Centro democratico in visita al carcere di Massa. “Non lo conoscevo - racconta la consigliera - e ammetto di aver incontrato una persona profondamente diversa da me. Può sembrare un visionario ma del resto è così che sembravano alle persone comuni coloro che hanno lasciato un segno, ai quali si deve la nascita della scienza moderna”. Una personalità “particolare” la descrive Chincarini “una persona generosa e di grande dignità”. Cinquini ha raccontato un po’ di sé. “Mi ha spiegato cosa fa nel suo orto con le piante di marijuana della cui coltivazione si era autodenunciato - continua la consigliera regionale - in un’ora di conversazione mi ha esposto con entusiasmo idee e progetti. E mi ha anche parlato degli altri detenuti, persone che, ha detto, sono molto più disperate di lui e devono essere aiutate. In molti si rivolgono a lui, sapendo che è medico, per consigli e diagnosi e Cinquini si mette a loro disposizione”. “Se devo essere sincera la cosa che mi è rimasta più impressa è quanto ho appreso in carcere - continua Chincarini - appena arrivato ha fatto richiesta alla direzione di cominciare a coltivare marijuana per proseguire i suoi studi”. Permesso che, ovviamente, gli è stato negato. “Io non sono affatto favorevole alla liberalizzazione delle droghe - spiega poi Chincarini - ma la ricerca sull’utilità terapeutica di certe sostanze è un’altra cosa”. Poi la consigliera commenta anche la questione dei domiciliari, al momento non autorizzati per Cinquini. “Sia ben chiaro la legge deve essere uguale per tutti, e la magistratura emetterà il suo giudizio, ma desta preoccupazione, mentre il Paese è scosso dalle telefonate umanitarie del ministro Cancellieri in relazione al caso della figlia di Ligresti, che un uomo, che certo non ha rubato milioni di euro alla collettività e probabilmente ha violato la legge in buona fede, sia costretto ad attendere in cella il giudizio della magistratura, quando invece avrebbe diritto agli arresti domiciliari. Spero per questo in un atto non di clemenza, ma certo di buon senso, che consenta al medico di Pietrasanta di attendere il giudizio a casa sua, giacché non rappresenta una minaccia per la collettività, anzi, al contrario, tutto quello che ha fatto, a torto o a ragione, l’ha fatto per amore dei suoi pazienti alla ricerca di nuove terapie per ridurne la sofferenza”. Chincarini non è il primo rappresentante delle istituzioni che, grazie alla disponibilità del magistrato di sorveglianza, riesce a incontrare Cinquini. E del caso del medico di Pietrasanta non si sta interessando solo la politica ma anche il Garante regionale dei detenuti, Franco Corleone. Vicenza: “il S. Pio X è un albergo”, su Facebook la polemica tra consiglieri comunali Giornale di Vicenza, 18 novembre 2013 Infuria su Facebook la polemica attorno alle dichiarazioni di Gioia Baggio, la consigliera comunale della lista Dal Lago, che al termine della visita alla casa circondariale di venerdì aveva paragonato il San Pio X a un albergo. “Campo da calcio regolare, campo da pallavolo, da tennis, pet terapy, palestra attrezzata di bici”. “In Italia per fortuna il carcere non ha natura punitiva ma rieducativa”, le ha replicato Everardo Dal Maso (lista Variati), che di mestiere fa l’avvocato. “Mi stupisce la leggerezza con cui parli di un luogo terribile che tu oggi hai visto per la prima volta e che descrivi come si descriverebbe un villaggio vacanze. Io per lavoro ho spesso incontrato lì persone che vi sono rinchiuse e ti posso garantire che non è proprio come tu lo descrivi”. “Trovo grave che un consigliere comunale faccia affermazioni così superficiali. E le faccia dopo aver sottoscritto con gli altri consiglieri della V Commissione un documento sui temi dell’amnistia, dell’indulto, del sovraffollamento e delle condizioni dei detenuti”, è la risposta di Sandro Pupillo, capogruppo della lista Variati. Una replica arriva anche da Stefano Dal Prà Caputo, consigliere del Pd presente alla visita di venerdì. “Il San Pio X dovrebbe contenere 150 detenuti e ad ognuno dovrebbe essere assegnata una cella 3x3, Nella realtà i detenuti