Caro Renzi, te lo dico io, detenuto, come si spiega l’amnistia ai ragazzi di Bruno Turci (carcere di Padova) Tempi, 10 novembre 2013 Il sindaco di Firenze e candidato alla segreteria del Pd si dice “contrario all’amnistia e all’indulto”. Un carcerato risponde. Egregio Signor Matteo Renzi, sono un detenuto della redazione di Ristretti Orizzonti, mi trovo in carcere da molti anni. Ho ascoltato al telegiornale la sua dichiarazione su indulto e amnistia in risposta al presidente della Repubblica. Sono rimasto colpito da una frase di cui mi sfugge la linearità, la coerenza: “Sono contrario all’amnistia e all’indulto. Come faccio a spiegare ai ragazzi il valore della legalità se ogni sette anni facciamo un’amnistia? I giovani non capirebbero, sarebbe un autogol clamoroso”. Beh! La redazione di Ristretti Orizzonti, insieme al Comune di Padova, ha organizzato un progetto che si chiama “La scuola entra in carcere, il carcere entra a scuola”, di fatto alcuni detenuti della redazione che possono usufruire dei permessi vanno nelle scuole insieme ai volontari della redazione e incontrano gli studenti. Successivamente, dopo questo primo incontro, gli studenti entrano in carcere per incontrarsi con tutti i detenuti della redazione. Questo progetto è finalizzato a informare i giovani e fare prevenzione. Incontriamo ogni anno circa seimila studenti delle scuole superiori di Padova e del Veneto e ogni anno crescono le richieste delle scuole per partecipare al progetto. Con la narrazione delle nostre storie non diamo consigli, non sarebbe opportuno, ma spieghiamo cosa ci è successo e quali sono stati i vari passaggi che ci hanno portato a commettere i reati, perché le cose non accadono mai all’improvviso, c’è sempre la possibilità di cogliere dei segnali e succede spesso in giovane età. I giovani capiscono sempre tutto, questo accade perché sentono che non gli raccontiamo mai delle balle. Capiscono che siamo mossi da motivazioni importanti e se raccontiamo a loro le cose di cui non abbiamo mai parlato con nessuno, si rendono conto che gli diamo molta importanza e altrettanta fiducia. Capiscono che lo facciamo con serietà e non abbiamo nessuna voglia di barare. È un modo per riscattarci da un passato difficile. Loro capiscono tutto In quei momenti scatta un meccanismo magico, ci ascoltano e partecipano con noi alla discussione, ci fanno tante domande, si fidano di noi. Non potremmo mai tradirli, non temiamo il loro giudizio, lo stesso fanno loro con noi raccontandoci cose che non hanno mai svelato ai genitori o agli insegnanti. Io non avrei mai il timore di non essere capito da loro, semplicemente perché con loro ci parlo, ho imparato a farlo con lealtà, senza timore, e loro lo capiscono. Ebbene, lei ha detto che i giovani non capirebbero l’indulto e l’amnistia, non saprebbe come spiegarglieli. Perché non prova a spiegargli perché, invece, l’indulto è necessario anche se può non piacere? Io capisco il fastidio che manifestano per un atto di clemenza le persone che lavorano da una vita e non hanno risorse per arrivare a fare la spesa alla fine del mese, capisco le persone che hanno subìto un furto in casa, una rapina, capisco quelli che per questi motivi sono diventati allergici alla parola indulto o amnistia. Per loro la società non ha clemenza! Capisco, inoltre, perché potrebbe apparire come una sconfitta dello Stato di diritto, ma non si può tollerare che in nome dello Stato di diritto o per l’avversione a Silvio Berlusconi non si debba intervenire per porre fine ad una ignominia perpetrata ai danni delle persone più deboli che stanno rinchiuse nelle carceri italiane in maniera disumana e in una condizione perpetua di tortura, solo per l’incapacità della cosiddetta società civile di garantire il rispetto della dignità umana soprattutto a chi sta scontando la sua pena. Sono del parere che nessuno può scaricare sulla classe politica degli ultimi vent’anni la responsabilità di questo disastro e, quindi, tirarsene fuori. Lei cos’ha fatto per impedirlo? Lei c’era! Non ci si può nascondere, non si può speculare sulla tragedia di 70 mila persone che questa società, nella quale lei ha un ruolo di dirigenza, tiene detenute in una maniera che tutta l’Europa definisce disumana. Questa realtà lei ha il dovere spiegarla ai giovani. Certo, mi rendo conto che è difficile farlo, soprattutto quando si occupa un ruolo di potere e di responsabilità come il suo. Se poi la sua, invece, fosse una maniera per sfuggire alle sue responsabilità per ragioni di bottega, per non rischiare di perdere il consenso elettorale, allora lei non sarebbe affatto migliore di quelli che vorrebbe rottamare, in questo caso lei non si potrebbe chiamare fuori dalle ipocrisie di quella nomenclatura, come la definisce lei, di cui vorrebbe essere il fustigatore… Lei è il sindaco di Firenze, si è candidato alla guida del suo partito e si candiderà alla guida del prossimo governo del paese. È investito di una responsabilità che le imporrebbe il dovere morale e politico di non scappare davanti alle sue responsabilità e di non trincerarsi dietro alla convenienza elettorale, anche perché facendo così, forse guadagnerà i voti persi dalla Lega e da Di Pietro, ma sicuramente ne perderà molti di più