Giustizia: i costi, non solo umani, del carcere di Valter Vecellio Notizie Radicali, 12 novembre 2013 Mesi fa a chi scrive è capitato di visitare il carcere di Capanne vicino Perugia. Un braccio sovraffollato, con i detenuti che vivevano uno sopra l’altro; il braccio accanto vuoto, con le attrezzature nuove che andavano alla malora. Spontaneo chiederne la ragione. La spiegazione è stata che non avendo agenti di polizia penitenziaria sufficienti per assicurare quei criteri minimi di sicurezza che vanno assicurati, erano costretti a tenere stipati come sardine i detenuti da una parte, mentre dall’altra le celle erano vuote. Un paradosso che, ci si augura, nel frattempo si sia superato, anche se è da credere che non sia un caso isolato. A fronte di questa situazione altri paradossi. Carcere di Avezzano, provincia l’Aquila: 76 detenuti, 54 tra ispettori, agenti e sovrintendenti. A Gela, in provincia di Caltanissetta, 90 detenuti, 61 tra agenti, sovrintendenti e ispettori. A Foggia e Trani, in Puglia, si registra una vistosa carenza di organico; ma nella vicina Lucera 182 detenuti e 105 agenti. A San Severo 88 detenuti per 65 agenti. Siamo insomma a quasi un detenuto “ad personam”… Poi ci sono episodi che è davvero difficile comprendere, come il caso del carcere minorile di Lecce: 22 agenti, 15 impiegati, nessun detenuto. Il centro è vuoto. Ed è vuoto dal 2007, perché c’era bisogno di lavori di ristrutturazione. Sei anni di lavori di ristrutturazione…ai dipendenti, secondo quanto riferiscono articoli di stampa e servizi giornalistici, si pagavano perfino gli straordinari. Interviene il ministero di Giustizia, e viene diffuso un bel comunicato: “Conclusi i lavori di ristrutturazione, si sta lavorando alla verifica delle ipotesi di riattivazione della struttura, da destinare ad interventi rivolti all’area del disagio giovanile”. Ecco: già uno che si esprime così, meriterebbe di finirci lui, in carcere. Quel comunicato era dell’ottobre 2012. Siamo al novembre 2013. Della riattivazione della struttura non si sa nulla. Questi sono esempi credo emblematici di “costi” e di gestione che non corrisponde a quel tipo di amministrazione che s’usa dire del “buon padre di famiglia”. Sandro Gozi, vice Presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa con delega alle carceri definisce "L'Italia delinquente abituale, basti guardare le ripetute condanne ricevute per le stesse problematiche, in primis sovraffollamento delle carceri e lentezza dei processi. Su 47 Paesi del Consiglio d'Europa, noi "produciamo" l'11 per cento delle condanne corte, dietro solamente a Russia (22 per cento), e Turchia (13 per cento)". I costi di questa realtà sono altissimi: solo per la lentezza dei processi, infatti, dobbiamo alla Corte ancora 500 milioni di euro. Inoltre, se entro maggio 2014 non risolveremo l'emergenza carceri, la ripresa dei processi contro l'Italia ci costerà altre centinaia di milioni di euro, "avremo da pagare 100mila euro ogni 7 detenuti che fanno ricorso, ossia ogni anno dovremo pagare multe per 60-70 milioni". Pagheranno tutti i contribuenti italiani, obbligati a pagare per l'illegalità dello Stato. Un giornalista abituato da sempre a occuparsi di economia, di conti e cifre, parlo di Enrico Cisnetto, qualche giorno fa ci ha ricordato che il pessimo funzionamento della giustizia italiana è “un grosso ostacolo che allontana gli investitori stranieri dall’Italia”, e che si tratta di una questione “sempre più avvertita dalle imprese, non solo per il carico economico che devono sopportare, ma soprattutto perché il cattivo funzionamento della giustizia costituisce un grosso ostacolo per gli investimenti”. E questo è un primo dato circa i costi - sotto forma di mancati guadagni - che ci procura il pessimo funzionamento della giustizia. Poi ci sono le spese vere e proprie. La Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo ha condannato l’Italia a pagare 100 mila euro per danni morali a sette detenuti nelle prigioni di Busto Arsizio e di Piacenza. Dal momento che i sette vivevano, o forse vivono ancora, nelle stesse identiche condizioni degli altri 67mila detenuti, immaginate un po’ a che cifra astronomica si arriva se alla questione del sovraffollamento non si pone un immediato rimedio. L'Italia ha anche un'altra maglia nera: dopo Ucraina e Turchia, siamo il paese con più detenuti in attesa di un primo giudizio, oltre 14mila su 67mila e rotti, in percentuale il 21,1 per cento. Ora è vero che le statistiche sono quella cosa per cui se io mangio due polli e il mio vicino nulla, risulta che abbiamo mangiato un pollo a testa. Ad ogni modo, le statistiche dicono che circa la metà di quel 21 per cento verrà alla fine dichiarato innocente, e dunque ha patito un’ingiusta carcerazione. Immaginate quindi a quanto può ammontare quel 10 per cento di risarcimenti che vanno prima o poi corrisposti. Il Consiglio d’Europa ci ricorda che dopo la Serbia e la Grecia, il nostro paese è quello con il maggior sovraffollamento nelle carceri: 147 detenuti per ogni 100 posti, più o meno. Siamo al terzo posto per numero assoluto di detenuti in attesa di giudizio, dopo Ucraina e Turchia. Condizioni di vita che inaccettabili e che corrispondono, per ulteriore danno, a un elevatissimo costo di gestione. Nel 2010, per esempio, l'Italia ha infatti speso, escludendo le spese mediche, 116,68 euro al giorno per ogni detenuto. La Francia, prendendo in considerazione anche le spese mediche, ne ha spesi 96,12; la Germania, anche là prendendo in considerazione le spese mediche, 109,38. Poi ci sono i “piccoli” aspetti. Per esempio una cosa credo poco nota: una persona che per una qualunque ragione finisce in carcere, deve pagare un conto diciamo così, di “soggiorno”. Uno si trova sbattuto in cella, magari è perfino innocente, si trova in un cubicolo sovraffollato, con condizioni igieniche spaventose, in più deve pagare circa 50 euro al mese., poco più di un euro e mezzo al giorno. In burocratese si chiamano “spese di mantenimento”; e nelle intenzioni dovrebbero servire a coprire i costi dei pasti, l’utilizzo delle lenzuola, i prodotti per pulire la cella. Una condanna a quattro anni di reclusione, per esempio, costa a chi la sconta 2.400 euro. Ai 13.990 detenuti che lavorano, sia per l’amministrazione penitenziaria che all’esterno, la somma viene detratta direttamente in busta paga. Gli altri pagano in un’unica soluzione, alla fine della detenzione: chi non paga riceve un’ingiunzione e ne risponde con tutto quello che possiede. Quest’obbligo può essere però trasformato in giorni di libertà vigilata, con precise tabelle di conversione: un giorno di restrizione della libertà ogni 250 euro. E poi c’è chi non può pagare perché non ha nulla. In quel caso può chiedere al magistrato la "remissione del debito". A due condizioni: dimostrare di essere nullatenente. E aver tenuto una buona condotta in carcere. Le analisi e la documentazione ufficiale, quella del Dap, ci dicono che un detenuto costa mediamente 3.511 euro al mese. Per il detenuto e le sue esigenze specifiche e proprie, si passa però a 255 euro. Il resto, come si dice, serve per alimentare il circuito penitenziario. Ripeto : sono cifre sulla scorta di documentazione ufficiale; perché se si "naviga" pe siti più o meno attendibili, si deve prendere atto che si danno, letteralmente, i numeri: se ci si attiene ai dati elaborati da "Pianeta carcere" a Rimini un detenuto costa ogni anno 3.384 euro al mese; uno dei sindacati della polizia penitenziaria l’OSAPP, stima al contrario che si possa arrivare a circa 12 mila euro mensili, che mi pare francamente un po’ esagerato, anche se occorre tener presente che sotto la voce “spesa per detenuti” rientra oltre al vitto e l’alloggio anche lo stipendio degli agenti, la manutenzione e la spesa dei veicoli, il costo del personale civile e della mensa. Nel 2012 possiamo attestarci su una spesa di poco più 3.500 euro mensili. 3.100 se ne vano per il pagamento del personale di polizia e civile, mentre il resto copre il vitto e la gestione delle strutture. Quei 3.100 euro servono per pagare la polizia penitenziaria (poco più di 2.600 euro); per il personale civile se ne vanno circa 394 euro; per il vestiario e l’armamento si usano 22 euro; per la mensa ed i buoni pasto quasi 40 eruo; per le missioni ed i trasferimenti meno di 10 euro; 57 centesimi per la formazione del personale, altrettanti per l’asilo nido dei figli dei dipendenti, 41 centesimi per gli accertamenti sanitari. E ora la quota destinata ai detenuti. La media è di 255, euro e qualche centesimo al mese. 138 euro serve a pagare vitto e materiale igienico. 67 euro per il lavoro dietro le sbarre, poco meno di 7 euro per le attività trattamentali, 41 centesimi servono agli asili nido per i figli mentre il servizio sanitario per i detenuti assorbe a persona 22,81 euro. Dei 3.511 euro spesi al mese, 150,24 vengono impiegati per mantenere la struttura. 110,28 euro servono per le utenze. La manutenzione ordinaria invece costa 8,18 euro con la straordinaria che ne richiede 12,53. Le locazioni valgono 4 euro e 50 mentre le manutenzioni di automezzi 2,51 con l’esercizio che costa 2,52 euro per detenuto. Lo stanziamento complessivo del governo per il 2012 è di 2.802.417.287 euro, in discesa rispetto al 2011 ma più di quanto non stanziato nel 2010. Per il 2013 è rimasto pressoché invariato a quello del 2012. La maggior parte del denaro speso come abbiamo visto, serve a tenere in vita l’amministrazione mentre il detenuto, in quanto tale, non incide granché. Si è calcolato che per colazione, pranzo e cena, lo Stato spende ogni giorno, per ogni detenuto, circa tre euro. Moltiplichiamo i tre euro per i 67mila detenuti, e questa cifra per 365 giorni, abbiamo circa 70mila euro l’anno. Ora non v’è chi non sa che chi può, in carcere, il vitto se lo paga, e questo evidentemente perché quello che passa lo Stato non è tra i migliori. Sempre il Dap ci informa che la Norvegia stanzia ogni anno due miliardi di euro, una cifra inferiore alla nostra. Sarà che i detenuti in quel paese sono di meno, o quello che volete, fatto è che in quel paese si spendono poco più di 12mila euro per detenuto. E la situazione delle carceri, la loro vivibilità, è infinitamente superiore alle nostre. Dopo la Norvegia, viene il Regno Unito, la media in quel paese è di 4.600 euro a detenuto. Poi veniamo noi italiani, e dietro di noi i francesi con 3.100 euro al mese per carcerato. Dal 2007 al 2010 le spese sono state ridotte del 10 per cento, e in modo diseguale: il personale si è visto amputare un buon 5 per cento del suo budget; riduzione che sale al 31 per cento quando riguarda detenuti e strutture penitenziarie. Complessivamente dal 2001 al 2010 le carceri italiane ci sono costate qualcosa come 29 miliardi di euro. Ho parlato del carcere e del detenuto. Occorre però essere consapevoli che detenuti e carceri sono uno degli aspetti della più generale questione Giustizia; il carcere è il fenomeno più appariscente, ma è l’intero comparto della Giustizia che non funziona. Il suo cattivo funzionamento, con tutti i suoi errori e le sue lungaggini nei processi ci costa un buon punto di PIL ogni anno. Lo ammette senza mezzi termini il presidente della BCE, ed ex governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che tempo fa quantificò in diciotto miliardi di euro il costo dovuto alle inefficienze nelle aule di tribunale. Perché c’è un collegamento tra gli errori della giustizia e l’economia italiana, soprattutto se una azienda straniera rinuncia a investire nel nostro Paese per timore di affrontare un eventuale contenzioso che avrebbe tempi infiniti. Per dare un’idea: nei paesi Ocse, in media, occorrono 511 giorni per risolvere una controversia di natura commerciale. In Italia, ne servono 1.210. Le spese legali alla fine assorbono il 30 per cento del valore della causa, in Francia e Germania le stesse spese oscillano tra il 17 e 14 per cento. Il centro studi di Confindustria ha calcolato che se nel periodo 2000-2007 i processi fossero durati la metà del tempo l’Italia avrebbe potuto vantare un incremento di PIL pari a due punti aggiuntivi rispetto agli otto effettivamente registrati. Solo nel 2011 lo Stato italiano ha riconosciuto risarcimenti per circa 46 milioni di euro per errori giudiziari o ingiuste