ad oggi sono 315 e in ogni cella ne vivono due o tre. Di guardie penitenziarie, invece, dovrebbero essercene una per carcerato, ma nella realtà sono 170. I numeri parlano drammaticamente da soli. Non so che albergo abbia visitato il consigliere comunale Gioia Baggio, noi siamo stati in carcere e abbiamo visto con i nostri occhi una realtà che deve essere cambiata al più presto”. In tanti però su Facebook la difendono. “Finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di essere politicamente scorretta”. Fra questi anche il suo “padrino” Francesco Rucco. “Ritengo che Gioia abbia tolto un velo di ipocrisia sul sistema carcerario italiano. In carcere ci vado per lavoro e conosco la condizioni di alcuni detenuti. ma perché non ci chiediamo come si trovano a lavorare gli uomini e le donne della polizia penitenziaria? Ieri è mancato uno di loro che lavorava a Padova perché si è suicidato. Sono sotto organico e lavorano in turni massacranti”. E la Gioia non molla di un millimetro, rispondendo puntualmente ai vari consiglieri di maggioranza. “Come sempre voi strumentalizzate tutto. Avanti così”. Biella: in arrivo altri detenuti, ma gli agenti sono pochi, sit-in contro carenza personale La Stampa, 18 novembre 2013 Un sit-in di protesta davanti al carcere. L’hanno organizzato le organizzazioni sindacali degli agenti di custodia, martedì, per protestare contro la cronica carenza di personale. Nel nuovo padiglione che ha aumentato la capienza della casa circondariale arriveranno altri 96 reclusi, ma, secondo i sindacati, l’amministrazione penitenziaria non ha previsto il rafforzamento dei reparti. Da qui la protesta. I detenuti andranno a occupare la terza e la quarta sezione del nuovo padiglione da duecento posti (le prime due sono già impegnate). Il penitenziario biellese, quindi, diventerà il polo principale del Piemonte, con oltre 500 detenuti, divisi tra la parte di carcere costruita a metà degli anni Ottanta e quella di più recente realizzazione. Secondo le organizzazioni di categoria i carichi di lavoro aumenteranno di molto, ma non l’organico della polizia penitenziaria, con tutte le conseguenze del caso. Lucca: un anno di reclusione a detenuto che minacciò agente penitenziario nel carcere www.poliziapenitenziaria.it, 18 novembre 2013 Detenuto condannato ad un anno e un mese di reclusione per minaccia aggravata nei confronti di un Poliziotto penitenziario del carcere di Lucca. A titolo dimostrativo ha afferrato un televisore che si trovava in una cella e l’ha gettato a terra davanti all’agente di Polizia Penitenziaria iniziando a minacciarlo in modo pesante. Una vicenda avvenuta un anno fa e che adesso è sfociata in una sentenza di condanna. Nei guai è finito un detenuto campano - Angelo De Benedictis, 67 anni, residente a Salerno - recluso all’epoca dei fatti nel penitenziario di San Giorgo a Lucca. Il detenuto è stato condannato dal giudice Ernico Mengoni per minaccia aggravata ai danni dell’agente della Polizia Penitenziaria a un anno e un mese di reclusione con i benefici di legge. Bologna: dal 20 novembre rassegna “Fuori e dentro” tra arte e comunità Adnkronos, 18 novembre 2013 “Fuori e dentro. Un altro sguardo sul carcere”. Questo il titolo della rassegna che si terrà a Bologna dal 20 novembre all’1 dicembre, ad un anno dall’avvio del progetto “Fuori e dentro” promosso dalle associazioni di volontariato, istituzioni e partner di settore, per far conoscere alla cittadinanza il mondo dei detenuti. Teatro, cinema, tavole rotonde, sport ed eventi speciali. Questi gli ingredienti dell’iniziativa che si aprirà con la Compagnia della Fortezza, che, sotto la guida del regista Armando Punzo, ha cambiato il volto e la storia del carcere di Volterra attraverso il teatro. Il racconto teatrale “Mercuzio ed altre utopie realizzate” andrà, dunque, in scena il 20 novembre all’Oratorio San Filippo Neri, ripercorrendo i 25 anni di lavoro della compagnia con la presenza sul palco del regista, di Aniello Arena, ergastolano e attore protagonista di “Reality” di Matteo Garrone. Nel week-end di chiusura si animerà anche il cuore della