nel Pd, il suo civilissimo partito. La saluto. Giustizia: Manconi; l’orizzonte cupo del partito “più carcere per tutti” di Rodolfo Casadei Tempi, 10 novembre 2013 Intervista a Luigi Manconi, senatore Pd e presidente della Commissione diritti umani: “Il ministro sotto accusa per aver fatto il suo dovere. No al livellamento verso il basso delle garanzie” “Se non possiamo essere uguali nei diritti è meglio esserlo nei non diritti? Tutti sulla forca pur di essere allo stesso livello? È all’opera un meccanismo demagogico feroce: in nome di un presunto egualitarismo si propugna un livellamento delle garanzie verso il basso”. Luigi Manconi, senatore Pd, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, è un estimatore di Annamaria Cancellieri, che considera il ministro della Giustizia più attivo negli ultimi anni per quel che riguarda i problemi delle carceri italiane, ma soprattutto è un critico intransigente dei riflessi condizionati in materia di giustizia e del populismo giustizialista. Sul giornale online Huffington Post ha esposto il suo pensiero sul caso Cancellieri-Ligresti, attaccando chi chiede le dimissioni del ministro della Giustizia. Senatore Manconi, alcuni giornali e alcuni esponenti politici hanno messo sotto accusa la Cancellieri per il suo intervento in relazione alla detenzione di Giulia Ligresti, lei invece ha messo sotto accusa il conformismo nazionale e la cultura del sospetto. Cosa intende dire? C’è stata una reazione che corrisponde a un riflesso condizionato. Basta evocare la parola o l’immagine del privilegio e si scatena subito una mobilitazione emotiva che esprime volontà di rivalsa sociale e che esige la punizione dei privilegiati. È una reazione che si spiega molto facilmente: l’Italia è un paese dove i privilegi sono tuttora numerosissimi e assai consistenti, e dunque coloro che ne sono esclusi patiscono la condizione di disparità in cui vivono; ne chiedono conto e reclamano per lo meno quella sorta di risarcimento morale che è la punizione di quanti sono titolari di posizioni di vantaggio. Ci ha molto colpito il suo riferimento, nell’intervento sull’Huffington Post, al concetto di “utopia regressiva”. Beh, certo, perché di fronte a un caso come questo io mi aspetterei - ed è la mia personale posizione - che ci si battesse e si chiedesse a gran voce che tutti coloro i quali si trovano nella condizione di Giulia Ligresti, possano usufruire dello stesso trattamento che in base a precise disposizioni di legge lei ha ricevuto. E invece si manifesta una sorta di utopia regressiva, ovvero una domanda di livellamento verso il basso, di equiparazione dei diritti al più infimo livello. Quasi un azzeramento delle garanzie e dei diritti, invece che l’innalzamento di tutti al godimento di quelle stesse garanzie e di quegli stessi diritti. È un’utopia regressiva, l’idea di un mondo di uguali nell’ingiustizia. Se non possiamo essere tutti uguali nei diritti, sembra essere il messaggio, dobbiamo esserlo nello stare allo stesso livello. E lo stesso livello è per esempio quello del palco su cui si innalza la forca. Nasce da qui lo slogan e il partito del “Più carcere per tutti”. Una sorta di via giudiziaria alla lotta di classe che non ha la nobiltà e la grandiosità, non ha quell’orizzonte magari ingenuo ma luminoso di una rivoluzione universale, ma ha l’orizzonte cupo e tetro dell’ingiustizia generale. Ma non è che forse siamo andati ancora un po’ più in là? In Italia c’è più speranza di essere liberati per incompatibilità col regime carcerario se si è un poveraccio che se si è un potente o considerato tale. È un po’ paradossale questa interpretazione, ma è un paradosso che contiene una sua verità. Io sono testimone personale del fatto che Angelo Rizzoli, affetto da sclerosi multipla e da una grave insufficienza renale, ha dovuto aspettare quattro mesi e mezzo prima di vedere riconosciuto il suo diritto agli arresti domiciliari, e mentre si trovava nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini non ha potuto usufruire delle stampelle perché in carcere le stampelle non entrano. Dunque il paradosso che lei propone contiene una parte di verità. È evidente che Angelo Rizzoli è stato danneggiato dal fatto di essere persona nota. Il ministro della Giustizia ha detto che deve essere responsabile e che ha il dovere di rispettare le leggi, ma deve anche avere il diritto di essere un essere umano. Come commenterebbe? Io personalmente non riesco a immaginare un uomo politico, un governante, un rappresentante delle istituzioni che annichilisca la sua dimensione umana. Penso che quanti chiedono al ministro di rinunciare alla sua dimensione umana esprimono poca consapevolezza non della dimensione umana del ministro, ma della loro propria. Se ancora c’è. Lo spero contro ogni speranza. Non c’è profilo penale in quel “farò tutto il possibile” che la Cancellieri pronuncia nella telefonata intercettata, però la sua diffusione sembra mirata a danneggiare il ministro, a macchiare la sua immagine. L’effetto ottenuto è stato proprio questo, non c’è dubbio. In Italia c’è una sorta di morbosa passione per la diffusione delle intercettazioni e dunque la cosa sarebbe probabilmente avvenuta nei confronti di chiunque. Però in questo