detenzioni. Questa la situazione, questi i fatti, che richiedono profonde e incisive riforme e coraggiosi provvedimenti, il primo dei quali penso debba essere l’amnistia e l’indulto. Dicono che così si nega la giustizia, che non è giusto. D’accordo, amnistia e indulto sono sconfitte dello Stato che non sa e non riesce ad assicurare giustizia in tempi rapidi. Ma intanto ci sono circa 500 casi al giorno di procedimenti e di reati che vengono prescritti; sono circa 150mila prescrizioni l’anno che costano allo stato 84 milioni di euro. Faccio solo un esempio: tempo fa a Bologna, nel corso di un’ispezione ordinaria disposta dal ministero della Giustizia, si scoprì che in un armadio, chiusi a chiave e dimenticati, c’erano per 3.300 fascicoli di indagine. Si trattava di furti, ricettazioni, reati ambientali. Tutti caduti in prescrizione. Giustizia: per gli alimenti prezzi alle stelle ai detenuti, le ditte fanno affari d’oro di Chiara Daina Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2013 I quasi 65 mila reclusi nelle carceri della Repubblica italiana possono decidere di sfamarsi in due modi: usufruendo del “carrello” che gli passa lo Stato che paga 2,90 euro per tre pasti oppure facendo la spesa. Ma il costo di una confezione di pasta o di caffè dietro le sbarre è molto più alto della media. Nelle carceri italiane si fanno affari d’oro. Accade alla luce del sole ogni giorno e riguarda la routine dei pasti quotidiani dietro le sbarre. I quasi 65mila reclusi nelle carceri della Repubblica italiana possono decidere di sfamarsi in due modi: usufruendo del “carrello” che gli passa lo Stato, - colazione, pranzo e cena consegnati direttamente in cella nelle “gavette”, recipienti metallici che ogni detenuto riceve in dotazione al momento dell’arresto - oppure mettendosi ai fornelli, esclusivamente da campeggio. Nel primo caso, la spesa è a carico del ministero della Giustizia, che stanzia 2,90 euro a testa per tre vitti al giorno. Di solito, la qualità del cibo è quello che è e le dosi non saziano mai abbastanza. Nel secondo caso, è il singolo carcerato a pagare la spesa extra, il cosiddetto “sopravvitto”, attraverso un conto corrente postale intestato all’istituto penitenziario su cui la famiglia ha versato dei soldi di tasca propria. La lista della spesa è già pronta, può variare un minimo con le stagioni (d’estate spuntano gelati e pomodorini), ma in generale non concede ripensamenti: al detenuto basta compilare due volte alla settimana un modulo apposta indicando tra gli alimenti disponibili quelli che gli servono. L’elenco comprende oltre ai beni di prima necessità (dalla pasta alle bombolette del gas, assorbenti e carta igienica), cartoleria, sigarette e giornali. Tutto normale fin qui. Se non fosse che chi sta dietro le sbarre non ha diritto alla scelta come chi va al supermercato: lo spaccio interno, dato in appalto a privati, offre un articolo per ogni genere di prodotto, di solito della marca più cara, e zero possibilità di avvalersi di prezzi scontati, offerte, “tre per due” o alimenti da discount. Tanto il detenuto non può non pagare il conto. O cambiare fornitore. Tanto se si lamenta in cella, nessuno lo ascolta. Solo per citare qualche esempio pescato a caso nei listini prezzi delle nostre carceri, da nord a sud: caffè Lavazza (qualità rossa) a 3.39 euro, 250 grammi di burro a 2,55 euro, una confezione monodose (50 grammi) di marmellata a 70 centesimi, olio di oliva (non extravergine) a 5,50 euro, un chilo di biscotti a 4,15 euro, scatola di tonno Rio mare da 80 grammi a 1,05 euro, Scottex (4 rotoli) a 2,39 euro. I marchi non sono naturalmente responsabili di questi prezzi gonfiati e nei vari istituti il prezzo oscilla solo di qualche centesimo. Rare le eccezioni di merce sottomarca in alternativa a quella griffata. Nella casa di reclusione di Bollate (Milano), fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano, o in quella di Padova, dove nel 2011 i detenuti hanno fatto due settimane di astensione dalla spesa per denunciare il caro prezzi, si trova anche il caffè low cost a 85 centesimi. Lussi per pochi, appunto. Lucrare sulla pelle dei detenuti è diventato un gioco da ragazzi. E il via libera arriva direttamente dai piani alti. La ditta che fornisce il vitto è la stessa che ha in mano il servizio di spesa extra e per massimizzare i profitti impone un’offerta limitata a pochissimi marchi, tra i più costosi in commercio. E poco importa se il direttore di un carcere è costretto a mandare indietro camion carichi di frutta e verdura di scarto venduti come merce di prima qualità. “Nessuna azienda è disposta a fornire tre pasti al giorno a meno di tre euro, quindi alla stessa viene affidata anche il sopravvitto perché non lavori in perdita” spiega Alfonso Sabella, a capo della Direzione generale dei beni e servizi del Dap. Va avanti così dal 1920. Risale a quell’anno infatti il Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari, che disciplina la prestazione congiunta di fornitura pasti e gestione dello spaccio (articolo 1, capitolato d’appalto). Una manna per le quattordici ditte che si sono aggiudicate entrambi i servizi nelle 206 carceri italiane. In pratica, un oligopolio con guadagno doppio e assicurato. La Saep spa, per esempio, da anni gestisce gli spacci interni di 26 carceri italiane (di cui otto in Lombardia) e nel 2010 ha registrato oltre 4 milioni di utili. È una delle tredici società controllate dalla Tarricone holding srl, con sede a Balvano in provincia di Potenza e un giro d’affari niente di meno che nel gioco d’azzardo: gestisce due sale bingo (Gioco 2000 e Medusa), una piattaforma telematica per il poker online (Poker mondial network) e la raccolta di scommesse sportive e ippiche (Betflag). Un bel pacchetto di licenze garantito dalla nostra Repubblica. Poi c’è la Arturo Berselli & c. spa, con sede a Milano, che vince appalti dal 1930. È attiva in 20 istituti e nel 2012 ha fatto utili per oltre un milione e mezzo di euro. Altra presenza storica è Claudio Landucci, titolare della ditta omonima, alle spalle una carriera a capo dell’Associazione nazionale appaltatori degli istituti di pena (Anafip), e oggi attivo in sedici prigioni dello Stivale. C’è di più. Per volontà del ministero della Giustizia, gli appalti delle forniture di vitto devono essere effettuati limitando l’ammissione alla gara “alle sole ditte che nel triennio precedente abbiano regolarmente svolto rapporti analoghi con enti pubblici”. Una condizione che non piace all’Antitrust, che il 17 giugno 2005 con una segnalazione al ministero ha chiesto di tenere conto del principio di concorrenza da bilanciare con le esigenze di sicurezza, come stabilito dalla normativa europea. Perfino la sezione delle Marche e della Lombardia della Corte dei Conti per due volte ha respinto i decreti con cui i Dap regionali assegnavano alle ditte gli appalti. Il motivo? Vizi nelle procedure previste dalla legge. Ma dopo otto anni il copione si ripete. E nessuno, neanche per sbaglio, sembra avere intenzione di fare un passo in avanti. È rimasta lettera morta anche la circolare diffusa da Franco Ionta nel 2011, in cui l’ex capo del Dap pretendeva che in sopravvitto ci dovessero essere almeno “tre o quattro articoli per lo stesso genere”. In un’altra circolare del 1996 si chiedeva che il tariffario modello 72 (quello della spesa del sopravvitto) fosse il più ampio possibile. Parole al vento. Alla fine della fiera il detenuto è condannato due volte, alla sua pena e alla negligenza delle istituzioni. Giustizia: la “verità sostanziale”, la “verità processuale” e l’errore umano di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2013 Fatevi un film. Due baroni litigano per la proprietà di un castello; lunga guerra senza vincitori, soldati morti in quantità e soldi finiti; i due decidono di rivolgersi al Re; e il Re dà ragione al barone X che è amico suo. Vi sembra una cosa giusta? Certo che no. Eppure, per centinaia di anni, le cose hanno funzionato così, anche se tutti sapevano che, in molti casi, questo “processo” non era giusto per niente. Ma che alternativa c’era? Guerre infinite con spreco di soldi e soldati? E poi i più deboli, quelli che non avevano soldi e soldati, lo preferivano di gran lunga: con il “processo” avevano una possibilità; in uno scontro violento avrebbero perso di sicuro. Questo film dovrebbe far capire una cosa importante: “processo” e “giustizia” non sempre coincidono; però del “processo” non si può fare a meno, una soluzione ai conflitti diversa dal confronto fisico va trovata altrimenti la società si disgrega e muore. È per questo che è stato inventato il “processo”: i Tribunali distribuiscono torti e ragioni e irrogano sanzioni. Certo, quando questo lo faceva il Re, lo spazio per l’arbitrio e la sopraffazione era enorme; da quando lo fanno i Tribunali dei paesi democratici questo spazio è grandemente diminuito. Ma questa evoluzione non ha fatto venir meno il problema di fondo: tra la “sentenza” e la “giustizia” non sempre c’è coincidenza. Una volta per via dell’arbitrio, ai nostri tempi anche (in qualche caso) e (talvolta) per via dell’errore di chi giudica. Però la necessità di risolvere i conflitti tra i cittadini e di perseguire i delitti con sistemi diversi dalla forza bruta è rimasta; e non è stata trovata una soluzione nuova. Abbiamo, oggi come ieri, bisogno del “processo”. Una volta eliminato l’arbitrio, si è fatto il possibile per eliminare gli errori: leggi chiare e precise (bè…), più gradi di giudizio, garanzie processuali numerose (spesso efficaci solo per i cittadini ricchi che si possono permettere difese tecniche molto costose). Certo, tutto ciò non può garantire che errori non siano commessi. E quindi la diversità ontologica tra la “giustizia” e la “sentenza”, che poi vuol dire tra la “verità sostanziale” e la “verità processuale”, è rimasta. E però, più di questo non si può fare, un sistema diverso non c’è, le “sentenze”, “giuste” o “sbagliate” che siano, sono l’unico modo di regolamentare i rapporti tra i cittadini. Naturalmente ci sono errori ed errori. Alcuni sono evidenti e incontestabili (Tizio è condannato per rapina perché, dice il giudice, il testimone X lo ha riconosciuto; ma non è vero, negli atti processuali non c’è traccia di questo testimone; oppure costui non ha mai detto di aver riconosciuto Tizio). In questi casi il sistema è strutturato in modo da permettere l’eliminazione dell’errore nei gradi successivi. Altre volte però l’errore è inevitabile: tre testimoni dicono di aver riconosciuto Tizio mentre faceva la rapina; si sbagliano tutti ma, in mancanza di altri elementi - un alibi, altri testimoni che dicono il contrario - come si fa a saperlo? E altre volte è opinabile: alcuni testimoni dicono una cosa e altri dicono il contrario, si tratta di valutare chi è credibile; un giudice crede ai primi (e motiva perché) e un altro crede ai secondi (e anche lui motiva perché); uno dei due sicuramente sbaglia, ma quale? Ecco, questi sono proprio i casi in cui “processo” e “giustizia” possono divergere; in cui la verità sostanziale e quella processuale non coincidono. E si può arrivare a una sentenza sbagliata. Che si può fare? Niente. Si seguono le regole, si va avanti in tutti i gradi di giudizio e si accetta la sentenza definitiva. Che, attenzione, può essere proprio quella sbagliata, magari l’errore lo commettono proprio gli ultimi giudici: assolvono un colpevole o condannano un innocente, danno ragione a chi non ce l’ha. Si sono sbagliati. Ma non c’è niente da fare, non ci sono alternative. Non si può eliminare il processo per evitare gli errori, non si può affidare la soluzione dei conflitti alla legge della forza. Naturalmente si possono punire i giudici che commettono errori, così la prossima volta staranno più attenti. Anzi, se si tratta proprio di errori marchiani, li si caccia. Ma come si fa a sapere quali sono gli errori? Alcune volte si può (pensate al giudice che dice che il testimone X ha riconosciuto Caio e non è vero) ma la maggior parte delle volte è impossibile saperlo. Pensate a sentenze diverse sullo stesso caso: i giudici di primo grado hanno assolto, quelli di secondo grado hanno condannato (o viceversa). Uno dei due ha sbagliato: quale? Ecco perché lo sdegno per Tortora arrestato, condannato in primo grado e assolto in appello; o