Giustizia: l’Italia è il Paese con più detenuti in attesa di primo giudizio (dopo Ucraina e Turchia) di Valter Vecellio Notizie Radicali, 17 novembre 2013 Mesi fa a chi scrive è capitato di visitare il carcere di Capanne vicino Perugia. Un braccio sovraffollato, con i detenuti che vivevano uno sopra l’altro; il braccio accanto vuoto, con le attrezzature nuove che andavano alla malora. Spontaneo chiederne la ragione. La spiegazione è stata che non avendo agenti di polizia penitenziaria sufficienti per assicurare quei criteri minimi di sicurezza che vanno assicurati, erano costretti a tenere stipati come sardine i detenuti da una parte, mentre dall’altra le celle erano vuote. Un paradosso che, ci si augura, nel frattempo si sia superato, anche se è da credere che non sia un caso isolato. A fronte di questa situazione altri paradossi. Carcere di Avezzano, provincia l’Aquila: 76 detenuti, 54 tra ispettori, agenti e sovrintendenti. A Gela, in provincia di Caltanissetta, 90 detenuti, 61 tra agenti, sovrintendenti e ispettori. A Foggia e Trani, in Puglia, si registra una vistosa carenza di organico; ma nella vicina Lucera 182 detenuti e 105 agenti. A San Severo 88 detenuti per 65 agenti. Siamo insomma a quasi un detenuto “ad personam”. Poi ci sono episodi che è davvero difficile comprendere, come il caso del carcere minorile di Lecce: 22 agenti, 15 impiegati, nessun detenuto. Il centro è vuoto. Ed è vuoto dal 2007, perché c’era bisogno di lavori di ristrutturazione. Sei anni di lavori di ristrutturazione…ai dipendenti, secondo quanto riferiscono articoli di stampa e servizi giornalistici, si pagavano perfino gli straordinari. Interviene il ministero di Giustizia, e viene diffuso un bel comunicato: “Conclusi i lavori di ristrutturazione, si sta lavorando alla verifica delle ipotesi di riattivazione della struttura, da destinare ad interventi rivolti all’area del disagio giovanile”. Ecco: già uno che si esprime così, meriterebbe di finirci lui, in carcere. Quel comunicato era dell’ottobre 2012. Siamo al novembre 2013. Della riattivazione della struttura non si sa nulla. Questi sono esempi credo emblematici di “costi” e di gestione che non corrisponde a quel tipo di amministrazione che s’usa dire del “buon padre di famiglia”. Sandro Gozi, vice Presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa con delega alle carceri definisce “L’Italia delinquente abituale, basti guardare le ripetute condanne ricevute per le stesse problematiche, in primis sovraffollamento delle carceri e lentezza dei processi. Su 47 Paesi del Consiglio d’Europa, noi “produciamo” l’11 per cento delle condanne corte, dietro solamente a Russia (22 per cento), e Turchia (13 per cento)”. I costi di questa realtà sono altissimi: solo per la lentezza dei processi, infatti, dobbiamo alla Corte ancora 500 milioni di euro. Inoltre, se entro maggio 2014 non risolveremo l’emergenza carceri, la ripresa dei processi contro l’Italia ci costerà altre centinaia di milioni di euro, “avremo da pagare 100mila euro ogni 7 detenuti che fanno ricorso, ossia ogni anno dovremo pagare multe per 60-70 milioni”. Pagheranno tutti i contribuenti italiani, obbligati a pagare per l’illegalità dello Stato. Un giornalista abituato da sempre a occuparsi di economia, di conti e cifre, parlo di Enrico Cisnetto, qualche giorno fa ci ha ricordato che il pessimo funzionamento della giustizia italiana è “un grosso ostacolo che allontana gli investitori stranieri dall’Italia”, e che si tratta di una questione “sempre più avvertita dalle imprese, non solo per il carico economico che devono sopportare, ma soprattutto perché il cattivo funzionamento della giustizia costituisce un grosso ostacolo per gli investimenti”. E questo è un primo dato circa i costi - sotto forma di mancati guadagni - che ci procura il pessimo funzionamento della giustizia. Poi ci sono le spese vere e proprie. La Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo ha condannato l’Italia a pagare 100 mila euro per danni morali a sette detenuti nelle prigioni di Busto Arsizio e di Piacenza. Dal momento che i sette vivevano, o forse vivono ancora, nelle stesse identiche condizioni degli altri 67mila detenuti, immaginate un po’ a che cifra astronomica si arriva se alla questione del sovraffollamento non si pone un immediato rimedio. L’Italia ha anche un’altra maglia nera: dopo Ucraina e Turchia, siamo il paese con più detenuti in attesa di un primo giudizio, oltre 14mila su 67mila e rotti, in percentuale il 21,1 per cento. Ora è vero che le statistiche sono quella cosa per cui se io mangio due polli e il mio vicino nulla, risulta che abbiamo mangiato un pollo a testa. Ad ogni modo, le statistiche dicono che circa la metà di quel 21 per cento verrà alla fine dichiarato innocente, e dunque ha patito un’ingiusta carcerazione. Immaginate quindi a quanto può ammontare quel 10 per cento di risarcimenti che vanno prima o poi corrisposti. Il Consiglio d’Europa ci ricorda che dopo la Serbia e la Grecia, il nostro paese è quello con il maggior sovraffollamento nelle carceri: 147 detenuti per ogni 100 posti, più o meno. Siamo al terzo posto per numero assoluto di detenuti in attesa di giudizio, dopo Ucraina e Turchia. Condizioni di vita che inaccettabili e che corrispondono, per ulteriore danno, a un elevatissimo costo di gestione. Nel 2010, per esempio, l’Italia ha infatti speso, escludendo le spese mediche, 116,68 euro al giorno per ogni detenuto. La Francia, prendendo in considerazione anche le spese mediche, ne ha spesi 96,12; la Germania, anche là prendendo in considerazione le spese mediche, 109,38. Poi ci sono i “piccoli” aspetti. Per esempio una cosa credo poco nota: una persona che per una qualunque ragione finisce in carcere, deve pagare un conto diciamo così, di “soggiorno”. Uno si trova sbattuto in cella, magari è perfino innocente, si trova in un cubicolo sovraffollato, con condizioni igieniche spaventose, in più deve pagare circa 50 euro al mese., poco più di un euro e mezzo al giorno. In burocratese si chiamano “spese di mantenimento”; e nelle intenzioni dovrebbero servire a coprire i costi dei pasti, l’utilizzo delle lenzuola, i prodotti per pulire la cella. Una condanna a quattro anni di reclusione, per esempio, costa a chi la sconta 2.400 euro. Ai 13.990 detenuti che lavorano, sia per l’amministrazione penitenziaria che all’esterno, la somma viene detratta direttamente in busta paga. Gli altri pagano in un’unica soluzione, alla fine della detenzione: chi non paga riceve un’ingiunzione e ne risponde con tutto quello che possiede. Quest’obbligo può essere però trasformato in giorni di libertà vigilata, con precise tabelle di conversione: un giorno di restrizione della libertà ogni 250 euro. E poi c’è chi non può pagare perché non ha nulla. In quel caso può chiedere al magistrato la “remissione del debito”. A due condizioni: dimostrare di essere nullatenente. E aver tenuto una buona condotta in carcere. Le analisi e la documentazione ufficiale, quella del Dap, ci dicono che un detenuto costa mediamente 3.511 euro al mese. Per il detenuto e le sue esigenze specifiche e proprie, si passa però a 255 euro. Il resto, come si dice, serve per alimentare il circuito penitenziario. Ripeto : sono cifre sulla scorta di documentazione ufficiale; perché se si “naviga” pe siti più o meno attendibili, si deve prendere atto che si danno, letteralmente, i numeri: se ci si attiene ai dati elaborati da “Pianeta carcere” a Rimini un detenuto costa ogni anno 3.384 euro al mese; uno dei sindacati della polizia penitenziaria l’OSAPP, stima al contrario che si possa arrivare a circa 12 mila euro mensili, che mi pare francamente un po’ esagerato, anche se occorre tener presente che sotto la voce “spesa per detenuti” rientra oltre al vitto e l’alloggio anche lo stipendio degli agenti, la manutenzione e la spesa dei veicoli, il costo del personale civile e della mensa. Nel 2012 possiamo attestarci su una spesa di poco più 3.500 euro mensili. 