caso si tratta di un ministro che aveva sin dal primo momento mostrato la maggiore attenzione per il carcere fra tutti i ministri di cui io ricordi l’attività. Parlo almeno degli ultimi vent’anni. Di un ministro che aveva riconosciuto ripetutamente la necessità di amnistia e indulto. Non sto assolutamente dicendo che quella intercettazione è stata pubblicata per tali motivi. Dico però che certamente il ministro non è popolarissimo in alcuni settori dello Stato e presso alcune istituzioni. C’è chi eccepisce sul fatto che, proprio perché si tratta di amici ed ex datori di lavoro, la Cancellieri si sarebbe dovuta astenere. Astenere da cosa? C’è ancora un equivoco che circola, quello dell’interferenza: la verità è che la Cancellieri non ha detto una sola parola a un solo magistrato tra coloro che dovevano decidere la scarcerazione e il passaggio ai domiciliari di Giulia Ligresti. È intervenuta sul Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che dipende direttamente da lei. Ed è intervenuta per quello che è un suo compito istituzionale, cioè accertarsi che le condizioni di reclusione fossero adeguate sia alla figura della reclusa che al suo stato di salute. Ha fatto semplicemente il suo dovere. C’è chi ne fa un problema di cellulare. Antonio Ingroia ha detto che o il ministro mette a disposizione di tutti il suo numero di telefono, oppure si deve dimettere. Non sono al corrente di questo intervento di Ingroia, ma questo ragionamento l’ho sentito fare in questi giorni da giornalisti e politici. Siamo nel campo dello spirito di patata. È un campo frequentatissimo. Si tratta di una sciocchezza assoluta. I modi per accedere al ministro sono tanti, e come è già stato dimostrato, il numero di e-mail che le giungono è di centinaia. Queste e-mail segnalano condizioni di detenzione alle quali il ministro replica in un modo o nell’altro. Oltre a ciò, ci sono tanti canali attraverso i quali si può raggiungere il ministro della Giustizia. Esistono associazioni ed esistono i parlamentari, ai quali ci si può rivolgere. Se qualcuno mandasse al Senato una lettera indirizzata a me, qualora contenesse indicazioni utili e denunciasse una condizione iniqua, io sarei in grado di far giungere la segnalazione al ministro della Giustizia. E come me lo può fare quasi un migliaio di parlamentari di Camera e Senato. Lei è favorevole all’amnistia, come il ministro Cancellieri che pure si rimette alla sovranità del Parlamento. Le condizioni precarie delle carceri italiane sono sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vedere. Ma c’è un pensiero che anche le persone meno prevenute si fanno: “Sì, amnistiamo i detenuti. Ma è probabile che molti di loro torneranno a delinquere e dunque torneranno in carcere”. L’impegno per l’amnistia non dovrebbe andare di pari passo con un impegno per la rieducazione del detenuto e per il suo inserimento sociale e lavorativo quando esce per il fine pena o per un provvedimento di clemenza? Sicuramente sì. Così deve essere fatto, ed è possibile fare. Ma la frase “tanto poi tornano tutti in carcere” è l’ennesimo indecente luogo comune che coincide con un falso clamoroso. Una ricerca scientifica condotta da me e dal professor Giovanni Torrente ha mostrato con dati ufficiali e non contestabili come la recidiva tra coloro che hanno beneficiato dell’indulto del 2006 è esattamente la metà della recidiva registrata tra coloro che scontano interamente la pena in carcere. Nonostante quell’indulto, sacrosanto e necessario, abbia avuto effetti positivi meno di quanto sarebbe stato possibile perché non si è potuta varare anche l’amnistia, in quanto il governo di allora è durato solo 15 mesi dopo il varo dell’indulto stesso. Comunque ha avuto lo straordinario risultato di dimezzare la recidiva che ordinariamente si registra tra coloro che hanno scontato una pena detentiva. La soluzione delle residenze a sorveglianza attenuata e la regionalizzazione di alcune carceri la convincono? Sì, pienamente. E aggiungo che si tratta di soluzioni già previste in passato, proposte da altri ministri, ma nessuno come Annamaria Cancellieri si è prodigata in così pochi mesi perché si creassero le condizioni per realizzare queste riforme indispensabili. Lei ha detto che la Cancellieri agli occhi di alcuni ha il difetto di essersi occupata troppo di carceri e di essere favorevole all’amnistia. Forse l’ha danneggiata anche quello che aveva detto a settembre sulla legge Severino, quando sembrava avere spezzato una lancia in favore di Silvio Berlusconi sulla questione della retroattività? Io escludo che la pubblicazione di questa intercettazione risponda a motivi diversi da quello di tirar fuori un elemento che era destinato a rimanere riservato e che getta un’ombra sulla Cancellieri. Io credo che sia tutto qui il motivo di questa cosiddetta rivelazione. Poi, le posizioni della Cancellieri contribuiscono agli attacchi che lei subisce una volta che l’intercettazione è stata resa nota, fanno da moltiplicatore. Ma la pubblicazione dell’intercettazione corrisponde solamente al fatto che si trattava di un’intercettazione, diciamo così, pruriginosa. Quindi il giornale che la pubblicava sapeva che si trattava di un fatto di notevole interesse popolare. Sarebbe