per Scaglia, arrestato durante le indagini e assolto in primo grado (e non sappiamo che succederà nei gradi successivi), è irragionevole. Ognuno può avere le sue opinioni sulla “verità sostanziale” e quindi attribuire la responsabilità dell’errore a quei giudici che l’hanno pensata diversamente da lui. Ma bisognerebbe avere buon senso e obiettività: e se sono io a sbagliarmi? Se avevano ragione i giudici di primo grado che condannarono Tortora? O i pm e i gip che arrestarono Scaglia? E torto quegli altri? Accontentiamoci di escludere corruzione, inimicizie o amicizie con le parti del processo, stupidità totale (casi nei quali il giudice è rimosso e si ricomincia da capo); e, per il resto, accettiamo i limiti dell’uomo: la verità rivelata è per i credenti. Giustizia: irregolarità nelle firme e ritardi, i Referendum Radicali a rischio di Alberto Di Majo Il Tempo, 12 novembre 2013 La Cassazione doveva pronunciarsi alla fine di ottobre. E c’è chi accusa il Pdl: elenchi raccolti in fretta e senza precisione. I referendum presentati dai Radicali, e sostenuti dal Pdl, rischiano di non essere ammessi dalla Cassazione. Le firme potrebbero non bastare. La decisione ufficiale dovrebbe arrivare la prossima settimana ma da giorni si rincorrono sospetti e timori. All’inizio i quesiti erano dodici. Di questi, sei sono stati, di fatto, già “bocciati” visto che non hanno un numero di firme sufficiente. Si tratta dei referendum sulle droghe (niente carcere per fatti di lieve entità previsti dalla normativa sugli stupefacenti), sull’immigrazione (abrogazione delle norme che ostacolano il lavoro e il soggiorno regolare), sull’8 per mille (per far sì che le somme non destinate finiscano solo nelle casse dello Stato), sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e sul divorzio breve. In questo caso ogni quesito ha avuto 200 mila firme. Molte di meno di quelle necessarie. Se dunque è scontato che la Corte di Cassazione non potrà ammetterli, l’ex segretario dei Radicali Mario Staderini promette battaglia: “Ho allegato ai referendum una memoria che specifica che le 500 mila firme non sono state raggiunte non perché i cittadini non volevano sostenere i quesiti ma perché lo Stato non ha messo a disposizione gli autenticatori. Farò ricorso al Comitato dei diritti umani dell’Onu per violazione della Convenzione dei diritti civili e politici dei cittadini”. Ma quelli più popolari sono i referendum sulla giustizia: due puntano a inserire la responsabilità civile dei magistrati, uno a far rientrare nelle funzioni proprie i magistrati fuori ruolo, uno separa le carriere delle toghe, uno contrasta l’abuso della custodia cautelare e uno abolisce l’ergastolo. I primi due, quelli sulla responsabilità civile dei magistrati, hanno 536 mila firme. Ma almeno il 10% delle sigle potrebbero essere ritenute irregolari. Anche perché i problemi nella raccolta e nella consegna sono stati parecchi. Seicento buste sono state spedite, per raccomandata, dai Comuni che hanno raccolto le firme. Ma alcune buste sarebbero arrivate un mese dopo la spedizione. Non solo. Novemila firme raccolte dal Pdl della Calabria e spedite da una società privata il 25 settembre sarebbero giunte in Cassazione alla fine di ottobre. Guardando ai precedenti, proprio il 10 per cento delle firme viene considerato irregolare. Spesso manca l’autenticazione del pubblico ufficiale che ha seguito la raccolta. C’è già chi accusa il Pdl. Di certo c’è il ritardo dell’ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione che, secondo l’articolo 12 della legge 352/1970 (la norma sui referendum) dispone che “l’Ufficio centrale decide, con ordinanza, sulla legittimità della richiesta entro 30 giorni dalla sua presentazione. Esso contesta, entro lo stesso termine, ai presentatori le eventuali irregolarità”. Siamo ben oltre i termini, visto che le firme sono state consegnate il 30 settembre. Giustizia: Favi (Pd) no ai tagli al personale penitenziario, situazione peggiorerebbe Asca, 12 novembre 2013 “I tagli del personale dell’amministrazione penitenziaria rischiano di acuire le sofferenze di un sistema già al collasso e che ripetutamente è stato dichiarato a rischio di trattamenti disumani e degradanti”. Lo afferma Sandro Favi, responsabile carceri Pd. “La piaga dei suicidi in carcere, come quella delle altre emergenze quotidiane, non possono tollerare lo smantellamento di presidi essenziali per la sicurezza e per la cura e il sostegno alle persone detenute. Il governo e il parlamento intervengano affinché questo settore non venga privato di professionalità essenziali. La mancanza di dirigenti, operatori dell’area rieducativa e sociale, di agenti della polizia penitenziaria, può pregiudicare gli interventi legislativi già avviati e quelli che verranno approntati nelle prossime settimane per contrastare il sovraffollamento e per rilanciare la funzione di reinserimento delle pene”, conclude Favi. Giustizia: Manconi (Pd); salviamo Brian, quesiti al ministro per detenuto in dialisi Agi, 12 novembre 2013 Luigi Manconi, presidente Commissione straordinaria per la promozione e la tutela dei diritti umani del Senato ha presentato una nuova interrogazione urgente al ministro della Giustizia sul caso Brian Gaetano Bottigliero, ventiquattrenne romano detenuto in attesa della sentenza di appello, gravemente malato. “Bottigliero - spiega Manconi - in due anni di detenzione ha perso venti chili di peso e, dopo aver denunciato dolori e malesseri per mesi, nel gennaio 2013 è stato ricoverato in pericolo di vita e gli è stata diagnosticata un’insufficienza renale cronica. Bottigliero si trova tutt’ora nell’istituto romano di Regina Coeli e, nonostante si debba sottoporre a dialisi tre volte la settimana, si è visto respingere la richiesta di scarcerazione in quanto il giudice ha ritenuto sussistere pericolo di fuga e reiterazione del reato. Quanti nelle scorse settimane, in Parlamento e nei giornali, hanno criticato una giustizia che, a loro dire, proteggerebbe solo i potenti, hanno ora - conclude Manconi - l’occasione di far sentire la propria voce e di mobilitarsi perché la pena del carcere non diventi pena capitale”. Lettere: la fine di Abdul, che non conosceva il numero della Cancellieri di Pino Corrias Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2013 Non avendo il numero della ministra di Giustizia Annamaria Cancellieri e neppure l’urgenza di fare shopping in via della Spiga, il giovane algerino Abdul Mourat, 25 anni, detenuto nel carcere delle Vallette di Torino per resistenza e lesioni, ha scelto la via più breve per uscire dalla sua cella e dal carcere. Ha arrotolato il lenzuolo. Ne ha passato un lembo nella grata della finestra e l’altro intorno al collo, prima di lasciarsi andare. In questo caso “lasciarsi andare” va inteso nel modo più definitivo possibile, trattandosi del quarantatreesimo morto suicida nelle carceri italiane dall’inizio di questo memorabile 2013: preziosa contabilità dei delitti mai puniti che ogni anno commette direttamente il carcere, la sua struttura labirintica, le sue trappole ben congegnate, la sua attitudine a generare dolore, malattia, violenza, insonnia, farmacodipendenza. A togliere spazio, ossigeno e decenza ai detenuti e a tutto il personale penitenziario. A fare impazzire i parenti. E infine a riempire di chiacchiere una intera classe politica che da due decenni non muove né un mattone né un’idea per porvi rimedio. Nemmeno un numero verde hanno istituito, escludendo quello della ministra. Lettere: Cancellieri, il ministro giusto di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2013 Caro Colombo, ho seguito ogni fase della vicenda Ligresti-Cancellieri sia in rete che in tv e credo di non avere perduto alcun passaggio. Non ho pregiudizi e capisco il voto di sostegno (per via del governo). Ma come ha potuto il Senato, alla fine, applaudire? Serena Credo che quel finale resterà nella storia del nostro Parlamento. Perché bisogna dare atto al ministro della Giustizia di non avere cambiato o edulcorato la storia e di non avere neppure nascosto o minimizzato il rapporto di amicizia e fiducia fra lei e il suo piccolo gruppo di carcerati. Il ministro ci assicura della sua integra mancanza di pregiudizi, della disponibilità e apertura nei confronti di tutti coloro che sono, mentre lei è ministro, nelle prigioni italiane. Non vedo perché non crederle. Però lei conosce soltanto, fra 86 mila detenuti, la nota famiglia Ligresti. E dunque ha avuto la possibilità di esercitare la sua comprensione e la sua umanità (che pure è erga omnes) soltanto in questo piccolo cerchio, reso più stretto dalla frequentazione quotidiana e da un sincero e profondo legame di sentimenti. Si è data importanza alle vicende professionali di un figlio del ministro della Giustizia che ha intrecciato con la famigliola detenuta anche importanti e remunerativi rapporti di lavoro. Ma se le colpe dei padri (in questo caso delle madri) non devono ricadere sui figli, vale anche il contrario. Restiamo alla Guardasigilli Cancellieri. Uno, è vero che ha buoni sentimenti. Due, li ha dimostrati quando Giulia Ligresti, anoressica, ha avuto bisogno di attenzione per non restare in carcere. Tre, se soltanto Giulia Ligresti è uscita dal carcere, per evitare un grave danno fisico e morale, è perché la signora Cancellieri conosce solo lei, e nessun altro ha avuto cura di stabilire buoni rapporti, prima, e di chiedere un intervento salvifico, dopo. Come vedete, tutto si spiega e tutto si può capire. Quanto al voto parlamentare a favore, persino il ministro della Giustizia sa che non riguarda tanto lei quanto il governo. Il presidente Letta lo aveva detto, e il presidente Letta, anche lui con qualche santo in paradiso, ha mantenuto. Stanno andando tutti insieme verso il 2015 e oltre. Però, perché gli applausi? Non vi sembra, ex colleghi senatori, che quel tributo al ministro mono-intervento siano stati uno schiaffo a tutti gli altri carcerati che saranno in carcere per giusta causa, ma, nella loro vita avventurosa, non sono stati capaci di procurarsi un solo amico/ amica di peso, che possa dire cautamente la parola giusta, nei giorni difficili? Furio Piemonte: oltre i cancelli delle prigioni tanta disperazione e povertà di Gabriele Guccione La Repubblica, 12 novembre 2013 Abdul non è che l’ultimo di una lista che, a scorrerla, fa impressione: contiene i nomi e i cognomi di mille e 95 detenuti morti tra le sbarre, di suicidio, malattie, overdose, cause mai accertate. Ogni volta che accade un fatto come quello dell’altra notte alle Vallette c’è chi a quell’elenco aggiunge puntualmente un nome, undici anni di morti nelle carceri italiane, 665 solo i suicidi, quelli certi. Non mancano le tredici case di pena piemontesi, che ospitano 4.773 detenuti, quando in teoria potrebbero contenerne 3.843, quasi mille in meno: negli ultimi cinque anni, secondo i dati raccolti dall’osservatorio permanente di “Ristretti”, in quindici hanno deciso di togliersi la vita. Forse perché non ce l’hanno fatta più a sopportare il peso del carcere, il sovraffollamento, la vita dura: “Ormai la carta igienica viene razionata un rotolo alla settimana perché mancano i soldi”. Forse per paura di dover tornare ad affrontare la realtà fuori da quelle mura: “Il problema del “dopo” per i detenuti è gravissimo - racconta Maria Pia Brunato che, oltre ad essere da qualche mese presidente dell’Ufficio Pio, da quasi otto anni è la Garante dei detenuti del Comune di Torino - C’è almeno la metà dei carcerati ai quali fuori dal carcere manca una prospettiva, una famiglia, una casa, un lavoro, e questo incide sul piano umano, non solo sociale”. Non ci sono solo i suicidi, due fino all’altro ieri, quattro l’anno scorso, come l’anno ancora prima. “I gesti estremi sono la punta di un iceberg - spiega Claudio Sarzotti, giurista dell’Università di Torino, referente piemontese dell’associazione Antigone - Per capire il disagio che si vive nelle carceri, dove ormai il sovraffollamento non risparmia nessun istituto, basta guardare il numero di gesti di autolesionismo, di tentati suicidi, che sono il termometro della qualità della vita dei detenuti”. I dati raccolti dal Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria-Sappe parlano per il Piemonte, solo nel primo semestre di quest’anno, di 44 tentativi