3.100 se ne vano per il pagamento del personale di polizia e civile, mentre il resto copre il vitto e la gestione delle strutture. Quei 3.100 euro servono per pagare la polizia penitenziaria (poco più di 2.600 euro); per il personale civile se ne vanno circa 394 euro; per il vestiario e l’armamento si usano 22 euro; per la mensa ed i buoni pasto quasi 40 eruo; per le missioni ed i trasferimenti meno di 10 euro; 57 centesimi per la formazione del personale, altrettanti per l’asilo nido dei figli dei dipendenti, 41 centesimi per gli accertamenti sanitari. E ora la quota destinata ai detenuti. La media è di 255, euro e qualche centesimo al mese. 138 euro serve a pagare vitto e materiale igienico. 67 euro per il lavoro dietro le sbarre, poco meno di 7 euro per le attività trattamentali, 41 centesimi servono agli asili nido per i figli mentre il servizio sanitario per i detenuti assorbe a persona 22,81 euro. Dei 3.511 euro spesi al mese, 150,24 vengono impiegati per mantenere la struttura. 110,28 euro servono per le utenze. La manutenzione ordinaria invece costa 8,18 euro con la straordinaria che ne richiede 12,53. Le locazioni valgono 4 euro e 50 mentre le manutenzioni di automezzi 2,51 con l’esercizio che costa 2,52 euro per detenuto. Lo stanziamento complessivo del governo per il 2012 è di 2.802.417.287 euro, in discesa rispetto al 2011 ma più di quanto non stanziato nel 2010. Per il 2013 è rimasto pressoché invariato a quello del 2012. La maggior parte del denaro speso come abbiamo visto, serve a tenere in vita l’amministrazione mentre il detenuto, in quanto tale, non incide granché. Si è calcolato che per colazione, pranzo e cena, lo Stato spende ogni giorno, per ogni detenuto, circa tre euro. Moltiplichiamo i tre euro per i 67mila detenuti, e questa cifra per 365 giorni, abbiamo circa 70mila euro l’anno. Ora non v’è chi non sa che chi può, in carcere, il vitto se lo paga, e questo evidentemente perché quello che passa lo Stato non è tra i migliori. Sempre il DAP ci informa che la Norvegia stanzia ogni anno due miliardi di euro, una cifra inferiore alla nostra. Sarà che i detenuti in quel paese sono di meno, o quello che volete, fatto è che in quel paese si spendono poco più di 12mila euro per detenuto. E la situazione delle carceri, la loro vivibilità, è infinitamente superiore alle nostre. Dopo la Norvegia, viene il Regno Unito, la media in quel paese è di 4.600 euro a detenuto. Poi veniamo noi italiani, e dietro di noi i francesi con 3.100 euro al mese per carcerato. Dal 2007 al 2010 le spese sono state ridotte del 10 per cento, e in modo diseguale: il personale si è visto amputare un buon 5 per cento del suo budget; riduzione che sale al 31 per cento quando riguarda detenuti e strutture penitenziarie. Complessivamente dal 2001 al 2010 le carceri italiane ci sono costate qualcosa come 29 miliardi di euro. Ho parlato del carcere e del detenuto. Occorre però essere consapevoli che detenuti e carceri sono uno degli aspetti della più generale questione Giustizia; il carcere è il fenomeno più appariscente, ma è l’intero comparto della Giustizia che non funziona. Il suo cattivo funzionamento, con tutti i suoi errori e le sue lungaggini nei processi ci costa un buon punto di Pil ogni anno. Lo ammette senza mezzi termini il presidente della Bce, ed ex governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che tempo fa quantificò in diciotto miliardi di euro il costo dovuto alle inefficienze nelle aule di tribunale. Perché c’è un collegamento tra gli errori della giustizia e l’economia italiana, soprattutto se una azienda straniera rinuncia a investire nel nostro Paese per timore di affrontare un eventuale contenzioso che avrebbe tempi infiniti. Per dare un’idea: nei paesi Ocse, in media, occorrono 511 giorni per risolvere una controversia di natura commerciale. In Italia, ne servono 1.210. Le spese legali alla fine assorbono il 30 per cento del valore della causa, in Francia e Germania le stesse spese oscillano tra il 17 e 14 per cento. Il centro studi di Confindustria ha calcolato che se nel periodo 2000-2007 i processi fossero durati la metà del tempo l’Italia avrebbe potuto vantare un incremento di PIL pari a due punti aggiuntivi rispetto agli otto effettivamente registrati. Solo nel 2011 lo Stato italiano ha riconosciuto risarcimenti per circa 46 milioni di euro per errori giudiziari o ingiuste detenzioni. Questa la situazione, questi i fatti, che richiedono profonde e incisive riforme e coraggiosi provvedimenti. Marco Pannella, ma non solo lui, ritiene che il primo di questi provvedimenti debba essere un provvedimento di amnistia, seguito da un nuovo indulto. C’è chi non è d’accordo. Dicono che così si nega la giustizia, che non è giusto. D’accordo: amnistia e indulto sono sconfitte dello Stato che non sa e non riesce ad assicurare giustizia in tempi rapidi. Ma intanto ci sono circa 500 casi al giorno di procedimenti e di reati che vengono prescritti; sono circa 150mila prescrizioni l’anno che costano allo stato 84 milioni di euro. Faccio solo un esempio: tempo fa a Bologna, nel corso di un’ispezione ordinaria disposta dal ministero della Giustizia, si scoprì che in un armadio, chiusi a chiave e dimenticati, c’erano per 3.300 fascicoli di indagine. Si trattava di furti, ricettazioni, reati ambientali. Tutti caduti in prescrizione. Giustizia: Garanti dei diritti dei detenuti “no tagli su dirigenti penitenziari dalla spending review” Ansa, 17 novembre 2013 I Garanti dei diritti dei detenuti con una lettera inviata nei giorni scorsi al Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, al Ministro dell’Economia e delle Finanze Fabrizio Saccomanni, al Presidente della Commissione Giustizia del Senato Nitto Palma e della Camera Donatella Ferranti ed al Presidente della Commissione Ministeriale di studio in tema di interventi in materia penitenziaria Mauro Palma, hanno chiesto che i dirigenti penitenziari siano esclusi dalla spending review e che, invece, siano implementati i loro organici. “Già durante il precedente Governo - si legge in una nota - i Garanti dei diritti dei detenuti, in un’apposita lettera a firma congiunta indirizzata all’allora Ministro della Giustizia, avevano stigmatizzato il riesame della spesa dell’Amministrazione Penitenziaria, ed oggi hanno ribadito con forza la loro contrarietà a provvedimenti che abbiano ad oggetto la riduzione del numero dei dirigenti penitenziari”. Giustizia: in carcere, dove la disabilità è davvero invisibile di Franco Bomprezzi Corriere della Sera, 17 novembre 2013 Per fortuna esiste la cronaca. Ossia i fatti. E chi li rivela senza nasconderli. Come ha fatto, oggi, il Garante dei Detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, rendendo noto un episodio incredibile, che giustamente è stato subito portato all’attenzione dei lettori anche dal Corriere della Sera. Un detenuto tenta il suicidio, in una cella del G11, piano terra di Rebibbia. A salvarlo è la prontezza del suo compagno di cella, che si butta per terra, si colloca sotto i suoi piedi e ne sostiene il peso, evitando che il cappio improvvisato consenta l’esito finale del gesto. Il fatto è che il salvatore è una persona con disabilità, che vive in sedia a rotelle. Non ha esitato a gettarsi dalla carrozzina, un gesto non naturale e anche pericoloso, in uno slancio di umanità che di per sé ci interroga sulla realtà del carcere, sulla drammatica situazione nella quale queste persone si trovano a vivere.