piaciuta, sarebbe stata accolta con entusiasmo in alcuni settori. Se uno dispone di enormi fascicoli colmi di registrazioni di intercettazioni, indubbiamente lì troverà materiale degno di pubblicazione nell’ottica di un’interpretazione invasiva e morbosa della vita privata dei singoli. Giustizia: l’ultimatum dei Radicali allo Stato “basta con la tortura del carcere” Il Tempo, 10 novembre 2013 Tutto ruota attorno alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo datata 8 gennaio 2013. È da lì che Marco Pannella e l’avvocato Giuseppe Rossodivita, in rappresentanza del partito Radicale, partono per argomentare la loro diffida. Una diffida che è stata inviata al presidente Giorgio Napolitano, al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, al commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muižnieks e alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Ma soprattutto è stata inviata a tutti presidenti di tribunale, ai procuratori capo, ai presidenti degli uffici gip, ai direttori di carcere e ai magistrati di sorveglianza. Le prima risposte stanno arrivando in questi giorni ed una cosa è certa: d’ora in avanti nessuno potrà più far finta di niente, nessuno potrà più ignorare lo scandalo delle nostre carceri che da luoghi di reclusione si sono ormai trasformate in luoghi di “passione”. E di morte. Nella sentenza di gennaio la Corte, proprio a fronte del cronico sovraffollamento dei nostri istituti penitenziari, accertava la violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che vieta di infliggere pene e trattamenti inumani e degradanti, invitando l’Italia, entro un anno, a porre rimedio a questo problema. I Radicali, nella loro diffida, ricordano anche come Corte Costituzionale, nella sentenza numero 12 del 1996, scriveva che “la pena è legale solo se non consiste in un trattamento contrario al senso di umanità”. È fin troppo evidente, sottolineano Pannella e Rossodivita, che in questo momento il nostro Paese viva in una condizione di palese “illegalità”. Da qui la diffida che identifica tre “obiettivi” ben precisi. Il primo raggruppa i procuratori capo, i presidenti degli uffici del gip, i presidenti di tribunale. A loro i Radicali chiedono di definire “nuovi modelli di lavoro”. Cioè di verificare, “prima dell’emissione di un ordine di esecuzione o dell’esecuzione di una ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere”, la disponibilità, da parte degli istituti, “a poter accogliere” il detenuto “in condizioni tali da non violare l’articolo 3 della Cedu”. In caso contrario, scrivono, l’ordine di esecuzione va sospeso o va prevista “una diversa misura custodiale” (ad esempio gli arresti domiciliari). Quindi tocca ai direttori dei penitenziari che vengono diffidati a informare le Autorità “in ordine alla possibilità/impossibilità di accogliere i detenuti” nel rispetto dell’articolo 3. In caso di richiesta “persistente” dovranno “rifiutare il compimento di un ordine illegittimo”. Terzi, i magistrati di sorveglianza chiamati a informare il Dap, i procuratori della Repubblica, i presidenti degli uffici del gip “in ordine alla condizione di sovraffollamento in cui versano i singoli istituti di pena di propria competenza”. Ora sarà più difficile accampare scuse e ignorare i morti. Uomo avvisato. Giustizia: Sottosegretario Berretta; allo studio nuovi interventi contro il sovraffollamento Asca, 10 novembre 2013 Abbiamo assistito in questi anni ad un abuso del diritto penale, per l’uso ideologico che si è fatto del tema della sicurezza, contemporaneamente si annunciavano miracoli edilizi, mai realizzati, che avrebbero creato sempre nuove carceri, da riempire con sempre nuove categorie di deboli. Questo abuso ha creato una questione, come ha detto il presidente della Repubblica, di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile rispetto alla quale non si può più attendere e su cui il Governo interverrà in maniera significativa per porre rimedio al sovraffollamento carcerario”. Lo ha affermato il sottosegretario alla Giustizia Giuseppe Berretta, stamani a Catania durante il convegno “Detenzione e Costituzione” tenutosi nel Palazzo di Giustizia del capoluogo etneo in occasione del XVIII anniversario dell’assassinio del penalista Serafino Famà. “Quello che si vuole introdurre è un nuovo modello di vita all’interno degli istituti. Un modello di detenzione aperta nel perimetro delle carceri, per cui le camere di pernottamento siano luoghi per il riposo e non per lo svolgersi della giornata quasi nella sua interezza. Ciò avverrà in situazione di sicurezza, attraverso l’adozione di un sistema di vigilanza dinamica che consente di utilizzare al meglio il personale, puntando su una maggiore conoscenza da parte del personale stesso dei singoli detenuti all’interno di un gruppo e delle dinamiche interne al gruppo”, ha anticipato il sottosegretario alla Giustizia. Berretta ha elencato poi i risultati delle misure già adottate dal Governo: “Il Parlamento, lo scorso agosto, ha approvato in via definitiva un decreto-legge per ridurre i flussi d’ingresso in carcere e per favorire l’accesso alle misure alternative alla detenzione - ha ricordato l’esponente del governo Letta -. Abbiamo potuto recentemente