di suicidio, 232 atti di autolesionismo, 25 ferimenti, 118 colluttazioni, 430 carcerati in sciopero della fame, 1178 che hanno manifestato per l’amnistia. “Inferno, è un vero inferno”, denuncia il sindacato degli agenti penitenziari Osapp. “Tiriamo giù dalla corda chi cerca di impiccarsi - raccontano i sindacalisti. Con questa carenza di personale gli agenti sono un bersaglio continuo”. Ogni carcere, certo, è una storia a sé: solo le Vallette ospitano 500 reclusi in più rispetto ai mille previsti. “Torino non è nemmeno tra le situazioni peggiori - fa notare Brunato - i detenuti stanno in due in una cella angusta. Il problema grande è l’inerzia della vita all’interno delle celle, e le risorse che ormai mancano dappertutto: non c’è carta igienica, mancano i detersivi, senza parlare dell’assistenza sanitaria”. Tutto questo in una regione, il Piemonte, che resta tra quelle che non hanno ancora un garante regionale dei detenuti. C’è una legge regionale che lo prevede, la numero 28 del 2009, ma da più di quattro anni è ignorata. “Ci sono stati anche cinque detenuti di Asti che hanno diffidato il presidente Roberto Cota perché non è mai intervenuto - dichiara il radicale Giulio Manfredi - Palazzo Lascaris alla fine ha pubblicato un bando al quale hanno risposto in dieci candidati, ma la nomina non è mai stata fatta. Dieci volte in Consiglio regionale ci si è provato, ma ogni volta è saltato il numero legale”. Costerebbe troppo, un terzo dello stipendio di un consigliere regionale, è la giustificazione dei contrari. “Questioni ideologiche”, ribatte Manfredi. Il Pdl ha avanzato una proposta alternativa, ma intanto il Piemonte continua ad aspettare un garante per i suoi detenuti. Emilia Romagna: la garante Bruno contro i paventati tagli alla dirigenza penitenziaria Ristretti Orizzonti, 12 novembre 2013 I Garanti dei detenuti, fra cui Desi Bruno - che svolge questa funzione per la Regione Emilia-Romagna - hanno inviato una lettera ai Ministri della Giustizia, Annamaria Cancellieri, e dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, e ai presidenti delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato. Oggetto: le forti preoccupazioni manifestate dai sindacati dei dirigenti di istituto penitenziario e di esecuzione penale esterna, in vista di una nuova spending review che possa ridurre il numero dei dirigenti penitenziari. Nella lettera - indirizzata anche a Mauro Palma, Presidente della commissione ministeriale di studio in tema di interventi in materia penitenziaria - sta scritto che i Garanti condividono queste preoccupazioni. Una scelta di questo tipo, infatti, “non sarebbe funzionale al progetto che l’Amministrazione Penitenziaria sta perseguendo, dandosi una nuova forma di organizzazione ed operando tanto in termini di razionalizzazione del sistema detentivo quanto in termini di umanizzazione della pena”. Non si può dimenticare, scrivono i Garanti regionali, provinciali e comunali, che occorre mettere a norma un sistema penitenziario ripetutamente colpito da valutazioni europee per le condizioni inumane e degradanti che caratterizzano l’espiazione della pena negli istituti di reclusione. Entro il 28 maggio 2014, l’Italia è tenuta a conformarsi alle indicazioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, adottando azioni in grado di porre rimedio al sovraffollamento; se entro quel termine, l’Italia non avrà sanato la propria posizione, saranno inevitabili ulteriori condanne. Perciò, eventuali tagli alla dirigenza penitenziaria - in un contesto già segnato da attribuzioni plurime di direzioni - non sarebbe strategica, ma disfunzionale, scrivono i Garanti a Ministri e presidenti delle Commissioni parlamentari. Sarebbe un fatto assai negativo, perché la presenza quotidiana di un direttore titolare “è il perno essenziale attorno al quale ruota l’organizzazione della vita dell’istituto penitenziario, con il rischio concreto che l’assenza di singole titolarità delle direzioni possa comportare una caratterizzazione delle detenzione in termini prevalentemente custodiali”. Sardegna: il Sappe a Cancellieri; oltre 3mila persone in cella e agenti sotto organico Ansa, 12 novembre 2013 La situazione delle carceri sarde è “allarmante” e si configura come “emergenza”. Lo denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe), sollecitando un intervento del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. Secondo i dati forniti dal sindacato, al 31 ottobre scorso sono 2.057 (2.020 uomini e 37 donne) le persone detenute nei 12 penitenziari isolani. A queste se ne aggiungono altre 1.175 ammesse a vario titolo a scontare sul territorio sardo misure alternative alla detenzione, misure di sicurezza e sanzioni sostitutive. E a fronte di questi numeri, mancano in organico oltre 600 poliziotti penitenziari, denuncia il Sappe. “È del tutto evidente - sottolinea il segretario del sindacato - che scontare la pena fuori dal carcere, per coloro che hanno commesso reati di minore gravità, ha una fondamentale funzione anche sociale. Nel lavoro di pubblica utilità per i soggetti sorpresi alla guida in stato di ebbrezza, in Sardegna sono impiegate complessivamente 176 persone. Nell’Isola abbiamo anche 583 persone ammesse all’affidamento in prova ai servizi sociali, 22 in semilibertà e 310 in detenzione domiciliare”. Sul fronte delle presenze in carcere, quello di Cagliari è il penitenziario più affollato con 467 detenuti per circa 300 posti letti, seguito da Sassari (334), Lodè Mamone (236) e Tempio (180). Novantotto i reclusi presenti ad Alghero, 101 ad Is Arenas Arbus, 115 a Iglesias, 110 a Isili, 52 a Lanusei, 47 a Macomer, 165 a Nuoro e 152 a Oristano. Sovraffollamento e carenza di personale incidono, secondo il Sappe, sulle condizioni di vita dei carcerati. “Nei 12 istituti penitenziari sardi nel primo semestre del 2013 si sono registrati 180 atti di autolesionismo, 22 tentati suicidi, 25 colluttazioni e 6 ferimenti - ricorda Capece - 184 sono stati i detenuti protagonisti di sciopero della fame, mentre purtroppo 3 sono stati i morti per cause naturali”. Sicilia: appello a Crocetta per nomina del Garante regionale dei diritti dei detenuti Quotidiano di Sicilia, 12 novembre 2013 “Antonello Nicosia come garante peri diritti dei detenuti in Sicilia”. L’accorato appello al Presidente della Regione Rosario Crocetta arriva da Agrigento. A chiederlo con una lettera aperta è Giuseppe Arnone dell’Associazione Autonomie delle Libertà, che nei giorni scorsi è stato promotore della manifestazione tenutasi davanti il carcere Petrusa della città dei templi in inerito al sovraffollamento delle carceri italiane, in particolare quelle siciliane. “Ci appelliamo - ha scritto Anione - all’indiscussa capacità di scegliere di Crocetta, affinché non si ricopra un posto vacante solo a scopo politico come è stato fatto in passato”. Per Amone il garante deve creare un ponte tra i due mondi: “Quello della libertà e quello della reclusione”. In quest’ottica occorre una voce libera e competente in grado di promuovere il rispetto dei diritti di chi è privato della libertà personale. “Serve - afferma il componente dell’Associazione - un professionista conoscitore diretto del microcosmo carcerario, in grado di lavorare in sintonia con tutte le istituzioni interessate alle problematiche penitenziarie avendo come fine il reinserimento dei detenuti nella nostra società. Per questi motivi, il nome giusto è Antonello Nicosia, che - aggiunge - si occupa di carceri da oltre 10 anni, visitandoli, osservandoli da vicino, lavorandoci come formatore volontario, scrivendo e pubblicando di questo argomento. Nicosia -conclude - non ha nessuna tessera politica e persegue un solo obiettivo quello di garantire la dignità dei detenuti”. La lettera del Prof. Giuseppe Arnone Ill.mo Presidente, dopo l’ultima manifestazione avvenuta davanti la Casa Circondariale di Agrigento sulla difficile situazione delle carceri italiane, in particolare quelle siciliane, si fa appello alla S.V. per intervenire tempestivamente nella nomina del nuovo Garante per i diritti dei detenuti in Sicilia. In un momento come questo dove forte è l’attenzione per il mondo carcerario, la Sua sensibilità e il Suo impegno verso tutte le problematiche sociali non possono trascurare di utilizzare uno strumento dalle sorprendenti potenzialità costruttive quale può essere la nomina del garante effettuata fuori dalle logiche politiche. Ci appelliamo alla sua indiscussa capacità di scegliere incondizionatamente nell’intento di dare vigore ai ruoli attraverso le persone e la loro competenza e non viceversa, affinché non si ricopra uno posto vacante solo a scopo politico come è stato fatto in passato. Le chiediamo di utilizzare in modo accurato e prezioso la sua autonomia al fine di dare uno straordinario contributo nella costruzione di una dimensione dignitosa della carcerazione te le strutture penitenziarie presenti nel territorio regionale. Il garante deve creare un ponte tra i due mondi: quello della libertà e quello della reclusione attraverso una voce libera e competente in grado di promuovere il rispetto dei diritti di chi è privato della libertà personale. Serve un professionista conoscitore diretto del microcosmo carcerario in grado di lavorare in sintonia con tutte le istituzioni interessate alle problematiche penitenziarie avendo come fine il reinserimento dei detenuti nella nostra società”. Il garante dovrà essere esperto delle scienze sociali, dei diritti umani, delle attività sociali nelle carceri, nei centri di servizio sociale e nei servizi sociali degli enti che si occupano del reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Il professionista esperto che noi abbiamo individuato è un esperto di trattamento penitenziario, dottore in pedagogia, in scienze sociali e in comunicazione, che a tale competenze unisce l’esperienza di una detenzione ingiusta che gli ha permesso di sviluppare un approccio diretto con la popolazione carceraria per l’esempio di reinserimento sociale e professionale manifestato .Nell’ottica di chi vuole penetrare la dimensione più profonda della rieducazione civica della popolazione carceraria tale scelta appare la più significativa sommando competenze professionali ad esperienze umane che sono in grado di determinare una sensibilizzazione ed una presa di coscienza del mondo penitenziario da parte della società civile. Il dott. Antonino Nicosia, si occupa di carcere da oltre 10 anni, visitandoli, osservandoli, lavorandoci come formatore, volontario, scrivendo e pubblicando di carcere, non ha nessuna tessera politica perseguendo un solo obiettivo quello di garantire la dignità dei detenuti. Torino: detenuto di 25 anni si impicca alle Vallette, ma è solo la punta dell’iceberg di Erica Di Blasi La Repubblica, 12 novembre 2013 Dramma della disperazione l’altra notte alle Vallette. Un detenuto di 25 anni si è ucciso impiccandosi nella sua cella. Abdul Mourat, di origine algerina, si trovava in carcere per resistenza e lesioni: sarebbe uscito tra sette mesi, il 6 giugno 2014. Per togliersi la vita, il detenuto ha costruito un cappio rudimentale con un lenzuolo e l’ha poi agganciato a una grata. Teatro della tragedia, il blocco B delle Vallette. Si tratta del quarantatreesimo suicidio, dall’inizio dell’anno, che avviene nelle carceri italiane: il morto numero 139, se si guarda alla classifica assoluta dei decessi dietro le sbarre. “Quanto accaduto - sottolinea Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria - è da mettere in relazione all’attuale situazione del sistema penitenziario italiano, tenendo conto anche del recente suicidio di un assistente di polizia penitenziaria di servizio a Padova”. Il suicidio dell’altra sera non è però l’unico episodio drammatico avvenuto alle Vallette. A distanza di poche ore, un altro detenuto ha cercato di uccidersi, ferendosi l’addome con una lametta. Le guardie carcerarie sono però intervenute in tempo e sono riuscite a salvarlo. S. G., 22 anni, era riverso a terra con diversi tagli sulla pancia e altre parti del corpo. Portato d’urgenza in ospedale, i medici gli hanno bloccato l’emorragia con una cinquantina di punti. Nei prossimi giorni andrà a trovarlo il suo avvocato, Maria Giovanna Spataro, con l’intenzione di chiarire quanto accaduto. Il ragazzo, originario di Napoli, era