“Le celle ed i servizi utilizzati non sono adeguati - dice il Garante Angiolo Marroni - per ospitare disabili. Mancano i supporti e capita spesso che i detenuti siano costretti a stare tutto il giorno in cella. Nel G 11 ci sono persone affette da patologie gravi, che avrebbero bisogno di ben altra attenzione”. Ecco, adesso lo sanno tutti. Fino a ieri le poche notizie certe relative alla condizione carceraria delle persone con disabilità circolavano quasi clandestine, basate peraltro su studi seri, come la ricerca di Catia Ferrieri (università di Perugia), che rivela un dato impressionante: sono oltre 200 le persone con disabilità motoria detenute nelle carceri italiane. E quasi uno su due è costretto in celle e in edifici con barriere architettoniche. Difficile persino quantificare esattamente il fenomeno, visto che al questionario proposto dalla ricercatrice hanno risposto solo 14 dei 416 istituti penitenziari italiani. Non ci sono elementi certi circa il rispetto dei diritti umani, quelli sanciti dalla Costituzione, ma anche quelli della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità (legge dello Stato Italiano) che all’art. 14 (“Libertà e sicurezza della persona”) dichiara: “Gli Stati Parti assicurano che, nel caso in cui le persone con disabilità siano private della libertà a seguito di qualsiasi procedura, esse abbiano diritto su base di uguaglianza con gli altri, alle garanzie previste dalle norme internazionali sui diritti umani e siano trattate conformemente agli scopi ed ai principi della presente Convenzione, compreso quello di ricevere un accomodamento ragionevole”. Ecco: un accomodamento ragionevole. Difficile comprendere ad esempio perché il 27,3 dei detenuti disabili sia in carcere in stato di custodia cautelare, ossia prima della sentenza. Arduo immaginare la possibilità di fuga in sedia a rotelle, ma non si sa mai. Difficile avere informazioni sulla qualità delle cure, sulla competenza dei medici, degli infermieri, che dovrebbero intervenire per garantire, anche in carcere, la salute dei detenuti disabili. Ecco perché l’episodio di Roma mi auguro abbia trovato l’immediato interessamento, almeno telefonico, del ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. Un tema sul quale nessuno ragionevolmente troverebbe da obiettare, nel caso in cui il ministro si desse da fare con decisione per ripristinare condizioni di umanità e di pari dignità. Giustizia: la Cancellieri rischia di essere indagata; vertice dei pm torinesi, atti verso la capitale di Giusi Fasano Corriere della Sera, 17 novembre 2013 C’è una telefonata, l’ultima venuta alla luce, che potrebbe cambiare tutto. Sono quei minuti che la Guardasigilli Annamaria Cancellieri ha passato al telefono con l’amico Antonino Ligresti il 21 agosto scorso. Perché è quella chiamata che adesso sembra destinata a diventare il motivo di una sua iscrizione nel registro degli indagati. I magistrati torinesi decideranno forse già domani. Reato possibile: false informazioni al pubblico ministero. Una strada quasi obbligata per la procura dopo l’informativa arrivata dalla Guardia di Finanza il 6 novembre sui contatti telefonici fra le famiglie Ligresti-Cancellieri. L’elenco dei tabulati rivela una chiamata, il 21 agosto, fra la ministra della Giustizia e il fratello di Salvatore Ligresti, Antonino, della quale Annamaria Cancellieri non fece parola quando fu sentita dal pm Vittorio Nessi il 22 agosto. O meglio: spiegò a verbale che il 19 agosto aveva parlato con l’amico Antonino delle condizioni di salute della nipote Giulia Maria Ligresti (in carcere dal 17 luglio) e che si era poi attivata con i vice-capi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria perché “facessero quanto di loro stretta competenza per tutelare la salute dei carcerati”. Disse però di aver ricevuto la chiamata, non di averla fatta come risulta negli atti della procura. Nello stesso verbale parlò anche dell’ormai famosa telefonata con la compagna di Salvatore Ligresti, l’amica di vecchia data Gabriella Fragni (alla quale disse “qualsiasi cosa io possa fare conta pure su di me”). Ma c’è dell’altro. Al magistrato volato a Roma per raccogliere la sua deposizione Annamaria Cancellieri spiegò di non aver più sentito né la Fragni “né altri in relazione al caso Ligresti”, salvo aggiungere che “ieri sera Antonino mi ha inviato un sms chiedendomi se avessi novità e gli ho risposto che avevo effettuato le segnalazioni”. Non va più a fondo sulla risposta data all’amico né, a dire il vero, le viene chiesto di specificare se si sia trattato di un sms o una telefonata (ma dai tabulati portati in procura il 6 novembre emerge che fu lei a chiamare e che la conversazione durò diversi minuti). Ora: in procura è stato possibile mettere assieme il puzzle delle chiamate e delle risposte date dalla ministra soltanto dopo il deposito della nuova informativa, il 6 novembre. Ed è a quel punto, soprattutto davanti alla terza telefonata, che ha cominciato a prendere forma l’ipotesi dell’iscrizione della Cancellieri nel registro degli indagati per false dichiarazioni (dopo aver valutato che non ci sarebbero elementi sufficienti per una ipotetica contestazione del reato di abuso d’ufficio). Una riunione per decidere se imboccare davvero questa strada è prevista per domani fra il procuratore Giancarlo Caselli, l’aggiunto Vittorio Nessi e l’altro magistrato che si occupa dell’inchiesta, Marco Gianoglio. Il primo nodo da sciogliere sarà la competenza territoriale di un eventuale fascicolo a carico della ministra. Le false dichiarazioni al pubblico ministero, sempre se si arrivasse a contestarle, sono state fatte fisicamente a Roma. Quindi gli atti sarebbero trasferiti alla procura romana alla quale spetterebbe poi decidere se la ministra della Giustizia avrebbe commesso il reato abusando delle sue funzioni oppure no: dettaglio anche questo non secondario perché deciderebbe il passaggio o meno del fascicolo al tribunale dei ministri. Il seguito giudiziario del caso Cancellieri è per forza di cose ancora tutto al condizionale anche perché la possibilità di indagarla apre scenari giuridici complicati e, per dirla con uno degli inquirenti, “sarebbe inutile avventurarsi su strade impervie, le ipotesi vanno coltivate soltanto se sono serie”. Certo è che in procura - dove finora è stato sempre sottolineata la “mancanza di rilevanza penale” nel comportamento della Cancellieri - è palese adesso la sorpresa per quella terza chiamata che lei non citò in Parlamento, perché come disse al Corriere , “non me ne ricordavo”. Giustizia: dossier su possibili errori di procedura, sotto accusa finisce anche la Procura di Torino di Guido Ruotolo La Stampa, 17 novembre 2013 Tre mesi quasi in silenzio. Al massimo a difendersi, a spiegare, a rivendicare la correttezza del suo operato in Parlamento e con l’opinione pubblica. Era il 22 agosto quando la procura di Torino interrogò il ministro di Giustizia. Quasi tre mesi dopo, mentre la Procura valuta il da farsi, da via Arenula deflagrano considerazioni molto pesanti: “La scelta di ascoltare il ministro di Giustizia come persona informata dei fatti ha prodotto ab origine una catena di violazioni di regole processuali di indiscutibile gravità”. E ancora: “L’aggiramento di norme fondamentali di garanzia appare ancora più grave in relazione alle prerogative che la legge attribuisce ai ministri della repubblica”. Annamaria Cancellieri, in questi mesi non ha mai voluto esternare dubbi sulla correttezza della procura di Torino, ha vissuto l’interrogatorio come un passaggio necessario per dimostrare la sua lealtà istituzionale, e la correttezza come ministro di Giustizia. Ma i suoi collaboratori, lo staff che mastica di diritto e di procedura penale, hanno “molto sofferto” in queste settimane. In sintesi, la procura di Torino avrebbe commesso cinque violazioni delle regole. Proviamole a sintetizzare così come sono state proposte in diversi colloqui occasionali avvenuti in queste settimane. Il presupposto del coinvolgimento di Annamaria Cancellieri nel fascicolo Fonsai che ha portato alla carcerazione di Salvatore Ligresti e dei figli per aggiotaggio e altro è la intercettazione della telefonata tra la compagna di Ligresti, Gabriella Fragni, e il ministro Cancellieri nella quale l’amica di famiglia dichiara la sua disponibilità a fare qualcosa, esprimendo giudizi negativi sulla stessa inchiesta. La procura, ascoltando la telefonata, avrebbe dovuto scegliere tra due ipotesi di lavoro. Nel caso in cui l’avesse valutata ininfluente ai fini della indagine e penalmente irrilevante, avrebbe dovuto eliminare la telefonata dal fascicolo, distruggendola insomma. Ma legittimamente ha deciso di voler approfondire i contenuti della stessa. Il problema non è, dunque, il se ma il come in questi mesi è stato approfondito l’argomento. Per dirla tutta, e sarebbe la prima violazione delle regole, “la procura avrebbe dovuto mandare le carte al Tribunale dei ministri, magari ipotizzando un abuso d’ufficio nell’esercizio delle funzioni di Guardasigilli”. Il fatto che la Procura di Torino sia orientata a trasmettere gli atti a Roma, al Tribunale dei ministri, e che, all’inizio della settimana, debba solo discutere