registrare i primi risultati del provvedimento che ha portato il numero di detenuti a 64.564, con una chiara riduzione rispetto al numero di oltre 69.000 registrato nel 2010. Si sono dimostrate efficaci anche le nuove norme che incidono sulla possibilità di limitare il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Gli effetti di tale intervento sulla custodia cautelare sono già visibili poiché il numero di coloro che sono in attesa del primo grado di giudizio è sceso a 12.348”. “Il numero di ingressi in carcere dalla libertà è nettamente in calo, passato da una media di circa 1.000 al mese, dato registrato nei primi sei mesi del 2013, a meno di 500 da quando è entrato in vigore il decreto legge sull’esecuzione della pena” ha sottolineato Berretta. “Il Governo si è dato degli obiettivi ambiziosi per realizzare un moderno sistema di Giustizia e per fare ciò occorre che si lavori molto anche sul piano culturale - ha concluso - L’idea è arrivare ad una giustizia condivisa, come valore di una comunità, che sia in grado di riservare al sistema giudiziale solo quei conflitti non altrimenti risolvibili”. Giustizia: Flick; l’amnistia non e necessaria… la politica ha travisato Napolitano Italpress, 10 novembre 2013 “Non credo che si possa parlare di necessità dell’amnistia o dell’indulto. A parte il fatto che le indicazioni del Presidente della Repubblica sono state a mio avviso travisate nel dibattito politico”. Così Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, intervistato da Intelligo News. “Il presidente della Repubblica - spiega Flick - non ha parlato della necessità dell’amnistia e dell’indulto. Ha parlato di una situazione abnorme e inaccettabile alla quale bisogna far fronte con riforme strutturali, perché il sovraffollamento del carcere è un fatto strutturale. Alla fine, e solo alla fine di questo discorso sulla riduzione della custodia cautelare, sulla depenalizzazione, sulle pene alternative, sul potenziamento della detenzione domiciliare e delle misure di sostegno, ha aggiunto che la situazione di emergenza è legata alle scadenze che la Corte europea dei diritti dell’Uomo ci ha posto, sapendo perfettamente la difficoltà, di tipo parlamentare, di raggiungere una maggioranza sufficiente per varare quei provvedimenti. E mi pare - conclude Flick - che le strumentalizzazioni e le valutazioni politiche fatte sull’amnistia e sull’indulto abbiano reso ulteriormente difficile il ricorso nell’emergenza a una misura di quel genere”. Giustizia: Sappe; svuota-carceri fallito, in tre mesi solo 512 in meno nelle carceri Ansa, 10 novembre 2013 Stenta a decollare il decreto del Governo definito “svuota carceri”, convertito in legge lo scorso agosto dal Parlamento, almeno nella parte che ipotizzava l’uscita pressoché “certa e immediata” dai penitenziari italiani di migliaia di detenuti. Ad affermarlo è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri. “La rilevazione mensile sull’affollamento delle carceri italiane contava 64.323 persone detenute lo scorso 31 ottobre, rispetto ai circa 38mila posti leggo regolamentari. Solamente 435 in meno rispetto alle presenze di un mese prima, il 30 settembre 2013, quando i detenuti in carcere erano 64.758. E da fine agosto a fine ottobre i detenuti in Italia sono calati per un numero complessivo di 512 unità, un dato assolutamente insignificante confrontato ai drammatici numeri del sovraffollamento attuale, che vede più di 26mila persone in cella rispetto ai posti letto regolamentari a tutto discapito delle condizioni lavorative dei poliziotti penitenziari”, spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece. “Non abbiamo i dati di quanti non sono entrati in carcere per effetto del decreto legge, che pure prevede che il magistrato possa disporre il ricorso ai domiciliari anziché la custodia cautelare in carcere per coloro che commettono reati con una pena prevista fino ai 4 anni, ma le uscite sono state assolutamente minime. Quasi il 40% dei detenuti è in attesa di un giudizio definitivo mentre i quasi 23mila detenuti stranieri in Italia rappresentano oltre il 35% della popolazione detenuta. Dati in controtendenza anche nelle regioni con la maggior concentrazione di detenuti: se il calo, ancorché impercettibile, si registra in Lombardia (8.908 detenuti a fine ottobre rispetto ai 8.980 presenti a fine settembre), Campania (oggi 8.092, un mese fa 8.103), Lazio (7.100 oggi, 7.157 il 30 settembre), Piemonte (erano 4.869, ora sono 4.773) Emilia Romagna (3.767 rispetto ai 3.802) e Veneto (3.085 rispetto ai 3.158 di un mese fa), la Sicilia vede aumentare le presenze nelle celle regionali. Il 30 settembre avevamo nelle carceri regionali siciliane 6.987 detenuti che oggi sono saliti a 7.009”. Il Sappe, che pure è scettico sulle possibilità che in Parlamento si possa varare un provvedimento di clemenza, sottolinea una volta di più come “la situazione resta allarmante, anche se gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria garantiscono ordine e sicurezza pur a fronte di condizioni di lavoro particolarmente stressanti e gravose. Amnistia e indulto da soli non bastano: serve una riforma strutturale dell’esecuzione della pena, come pure ha sottolineato il Capo dello Stato