città di Bologna. Le associazioni di “Fuori e Dentro”, infatti, allestiranno una “Cella in Piazza”, dal 29 novembre fino all’1 dicembre in Piazza Re Enzo. L’installazione permetterà ai passanti di entrare nello spazio ristretto di tre metri per quattro in cui i detenuti vivono, a toccare con mano le sbarre che ne limitano lo sguardo, i letti a castello e gli armadietti di metallo che ne costituiscono l’unico arredo. L’ultimo giorno di programmazione, l’1 dicembre alle 19 all’Auditorium Enzo Biagi, Pino Cacucci leggerà “Dignità nella prigionia”, reading di brani tratti dai romanzi dello scrittore che da sempre si occupa di storie di reclusione. E ancora. Il 21, 25 e 27 novembre, saranno serate di cinema, mentre il 22, 23 e 24 novembre sarà la volta di “Tutti dentro” con cui il Carcere minorile al Pratello aprirà le porte ad una serie di iniziative e momenti di socialità. Tra gli appuntamenti al Pratello anche cena curata dal laboratorio di cucina e allestimento interno al carcere e lo sport con ‘Sfide al Pratello’ che includono un torneo di calcetto a 7, uno di biliardino e uno di ping pong. Tra i partecipanti le associazioni che lavorano nella carceri bolognesi e alcuni personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo. Infine, due tavole rotonde: il 25 novembre al Salone Marescotti si discuterà di sovraffollamento, mentre il 27 la Sala delle Armi della Facoltà di Giurisprudenza ospiterà il dibattito dal titolo “Minorenne detenuto immigrato”. La rassegna è patrocinata dal Comune di Bologna, dall’Istituzione per inclusione sociale e l’integrazione sociale e comunitaria Don Paolo Serra Zanetti e dalla Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Emilia Romagna, in collaborazione con la Provincia di Bologna. Padova: Giotto, una lezione di autogestione che arriva dal Brasile di Nicola Boscoletto (presidente di Officina Giotto) Il Mattino di Padova, 18 novembre 2013 Un filo sottile ma sempre più resistente lega Padova a Belo Horizonte. Un filo fatto di imprenditorialità, sensibilità sociale, voglia di sperimentare soluzioni innovative e coraggiose. E che lega il carcere Due Palazzi a un tipo di casa di reclusione che da noi non esiste e che è gestito dalle cosiddette Apac (Associação de Proteção e Assistência aos Condenados). In sostanza un carcere ad alto tasso di autogestione, di cui si fa carico la società civile, privo di agenti di polizia penitenziaria. Dal quale escono persone che nella gran parte non tornano più a delinquere. Tutto comincia nel luglio 2012. Alcuni amici impegnati nell’Ong Avsi in Brasile mi invitano a raccontare la nostra esperienza padovana al congresso per i quarant’anni delle Apac. “Devi vederle, ne vale la pena”, insistono. Visito tre carceri del Minas Gerais: un penitenziario federale e due Apac. A prima vista, case di reclusione tradizionali. Ma l’organizzazione interna è rivoluzionaria. Punta tutto sulla responsabilità del detenuto. Sono strutture con circa duecento detenuti. Le celle per i nostri standard sono sovraffollate, ma i “recuperandi” (così vengono chiamati i reclusi) vi passano non più di otto ore al giorno. Il resto della giornata lo dedicano a studio, formazione, incontro con familiari, psicologi, volontari e a lavori artigianali come lavoroterapia. Risultati? Solo il dieci per cento una volta uscito torna a delinquere. Cifre bassissime, quasi impensabili. Le stesse che riscontriamo noi con i detenuti coinvolti nelle nostre attività lavorative. Ma eccezioni assolute. E non solo in America Latina, in tutto il mondo. Lo capiamo a Buenos Aires nell’aprile scorso, al congresso del programma Eurosocial II della Commissione Europea. Lì veniamo a conoscenza delle cifre disastrose della recidiva in tutto il mondo. Le carceri tradizionali sono un fallimento. Ovunque. Diventano paradossalmente macchine per la creazione di nuova delinquenza. Ma le eccezioni ci sono. Proprio a Buenos Aires il DePen, il corrispettivo brasiliano del nostro Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ci propone formalmente di studiare come si può integrare il loro modello di carcere