se inviare il fascicolo senza o con una ipotesi di reato, è una presa d’atto a scoppio molto ritardato di ciò che avrebbero dovuto fare dopo aver sentito quella telefonata. Ma Annamaria Cancellieri fu sentita come persona informata dei fatti senza la presenza di un difensore. Obbligatoria, “perché l’atto istruttorio era finalizzato a capire se il ministro avesse violato la legge, e dunque era finalizzato a trovare fonti di prova”. “Sotto tale profilo vi è un ulteriore violazione di legge, non potendo essere obbligato a rispondere chi viene sentito su fatti che potrebbero implicare una propria responsabilità”. Se le carte fossero state inviate a Roma, ne consegue che quella intercettazione per essere utilizzata avrebbe dovuto avere l’autorizzazione della Camera di appartenenza e se non è parlamentare, del Senato. “Nessuno può dubitare del fatto che il verbale di informazioni raccolto dal procuratore aggiunto il 22 agosto - è la contestazione di via Arenula - esordisce proprio (anche se non se ne dà neppure atto) dalla lettura o dalla indicazione del contenuto della conversazione intercettata”. Finora sono tre le contestazioni di atti illegittimi (violazione della competenza del Tribunale dei ministri, interrogatorio come persona informata dei fatti e non come indagata, violazione delle garanzie costituzionali che impongono l’autorizzazione del Parlamento per l’uso delle intercettazioni di un ministro). Ma ve ne sono anche altre. La polizia giudiziaria ha eseguito verifiche sulle affermazioni del ministro. E infine l’attività della procura di Torino nei confronti del Guardasigilli non è passata attraverso il filtro di un giudice. Lettere: il veleno del privilegio di Moni Ovadia L’Unità, 17 novembre 2013 L’affaire Cancellieri-Ligresti sta per giungere al suo capolinea. Un’ ulteriore intercettazione di una telefonata, questa volta, a quanto riferito, fatta dal Guardasigilli al fratello dell’imputato Ligresti Nino, ne ha rivelato la vera natura. Uno degli ennesimi casi di uso del privilegio di casta e di classe per favorire uno dei “loro”, da cui il nostro Paese è letteralmente infestato. Come finirà tutto ciò? Con il solito glissons sostenuto dal cosiddetto “garantismo” azzurro? Se sì, come si giustificheranno poi le dimissioni chieste al ministro Josefa Idem e ottenute a seguito di un comportamento, a parere di molti italiani, meno grave, ancorché condannabile? Qualora dovesse finire a tarallucci e vino, non ci sarà alcun bisogno di giustificare nulla dato che nel Belpaese la coerenza non è richiesta. In una democrazia un po’ più seria della nostra - e francamente ci vuole molto, molto poco - la Cancellieri sarebbe stata dimissionata senza tanti complimenti all’ascolto della prima intercettazione o della frase: “Non è giusto! Non è giusto!”. Ma noi siamo garantisti - ovviamente solo quando si tratta di politici e di classe dirigente - ovvero garantisti del privilegio. Perché se si tratta di normali cittadini, e soprattutto di poveracci, allora diventiamo implacabilmente forcaioli o “moderatamente” feroci. Gli esseri umani stipati nelle nostre carceri, sono trattati peggio delle bestie da macello, come l’Europa non smette di ricordarci sanzionando la barbarie delle nostre galere. La ragione di questo doppio binario, trae origini dall’ideologia e dalla legittimazione del privilegio in tutte le sue forme di cui il nostro Paese è il regno. L’inoculazione di questo vero e proprio veleno della nostra società, avviene in numerose pratiche perversamente creative come la corruzione in ogni sua espressione, lo spreco delle risorse pubbliche, l’evasione fiscale, la raccomandazione, vera e propria metastasi che devasta il principio di uguaglianza costituzionalmente sancito. L’aggressione letale al diritto all’uguaglianza che garantisce pari dignità, pari diritti, pari opportunità e pari accesso all’eccellenza conoscitiva, corrode i tessuti connettivi della vita stessa, ne annienta il senso e il tasso di qualità. Lo fa nell’individuo e nelle comunità. Il dominio sconcio del privilegio, distrugge la speranza, genera una diffusa sfiducia nel proprio simile, rende impossibili i progetti di trasformazione virtuosa, fa apparire il futuro un incubo, una condanna. I giovani e i ceti deboli, sono le principali vittime di questa violenza tossica. Per ricordare quanto il dominio del privilegio possa essere esiziale, ricordiamo che Primo Levi ci ha ammonito a combatterne la logica con tutte le nostre forze se volevamo scongiurare il ritorno della peste nazista. Lettere: se un giudice può “dispensare” il detenuto dalla Messa domenicale di Alfredo Mantovano Tempi, 17 novembre 2013 È accaduto davvero. Un gip ha rigettato l’istanza di un uomo che chiedeva di interrompere i domiciliari la domenica mattina: in caso di grave impedimento, basta la preghiera. Accade qualche giorno fa in un ufficio giudiziario italiano. Un anziano detenuto agli arresti domiciliari chiede l’autorizzazione a uscire da casa ogni domenica, dalle 11 alle 13, per la Messa. L’istanza non è irragionevole: è in custodia cautelare per reati societari; mentre va in chiesa non può certo inquinare le prove né tentare la fuga. Ma il gip rigetta la richiesta: e fin qui nulla di nuovo rispetto a un rigore forse eccessivo, che però si manifesta spesso prima del giudizio. Il dato singolare è che lo stesso giudice spiega nella motivazione del suo provvedimento che sì, è vero che il diritto canonico obbliga i fedeli ad andare a Messa la domenica, ma il dovere viene meno quando vi è un grave impedimento: e tale è certamente la detenzione. In questo caso il tempo da dedicare alla Messa può essere sostituito dalla preghiera. Grato come cattolico perché un giudice dichiara in un’ordinanza che lo stato di detenzione non è incompatibile con la possibilità di pregare (!), mi chiedo: ma per respingere una richiesta del genere è proprio necessario sconfinare dal codice di procedura penale al codice canonico? Non era sufficiente dire, se ce ne fossero state le condizioni, che il soggetto in questione è pericoloso e non è ammissibile nessuna deroga? Appartiene a un giudice penale il compito di insegnare il corretto adempimento ai precetti della fede, oltrepassando il già impegnativo compito di verificare l’adempimento dei precetti del diritto positivo? Nessuno ha alzato il telefono per chiedere spiegazioni dello sconfinamento, ma proprio per questo vale la pena domandarsi se la libertà religiosa è realmente rispettata quando da un’aula di tribunale si ha la pretesa di stabilire se e quando si può andare a Messa la domenica. Roma: a Rebibbia si impicca in cella, salvato da un altro detenuto che si lancia da una carrozzina Ansa, 17 novembre 2013 Ha tentato di togliersi la vita impiccandosi alle sbarre della cella ma è stato salvato dal compagno di cella, un detenuto costretto su una sedia a rotelle che, accortosi di quanto stava cadendo, si è buttato per terra e lo ha sostenuto fino all’arrivo dei soccorsi. La notizia dell’episodio avvenuto nel Reparto G 11 di Rebibbia Nuovo Complesso, è stata resa nota dal Garante dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Il detenuto disabile che ha salvato il suo compagno di cella ha ricevuto un encomio dalla direzione del carcere. “Nei giorni scorsi proprio il Garante aveva acceso i riflettori sulla difficile situazione sanitaria e logistica del G11 inviando una lettera al capo del Dipartimento dell’ Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino con allegate le denunce firmate da dieci detenuti - si legge in un comunicato -. Nella sua lettera il Garante denunciava la circostanza che il piano terra del reparto fosse utilizzato come Centro Clinico senza averne le caratteristiche tecniche e strutturali e senza la presenza di personale medico e paramedico adeguato. I problemi sono cominciati quando con i lavori di ristrutturazione del Centro Clinico di Regina Coeli, parte dei detenuti malati lì ricoverati sono stati trasferiti a Rebibbia e qui, per ospitarli, è stato adattato a Centro Clinico il piano terra del G 11”. “Il tentativo di suicidio non è direttamente riconducibile alle condizioni della struttura - ha detto il Garante Angiolo Marroni - ma lascia riflettere la circostanza