Giorgio Napolitano nella sua lettera ai parlamentari di Camera e Senato lo scorso 8 ottobre sulla grave situazione penitenziaria del Paese”. Giustizia: Gasparri (Pdl); sovraffollamento non per tossicodipendenti, dati lo confermano Il Velino, 10 novembre 2013 “Il sovraffollamento delle carceri non dipende affatto dall’attuale normativa in tema di tossicodipendenze. Lo confermano i dati diffusi ieri dal direttore del Dipartimento politiche antidroga Giovanni Serpelloni nel corso di un incontro al Senato organizzato dall’Acudipa”. Lo dichiara Maurizio Gasparri (Pdl), vicepresidente del Senato. “A fine 2012, i detenuti tossicodipendenti erano 13.694, solo il 23,5 per cento del totale. Molti di questi, stando a quanto già prevede la legge Fini-Giovanardi, avrebbero potuto chiedere pene alternative al carcere, ma risulta che solo 2.613 soggetti ne hanno fatto effettivamente richiesta e che l’81,8 per cento, 2.137 soggetti, hanno presentato i requisiti idonei. Di questi, infine, a 881 detenuti è stata effettivamente applicata la pena alternativa con esiti positivi. Ciò detto, è evidente che le leggi in vigore, se applicate, funzionano. Basta quindi strumentalizzazioni. Le norme ci sono e vanno potenziate, insieme a uno sforzo comune anche del governo per dare alle strutture pubbliche e alle comunità terapeutiche mezzi e risorse necessarie nell’importantissimo lavoro di recupero dei tossicodipendenti”. Campania: Flora Beneduce (Pdl); la salute, un diritto negato nelle carceri della regione www.stabiachannel.it, 10 novembre 2013 Si conclude il tour del consigliere regionale di Forza Italia negli istituti penitenziari della provincia di Napoli. “Per i detenuti la sanità non può essere un’isola che non c’è”. Così Flora Beneduce, consigliere regionale della Campania, commenta lo stato della sanità penitenziaria in Campania. Sanare le criticità e far luce sull’utilizzo dei fondi stanziati dalla Regione e trasferiti alle Asl per le carceri sono gli obiettivi dell’onorevole Beneduce, in seguito al tour negli istituti penitenziari della provincia di Napoli. “La situazione sanitaria degli istituti penitenziari campani è allarmante. Il sovraffollamento, i disagi psicologici, la percezione di ostilità che i detenuti avvertono nei confronti del personale, le lunghe attese per le visite specialistiche per i malati, l’assenza di figure professionali con formazione specifica rendono le condizioni dei reclusi particolarmente grave - dice Flora Beneduce, componente della Commissione Sanità del Consiglio regionale -. Nella struttura sanitaria del centro penitenziario di Secondigliano manca il personale medico e paramedico e le strumentazioni sono inadeguate o assenti. Non sono garantite le attività specialistiche per cui c’è più domanda, come l’ ortopedia, l’urologia, la diabetologia, la neurologia, la gastroenterologia e la chirurgia vascolare. Risultano del tutto insufficienti le ore assegnate ad altri specialisti. Assente anche la diagnostica per immagini. Gli esami di laboratorio, persino quelli di routine, non sono effettuati in sede e seguono una lunga trafila: una volta eseguito il prelievo ematico, lo stesso viene trasportato negli ospedali che insistono nella stessa Asl. Condizioni simili persistono anche al centro clinico di Poggioreale. Eppure l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo stabilisce che ogni uomo debba avere un trattamento dignitoso: il diritto alla salute è inalienabile e preminente rispetto ad altre esigenze come, ad esempio, quella alla sicurezza. Ma, in queste carceri, le cure sembrano essere un’elargizione piuttosto che un diritto. La presenza dei medici, che subentrano a tempo determinato e cambiano ogni mese, è discontinua e non consente al detenuto di avere riferimenti stabili. La richiesta al Cup di una visita specialistica genera lunghissime liste d’attesa, prassi burocratiche complesse e trasferimenti che impegnano risorse umane e mezzi. Emergono, dunque, diverse esigenze: innanzitutto quella di disporre personale medico specializzato e perlomeno del laboratorio di analisi all’interno della casa circondariale. È auspicabile, poi, l’istituzione di una graduatoria di medici di Medicina Generale, appositamente formati, da assumere a tempo indeterminato. Infine, bisogna predisporre day hospital oncologici per le chemioterapie in sede. Altra necessità, è quella di individuare una percentuale di posti di degenza in strutture convenzionate da riservare ai detenuti per la riabilitazione post infarto e post ictus”. Non termina qui l’analisi dell’onorevole Beneduce, che, nel passaggio delle attribuzioni di competenze della sanità penitenziaria dal ministero di Grazia e Giustizia alle Asl avvenuto nel 2008, ha ravvisato l’ingenerarsi di nuove emergenze ed inadempienze. “La Regione ha impegnato dei fondi per la sanità penitenziaria - spiega l’onorevole Beneduce. Alla Asl Napoli 1, dove insistono i centri clinici di Poggioreale e Secondigliano, sono stati assegnati nel 2012 oltre 10 milioni di euro. Sarebbero stati sufficienti ad evitare l’avvicendamento per i pazienti detenuti, destabilizzante per i pazienti, dei medici; per acquistare alcune delle apparecchiature necessarie e per assicurare i livelli essenziali di