finito in carcere per aver commesso una rapina nel capoluogo campano. Era però poi stato trasferito alla Vallette per partecipare a un percorso di riabilitazione attraverso lo studio ed il lavoro. Tra circa una settimana, era in programma l’udienza per discutere la concessione di una misura alternativa rispetto al carcere. “Qualsiasi cosa voglia sostenere l’attuale politica - commenta ancora Beneduci - a Torino, come nel resto d’Italia, la gestione delle carceri resta un inferno a cui sono destinati uomini e donne, anche di polizia penitenziaria, tenuto conto che i detenuti continuano a essere 21 mila più del previsto e i poliziotti penitenziari 8 mila in meno nell’organico”. Una situazione drammatica. E molto spesso, come accaduto appena venerdì scorso, a farne le spese è il personale del carcere. In quell’occasione, un agente venne preso ripetutamente a pugni in faccia da un detenuto. Venne poi portato in ospedale dove i medici lo giudicarono guaribile in cinque giorni. “Chi si trova dentro il carcere - conclude l’Osapp del Piemonte e della Valle d’Aosta - perché sta scontando una pena o perché ci lavora, vive quotidianamente un vero e proprio inferno”. Napoli: Piano del ministero per i colloqui a Poggioreale, stop attese fiume dei familiari di Adolfo Pappalardo Il Mattino, 12 novembre 2013 A luglio il video de Il Mattino che raccontava l’inferno dell’attesa. Quello dei familiari che aspettano, ore ed ore, per parlare con i propri congiunti detenuti nel carcere di Poggioreale. In fila sin dalla notte, come accadeva da trent’anni a questa parte. Mogli o genitori ma soprattutto bambini appoggiati alle grate. Impressionante. Donne anziane tutte vestite di nero, giovani mamme con bambini in braccio che piangono, sacchi di plastica con i panni di ricambio e giovani tatuati. Si brucia, sotto un sole cocente d’estate, si battono i denti d’inverno. Quel video aveva colpito il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri che aveva promesso di intervenire. È stata di parola. Subito aveva spedito a Napoli Francesco Cascini, allora capo dell’ufficio ispettorato e ora vice capo del Dap, che aveva incontrato i vertici della struttura, gli operatori. Riunioni su riunioni per dare una svolta e lasciarsi alle spalle un brutto capitolo. Una svolta. Che è già parzialmente arrivata masi completerà entro la prossima primavera. “La situazione non era semplice - racconta Cascini -: parliamo di 2700 detenuti e circa 500 colloqui al giorno da gestire. In totale 1200 persone fuori in attesa di parlare. Per il momento è bastato un piccolo intervento, fortemente voluto dal ministro, per abbattere le file. È bastato fare una rotazione con le lettere, 4-5 scaglioni di familiari e una turnazione del personale. Questa semplice iniziativa, mi dicono, ha portato a un abbattimento quasi completo delle file. E senza il rischio, come capitava spesso, che dopo una lunga attesa ci si trovasse alla fine dell’accettazione”. Tradotto, per chi non conosce l’inferno del carcere, aspettare ore e poi vederti negare il colloquio. Perché tutte le operazioni burocratiche si chiudevano alla fine della mattinata in una saletta minuscola e angusta. Una beffa ulteriore. Da qualche settimana invece la trafila burocratica va avanti sino al tardo pomeriggio e la saletta è diventata più larga. Non è l’unica novità. Per prima cosa si è fatto uno sforzo ulteriore per rendere più gradevole il colloquio tra genitori e figli. E lo sarà ancora di più. “Ci sarà uno spazio all’aperto, attrezzato, per questi colloqui che si potranno tenere anche di sabato. Pensiamo - continua Cascini -che i ragazzi non debbano perdere un giorno di scuola per poter parlare con i propri genitori”. Sia chiaro il carcere rimane il carcere e i colloqui con i parenti detenuti non sono una cosa gradevole ma si è cercato di migliorare l’ambiente. “Attualmente abbiamo a disposizione 14 sale per 90 detenuti ed entro fine anno - continua sempre il vicecapo del Dipartimento amministrazione penitenziaria - saranno pronte 4 nuove sale. Non con i cosiddetti banconi, che la legge non prevede più se non per i detenuti di massima sicurezza, ma tavoli. Appena pronte, saranno, 3 per volta, ristrutturate secondo questo criterio quelle già esistenti. Farlo in un solo step avrebbe ridotto, per qualche mese, gli spazi per i colloqui. E non ci sembrava giusto”. Dal nuovo anno, quindi, con i tavoli le comunicazioni tra familiari e detenuti avverrà in maniera, se così si può dire, meno costretta. Non più la divisione ferrea tra gli interlocutori ma una maggiore flessibilità per rendere almeno, il più possibile, meno costrittivi i contatti. Arezzo: ristrutturazione del carcere, cantiere fermo e 600mila rimasti € non sufficienti www.informarezzo.com, 12 novembre 2013 La richiesta è unanime: “investire subito i 600mila euro disponibili, trovare risorse aggiuntive e completare i lavori di ristrutturazione del carcere”. Sottoscritta dal Sindaco Fanfani, dai parlamentari Mattesini e Donati, dai consiglieri regionali De Robertis e Brogi, dal Presidente della Provincia, Vasai. Tutti insieme, stamani in palazzo comunale, per coordinare le azioni verso il Ministro della Giustizia e il Commissario per il Piano Carceri. I lavori di ristrutturazione sono bloccati da due anni, la struttura ospita solo 14 detenuti e 16 in fase di arresto, il degrado è notevole, come evidenziato nei giorni scorsi dal Garante. “Una situazione - ha detto la senatrice Donella Mattesini - destinata a peggiorare con il blocco dei lavori. 600 mila euro sono disponibili ma questa cifra non è sufficiente a coprire i bisogni e quindi è necessario avere risorse aggiuntive e far riaprire subito il cantiere”. “Lavoriamo per una pressione generale della città di Arezzo - ha aggiunto l’onorevole Marco Donati. Siamo di fronte ad un problema strutturale che deve essere compiutamente affrontato”. E bisogna farlo rapidamente: “non è più possibile perdere tempo - ha affermato il Presidente della Provincia, Roberto Vasai. La struttura di Arezzo ha sempre funzionato bene ed ha avuto un buon rapporto con il territorio. Non possiamo assistere al suo progressivo abbandono”. Questo carcere come simbolo di un problema nazionale: “in Italia - ha ricordato il consigliere regionale Enzo Brogi - abbiamo 66mila detenuti in strutture che ne dovrebbero ospitare solo 35mila. Le cause del sovraffollamento? Il 45% è in attesa di giudizio ed è la percentuale più alta d’Europa. La legge Giovanardi Fini colloca in carcere persone, come i tossicodipendenti, che dovrebbero invece stare nei centri di recupero. Ci sono infine strutture carcerarie che con interventi modesti potrebbero essere recuperate consentendo una distribuzione migliore dei detenuti”. La consigliera regionale Lucia De Robertis ha sottolineato come “quando si parla del carcere di Arezzo si pensa ai detenuti ma non dobbiamo dimenticare il personale di sevizio che opera all’interno di esso. Personale a rischio occupazionale e in condizioni lavorative non certo ottimali”. Il Sindaco Fanfani ha concluso ricordando come, per la sua professione di avvocato, abbia visitato tutte le maggiori strutture carcerarie italiane e come quella di Arezzo sia stata, quando funzionava a regime, tra le migliori. “Oggi siamo di fronte, nel nostro paese, ad un problema strutturale che è rappresentato dalla qualità della detenzione e ad un problema emergenziale evidenziato dalla capienza e dal degrado delle strutture. Occorrono interventi seri. Le amnistie non sono in grado di risolvere i problemi di fondo”. Brogi (Pd): necessario recuperare il tempo perduto Si è tenuta stamani ad Arezzo una conferenza stampa sulla situazione del carcere di Arezzo, che alcuni giorni fa è stata evidenziata dal Garante Regionale dei diritti dei detenuti Franco Corleone che, dopo il sopralluogo ad Arezzo, ha denunciato con fermezza il fatto che la struttura sia ancora in gran parte chiusa e inagibile, per lavori di ristrutturazione mai portati a compimento, e un grave stato di abbandono. Il consigliere regionale Enzo Brogi (Pd), che da anni visita regolarmente gli istituti toscani ed è impegnato sul tema delle condizioni carcerarie e dei diritti dei detenuti, ha partecipato alla conferenza stampa insieme alle istituzioni del territorio, sottolineando l’urgenza dell’appello lanciato dal Garante: “Bene ha fatto Corleone ha iniziare in questo modo il suo mandato, con sopralluoghi in tutte le strutture penitenziarie e facendo emergere i problemi. Ad Arezzo il problema esiste, tant’è che le istituzioni locali, dopo almeno due anni di inattività, stamani hanno deciso di affrontare una situazione non più tollerabile. Di fronte a un disastroso sovraffollamento carcerario, con 67.000 detenuti in Italia nello spazio per 45.000, che vivono in troppi casi in condizioni indegne, non possiamo permetterci di sprecare una struttura come quella aretina. Adesso quindi è urgente che le istituzioni del territorio lavorino per recuperare il tempo perduto. Ma anche stamani ho tenuto a ribadire come quella di Arezzo sia ancora una volta la dimostrazione di una disattenzione ai problemi strutturali che si somma ai problemi di un ordinamento penitenziario e giudiziario da riformare” - conclude Brogi. “Dobbiamo ribadire l’impegno a superare la Fini-Giovanardi sulle droghe, che riguardano un quarto dei detenuti, a eliminare gli abusi della detenzione in attesa di giudizio, per la quale l’Italia ha il record negativo in Europa con il 40% di detenuti. Serve un maggior ricorso alle pene alternative e che dentro le carceri si possa lavorare e cercare il reinserimento nella società. Solo con questi elementi l’Italia potrà finalmente avere carceri degne di un civile paese europeo”. Perugia: nel carcere di Capanne azienda agricola, lavoro per 4 detenuti di Daniele Bovi www.umbria24.it, 12 novembre 2013 Presentata lunedì la “Fattoria Capanne”. Frutta, ortaggi e non solo consegnati in cassette a domicilio: 11 chili a 20 euro. Un carcerato: “Così ci reinseriamo nella società”. La dignità di un uomo passa dal lavoro, ancora di più se questo è un carcerato come Alessio Ceccarani, uno dei quattro ragazzi che lavorano nella “Fattoria Capanne”, l’azienda agricola da poco sorta all’interno del carcere perugino. Un’opportunità preziosa per i quattro detenuti, che possono così imparare un lavoro, e per i cittadini che possono acquistare prodotti agricoli a prezzi vantaggiosi. L’iniziativa è stata presentata lunedì mattina a Capanne dalla direttrice del carcere Bernardina di Mario, dal sindaco di Perugia Wladimiro Boccali, dal prefetto Antonio Reppucci e dal presidente della cooperativa 153, Michelangelo Menna, che attraverso una convenzione si occupa della gestione della fattoria. “Sono dentro da due anni e mezzo - racconta Alessio - all’inizio non sapevamo niente, ora invece ci siamo ambientati e abbiamo preso la cosa seriamente. Per parecchi di noi è un’opportunità, speriamo che duri per noi che siamo giovani ma anche per quelli che sono più in là con l’età. In questo modo facciamo galera in un modo migliore e vogliamo far vedere all’esterno che abbiamo voglia di reinserirci nella società”. Dodici gli ettari che Alessio e i suoi compagni coltivano, tutti nei dintorni della struttura: un frutteto con mele, pere, prugne, pesche e fichi, ortaggi di stagione e in serra e un oliveto. Da ottobre poi è stato avviato anche l’allevamento di polli ruspanti, con filiera completa (compresa la macellazione) all’interno del carcere. I prodotti in città verranno consegnati a domicilio in due cassette di differente peso: 11 chili, al costo di 20 euro, e 8 chili al costo di 15 euro. Nelle cassette ci saranno prodotti di stagione e di volta in volta potranno essere aggiunti succhi di frutta, marmellate, sottoli e così via. La fattoria ha un sito dove trovare tutte le informazioni (www.fattoriacapanne.it) e un indirizzo email (cassette@fattoriacapanne.it) al quale spedire gli ordini. “Questo progetto - ha detto Di Mario - dimostra che anche il carcere è a pieno titolo dentro la città. A questi quattro detenuti è stata data grande fiducia ma se la sono conquistata. La vostra fiducia, ha detto recentemente uno di loro, è la nostra forza. E Stavolta siamo stato noi ad adeguarci ai tempi della società esterna e non viceversa”. Come ha spiegato Menna illustrando i dati