che a salvare questa persona sia stato un altro detenuto costretto a vivere su una sedia a rotelle. Un caso purtroppo non isolato all’interno del G 11. Il problema è che le celle ed i servizi utilizzati non sono adeguati per ospitare disabili”. Padova: morto l’agente penitenziario della Casa di Reclusione che aveva tentato il suicidio www.alsippe.it, 17 novembre 2013 Non ce l’ha fatta il poliziotto della Penitenziaria, spirato ieri all’ospedale di Santorso. Aveva 45 anni Non ce l’ha fatta l’assistente capo del corpo di Polizia Penitenziaria in servizio alla Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova che giovedì della scorsa settimana aveva tentato il suicidio nella sua casa di Villaverla, dopo aver accompagnato la figlia di cinque anni alla scuola materna. Un gesto estremo quello del poliziotto, che si era serrato il collo con una corda, quando è stato salvato in extremis dalla moglie. Le condizioni di A.T. erano apparse subito gravi, ma i medici dell’ospedale di Santorso hanno sperato fino alla fine. Voghera (Pv): picchiato dal compagno di cella schizofrenico, ora sarà risarcito dallo Stato di Filiberto Mayda La Provincia Pavese, 17 novembre 2013 Nino Cerra, detenuto nel carcere di Voghera e, all’epoca, cinquantaduenne, viene dato uno strano incarico: accudire il nuovo compagno di cella, malato psichico, schizofrenico violento. In cambio di questo “lavoro”, a Cerra viene riconosciuto un compenso giornaliero di 60 euro. Peccato che nessuno gli avesse raccontato, era il giugno del 2003, che quel compagno di cella fosse così pericoloso, e non solo a rischio suicidio. Fatto sta nel pomeriggio dell’8 giugno, mentre Cerra riposa, il compagno l’aggredisce, prendendolo a bottigliate in testa e provocandoli gravi ferite anche al volto. Per quella vicenda, dieci anni dopo, il boss della criminalità organizzata calabrese, nella causa civile assistito dagli avvocati Giorgio Lobianco di Voghera e Cladio Linzola di Milano, viene risarcito dallo Stato, che ha riconosciuto colpevole l’amministrazione penitenziaria. Nino Cerra riceverà un risarcimento di circa 10mila euro che, la sentenza è di qualche giorno fa, gli saranno pagati entro 120 giorni, come prevede la legge. La sentenza redatta dal giudice Damiano Spera, uno dei più esperti del tribunale di Milano (competente per questi procedimenti contro l’amministrazione dello Stato), racconta come, di fatto, la direzione carceraria fosse (o dovesse essere) al corrente delle reali condizioni del detenuto messo in cella con Cerra, anche perché erano stati anche i medici vogheresi, in occasione di un esame, a certificarle. Peraltro, si nota, “il Cerra non risultata dotato degli strumenti farmacologici o difensivi) per prevenire o reprimere aggressioni. Ma, molto più concretamente, non era certo suo il compito di fare da “tutore” al compagno di cella. Ferrara: il carcere è più umano, celle aperte 8 ore al giorno in molte sezioni La Nuova Ferrara, 17 novembre 2013 Il degradante trattamento subito dai detenuti nelle carceri italiane ha convinto più volte i giudici delle istituzioni europee ad emettere sentenze di condanna. Risarcimenti sono stati riconosciuti, ad esempio, ai reclusi del ricorso Torreggiani (con una sentenza dell’8 gennaio scorso pronunciata dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo) e intanto cresce la pressione internazionale per obbligare l’Italia a dotare il suo sistema carcerario di spazi, servizi e strutture compatibili con l’idea di dover garantire oltre all’espiazione della pena e al recupero sociale del detenuto anche condizioni dignitose di vita all’interno del carcere. Un orizzonte verso il quale si guarda oggi con maggiore attenzione rispetto al passato. Al punto che alcune prescrizioni iniziano a trovare applicazione concreta negli istituti di detenzione. A Ferrara, su impulso del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, è stato ampliato il regime che consente ai detenuti di poter trascorrere una buona parte del giorno (fino a 8 ore) fuori dalle celle. Studio, sport, progetti culturali (come il teatro), le attività che possono essere svolte all’esterno degli spazi sovraffollati dove i condannati sono obbligati a trascorrere una parte più o meno lunga della loro esistenza. Per motivi di sicurezza il beneficio non è stato esteso a tutti i detenuti, ma la maggioranza delle oltre 400 persone che devono espiare la pena dietro le sbarre oggi ha la possibilità di accedere a questa opportunità, a tutti gli effetti indicata tra le misure che puntano a conseguire una ri-umanizzazione del carcere. A Ferrara la possibilità era già prevista per alcune sezioni, di recente il trattamento è stato esteso ad altre unità. Finora non si sarebbero registrate violazioni. Sulmona (Aq): cure mediche megate, i detenuti scrivono al Tribunale per i diritti del malato Ansa, 17 novembre 2013 Cure negate e mancata assistenza medica. È quanto denunciano una decina di detenuti che hanno scritto al Tribunale per i diritti del malato. “Le lettere iniziano ad essere troppe - fa sapere Edoardo Facchini, responsabile regionale del Tdm - ma anche se ne avessimo ricevuta una il nostro interesse sarebbe stato lo stesso perché i diritti dei detenuti-pazienti vanno tutelati come quelli di tutti gli altri. Abbiamo chiesto spiegazioni ai responsabili del carcere, ma ci è stato detto che è tutto in regola”. “A questo punto siamo nella situazione di dover agire - aggiunge l’avvocato dell’associazione Catia Puglielli - per questo avevo anche pensato di coinvolgere i colleghi della Camera penale, visto che si tratta di una questione molto delicata, col diritto alla privacy che va mantenuto e il dovere da parte nostra di intervenire”. In merito alla chiusura del reparto di Diabetologia in occasione dell’ultimo ponte di Ognissanti (clicca qui), Facchini intende precisare che: “gli interessati erano stati avvertiti, ma noi chiediamo che non si ripetano più situazioni del genere e che la Asl disponga un piano ferie per tempo, evitando nel 2013 la chiusura dei reparti”. Udine: “A scuola di libertà”, gli studenti dell’Enaip visitano il carcere Messaggero Veneto, 17 novembre 2013 Una quarantina di studenti, ieri, è entrata nel carcere di via Spalato per la Giornata di informazione e sensibilizzazione “A scuola di libertà”. I giovani dell’Enaip, accompagnati dal garante dei detenuti Maurizio Battistutta, sono coinvolti nel progetto nazionale che porta la scuola in prigione. “È una tappa di un percorso più lungo che ha preparato i ragazzi a questa giornata - spiega il garante Battistutta -. In questa occasione abbiamo incontrato gli agenti della polizia penitenziaria, oltre al direttore e a tutti i suoi collaboratori per capire come funziona un carcere. In futuro vorremmo parlare con i detenuti, ma è un processo piuttosto complicato che dobbiamo progettare al meglio”. A organizzare l’intera campagna è la Conferenza nazionale volontariato giustizia. “Un modo per promuovere un modello di vera sicurezza sociale - spiega Elisabetta Laganà, presidente della Cnvg -, un modello basato sulla solidarietà, la prevenzione, la responsabilizzazione, attraverso lo scambio di esperienze, le testimonianze di persone detenute e di chi si occupa di questi temi e il confronto con i giovani, cioè i protagonisti di futuri cambiamenti culturali, ma anche con gli adulti, genitori, insegnanti e chi ha voglia di capire più che di giudicare”. È una iniziativa che, se da un lato “contribuisce ad abbattere le barriere culturali ed emotive che fanno del carcere un mondo a sé, per l’altro verso incide sul processo formativo degli adolescenti, aprendo loro gli occhi su cosa significhi violare le leggi e subire la conseguente punizione, ma anche quanto sia faticoso il ritorno alla vita libera, il reinserimento sociale - assicura Laganà -. Il benessere della comunità è legato anche all’organizzazione di interventi preventivi che possano migliorare le capacità dei giovani di esprimere se stessi, innalzare il livello di responsabilità personale e abituarli a una riflessione profonda sui rischi”. (m.z.) Pordenone: è ufficiale, il nuovo carcere sarà costruito a San Vito, nell’ex caserma Dall’Armi di Martina Milia Messaggero Veneto, 17 novembre 