aperto con l’esperienza lavorativa promossa dalle cooperative sociali italiane. Per questo il 21 ottobre siamo tornati a Belo Horizonte. Scoprendo nuovi pregi delle Apac. I costi, ad esempio. Costruirle costa il 70 per cento in meno rispetto alle carceri tradizionali. Gestirle, almeno l’80 per cento in meno: l’autogestione abbatte le rilevantissime spese di personale. Fa impressione nei corridoi di Santa Luzia e Itaúna, due strutture storiche guidate dalle Apac, non incontrare nemmeno un agente. Alla missione partecipa per la prima volta un dirigente di primo livello del Dap, il provveditore alle carceri del Triveneto ed Emilia Romagna Pietro Buffa. “I brasiliani sono convinti che potenziando il lavoro nelle Apac i risultati sarebbero ancora migliori”, ci spiega Lorenzo Tordelli, dirigente di Eurosocial, “e potrebbero essere estesi a livello federale e perché no, mondiale. L’interesse è molto alto anche da parte europea. Nello scorso maggio abbiamo avuto qui una delegazione formata da tutti gli ambasciatori Ue”. La sorpresa maggiore è vedere a diecimila chilometri di distanza persone che cambiano vita, quando incontrano e percepiscono in quello che fai amore e passione. Per noi è una conferma clamorosa, inaspettata. Vedo che la cosa è reciproca: anche i brasiliani si sentono incoraggiati dal racconto di quanto avviene in Italia in tante cooperative sociali coinvolte nelle lavorazioni carcerarie. Como: un ex carcerato è approdato al prestigioso Mit di Boston Corriere di Como, 18 novembre 2013 La biblioteca del Bassone è un’isola felice nel grigiore del carcere ed è considerata da molti un fiore all’occhiello con 15mila volumi. “Da qualche mese vivo la realtà cruda di questo posto e mi sono resa conto di quanta importanza ha avuto la biblioteca del carcere per il mio cammino fra queste grigie mura. Ogni giorno acquistava un valore sempre più grande. Fra libri e giornali mi sono resa conto che mi sentivo sempre più protetta e la lettura mi ha dato la forza di continuare questo duro cammino con dignità e orgoglio. Tra gli scaffali della biblioteca a volte ho trovato persino la voglia di sorridere, di fare battute, di affrontare la vita con più serenità”. È la testimonianza di Rita, ex detenuta al Bassone di Como, una delle tante voci raccolte sul sito della biblioteca del carcere lariano che testimoniano esistenze che hanno ripreso la dignità perduta, recuperando, attraverso la cultura libraria, un posto nel mondo. C’è chi, come Rita, ha frequentato un corso per assistente bibliotecaria, chi si è laureato, chi ha fatto carriera e c’è persino l’incredibile storia di Alen, che passato dal carcere comasco, è addirittura approdato al Massachusetts Institute of Technology di Boston. Le condizioni disastrose in cui versano molte carceri italiane è tema di stretta attualità. Anche il Bassone ha i suoi problemi, ma in questo generale sfacelo la biblioteca della Casa Circondariale comasca è un’isola felice. Nei suoi dodici anni di vita ha raggiunto quasi tutti gli obiettivi auspicabili per una biblioteca qualsiasi ed è da molti considerata un fiore all’occhiello delle attività volte al recupero e alla riabilitazione dei detenuti. “C’è bisogno ancora di tanto lavoro e di tanto impegno e di persone giuste - leggiamo ancora nella testimonianza dell’ex detenuta Rita - Per ora vedo una sola persona, la professoressa Ida Morosini, che porta avanti tutto l’oneroso fardello con assiduità, credendoci ed entusiasmandosi ancora”. Anima della biblioteca è infatti Ida Morosini, già insegnante all’Istituto “Leonardo Da Vinci”, da oltre dieci anni impegnata a mantenere in vita un sogno realizzato che rischia di svanire a causa della mancanza di fondi. “Il problema principale - spiega Ida Morosini - è disporre di un fondo adeguato che aiuti a garantire la continuità del nostro progetto. Ho continuato questo lavoro da volontaria, non potevo abbandonare la biblioteca, la considero come un mio figlio e un incredibile lavoro è stato fatto, la biblioteca dispone di 15mila volumi, di cui 1.200 multimediali e di un discreto numero di testi multiculturali; è