emersi da un recente studio, imparare un lavoro in carcere è determinante per non commettere fuori altri reati e reinserirsi: la recidiva reale per i detenuti che non svolgono alcuna attività lavorativa vera all’interno delle carceri si attesta tra il 70% e il 90%. Tra i detenuti che seguono invece un percorso di reinserimento lavorativo per cooperative sociali e imprese la recidiva scende all’uno o due per cento. “Se si pensa poi - aggiunge - che il costo di ogni detenuto, complessivamente, è di circa 250 euro al giorno, quello del lavoro delle carceri rappresenta un investimento concreto per la società”. In un periodo di sovraffollamento come quello attuale (nei quattro istituti umbri, al 31 ottobre, erano presenti 1.611 persone a fronte di 1.342 posti), sugli oltre 60 mila detenuti che vivono nelle galere italiane solo 2.521 lavorano al di fuori del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. “Tutti quelli che vivono nel comune di Perugia, anche i carcerati - ha detto il sindaco Boccali - sono cittadini e, in questo caso, vivono spesso in condizioni non degne di un paese civile”. Da Boccali è arrivato poi un appello affinché si trasformi in realtà il recente invito fatto al parlamento dal presidente della Repubblica e ha chiesto di “rivedere la legislazione che riguarda alcune materie”. “Fuori così come dentro al carcere - ha concluso - il lavoro è fondamentale e a questa iniziativa daremo il massimo risalto. Ne siamo orgogliosi perché è il segno della civiltà di una città”. Secondo la direttrice del carcere poi “in questi anni si è troppo investito in sicurezza e meno in politiche sociali, che dovrebbero andare di pari passo. La cella dovrebbe essere solo un luogo dove passare la notte”. Da parte sua poi il prefetto Reppucci ha voluto complimentarsi con chi lavora nella struttura, visitata per la seconda volta in tre mesi: “Qui - ha detto - c’è uno slancio etico senza il quale non si va da nessuna parte”. Il prefetto infine ha parlato più in generale della sicurezza nel Perugino: “Mi dicono - osserva - che sono aumentati i furti ma stare dappertutto per le forze dell’ordine non è possibile. Senza contare che questo è un territorio molto grande costellato di tantissime case isolate”. Livorno: il nuovo direttore del carcere, Mazzerbo: “Così voglio cambiare Gorgona” La Nazione, 12 novembre 2013 Un tempo erano le isole in gabbia: Gorgona, Capraia, Pianosa, l’Asinara, Ustica: le prime tre nel nostro arcipelago, colonie penali all’aperto con centinaia di detenuti, in gran parte esperti di lavori agricoli, che passavano la giornata lavorando nei campi e nelle stalle.Adesso c’è rimasta solo Gorgona come colonia agricola, con un destino che è stato peraltro perennemente in bilico tra la chiusura e la trasformazione. Fino a poche settimane fa, quando l’amministrazione carceraria ha deciso un tentativo estremo: ci ha rimandato uno dei direttori storici, Carlo Mazzerbo e gli ha affidato il compito di portare l’isola più vicina al continente, una parte di Livorno della quale è peraltro territorio comunale. Con quali obiettivi l’ha spiegato in un incontro al circolo ufficiali di Marina lo stesso dottor Mazzerbo, presentando il suo libro (ne avevamo già accennato) “Ne vale la pena” sull’esperienza proprio di Gorgona. Le colonie penali isolane oggi costano troppo, dice Mazzerbo, e lo Stato non se le può permettere in piena “spending review”. Però Gorgona è una realtà atipica: fa parte della città, ha già visto esperimenti in cui i detenuti hanno lavorato e si pagavano, almeno in parte. Così Mazzerbo non sarà il padre Dante (ricordate? Muovansi la Capraia e la Gorgona) ma la sua missione è quella: riportare Gorgona più vicina, aprendola al turismo responsabile e agli insediamenti produttivi compatibili con le capacità dei detenuti e del personale di custodia. Ma attenzione, dice Mazzerbo: non vogliamo imprenditori che sfruttino il lavoro a basso costo o il “brand” Gorgona; vogliamo imprenditori che facciano il loro mestiere di guadagnare, ma anche insegnino ai detenuti un lavoro valido che li possa aiutare quando avranno terminato la pena e si saranno riscattati. Ecco, la parola “riscatto” torna spesso nell’eloquio di Mazzerbo, ed è nel sottotitolo del suo libro. Perché a fine pena il detenuto si è riscattato, ha pagato il suo debito con la società, ha tutti i diritti di ogni cittadino: e la missione del carcere, specie del carcere come Gorgona, è di aiutarlo a rientrare con un mestiere, con le prospettive di un lavoro, con un futuro. Altrimenti la recidività diventa la norma: non a caso quasi l’80% dei detenuti che tornano liberi dopo un po’ delinquono di nuovo. Mazzerbo non è un sognatore, anche se un suo ex agente di custodia che oggi lavora alle Sughere l’ha descritto, al suo arrivo a Gorgona come giovane direttore tanti anni fa, sul modello di Che Guevara, che girava a torso nudo sull’isola in motocicletta, studiava i manuali del geometra e dell’agronomo e non di rado spaccava la legna e portava il foraggio agli animali con i detenuti. Mazzerbo sa che così com’è oggi, Gorgona non può resistere a lungo: bisogna raddoppiare il numero dei detenuti (ne ha solo una cinquantina, ce ne sono stati anche cinque volte di più) migliorare il collegamento marittimo (si prepara una gara per avere un traghettino almeno 4 volte alla settimana), eliminare l’allevamento perché è troppo costoso e riprendere la pesca, la “coltivazione” delle orate, l’agricoltura specializzata. E specialmente il turismo: controllato, selezionato, aperto alle scuole e all’ambiente, ma che diventi la piccola industria dell’isola. Lui ci proverà. E forse è l’unico, per esperienza e volontà, che potrà riuscirci. Perché appunto, “ne vale la pena”. Mantova: il carcere di via Poma si sta svuotando, in arrivo i detenuti “protetti” Gazzetta di Mantova, 12 novembre 2013 La rivoluzione è già in atto, e corre con inattesa rapidità: la casa circondariale di via Poma sarà molto presto un carcere destinato ai sex offender, vale a dire molestatori, stupratori e pedofili. Ai “protetti, come li chiama l’amministrazione penitenziaria, cioè i detenuti che non possono stare nelle sezioni comuni, pena il rischio (per il tipo di reati, odiosi anche per l’etica carceraria) di subire atti di violenza, intimidazioni e persecuzioni dagli altri reclusi. Nel corso di questa settimana, mentre gli ultimi venti detenuti per reati comuni partiranno alla volta delle carceri di Cremona e Voghera, in via Poma cominceranno ad arrivare i primi “protetti”. E nel giro di un paio di settimane, o anche meno, il trasferimento dovrebbe concludersi con una nuova organizzazione dell’istituto di pena, come previsto dal progetto di revisione del sistema carcerario lombardo, su cui il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria lavora da tempo. Fino al mese scorso la casa circondariale di Mantova ospitava circa 180 detenuti, il massimo della sua capienza tollerabile. Oltre un centinaio era nella sezione comune, poi c’era una sezione protetti, con meno di una trentina di elementi e infine l’area destinata a una quindicina di detenuti lavoranti. Ora i numeri saranno ripartiti in modo completamente diverso, tanto da fare del carcere di Mantova un istituto specializzato nel trattamento penitenziario dei sex offender. La sezione centrale del carcere, una volta destinata ai detenuti comuni, sarà riqualificata per i”protetti” con una previsione tra gli 80 e i 90 posti. Poi ci sarà una piccola sezione, a regime dovrebbe trattarsi di 25 posti, riservata ai detenuti in attesa di giudizio per reati a livello locale. La sezione “lavoranti” dovrebbe restare stabile sui quindici-sedici posti. La riorganizzazione dovrebbe, salvo sorprese, evitare i picchi di sovraffollamento che hanno portato negli anni scorsi a drammatici livelli di vivibilità il carcere, con 230 presenze, celle stracolme, fino a tre letti impilati a castello e una situazione sanitaria drammatica. Genova: ottanta detenuti per pulire il Bisagno, una straordinaria occasione per reinserirli La Repubblica, 12 novembre 2013 Ottanta detenuti, pronti a lasciare le celle di Marassi durante le ore diurne, per pulire il Bisagno dalle sterpaglie, dai rovi e dai rifiuti. Contro le alluvioni. “Attendiamo che il Comune ci dia l’ok”, dice il direttore del carcere. Un progetto che, secondo quanto spiega Salvatore Mazzeo, dovrebbe passare attraverso una sorta di borsa-lavoro: da una parte una minima ricompensa per il detenuto; dall’altra un percorso rieducativo che lo aiuti al reinserimento nella società, lo tenga legato alla vita comune. In una struttura che scoppia: ospita il doppio dei 400 detenuti che potrebbe accogliere. Mazzeo da mesi ha avviato le procedure per ottenere le autorizzazioni affinché i reclusi escano dal carcere, impegnandoli in lavori socialmente utili. “Ho esternato questa volontà tante volte - ricorda il direttore - ma non è mai andata in porto e non so per quale oscura ragione”. Recentemente è stata firmata una convenzione tra l’assessorato comunale alla Legalità, diretto da Elena Fiorini, e la casa circondariale, ma su altri progetti. Sulla pulizia dei torrenti si vorrebbe un piano strutturato, altra cosa rispetto all’episodio di volontariato che nel 2011, pochi giorni prima dell’alluvione del Fereggiano, vide impegnati 10 carcerati a ripulire il Bisagno. Solo per un giorno. “Fu un’idea, per dire che si poteva fare”, dice ora il direttore. “Fu un’iniziativa simbolica, mirata a far capire che il detenuto non può stare sempre rinchiuso tra quattro mura, ma deve essere impegnato all’esterno con un’attività socialmente utili - aggiunge Mazzeo. Deve passare il messaggio che se uno ruba, è giusto che paghi il suo debito, lavorando e restituendo il maltolto. È una sorta di risarcimento alla società e allo Stato”. Il direttore chiede un piano a lunga scadenza. Non “una tantum”, ma un’esperienza ripetibile. Come quella che lo scorso anno ha interessato il cimitero di Staglieno, nata dalla collaborazione tra l’assessorato alla Città Sicura e la direzione del carcere: dodici reclusi impegnati (tutti i giorni, alle 8 alle 13, tranne la domenica) nella pulizia dei viali, delle aree attorno alle tombe; persino nell’assistenza agli anziani visitatori ed ai disabili. Hanno ricevuto da Tursi uno stipendio di circa 450 euro. Marassi non è nuovo ad iniziative di recupero. Tanto da diventare esempio da esportare per il ministro della Giustizia e dei Diritti Umani dell’Ecuador, Lenin Lara, in visita alla casa circondariale insieme al console, Esther Cuesta. Da anni all’interno del carcere funziona una scuola di falegnameria ed una di recitazione. I formatori hanno messo insieme le due esperienze, facendo costruire ai detenuti un teatro: una struttura interamente in legno, da 200 posti, aperta ai famigliari dei reclusi ed al quartiere. L’hanno chiamato Teatro dell’Arca, evocando il riferimento biblico. Catanzaro: Moretti (Ugl) in visita a Casa Circondariale, evidenzia problematiche dell’istituto Adnkronos, 12 novembre 2013 Oggi il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, visita i luoghi di lavoro presso la Casa Circondariale di Catanzaro per rilevare le criticità che affliggono l’istituto del capoluogo calabrese”. Lo annuncia in una nota la segreteria regionale della Federazione, aggiungendo che: “prenderanno parte alla visita anche il segretario regionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria della Calabria, Andrea Di Mattia, ed il neo segretario regionale aggiunto, Elio Palaia”. “L’obiettivo - si legge nella nota - è evidenziare le maggiori problematiche che interessano l’istituto, tra cui sovraffollamento e carenza di risorse umane e di mezzi, che ne ostacolano il funzionamento e ne mettono in discussione la sicurezza, sia degli agenti, sia degli stessi detenuti. L’occasione - sottolinea la nota - permetterà, inoltre , ai dirigenti sindacali di fare il punto della situazione di tutte le strutture penitenziarie calabresi e di tracciare un piano delle rivendicazioni della Federazione a livello regionale, attraverso una Conferenza programmatica a cui prenderanno parte i quadri sindacali”. “Al termine dei lavori, - ricorda la nota - sempre presso la Casa Circondariale di Catanzaro, si terrà una conferenza stampa, durante la quale il segretario nazionale e i dirigenti