2013 Indietro non si può tornare, il carcere sarà costruito a San Vito all’ex caserma Dall’Armi. L’iter è partito. È comparso ieri, sulla stampa, “l’avviso di pubblicazione dell’intesa di localizzazione del nuovo istituto penitenziario nel Comune di San Vito”. La comunicazione, a firma del commissario straordinario del governo per le infrastrutture carcerarie, il prefetto Angelo Sinesio, avvisa che “(…) l’intesa istituzionale per la localizzazione di un nuovo istituto penitenziario nel Comune di San Vito al Tagliamento, sottoscritta il 30 ottobre 2013, è stata pubblicata in data 7 novembre 2013 nell’Albo pretorio del Comune di San Vito, acquisendo così efficacia ai fini della localizzazione e agli altri effetti di legge”. Come si legge nel sito del piano carceri, il sito di San Vito è stato inserito il 18 luglio scorso. Sono seguiti la conferenza di servizi (lo scorso 22 luglio) e sono stati “effettuati sondaggi geologici, geognostici, strutturali e sismici nella dismessa Caserma Dall’Armi - il 30/10/2013 stipulata Intesa, ex art. 17 ter legge 26/2010 numero 26, per la localizzazione del nuovo Istituto penitenziario nell’area caserma “F.lli Dall’Armi”. Il carcere avrà 300 posti, ma i tempi dell’iter amministrativo e soprattutto realizzativo non sono ancora stati inseriti nel sito internet (dove sono stimati solo i tempi di realizzazione del carcere di Catania dove però la gara è già stata fatta e dove si stimano 840 giorni quindi due anni e qualche mese per la costruzione). La caserma che ospiterà il nuovo penitenziario del Friuli Venezia Giulia, è stata dismessa dal Demanio militare e concessa gratuitamente alla Regione che l’ha poi ceduta al Comune di San Vito che inizialmente era interessato a trasformarlo in insediamento produttivo (ipotesi non andata a buon fine). Se Pordenone ha perso la sua chance di realizzare il carcere - dopo 30 anni di attese, polemiche e rimpalli di responsabilità - anche la Regione non potrà avere la risposta che inizialmente immaginava ipotizzando la costruzione di un carcere da 450 posti letto a Pordenone in zona Comina (vicino a dove sarebbe dovuto sorgere il nuovo ospedale), carcere che avrebbe impegnato 20 milioni di fondi regionali (su una spesa complessiva di 45). La nuova struttura costerà quasi la metà di quanto sarebbe costato realizzare il progetto Comina: sono stati stimati, infatti, 25 milioni di euro. I tempi, seppur non indicati ancora dal commissario per l’edilizia penitenziaria - anche perché molto dipenderà dai termini della gara -, sono stimati in circa due anni. Le prime ipotesi stimano il trasferimento del carcere di Pordenone - attualmente ubicato al Castello, in piazza della Motta - nel 2016. Un tempo vicino se paragonato all’iter che di solito accompagna la realizzazione di opere pubbliche, un tempo che impone un’altra riflessione sullo sviluppo della città: che ne sarà dell’edificio che resta? Il Comune ha chiesto alla Regione che “risarcisca” il capoluogo con la cessione del castello a Pordenone. Ma che fare di un nuovo contenitore in un contesto - quello di piazza della Motta - che va ripensato in epoca però di vacche magre? Arezzo: i Popolari al prefetto Sinesio "si recuperi la dignità e la qualità del carcere" www.informarezzo.com, 17 novembre 2013 I Popolari per Arezzo sperano che la visita del prefetto Sinesio possa sbloccare i lavori nella struttura. Due piani su tre sono abbandonati: il loro recupero potrebbe valorizzare la funzione sociale del carcere. Che la visita del prefetto Angelo Sinesio al carcere di Arezzo possa sbloccare i lavori di ristrutturazione della struttura giudiziaria cittadina. Ad augurarselo sono i Popolari per Arezzo che mostrano ottimismo sull'esito dell'incontro di lunedì 18 novembre tra il commissario straordinario del governo per le strutture carcerarie, gli amministratori locali e la direzione del carcere aretino. Al momento la struttura può fare affidamento su tre sole sezioni (una riservata ai collaborati di giustizia e due ai detenuti) ma a fare notizia sono soprattutto i due piani abbandonati dopo l'avvio dei lavori del 2010. Lavori iniziati e mai finiti che hanno limitato drasticamente le zone agibili del carcere e che hanno portato al degrado di gran parte della struttura. "Dal colloquio con alcuni operatori del carcere - spiega il consigliere comunale Luigi Scatizzi - è emersa l'importanza di terminare questi lavori. Le sezioni utilizzabili sono ben tenute e rispondono alle esigenze dei collaboratori di giustizia e dei detenuti, ma la capienza della struttura è comunque ridotta e non sfrutta tutto lo spazio disponibile. La situazione non è drammatica ma, ovviamente, è stata aggravata dall'abbandono e dal deterioramento del tempo: ci auguriamo che l'amministrazione possa trovare i fondi per completare i lavori e riportare il carcere in piena funzione". Il recupero dell'intera struttura servirebbe anche per rivalorizzare pienamente la finalità riabilitativa tipica delle carceri. Il carcere non deve infatti configurarsi esclusivamente come un luogo di reclusione ma soprattutto come un luogo di recupero e di reinserimento: in questo senso sarebbe importante destinare ulteriori fondi per promuovere la funzione sociale della detenzione. Un'attenzione particolare deve essere rivolta a chi opera nel carcere, dai medici agli psicologi, perché assicurino una presenza costante e perché abbiano le competenze e le professionalità per adempiere al loro difficile compito. "Al centro delle politiche carcerarie vi devono essere le persone - aggiunge Lorenzo Roggi, segretario dei Popolari per Arezzo. Siamo consapevoli che il carcere di Arezzo sia un carcere di passaggio o solo per piccoli reati, ma ciò non significa che non possiamo fornirgli un volto più umano con attività e operatori che aiutino il recupero e il reinserimento dei detenuti ospitati. Siamo convinti che la visita del prefetto Sinesio possa essere utile per sensibilizzare sul tema e per migliorare ulteriormente la qualità e la dignità del nostro unico carcere cittadino". Vicenza: Progetto Esodo, i detenuti possono sorvegliare la Basilica e i musei cittadini… di Paolo Mutterle Giornale di Vicenza, 17 novembre 2013 Qualcuno potrebbe sorridere per una proposta che sa molto di contrappasso. Si potrebbe anche ironizzare sul fatto che nessuno meglio di un condannato saprebbe “scovare” e tenere alla larga eventuali malintenzionati. Ma invece la cosa è serissima ed è già stata sperimentata non molto lontano da Vicenza. L’idea (perché per ora di questo si tratta) è venuta all’assessore alla comunità e alle famiglie Isabella Sala, che ha preso spunto da quella Verona che tanto ha in comune con la nostra città (compreso il progetto Esodo che coinvolge le diocesi di Vicenza, Verona e Belluno). “Si potrebbero coinvolgere i detenuti a fine pena per il servizio di guardiania dei monumenti cittadini, come succede già per la casa di Giulietta e all’Arena grazie al progetto Esodo. Da noi potrebbero sorvegliare la Basilica Palladiana o i musei cittadini. Ne parlerò con l’assessore alla cultura”. Ma sembra una di quelle lampadine che si accendono nei fumetti, dato che dei costi della Basilica che gravano sulle casse comunali ne avevamo parlato nel nostro giornale non più tardi di giovedì: oltre 100 mila euro all’anno, solo in minima parte coperti dai canoni per la concessione della terrazza e del loggiato per eventi privati (18.400 euro). Le spese di sorveglianza del monumento da sole hanno assorbito 39 mila euro dai conti di palazzo Trissino . Un esborso che difficilmente sarà azzerato, ma che potrebbe essere quanto mento contenuto coinvolgendo i carcerati a fine pena per il servizio di custodia, proprio come accade in riva all’Adige. Dove anche i sacerdoti hanno colto la palla al balzo: nelle parrocchie di San Nicolò all’Arena e dei Santi Apostoli, il servizio di vigilanza e accoglienza dei turisti è svolto da carcerati, che hanno preso servizio negli edifici sacri. Secondo l’assessore Sala, “il progetto Esodo ha funzionato molto bene sia a Verona che a Vicenza e va assolutamente proseguito. L’altra questione riguarda i molti ragazzi stranieri presenti all’interno del carcere; gli italiani quando escono raggiungono la loro