l’unica in Lombardia e credo anche a livello nazionale, a prestare volumi all’esterno del carcere. Le anticipo anche una bella novità: c’è un regista importante che girerà un film proprio sulla biblioteca. Tutto questo è bellissimo, ma senza fondi rischiamo di perdere tutto quello che abbiamo conquistato”. I detenuti leggono molto? Quali sono i volumi più richiesti? “C’è molta voglia di lettura e qualcuno si cimenta anche con la scrittura. Sono molto richiesti dvd, libri di narrativa, best seller - come Inferno di Dan Brown - ma anche saggi di filosofia. C’è anche una sezione multiculturale con libri in diverse lingue straniere: russo, bulgaro e cinese. Rispetto a ciò mi sono attivata con le ambasciate ma non sempre ho avuto risposte positive. La maggior parte dei volumi in lingua straniera viene regalato dagli stessi detenuti”. Quale ruolo hanno i libri dietro le sbarre? “Per la mia esperienza posso riportare le storie di almeno una ventina di persone con cui sono rimasta in contatto, che si sono riscattati grazie al lavoro in biblioteca. C’è per esempio una detenuta sudamericana che adesso sta facendo l’insegnante di sostegno, poi c’è un detenuto che ha lavorato in biblioteca e che ora vive e lavora in Emilia. Poi c’è Alen, che mi scrive dal Mit di Boston. Sembra una favola. Alen ha lavorato in biblioteca e ha ricominciato proprio da qui, ha capito l’importanza di riprendere la scuola e attraverso i libri ha avviato un progetto tutto suo. Nicola, invece, è il primo arrivato alla laurea in Scienze del Turismo”. Per i detenuti stranieri è più difficile? “Sì, anche se la biblioteca mette a disposizione corsi di lingua italiana con esami di idoneità riconosciuti. Ho in biblioteca tre detenuti che ho formato in modo da poter gestire il prestito, uno è nigeriano parla inglese e un po’ di italiano, è preziosissimo come mediatore”. C’è differenza tra uomini e donne? “Devo dire che è un dato che mi ha sorpresa, perché se è vero che in generale le donne leggono più degli uomini, è molto più facile recuperare un detenuto che una detenuta. Le donne hanno un freno naturale alla delinquenza, quelle che arrivano in carcere purtroppo sono quelle più compromesse e quindi difficili da recuperare. Anche se casi positivi come quello di Rita testimoniano che si può riuscire: “Mi chiedo se in futuro altre persone come lei appariranno e con noi detenute crederanno in una crescita mentale di ciò che lei con tanto amore ha seminato. Vorrei, però, alla fine, non aver creduto in una favola, ma vorrei sapere, magari un domani e dal di fuori, che la biblioteca carceraria della sezione femminile è diventata una splendida realtà”“. Milano: il 21 a Bookcity “prima” del documentario realizzato a Opera Ansa, 18 novembre 2013 È il primo appuntamento per celebrare i 250 anni dalla pubblicazione “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, una giornata di discussione, letture e proiezioni di film sui temi della giustizia, della società civile e della vita in carcere in programma per giovedì prossimo, 21 novembre, nell’aula magna dell’Università Statale di Milano, in via Festa del Perdono. All’iniziativa, organizzata nell’ambito di Bookcity dal magistrato di sorveglianza Beatrice Crosti e che vedrà il debutto a Milano del documentario realizzato nel carcere di Opera “Levarsi la cispa dagli occhi”, parteciperanno tra gli altri Gianluca Vago, rettore della Statale, Virginio Rognoni, ex vice presidente del Csm, Adolfo Ceretti, docente di Criminologia, e giuristi e storici come Antonio Padoa Schioppa e Carlo Capra. All’incontro, oltre all’assessore del Comune Pierfrancesco Majorino, prenderanno parte anche gli operatori e i detenuti che da anni organizzano e svolgono attività nei laboratori di lettura e scrittura nelle carceri di San Vittore, Bollate e Opera. E proprio a Opera è stato realizzato il film-documentario che per la prima volta verrà proiettato al pubblico milanese. Vigevano (Pv): all’asta foto di Matteo Cazzani, proventi a Casa Circondariale Ansa, 18 novembre 2013 Asta benefica domani a favore dei progetti promossi dalla Società San