sindacali regionali esporranno l’esito della visita, analizzando le principali problematiche dell’istituto ed elencando - conclude - gli interventi più urgenti da mettere in campo per un suo corretto e sicuro funzionamento”. Roma: Pellegrino (Morrighan Donne); contro sovraffollamento inutili indulto e amnistia www.ostiatv.it, 12 novembre 2013 Si è svolta ieri mattina a piazza Montecitorio la manifestazione “Io non ci sto” contro i provvedimenti al vaglio del Governo. Durante l’evento è stato organizzato un flash mob nel quale sono stati ricordati i nomi di alcune persone uccise da assassini rimessi in libertà. Si è svolta ieri mattina a piazza Montecitorio la manifestazione “Io non ci sto” contro i provvedimenti di indulto e amnistia al vaglio del Governo. Durante l’evento è stato organizzato un flash mob nel quale sono stati ricordati i nomi di alcune persone uccise da assassini rimessi in libertà con l’indulto. All’evento, promosso da Barbara Benedettelli, Presidente dell’associazione “L’Italia Vera”, ha aderito anche “Morrighan Donne”. “Bisogna essere onesti - spiega Cinzia Pellegrino, Presidente Nazionale di Morrighan - ogni volta che vengono varati provvedimenti come indulto e amnistia, è alta la percentuale di coloro che tornano a delinquere dopo essere stati rimessi in libertà. Lo Stato non può rendersi complice di queste morti. Senza certezza della pena, vengono meno alcuni principi fondanti della nostra civiltà. Ascoltando questi nomi, davanti ai parenti delle vittime, non si può non fermarsi a riflette su quanto spesso lo Stato, la politica e la società, trascurino la difesa di questi principi. Per questo tanta gente oggi è venuta o si è fermata a condividere questo momento di protesta, ma anche di proposta. Lo Stato deve garantire dignità ai detenuti durante il periodo di carcerazione, ma anche e soprattutto giustizia alle vittime dei loro reati. C’è bisogno di rivedere l’uso della carcerazione preventiva, di interventi strutturali veri e di sfruttare le “carceri fantasma” costruite, inaugurate e mai utilizzate”. Bologna: convenzione tra Comune e associazioni per creare attività dentro le carceri Ansa, 12 novembre 2013 Una convenzione tra il Comune di Bologna e l’associazione “Altro diritto” che ha l’obiettivo di realizzare attività a favore dei detenuti. è con questo strumento che ora l’amministrazione sarà parte integrante e terminale per l’assistenza dei carcerati e la loro tutela. Attività diverse a seconda del carcere interessato, perché diverse sono le problematiche. Per la Dozza, infatti, “ci sono problemi di spazio - ha detto Claudia Clementi, direttrice dell’istituto - con 900 persone detenute, il doppio rispetto alla capienza regolamentare, anche se la Dozza ha conosciuto livelli di detenzione superiori. Ma il problema è anche di tempo, che va riempito. Il problema è dare senso alle ore trascorse in quei posti”. “Se c’è un problema di spazi e sovraffollamento nel carcere della Dozza - ha detto Elisabetta Laganà, garante dei diritti dei detenuti - nel minorile c’è invece un problema di qualità della vita nell’istituto”. Per i giovani il tema è la risocializzazione e l’educazione, che viene portata avanti con cineforum, teatro, laboratori di auto-narrazione per raccontare la propria vita e attività sportive. Il direttore del minorile, Alfonso Paggiarino, difende il Pratello, che ha 16 ragazzi detenuti: “Non ci sono solo cose negative al Pratello, ogni giorno tante persone entrano nel carcere, tra questi anche l’associazione “Altro diritto”. Abbiamo molte attività e i ragazzi meno stanno in stanza meglio è, devono solo dormirci”. Bologna: direttore Ipm contrario al trasferimento, deve restare nella città Ansa, 12 novembre 2013 “Il carcere minorile del Pratello si trova in una bellissima struttura, c’è da fare qualche lavoro, ma non penso che dopo aver speso tanti soldi sia necessario spostarlo”. Sono le parole del direttore dell’istituto di Bologna, Alfonso Paggiarino, riferendosi alla possibilità avanzata dal ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, sul trasferimento del carcere, e pronunciate a margine della presentazione di una convenzione tra il Comune e alcune associazioni per realizzare attività a favore dei detenuti. “è chiaro che lei è il ministro e può fare ciò che vuole, ma a mio avviso l’istituto è della città e della città deve far parte”, ha detto Paggiarino. Bologna: “Fuori e dentro”, con il volontariato un altro sguardo sul carcere di Alessandra Sorrentino Ristretti Orizzonti, 12 novembre 2013 Il carcere è società, il carcere è comunità. Attorno a queste parole nasce nel 2012 il progetto “Fuori e Dentro. Volontariato e carcere a Bologna” promosso da una rete di Associazioni di Volontariato, finora inedita a Bologna, che con il sostegno di Volabo e insieme a partner istituzionali e di settore, ha scelto di confrontarsi e lavorare insieme sulle problematiche riguardanti la situazione carceraria locale, il corretto funzionamento della “pena riparativa” e la necessità di una cultura civica consapevole e sensibile a queste tematiche. Dopo un anno di intenso confronto, la rete “Fuori e dentro” lancia un’ampia rassegna di eventi e momenti di riflessione che animerà Bologna dal 20 novembre all’1 dicembre 2013. La rassegna si intitola “Fuori e dentro. Un altro sguardo sul carcere” ed è il modo in cui la rete di associazioni ha deciso di aprirsi alla cittadinanza e invitarla ad entrare in contatto con la realtà, spesso discriminata o non conosciuta, dei luoghi e delle persone in detenzione. Il programma si apre con la Compagnia della Fortezza, che sotto la guida del regista Armando Punzo ha cambiato il volto e la storia del carcere di Volterra attraverso il teatro. Il racconto teatrale “Mercuzio ed altre utopie realizzate”, va in scena il 20 novembre all’Oratorio San Filippo Neri e ripercorre i 25 anni di lavoro della compagnia con la presenza sul palco del regista, di Aniello Arena, ergastolano e attore protagonista di “Reality” di Garrone, e di alcuni storici attori detenuti della compagnia. In chiusura - l’1 dicembre alle 19 presso l’Auditorium Enzo Biagi - la delicata e appassionata presenza di Pino Cacucci che legge “Dignità nella prigionia”: reading di brani tratti dai romanzi dello scrittore che da sempre si occupa di storie di reclusione; vicende di personaggi del recente passato accomunati da ribellione, prigionia e dignità, accompagnate dalle musiche dal vivo di un clarinetto e di una fisarmonica. 21-25-27 novembre, tre serate di cinema. Tre registi contemporanei gettano lo sguardo su diverse forme di detenzione: centro di identificazione ed espulsione, carcere adulti e carcere minorile. Giovedì 21 novembre Desi Bruno, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale e Franco Pilati, Responsabile del Progetto Sociale interno al CIE di Bologna, introducono “Vol Special”, documentario in cui il regista Fernand Melgar entra nel centro di detenzione di Frambois, in Svizzera. “Il Gemello” di Vincenzo Marra è in programma lunedì 25 novembre al Cinema Odeon. Sarà Domenico Manzi, Ispettore Capo nel carcere di Secondigliano e attore interprete di se stesso nel film, ad introdurre la storia di Raffaele e degli altri carcerati, a spiegarci che un modo più umano per vivere il carcere esiste. Mercoledì 27 al Cinema Europa “L’amore buio” di Antonio Capuano, storia di adolescenza e carcere nella Napoli di oggi, introdotto dalle parole di Rosario D’Uonno, Direttore artistico del Marano Ragazzi Spot Festival e coordinatore per l’USR Campania di progetti nel carcere minorile di Nisida. Il 22, 23 e 24 novembre “Tutti dentro”: il Carcere minorile al Pratello apre le porte ad una serie di iniziative e momenti di socialità. Una cena curata dal laboratorio di cucina e allestimento interno al carcere, tra gli invitati le autorità cittadine e personaggi dello spettacolo. Nel fine settimana invece “Sfide al Pratello”: un torneo di calcetto a sette, uno di biliardino e uno di ping pong. Tra i partecipanti associazioni che lavorano nella carceri bolognesi e personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo. Due tavole rotonde invitano a momenti di riflessione e confronto più strutturati. Insieme a rappresentanti politici, accademici e di settore locali e nazionali, lunedì 25 presso il Salone Marescotti “Il carcere disumano e degradante” si discuterà del problema di sovraffollamento negli Istituti di Pena italiani; mercoledì 27 la Sala delle Armi della Facoltà di Giurisprudenza ospiterà “Minorenne detenuto immigrato” che verte invece sul tema della detenzione minorile. La rassegna vedrà presente anche il Coordinamento Teatro e Carcere Emilia Romagna con lo spettacolo di Paolo Billi e i ragazzi della Compagnia del Pratello e del Teatro dei Venti. Al Teatro dei Laboratori delle Arti il 26 novembre, la proiezione del documentario “Teatri di dialoghi. Adolescenze. Giustizia minorile. Scuola” ripercorre le tappe del progetto teatrale del 2012 “Dialoghi sul caso” da cui nasce l’omonimo spettacolo di Paolo Billi e della Compagnia del Pratello. La proiezione è seguita da un reading dello stesso Billi con tre ragazzi della compagnia. “Senso Comune” del Teatro dei Venti e in programma giovedì 28 novembre al Candilejas, spettacolo finalista al Premio Scenario per Ustica 2012, è una riflessione onirica sui temi della discriminazione e dell’emarginazione che trovano ambientazione perfetta e desolante nel sottoscala di uno dei grandi palazzi di Scampia. Nel weekend di chiusura si anima il cuore della città di Bologna. Le associazioni di “Fuori e Dentro” allestiranno una “Cella in Piazza”, dal 29 novembre fino all’1 dicembre in Piazza Re Enzo: l’iniziativa permetterà ai passanti di entrare nello spazio ristretto di tre metri per quattro in cui i detenuti vivono, a toccare con mano le sbarre che ne limitano lo sguardo, i letti a castello e gli armadietti di metallo che ne costituiscono l’unico arredo. Domenica 1 dicembre gli eventi si spostano in Sala Borsa. Alle 15 inizia nell’Auditorium Enzo Biagi la performance della Biblioteca Vivente: una ventina di libri in carne ossa, operatori, volontari, ex detenuti e detenuti in permesso racconteranno al pubblico le loro storie e la loro biografia, spesso attraversata da vicende di discriminazione e di ricostruzione di sé. Torino: il “Lorusso e Cutugno” ha un nuovo sito, ci sono anche i video di Davide Ferrario La Repubblica, 12 novembre 2013 Filmati e video del regista Davide Ferrario, articoli scritti da giornalisti della città e anche da redattori-detenuti, notizie, curiosità, storie, il tutto in una veste grafica accattivante e moderna: questo è il nuovo sito Internet del carcere di Torino. Presentato alcuni giorni fa, www.carceretorino.it è una finestra su “una città dentro la grande città di Torino, una parte della città di Torino, non la discarica umana di ciò che non va, da lasciare lì, da dimenticare”, scrivono Pietro Buffa, ex direttore della casa circondariale, Francesca Daquino, vicedirettrice ed ex reggente, e Giuseppe Forte, attuale direttore. L’obiettivo è “che il dialogo-incontro tra il dentro e il fuori di questa comune società umana sia più ricco di contenuti e di testimonianze. In modo trasparente e sincero” spiegano i tre dirigenti. “Se riusciremo in questo obiettivo - sottolineano - lo dovremo anche all’aiuto e al sostegno di alcune importanti istituzioni torinesi: la Regione Piemonte, che ha creduto e finanziato questo restyling del sito, ma anche la Compagnia di San Paolo, con l’elargizione di significativi contributi, e infine il Politecnico di Torino, partner qualificato di questo progetto, e l’agenzia Sharp Consulting Comunicazione”. Cinema: Festival Roma; la Golino intensa Armida Miserere in “Come il vento” Tm News, 12 novembre 2013 Fuori Concorso il film di Marco Simon Puccioni, con Filippo Timi. Una donna complessa, contradditoria, ferrea ma distrutta dalla sofferenza. è cosi l’Armida Miserere portata sul grande schermo da Valeria Golino nel film “Come il vento” di Marco Simon Puccioni, presentato oggi Fuori Concorso al Festival Internazionale del Film di Roma e in uscita al cinema il 28 novembre. Un film liberamente ispirato a una delle prime donne a dirigere un carcere in Italia, che dagli anni ‘80 riuscì pian piano ad affermarsi in un ambiente così duro e