famiglia, ma chi dopo aver scontato la pena non sa dove andare spesso rimane nella nostra città. Un aspetto sul quale dovremo ragionare”. Attivato nel 2011, a Vicenza in due anni il progetto Esodo ha avuto risorse per 1,79 milioni di euro, che in buona parte sono arrivate da Fondazione Cariverona, (capofila assieme alla Caritas e al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria). Sono state coinvolte anche cooperative sociali e associazioni, in quattro settori specifici: formazione, inclusione, lavoro e sostegno alla persona. I percorsi di inclusione lavorativa avviati sono stati complessivamente 250, sfociati in 49 inserimenti in laboratori occupazionali, 98 tirocini e 64 contratti di lavoro a tempo determinato. Finora i reclusi vicentini a fine pena hanno operato attività di saldatura, piccola carpenteria, panificazione e confezionamento di prodotti alimentari . Grazie alla recente riforma dell’ordinamento penitenziario, con la disponibilità dell’Amministrazione comunale ora potrebbero essere coinvolti anche nel settore pubblico, per manutenzioni delle aree verdi (come accade a Padova) o in servizi di guardiania (succede a Verona). Qualcuno storce il naso pensando ai tanti disoccupati che non hanno queste opportunità lavorative. Il modello di Padova e Verona sta però riscuotendo consensi a livello nazionale. “Condivido la proposta di far lavorare i detenuti a fine pena - ha commentato la deputata del Pd Alessandra Moretti, che ha visitato il carcere di Vicenza pochi giorni fa - perché si inserisce in un percorso di reinserimento che riduce il rischio di ricadute e di recidive da parte di chi ha commesso dei reati”. Alle accuse di buonismo, rispondono i dati del rapporto della Caritas: ogni detenuto recluso in Italia nel 2012 è costato 3511 euro al mese, mentre il costo mensile per chi è seguito dal progetto Esodo è stato nello stesso anno di 496 euro. E nel 96 per cento dei casi non torna più a delinquere. Avellino: alla giornalista Teresa Lombardo il premio “Diritti umani in carcere” www.irpiniareport.it, 17 novembre 2013 “La Voce dei minori in carcere” è il tema del concorso nazionale targato Eip Italia (Ecole Instrument de Paix) che ha coinvolto 235 scuole di tutte le regioni italiane e alcuni penitenziari d’Italia (Rebibbia, Larino, Civitavecchia, Nisida, Icatt, Airola, Lauro, Bellizzi Irpino, Secondigliano). 43 gli istituti d’Italia premiati. Sul podio l’Irpinia per la sezione carceri. A ricevere il prestigioso primo premio nazionale “Diritti umani in carcere” l’irpina Teresa Lombardo giornalista professionista e delegata regionale Eip Italia sezione carceri insieme alla squadra della casa circondariale di Airola (Bn) con il direttore dell’istituto Mariangela Cirigliano e Stefania Rinaldi (redattore trimestrale) per il progetto giornalistico “La voce libera” e non solo. Menzione d’onore - per la sezione scuole e poesia - all’istituto scolastico Parzanese di Ariano Irpino (progetto Fidapa - Ariano Irpino). Premiati per il loro impegno a servizio del bene comune il prof. Vittorio Silvestrini presidente di Città della Scienza - Prix International pour la Paix Jacques Muhlethaler 2013 e Pietro Grasso presidente del Senato “Liberi tutti. Lettera a un ragazzo che non vuol morire di mafia” - Premio Ecole Instrument de Paix Italia 2013 “Un libro per i diritti umani”. L’evento è stato patrocinato dalla Maison-Internationale de la Poesie-Enfance Bruxelles, dal Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca, dalla Direzione generale per lo studente, dalla Direzione generale per gli Affari internazionali, dal Ministero Affari Esteri, dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dalle Direzioni scolastiche regionali, dalla Regione Campania, dalla Regione Lazio, Provincia di Roma e Comune di Roma. Bologna: alla Dozza ritrovati 5 grammi di hascisc, la droga portata dal parente di un detenuto La Repubblica, 17 novembre 2013 Ieri mattina gli agenti della Polizia Penitenziaria del carcere della Dozza, struttura perennemente sovraffollata e afflitta da problemi cronici, hanno sequestrato cinque grammi di hashish ad una persona entrata nel parlatorio dell’istituto di via del Gomito per un colloquio con un familiare detenuto. I controlli sono stati efficaci. Lo rende noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, uno dei sindacati autonomi di categoria. “Il visitatore in questione avrebbe dichiarato che la sostanza stupefacente era per uso personale - riferisce il leader sindacale - ma la versione appare poco credibile, senza fondamento”. E resta, al di là dell’ultimo caso, una questione di fondo. In carcere, dove la percentuale di tossicodipendenti è elevata, la droga riesce ad arrivare. Così Durante torna alla carica, con una richiesta che rilancia da tempo, inascoltata: “Ribadiamo la necessità di istituire al più presto le unità cinofile, peraltro previste dal 1995. Purtroppo tra le poche regioni che non sono ancora dotate di cani addestrati, utilissimi per scovare le dosi, c’è anche l’Emilia Romagna”. Palermo: la carovana di “Marco Cavallo” arriva in Sicilia, obiettivo chiusura degli Opg Italpress, 17 novembre 2013 Arriverà domani a Palermo la carovana di “Marco Cavallo”, simbolo dell’abbattimento dei muri dei manicomi, al quale Giorgio Napolitano ha voluto conferire la medaglia del Presidente della Repubblica. Organizzato dal comitato Stop Opg, il tour che dal 12 al 25 novembre toccherà sedici città italiane, entrando in sei ospedali psichiatrici giudiziari per chiederne la chiusura, è un viaggio di denuncia che vuole lanciare anche un allarme: al posto delle Opg si stanno progettando delle strutture speciali in ogni regione (i cosiddetti “mini OPG”), in cui trasferire e rinchiudere nuovamente gli internati. Col rischio che si aprano, al posto dei vecchi manicomi giudiziari, nuovi piccoli manicomi regionali. Ecco perchè la carovana “Marco Cavallo” chiede l’apertura dei centri di Salute mentale per 24 ore. Al cavallo di cartapesta blu, alto quasi 4 metri, i detenuti del manicomio di San Giovanni di Trieste diedero un nome da uomo, come fosse un amico. Nel 1973 Marco Cavallo “ruppe” i muri di quel manicomio dando il via al processo di cambiamento della Legge 180. Da quarant’anni, dopo aver impersonato la battaglia per la chiusura dei manicomi, rappresenta la psichiatria dal volto umano, ma anche la lotta per la libertà e la dignità delle persone. La tappa palermitana di domani, seguita da Barcellona Pozzo di Gotto il giorno successivo, sarà accompagnata da Peppe Dell’Acqua, già direttore del Dipartimento di Salute mentale triestino, uno degli eredi diretti di Franco Basaglia, che della chiusura dei manicomi fece la sua ragione di vita. Libri: “Hai appena applaudito un criminale”, di Daniela Marazita www.brundisium.net, 17 novembre 2013 Il racconto dal primo laboratorio teatrale con i detenuti della sezione G9 “precauzionali” di Rebibbia N.C., con la prefazione del Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. “Un racconto, quasi un diario, che ci trasporta in un mondo straordinario, sconosciuto, estremo. Questo diario ci costringe a interrogarci nel profondo del nostro io, sulle nostre contraddizioni, sui nostri pensieri, sui nostri desideri, sulle nostre pulsioni, su tante di queste cose con le quali spesso noi stessi non andiamo d’accordo, dalle quali ci nascondiamo. Daniela Marazita si immerge e ci immerge in questo mondo fatto di una detenzione tutta speciale, tutta particolare, ovattata all’interno del carcere, circondata da un silenzio che lo contiene e lo estranea. Sono detenuti “diversi”, hanno commesso reati che ci fanno orrore, reati che scuotono le coscienze collettive, che producono rigetto ed indignazione. Ci dice tutto questo offrendoci una realtà fatta di detenuti impegnati seriamente, che vogliono recuperare la propria stima, una realtà fatta di amicizia, anche di affetto reciproco, tra lei e i suoi attori, una realtà fatta di energia e di profonda commozione. Ci avvicina a questa realtà sofferente, che ha prodotto tanta sofferenza, ce la fa conoscere, le consente di esprimersi nel teatro, una delle fondamentali attività artistiche dell’uomo, della sua espressione più libera anche quando è condizionata