assistenza. Non so dove questi fondi siano finiti. Per ottenere risposte, forse dovrei rivolgermi all’Osservatorio permanente per la sanità penitenziaria, istituito nell’ottobre del 2010. Se solo funzionasse”. In questo cupo excursus sulle carceri partenopee, però, ci sono degli spiragli di luce e prospettive che aprono alla speranza. Nella casa circondariale di Pozzuoli, infatti, c’è una realtà diversa, dove sono attivi tutti gli ambulatori, grazie all’impiego di specialisti ambulatoriali, e dove c’è la Guardia medica h24. Inoltre, le detenute hanno la possibilità di studiare, di essere iniziate a diverse professioni, di acquisire competenze, di partecipare a laboratori e di recitare. “Il vero disagio è quello affettivo, per la lontananza dai figli - conclude l’onorevole -. Ma il personale medico e paramedico spesso riesce a offrire supporti che non sono solo professionali, ma anche e soprattutto psicologici. Ecco, dunque, l’importanza di essere pronti per gestire il rapporto con i reclusi, spesso malati nel corpo e feriti nell’animo”. Trento: mio figlio tossicodipendente è morto in carcere, pensateci… di Giuliano Lott Il Trentino, 10 novembre 2013 Della vicenda del giovane trovato esanime in cella attorno alle 6 del mattino e poi morto, si sono interessate molte associazioni di volontariato che si curano dei detenuti. Anche il senatore Luigi Manconi ha annunciato sul caso accaduto al carcere di Spini di Gardolo un’interrogazione urgente al ministro di giustizia Anna Maria Cancellieri. Richieste di chiarezza alle quali però non ha fatto riscontro alcuna disponibilità da parte degli organi preposti: per la magistratura il caso è chiuso (“morte per cause naturali”, ha concluso il procuratore capo Amato), e il medico curante del ragazzo non ne ha voluto sapere di chiedere accertamenti. “Non abbiamo molti margini di intervento - spiegano gli avvocati Maria Anita Pisani e Giuliano Valer -, e le nostre richieste sbattono contro un muro di gomma”. “Voglio lanciare un appello. Ai ragazzi, alle famiglie, alla scuola, agli insegnanti”. Con un filo di voce, la madre del ventottenne morto in carcere si rivolge alla sensibilità dei giovani e di chi ha a che fare con loro, da genitore, o da educatore. “Vorrei che tutti dedicassero una riflessione alla vita breve e tormentata di mio figlio, che spero sia di lezione per molti, perché non sia morto invano. Perdersi nel mondo degli stupefacenti porta a questo triste epilogo. I ragazzi, gli adolescenti, nel periodo della curiosità, hanno una percezione diversa dei rischi che si corrono. Non pensano alle conseguenze quando cercano droghe per “stare bene”. Io, pur vivendo a fianco di mio figlio, non mi sono accorta di nulla fino a quando non è stato troppo tardi, ed era diventato schiavo della dipendenza. Della droga non sapevo nulla, fino a quel momento. Lui finito in carcere, anche in seguito alla sua frequentazione degli stupefacenti, perché certi comportamenti erano indotti dalla droga, e ora non c’è più. Aveva solo 28 anni. I genitori e gli insegnanti devono essere consapevoli che fuori c’è un mercato ampio, con una grande varietà di sostanze disponibili. I ragazzi devono stare attenti a cedere alla curiosità. Spero che questa morte, questa tragedia che non auguro a nessuno, serva almeno a far pensare tutti quanti”. Frasi toccanti, quelle pronunciate con grande forza dalla madre, che rappresentano l’aspetto più emozionale e sociale della vicenda del ragazzo. Per quello che attiene invece al decesso, avvenuto la mattina del 29 ottobre, è ancora buio profondo. La salma del giovane è conservata nella cella frigorifera dell’obitorio, al cimitero comunale. I funerali non sono stati fissati perché la madre del giovane non si arrende e assieme al suo legale vuole che sulle cause della morte venga fatta chiarezza. Per spiegare cosa è accaduto all’alba del 29 ottobre servirebbe un’autopsia, ma il procuratore capo Giuseppe Amato ha già annunciato la propria indisponibilità a procedere: le cause del decesso sono naturali, ha spiegato il magistrato, e non c’è ragione per ipotizzare l’intervento o la responsabilità di terzi. Dunque mancano gli estremi per richiedere un esame più approfondito. Tesi che l’avvocato Maria Anita Pisani, legale della famiglia, non riesce a fare propria. “Dalla mia esperienza professionale, per ogni morte in carcere è stata richiesta l’autopsia, persino quando le cause del decesso erano evidenti, come un suicidio. Il certificato di morte, che abbiamo ottenuto in copia, dice che il ragazzo è morto “per arresto cardiocircolatorio”, ma non è una diagnosi. Tutti muoiono perché il cuore si ferma. Qui si tratta di capire cosa ha provocato l’arresto cardiaco. E ritengo che la madre abbia tutti i diritti di conoscere la verità. Se il ragazzo è morto per un infarto, ad esempio, e c’erano elementi genetici predisponenti, la famiglia deve poterlo sapere”. Purtroppo, a disporre l’autopsia possono essere solo la magistratura (che ha già detto di no), l’Azienda sanitaria (interessata alle cause di una morte, ad esempio, per prevenire l’eventuale rischio di epidemie) o il medico curante. Il quale si è già chiamato fuori poiché quando il ragazzo è spirato era in carico al carcere e al servizio