maschilista, guadagnandosi il rispetto con i suoi atteggiamenti anche duri, senza lasciarsi sopraffare dalle intimidazioni. “Io non conoscevo Armida prima che il regista me ne parlasse - ha raccontato Valeria Golino alla conferenza stampa nello spazio Bnl al Festival - ho conosciuto la sua Armida, mi sono affidata al suo punto di vista, è una donna così complessa e piena di zone d’ombra, misteriosa. All’inizio non volevo fare questo film perché avevo paura, oggi è così difficile fare un film in Italia che non sia di puro intrattenimento, temevo che non trovassimo una distribuzione, poi mi ha convinto la voglia di farlo di Puccioni”. Il film, girato in cinque regioni d’Italia, racconta la sua storia nell’arco di 15 anni, dal carcere di Sulmona, a Pianosa, all’Ucciardone, il suo rapporto con i detenuti, la sua professionalità ma anche la sua sofferenza dopo l’uccisione del compagno (Filippo Timi). Un dolore incolmabile, una ferita che non è riuscita mai a rimarginare, anche perché quella stessa giustizia per cui lavorava, ha continuato a deluderla, così come l’umanità in generale, fino a portarla al gesto estremo di togliersi la vita. Il regista ha raccontato le difficoltà nel fare il film: “Il Dap per fortuna ci ha dato un grande aiuto e ci ha fatto entrare nelle carceri, non è stato semplice girare. La cosa particolare è stata che abbiamo incontrato tante persone che erano amici e allievi di Armida, compresa la sua guardia del corpo che l’ha trovata morta, è rimasta sorpresa nel vedere Valeria recitare. Il film è la mia Armida, la mia versione, volevo soprattutto parlare del suo percorso umano”. E la Golino ha svelato di averla conosciuta davvero una volta: “L’ho incontrata brevemente un anno prima che morisse, ero andata a Sulmona con Emanuele Crialese a un piccolo festival di cinema per i detenuti, andavamo a mostrargli il film ‘Respirò ed è stata un’esperienza molto toccante. Lei mi ha accolta e accompagnata e ci siamo fatti delle foto insieme. Studiando il personaggio ho visto alcune foto di Armida e ho ritrovato la nostra, me la ero scordata: è curioso che, anche se ci eravamo conosciute da poco, nello scatto siamo abbracciate e lei mi guarda. Mi ha fatto molto effetto”. India: “chiudere presto” il caso marò. Bonino “no polemiche sulla gestione del caso” Agi, 12 novembre 2013 L’India conta di “chiudere presto” il caso marò: lo ha assicurato il ministro degli Esteri, Emma Bonino, all’indomani dell’interrogatorio in videoconferenza degli altri quattro fucilieri della Marina che erano a bordo della Enrica Lexie il giorno in cui vennero uccisi due pescatori indiani. L’Italia conta di “chiudere presto l’incidente e di rilanciare i nostri rapporti commerciali con l’India, un Paese che non possiamo perdere”, ha osservato la responsabile della Farnesina, dalle pagine del “Corriere della Sera”. Bonino - che si è sempre impegnata “a non fare polemiche sulla gestione del caso” ereditato dal precedente governo fino a quando i marò non saranno tornati in Italia - ha aggiunto che “comunque anche il governo indiano ha fretta di chiudere”. Guinea Equatoriale: appello per imprenditore italiano in carcere “muore se il Governo non interviene” di Vittorio Buongiorno Il Messaggero, 12 novembre 2013 Accorato appello della madre di Roberto Berardi, l’imprenditore pontino da nove mesi in carcere in Guinea Equatoriale dopo un processo farsa. “Mio figlio è detenuto ingiustamente, il Governo Italiano deve intervenire”, dice la signora Silviana. Da settimane gli amici di Roberto hanno creato un movimento di opinione con una pagina Facebook (Liberiamo Roberto Berardi) e sono tornati a chiedere l’intervento del Governo. “Roberto ha contratto la malaria in carcere ed è stato picchiato, dobbiamo riportarlo in Italia, così rischia di morire”, dice la madre. I suoi guai sono iniziati alla fine del 2012. L’imprenditore infatti è socio in affari con il figlio del presidente della Guinea Equatoriale, Theodorin O’Biang, arrivato alla ribalta della cronaca per aver acquistato a una cifra spropositata i guanti di Michael Jackson. Proprio quelle spese hanno attirato l’attenzione del Governo Usa che ha sequestrato a O’Biang numerose proprietà negli Stati Uniti. “Così Roberto ha scoperto che quelle spese venivano veicolate attraverso la società e ne ha chiesto conto al socio”, raccontano gli amici. “Per questo, subito dopo è stato arrestato senza motivo. Gli è stata mossa una accusa di appropriazione indebita che non sta in piedi e senza prove e senza diritti alla difesa è stato condannato a 2 anni e sei mesi”. La famiglia e gli amici chiedono ora con forza al governo Italiano di fare passi ufficiali per liberarlo. Svezia: i detenuti calano, quattro carceri verranno chiuse e riconvertite Corriere della Sera, 12 novembre 2013 Il numero di chi vive dietro le sbarre è sceso dell’1% ogni anno dal 2004. Le strutture saranno vendute o riconvertite. Né indulto, né amnistia. In Svezia non ce n’è bisogno. Perché il numero delle persone che nel Paese scandinavo vive dietro le sbarre decresce “naturalmente” da quasi dieci anni. I dati parlano chiaro: dal 2004 il calo delle presenze è sceso dell’1 per cento ogni anno. Mentre dal 2011 al 2012 il crollo è stato addirittura del 6 per cento. Un andamento virtuoso che, secondo Nils Öberg, a capo dei servizi penitenziari svedesi, si ripeterà anche quest’anno. È nata da qui la decisione delle autorità svedesi di chiudere quattro delle carceri del Paese - quelle di Åby, Håja, Båtshagen e Kristianstad - oltre a un centro di recupero. Strutture che saranno vendute o riconvertite. Non è chiaro perché in Svezia i detenuti siano sempre meno. “La speranza è che alla base di questa tendenza ci siano i nostri sforzi in materia di riabilitazione e prevenzione”, ha detto Öberg in un’intervista al “Guardian”. “Ma se anche fosse così non sarebbe sicuramente sufficiente per spiegare un calo così grande delle presenze”. Un’altra possibilità potrebbe essere la tendenza dei giudici di assegnare pene più miti per i reati legati alla droga, in seguito ad una decisione del 2011 della Corte suprema svedese. O per quelli legati a furti e crimini violenti che, dal 2004 al 2012, sono scesi rispettivamente del 36 per cento e 12 per cento. “Quel che è certo - conclude Öberg - è che la pressione del sistema della giustizia penale negli ultimi anni è diminuita notevolmente”. Secondo l’“International Centre for Prison Studies”, tra i Paesi con il più alto numero di detenuti la Svezia si colloca al 112 esimo posto (6,364 , 67 ogni 100,000 abitanti). L’Italia è alla posizione numero 27 (64,835 persone che vivono dietro le sbarre, 106 ogni 100,000). In cima alla classifica ci sono gli Stati Uniti, dove vivono dietro le sbarre 2,239,751 persone (716 ogni 100,000). Al secondo posto la Cina, con 1,640,000 carcerati (475 ogni 100,000). Terzo posto per la Russia dove, con la popolazione carceraria è pari a 681,600 ( 475 ogni 100.000). Siria: Hrw: l’Egitto ha arrestato oltre 1.500 rifugiati, tra cui 250 bambini Aki, 12 novembre 2013 Le autorità egiziane hanno arrestato oltre 1.500 rifugiati dalla Siria, tra cui cittadini palestinesi e 250 bambini, prima di costringerli a lasciare il Paese. Lo denuncia Human Rights Watch, sottolineando che i rifugiati sono stati detenuti in carceri egiziani per settimane o addirittura mesi e che questo trattamento non è stato risparmiato nemmeno a bambini di soli due mesi. Trecento di loro, di cui un terzo sono palestinesi, sono ancora dietro le sbarre. Hrw ha quindi spiegato che la maggior parte dei rifugiati arrestati stavano tentando di “emigrare in Europa su navi di trafficanti” di esseri umani. A essere presi particolarmente di mira dalle autorità egiziane sono stati i palestinesi in fuga dalla guerra in Siria. L’accusa mossa dal gruppo newyorkese alle autorità del Cairo è quella di impedire a questi rifugiati di “cercare protezione” presso l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, dicendo di aver detto loro di andarsene, pena una “detenzione senza termine”. “Le autorità egiziane hanno detto ai palestinesi in carcere che la loro unica alternativa a una detenzione senza fine era quella di andare in Libano, dove era permesso entrare legalmente solo con un visto di transito di 48 ore, o di tornare in Siria”, si legge nel rapporto firmato dal vice direttore di Hrw per il Medioriente e l’Africa del Nord Joe Stork. Russia: caso Greenpeace; a Pietroburgo no garanzie migliori condizioni detenzione Ansa, 12 novembre 2013 “A differenza di Murmansk, a San Pietroburgo c’è qualche ora di luce in più in inverno, e per i familiari e i diplomatici sarà più facile visitare gli Arctic30. Tuttavia non c’è nessuna garanzia che le condizioni di detenzione saranno migliori, anche perché possono essere ospitati in diversi centri di detenzione preventiva”. è quanto sottolinea in una nota Greenpeace Italia commentando il trasferimento da Murmansk a San Pietroburgo dei 30 attivisti della Arctic Sunrise, tra i quali figura l’italiano Cristian D’Alessandro. Il trasferimento è avvenuto alle 5 di questa mattina, ha reso noto l’Ong, precisando come il modo più comune per trasferire i detenuti in Russia “sia un treno prigione, che può essere attaccato a un treno passeggeri o a un treno merci” con i detenuti disposti “in speciali carrozze suddivise in celle, solitamente non riscaldate, per quattro persone, con due cuccette di legno su ogni lato”. Non c’è alcuna conferma che i 30 attivisti arrestati in settembre stiano viaggiando in questo modo ma l’Ong ha comunque provveduto a fornire loro “abiti caldi supplementari per affrontare il viaggio”. “Non sappiamo ancora se il trasferimento di questi 30 donne e uomini, incarcerati ingiustamente dopo una protesta pacifica, rappresenterà o meno un miglioramento delle loro condizioni di detenzione e del rispetto dei diritti umani fondamentali. Abbiamo fatto quanto in nostro potere per assicurare che viaggino in condizioni umane”, ha precisato Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia. Tailandia: amnistia, nuove proteste anti-Thaksin e attesa per verdetto Onu Ansa, 12 novembre 2013 La Tailandia e in particolare Bangkok si preparano oggi a ore di forte tensione, in una giornata in cui si attende la votazione del Senato su una controversa legge di amnistia politica, e in serata il giudizio della Corte internazionale di giustizia sul possesso del territorio circostante il tempio di Preah Vihear, conteso con la Cambogia. Nella capitale, dove da dieci giorni l’opposizione è in piazza a protestare contro l’amnistia che permetterebbe il ritorno in patria dell’ex premier in auto-esilio Thaksin Shinawatra, manifestazioni pacifiche a macchia di leopardo continuano anche oggi. La polizia segnala il rischio di violenze, date le contemporanee proteste delle “camicie rosse” favorevoli invece al governo di Yingluck Shinawatra (sorella di Thaksin), scese in piazza già ieri per difenderlo. Molti dei sostenitori del governo sono peraltro contrari all’amnistia, che si applicherebbe ai reati politici successivi al 2004 e quindi anche ai responsabili della repressione militare contro i “rossi” nel 2010, che causò 91 morti e quasi 2 mila feriti. è previsto che al Senato - composto per metà da rappresentanti nominati e non eletti - il governo non riesca a ottenere la maggioranza su un provvedimento che ha risvegliato l’opposizione tanto che, già la settimana scorsa, Yingluck ha lasciato capire che il governo potrebbe lasciar cadere la legge in tale caso. Ma la questione sembra aver ormai assunto una valenza che va al di là del provvedimento, con l’opposizione - formata in particolare dalle classi medio-alte della capitale - che chiede ormai apertamente le dimissioni del governo, e non sembra disposta a lasciar disperdere l’entusiasmo generato dalle manifestazioni. In tale quadro, c’è attesa per il giudizio della corte Onu sui 4,6 chilometri quadrati attorno a Preah Vihear, un antico tempio induista il cui possesso è stato attribuito alla Cambogia dallo stesso tribunale nel 1962, ma che in Tailandia infiamma tuttora gli animi dei più nazionalisti. Nel caso il verdetto di oggi favorisse la Cambogia, il rischio è che il governo Yingluck venga criticato per aver “tradito il Paese perdendo pezzi di territorio”, come era avvenuto a un altro esecutivo pro-Thaksin nel 2008.