da un testo scritto”. L’autrice Daniela Marazita, brindisina di nascita, romana di adozione professionale, si cimenta nella letteratura dopo aver svolto con successo l’attività di attrice: ha lavorato, tra gli altri, con Luca De Filippo, Giorgio Albertazzi, Maurizio Scaparro, Flavio Bucci, Luca Zingaretti. Inizia la sua attività professionale all’inizio degli anni ottanta con il drammaturgo e regista Ugo Chiti ricoprendo importati ruoli negli spettacoli: Visita a Kafka, L’epopea di Gigalmesh, Lune di carnevale, Telenovela Hollywoodiana. Con Luca De Filippo recita in Uomo e galantuomo, Don Giovanni, ‘O scarfalietto, Ogni anno punto e daccapo. Lavora con Umberto Orsini (Il piacere dell’onestà), Flavio Bucci (Il borghese gentiluomo, Il fu Mattia Pascal, Uno nessuno e centomila, Shakespeare: una notte incantata d’estate, Venga a prendere il caffè da noi). È diretta da Maurizio Scaparro ne “Le memorie di Adriano” con Giorgio Albertazzi e ancora coprotagonista con Graziano Giusti ne La probabile identità di Winston e Clementine. Con Vincenzo Salemme è interprete in varie commedie tra le quali: Lo strano caso di Felice C., Sogni bisogni incubi e risvegli, La gente vuole ridere, Passerotti o pipistrelli? Questi fantasmi! Con Giancarlo Sepe allestisce “…e ballando ballando” e “Puccini” e con la Compagnia dei Liberi Artisti Associati va in scena con “sezione G12 Alta Sicurezza del Carcere di Rebibbia N.C. Amleto- indagine sulla vendetta per la regia di F. Cavalli”. Sul grande schermo cinematografico recita nei film di Vincenzo Salemme (1998 L’amico del cuore, 1999 Amore a prima vista, 2002 Volesse il cielo, 2003 Ho visto le stelle e 2008 No problem) e in “Si può fare l’amore vestiti” (2012 di D. Acocella). Partecipa a diversi film/sceneggiati per la Tv come “La squadra” (1994), Un posto al sole (1994), La dottoressa Giò (1995), Carabinieri (1997), Padri e figli (1998), Camici bianchi (1999), Gente di mare (2000), Il commissario Montalbano (2004), Ho sposato uno sbirro (2010) e Il segreto dell’acqua (2012). Tra i premi ricevuti meritano menzione il premio “Città di Brindisi” per i primi venti anni di carriera artistica (2002), l’indicazione come Donna dell’anno dal club dell’Inner Wheel (2005), il premio Rotary (2006) ed il premio Vela Latina (2007). Ha partecipato inoltre ad importanti festival nazionali ed internazionali quali La Versiliana, Festival di Benevento, Festival dell’unione dei teatri d’Europa, Grec 987 a Barcellona, Todi Music Fest 2001, Todi arte festival 2003; Els Napolitains 2005 Barcellona. È stata protagonista di vari cortometraggi ricevendo segnalazioni speciali ed un premio personale come migliore attrice per “Troppo vento” di F. Mollo. È autrice dell’opera teatrale ‘Quel barbaro dov’è?’ della quale è anche interprete diretta dalla regista israeliana Glenda Sevald. Daniela anima da molti anni un laboratorio teatrale, il primo in Italia, nel carcere romano di Rebibbia. Così il libro è un racconto, una specie di cronaca in cui il vissuto altrui intreccia il proprio come un diario personale di un’esperienza straordinaria che solo lei, attrice di teatro appunto, ha fatto. Immigrazione: Nieri; la legge Bossi-Fini? se fossi un magistrato non l’applicherei Ansa, 17 novembre 2013 “La Bossi Fini è una legge che ha riempito le nostre galere: se anche fossi un magistrato, non l’applicherei mai. Quando ho fatto il consigliere regionale, ho girato molto le carceri della nostra regione e ho visto di persona quanti danni crea una legge come quella”. Lo ha dichiarato il vicesindaco di Roma Luigi Nieri ospite di KlausCondicio, talk show politico condotto da Klaus Davi su You Tube. Nieri ha poi aggiunto: “Faccio mio un appello rivolto al servizio pubblico ma anche ai tg e ai programmi di news dei network privati, che nei Tg non si dica mai più la parola ‘extracomunitario’, termine che trovo un po’ razzista ed esclusivo. Mi piacerebbe che, soprattutto che il servizio pubblico, stesse più attento nel linguaggio e alla definizione di quelli che sono a tutti gli effetti nuovi italiani, o comunque concittadini. Credo che il linguaggio abbia un enorme potere come ci insegna Orwell - ha proseguito il sindaco - e che la comunicazione non debba sottolineare differenze o diversità in una logica discriminatoria, bensì lavorare per l’inclusione e l’integrazione, per cui auspico che almeno in Rai ci sia presto una svolta”. Nieri ha anche auspicato che la Rai dia più spazio ai nuovi italiani come accade in tutte le tv europee: “Mi piacerebbe che la Rai fosse come la Bbc o France 1, o l’Ard dove conduttori di colore o altre etnie ci sono a tutte le ore e conducono programmi, perfettamente integrati. In questo senso auspico che la Rai si impegni, perché la comunicazione è importante e dà un forte contributo al cambiamento. In qualsiasi paese sono stato: Inghilterra, Francia Germania tg programmi sono affidati a conduttori dei più vari paesi di provenienza. In Italia una Lilly Gruber di colore non c’è. Questa è una anomalia francamente che va cambiata”. Stati Uniti: appello a Obama (anche da italiani): rilascia i cubani detenuti negli Usa di Stefania Spatti www.america24.com, 17 novembre 2013 A lanciarlo 55 personaggi tra cui Vattimo, Don Gallo, Carla Fracci, Fiorella Mannoia e Martin Sheen. Il caso dei “Cuban Five” è un esempio delle tensioni diplomatiche tra Washington e l’Avana. C’è il filosofo Gianni Vattimo. C’è Don Andrea Gallo. C’è la cantante Fiorella Mannoia e la ballerina Carla Fracci, l’attore Ascanio Celestini e l’artista Moni Ovadia. Ma anche gli attori americani Danny Glover e Martin Sheen (noto per il suo ruolo da protagonista nel film del 1979 “Apocalypse Now”) e il musicista jamaicano Javier Sotomayor. Loro e altri personaggi - in totale 55 - del mondo della politica, della cultura, dello spettacolo e dello sport hanno lanciato oggi un appello al presidente americano Barack Obama. Attivi in tutto il mondo, chiedono la liberazione immediata di quelli noti come “Cuban Five”, i cinque cubani condannati e detenuti negli Stati Uniti (a dire il vero uno di loro è stato liberato dopo 13 anni nell’ottobre 2011 ed è tornato a Cuba lo scorso aprile. Sotto potete vederne l’intervista in esclusiva condotta da Democracy Now). La richiesta è stata lanciata dal sito www.vitadura.it, dove in un video ognuno di loro sostiene in modo personale la causa che riguarda Gerardo Hernández Nordelo, Ramón Labañino, Antonio Guerrero Rodríguez, Fernando González Llort e René Gonzalez Sehweret. Le autorità americani li hanno accusati di spionaggio e di infiltrazione nel territorio degli Stati Uniti come agenti segreti di uno Stato straniero. Processati a Miami, sono stati condannati a pene esorbitanti, si legge nel comunicato diffuso oggi Vita Dura, in violazione del Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite. Non a caso in più occasioni varie organizzazioni internazionali, dalla Commissione per le detenzioni arbitrarie delle Nazioni Unite ad Amnesty International, hanno dichiarato illegale la detenzione perché contraria alle più elementari norme del diritto internazionale e di tutela dei diritti umani. Per questo motivo, si ricorda nella nota, l’Onu ha dichiarato nullo il processo, durante il quale non sono state rispettate le minime garanzie di difesa, e ha chiesto al governo di Washington di rimetterli in libertà. Negli anni molti parlamentari dei Paesi europei, intellettuali, artisti e dieci Premi Nobel (Jose Ramos-Horta, Wole Soyinka, Adolfo Pérez Esquivel, Nadine Gordimer, Rigoberta Menchú, José Saramago, Zhores Alferov, Dario Fo, Günter Grass e Máiread Corrigan Maguire), hanno lanciato appelli e promosso iniziative per la liberazione dei cinque. Il caso ha più volte sollevato l’ipotesi di uno swap - rifiutato dagli Stati Uniti - in base al quale Washington avrebbe rilasciato i “Cuban Five”, considerati eroi nel loro Paese da quando sono stati catturati nel 1998, in cambio della liberazione da parte dell’Havana del cittadino americano Alan Gross, detenuto dal 2009 perché accusato di avere portato illegalmente nell’isola attrezzature di telecomunicazioni. Lo scorso 4 novembre una congresswoman del Sud della Florida ha chiesto la liberazione incondizionata di Gross.