Vincenzo De Paoli di Vigevano all’interno della Casa Circondariale di Vigevano. A Palazzo Bovara a Milano saranno messe in vendita le opere del fotografo Matteo Cazzani, morto nel 2000 all’età di 35 anni. Madrina dell’evento, Ottavia Piccolo, battitore dell’asta, Cesare Cadeo. Presente il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli. Oltre all’asta, promossa dall’Associazione Culturale Benefica Matteo Cazzani in collaborazione con Confcommercio Milano e Ascofoto, ci sarà anche una mostra delle opere fotografiche di Cazzani. Libri: “Storia straordinaria di un uomo ordinario”, di Dante Bracantisano di Silvia Maggioni www.voceditalia.it, 18 novembre 2013 Dante Bracantisano, l’autore de “Storia straordinaria di un uomo ordinario” è un musicista calabrese come tanti. Sin da giovanissimo cantante, chitarrista e compositore con il gruppo I Pitagorici. Dopo avere inciso due album si esibisce in tanti concerti nelle piazze italiane ed in particolare al sud facendo anche ospitate radiofoniche. Tutto insomma sembra andare a gonfie vele per il giovane, ma purtroppo il destino è in agguato e una notte, che potrebbe essere come tante, ma che in realtà segnerà profondamente la sua vita fino a stravolgerla, viene ingiustamente accusato di far parte della ‘Ndrangheta e non come un “semplice” affiliato ma addirittura come “capo bastone”. La Procura di Milano infatti lo arresta a Samo, il suo paese in provincia di Reggio Calabria, e lo traduce al carcere di Bergamo dove resterà nel Reparto di Massima Sicurezza per ben tre anni e venticinque giorni. È da questa tragica vicenda reale che nasce il suo libro, un libro in cui si raccontano i fatti e la vita da innocente all’interno di un carcere. Grazie alla sua volontà, alla sua forza mentale, alla sua umanità e all’assoluta fede nella propria innocenza l’autore è riuscito a sopportare la detenzione, conquistandosi giorno dopo giorno (tanti, troppi) il rispetto umano e l’affetto dei carcerati e delle guardie. Un’esperienza dura e incredibile che Brancatisano racconta in maniera cruda, realistica e facendo tanto di nomi e raccontando insomma non solo la vicenda fine a sè stessa, ma anche il suo percorso umano finché la Cassazione ne decreta l’assoluzione, ma lui continua a restare in detenzione. Ancora oggi la sua posizione processuale, sebbene Dante dal 2006 sia un uomo libero, non è ancora conclusa e definita è infatti tutto in mano al Tribunale di Reggio Calabria. Attualmente Dante si è ricostruito una vita in Svizzera, nel Canton Ticino, dove ha fondato un’etichetta discografica e, come faceva in Calabria, una scuola di musica per giovani artisti ed ha finalmente ripreso a vivere. “Storia Straordinaria di un uomo ordinario. Un caso di malagiustizia”, di Dante Bracantisano, Vololibero Edizioni, Distribuzione libraria CdA. 160 Pagine. 15 Euro. Immigrazione: Sel; i Cie sono carceri e non funzionano... come superarli? Public Policy, 18 novembre 2013 Fare luce sulla “realtà di migliaia di migranti rinchiusi in Italia nei centri di identificazione ed espulsione (Cie)”, in particolare su quello di Roma, e sapere se il Governo “non ritenga che i centri di identificazione ed espulsione debbano essere superati nel quadro di una riforma radicale delle politiche di contrasto dell’immigrazione clandestina, evitando la loro riduzione alla semplice repressione carceraria”. È quanto chiedono Gianni Melilla e Antonio Matarrelli (Sel) in un’interpellanza al ministro dell’Interno. La risposta è all’ordine del giorno di oggi alla Camera, alle 15, insieme a quella per una interrogazione, sempre sui Cie, presentata dallo stesso Melilla. Secondo gli interpellanti i Cie “nascono da una politica che mette l’immigrazione sullo stesso piano della criminalità e che non tiene conto né dei vantaggi economici che potrebbe portare né della natura sempre più multiculturale della società italiana”. Anche l’associazione italiana Medici per i diritti umani, in un rapporto del 2012, citato da Sel, sostiene che i Cie sono strutture “incapaci di garantire il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali della persona”. Inoltre essi “non hanno scoraggiato l’immigrazione irregolare e - si legge ancora nell’interpellanza - nel 2012 solo il 50% (4.015 su 7.944) degli immigrati irregolari detenuti nei centri è stato espulso. Una minima percentuale, rispetto ai 440 mila immigrati irregolari che si pensa vivono in Italia”. Come si superano i Cie? Nell’interrogazione al ministro dell’Interno e a quello dell’integrazione Gianni Melilla chiede “quali iniziative intendano assumere per superare in tempi rapidi i centri di identificazione ed espulsione” dato che “hanno dimostrato il loro totale fallimento”. Secondo Melilla “nel 2012 sono state trattenute 7.700 persone e ne sono state rimpatriate meno della metà”. Inoltre è grave “la situazione sotto l’aspetto dell’ordine pubblico: sono ripetute e costanti le violazioni dei diritti umani dei ‘trattenuti’, gli episodi di autolesionismo, le fughe, le violenze, le rivolte, le risse e le denunce di maltrattamenti”. “Il sovraffollamento nei centri di identificazione ed espulsione è ormai a livelli impressionanti - conclude Melilla - e a Lampedusa ve ne sono 977 in un centro che, al massimo, ne potrebbe ospitare 300”. Immigrazione: Gradisca d’Isonzo, 400 in marcia per dire “mai più Cie” di Christian Seu Messaggero Veneto, 18 novembre 2013 Serrande abbassate e negozi chiusi. Gradisca è stata per qualche ora una città blindata. La Polizia locale aveva informato gli esercenti della città della Fortezza dello svolgimento del corteo e della manifestazione anti-Cie. Più di qualcuno, soprattutto tra le attività posizionate le strade percorse dal corteo, ha deciso di tenere chiuso a titolo precauzionale: una cautela rivelatasi inutile, considerato che l’iniziativa si è svolta in un clima di assoluta tranquillità, senza episodi di intemperanze né atti di vandalismo, eccezion fatta per le scritte vergate sull’asfalto e per i razzi lanciati sulle coperture dell’ex caserma Polonio. “Mai più Cie”. Scandito, urlato, scritto sugli striscioni, sulla strada, sui muri dello stesso centro di identificazione ed espulsione, chiuso (temporaneamente) da ormai tre settimane dopo anni di proteste, incidenti, fughe e rivolte. Erano quasi in quattrocento ieri pomeriggio, a Gradisca, per protestare contro l’esistenza delle strutture nate con l’approvazione della legge Turco-Napolitano sull’immigrazione. Associazioni pacifiste, studentesche, centri sociali, no-global, gruppi No-Tav, arrivati anche da Padova, Venezia e Vicenza, istituzioni (s’è vista l’assessore provinciale al lavoro Ilaria Cecot), poca politica (sbandierata la sola presenza di Rifondazione, con gli ex consiglieri regionali Antonaz e Perrone), tanti giovani e giovanissimi. Le forze dell’ordine (un centinaio di uomini tra Polizia, Carabinieri e Finanza), hanno osservato con discrezione: nessun incidente, nessun contatto fisico nel corso della manifestazione, svoltasi senza particolari tensioni. Prima della partenza del corteo da piazza Unità, un paio di manifestanti - imbacuccati in impermeabili da laboratorio e con indosso la maschera del film “V per Vendetta” - si sono inerpicati sulla gru del cantiere di un palazzo, srotolando un drappo con la scritta “Basta Cie”. “La chiusura della struttura voluta dal Viminale non è merito della politica, è merito degli immigrati, che hanno protestato a loro rischio e pericolo, usando il proprio corpo”, ha detto l’attivista Luca Tornatore, mentre Genni Fabrizio, dell’associazione Tenda per la Pace e i Diritti, ha ricordato i clandestini detenuti nel carcere di Gorizia per i tafferugli di fine ottobre e il giovane immigrato nordafricano che, in un tentativo di fuga ad agosto, è caduto dal tetto procurandosi ferite che lo hanno portato in uno stato di coma irreversibile. Dopo i proclami, la marcia verso l’ex caserma Polonio, con il corteo aperto da uno striscione con lo slogan “Mai più Cie” vergato con vernice bianca anche sull’asfalto, in molteplici declinazioni. La sfilata si è svolta senza particolari tensioni: cori contro la legge Bossi-Fini e contro Napolitano, un collegamento telefonico con un clandestino chiuso nel Cie di Trapani e poi l’arrivo davanti alla struttura di via Udine. Qui i manifestanti, dopo aver recuperato alcune reti metalliche da cantiere, hanno allestito una sorta di “mostra”, esponendo foto provenienti dai vari Cie sparsi per lo Stivale, a denunciare lo stato di detenzione all’interno dei centri. Preludio al “rito” delle scritte sui muri di cinta che circondano la struttura: l’unico momento di tensione si è registrato quando i manifestanti si sono avvicinati al cordone formato dagli agenti della Polizia in tenuta anti-sommossa, per proseguire a scrivere sul muro; l’arretramento degli uomini con il casco blu ha evitato l’inasprirsi della contesa, rimasta dunque soltanto sul piano verbale. Prima di incamminarsi nuovamente verso piazza Unità è partito in direzione dei tetti del Cie - quegli stessi tetti diventati simbolo delle rivolte estive, utilizzati anche come giaciglio dagli immigrati in agosto - di petardi e razzi, che hanno mandato in fiamme (pare senza particolari danni) alcune parti della copertura. “Da oggi il Cie è chiuso definitivamente”, hanno proclamato alla fine i leader della protesta. Russia: Greenpeace in piazza a Verona per sostenere gli attivisti detenuti www.veronasera.it, 18 novembre 2013 I volontari chiedono la solidarietà per le 30 persone incarcerate in Russia con le accuse di vandalismo e pirateria in seguito ad una protesta pacifica e che rischiano ora 15 anni di carcere. Sono nelle piazze di tutta Italia per chiedere alle autorità di esprimere la propria solidarietà verso Cristian d'Alessandro e gli altri attivisti di Greenpeace detenuti in Russia. Così anche la sezione veronese di Greenpeace è scesa in piazza Brà per chiedere al sindaco Flavio Tosi di aderire all'appello promosso dall'organizzazione per raccogliere il sostegno dei municipi italiani. Attualmente sono 28 gli attivisti prigionieri in Russia da 59 giorni, più due giornalisti freelance, tra cui proprio Cristian D'Alessandro. Le accuse che pendono sul loro capo sono quelle di vandalismo e pirateria. La vicenda era iniziata con una protesta pacifica contro le trivellazioni petrolifere nell'Artico, in seguito alla quale la nave di Greenpeace Arctic Sunrise è stata sequestrata e le 30 persone a bordo sono state incarcerate e rischiano ora 15 anni di carcere. Turchia: Erdogan ipotizza amnistia per detenuti curdi Tm News, 18 novembre 2013 Il primo ministro turco Erdogan ha prospettato l'ipotesi di un'amnistia per le migliaia di curdi detenuti nelle carceri turche. "Saremo testimoni di una nuova Turchia dove (i guerriglieri) scenderanno dalle montagne e le prigioni si svuoteranno" ha dichiarato il premier sabato nel corso di una storica visita nella città curda di Diyarbakir, nel sud-est della Turchia. Nella metropoli curda ha incontrato il leader curdo-iracheno Massud Barzani, ex nemico storico di Ankara, e membri di spicco del pro-curdo Partito della democrazia e della pace (Bdp) come il sindaco della città Osman Baydemir e i deputati Ahmet Turk e Leyla Zana. Se concretizzato, l'importante annuncio potrebbe sbloccare il processo di pace tra governo turco e Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) iniziato un anno fa per porre fine a un conflitto armato, quello tra esercito e autonomisti, che ha fatto dal 1984 più di 40 mila morti nel sud-est del Paese, dove i curdi sono maggioritari. Il dialogo è entrato in crisi a settembre quando l'organizzazione ha bloccato il ritiro dei militanti del Pkk dalla Turchia in Nord Iraq, criticando Erdogan per non aver disposto alcun provvedimento a favore della comunità curda. Le dichiarazioni di Erdogan, che per la prima volta ha usato il termine "Kurdistan" per definire l'area a maggioranza curda tra Turchia, Iraq, Iran e Siria, sono state accolte con favore anche dal leader del Pkk Abdullah Ocalan. "Speriamo che faccia quello che ha detto. Vogliamo che lo realizzi il prima possibile con il nostro sostegno" avrebbe detto Ocalan al fratello Mehmet che ha incontrato il leader curdo nell'isola-prigione di Imrali, dove è recluso dal 1999, secondo quanto riporta oggi l'agenzia turca Dogan.