sanitario annesso. “Noi però non ci arrendiamo - spiega l’avvocato Pisani - ed eserciteremo pressione sugli organi competenti per sollecitare l’autopsia”. Bolzano 55 detenuti su 114 hanno problemi di dipendenza dall’alcol e dalle droghe di Antonella Mattioli Alto Adige, 10 novembre 2013 Pochi giorni fa, un detenuto del nuovo carcere modello di Spini di Gardolo è morto per cause naturali: aveva 28 anni. Doveva scontare una pena di pochi mesi per resistenza a pubblico ufficiale. A Vercelli è stata scarcerata e messa agli arresti domiciliari Giulia Ligresti: non mangiava più e, a detta dei suoi avvocati, rischiava di morire. L’intervento del ministro della giustizia Anna Maria Cancellieri, amica della famiglia Ligresti, ha scatenato una bufera politica e continua ad alimentare polemiche quantomeno sull’opportunità. Ma la situazione nel carcere di via Dante, a Bolzano, com’è e soprattutto per un detenuto che abbia problemi di salute quali sono le procedure da seguire per scontare la pena a casa? A Bolzano, a quanto pare, nessuno è stato mai scarcerato perché minacciava di lasciarsi morire. C’è stato, qualche anno fa, un malato di tumore che ha chiesto e ottenuto di andare a casa, dove poco tempo dopo è morto. Ma i casi in cui il Tribunale di sorveglianza stabilisce che un detenuto, che sta scontando una pena definitiva, è incompatibile con il carcere per motivi di salute, sono rarissimi. Semmai i giudici decidono, prima ancora che la persona entri in carcere, che le sue condizioni di salute non sono compatibili con la detenzione. La situazione anche in una casa circondariale piccola, come quella di Bolzano, è comunque molto complessa per chi è costretto a starci e per chi la gestisce. Costruito nell’Ottocento per 93 detenuti, ne ospita 114 (ne sono ammessi 115). Più che il sovraffollamento, il problema vero oggi è rappresentato dalla mancanza di spazi per il recupero e il reinserimento dei detenuti, di aree ricreative e per gli incontri con i familiari e i figli. Ai limiti oggettivi della struttura si aggiungono i problemi dei singoli: 55 detenuti, ovvero più della metà, ha problemi di dipendenza dall’alcol e dalle droghe. Sono seguiti dall’unità operativa per le tossicodipendenze che fa capo al Sert. “In base alla mia esperienza, in casi in cui ci siano i presupposti di legge e si dimostri che il detenuto sta seguendo una terapia di disintossicazione da droga e alcol - spiega l’avvocato Mara Uggé - il Tribunale di sorveglianza in genere concede l’affidamento terapeutico che consente alla persona di curarsi fuori dal carcere. Ma, ovviamente, c’è tutta una procedura da seguire che deve essere anche accompagnata dalla documentazione medica. Ci sono poi ulteriori accertamenti da parte dei giudici, per verificare che il piano terapeutico venga effettivamente seguito”. Mai avuta l’impressione che ci possano essere corsie preferenziali? “Assolutamente no - esclude l’avvocato Uggé - e lo dice una che difende soprattutto extracomunitari”. Anche l’avvocato Nicola Nettis conferma la complessità dell’iter e al tempo stesso le difficoltà di ottenere la scarcerazione di un detenuto per ragioni di salute. “Il Tribunale di sorveglianza in caso di sentenza definitiva o rispettivamente il gip, il giudice del dibattimento o della Corte d’appello, a seconda delle varie fasi del procedimento giudiziario, a Bolzano sono molto disponibili ad ascoltare le ragioni dei detenuti illustrate dai loro legali. Ma non è facile ottenere, in particolare dal Tribunale di sorveglianza, dopo tre gradi di giudizio, il riconoscimento di incompatibilità alla detenzione per motivi di salute. In generale dico però che oggi si fa abbastanza per i detenuti con problemi di droga e alcol, mentre non si fa nulla per il recupero di pedofili e persone dipendenti dal gioco”. La psicologa Franca Berti: non sono pochi a stare male Pochi, disponibili per poche ore e malpagati. Sono gli psicologi a disposizione dell’amministrazione penitenziaria di Bolzano che intervengono abitualmente per chi, anche nel piccolo carcere di Bolzano, chiede aiuto evidenziando patologie di carattere psicologico. In una casa circondariale come quella di Bolzano i casi legati all’insofferenza di soggetti deboli non sono pochi anche se non sono stati per fortuna numerosi quelli sfociati in un dramma. Tra chi opera nelle celle per cercare di aiutare i soggetti piu deboli c’è anche la psicopedagogista Franca Berti. Quali sono le possibilità di intervento? “Nel caso di patologie fisiche i medici possono anche disporre il ricovero nelle strutture sanitarie all’interno del carcere. Se il disagio evidenziato è di carattere psicologico siamo noi al magistrato di sorveglianza la situazione. In tal senso ho notato un aumento delle sensibilità...poi è l’avvocato che deve muovere tutto” Dunque c’è più disponibilità rispetto al passato a valutare la presunta incompatibilità con il carcere? “Sì, ma valutare l’incompatibilità è molto complicato in quanto si arriva ad un punto oltre il quale c’è solo la discrezionalità del magistrato a risultare decisiva. Ed è delicato anche per loro rimettere in libertà una persona condannata ritenendo che non può sostenere la realtà del carcere” Si ricorda qualche caso particolare? “Sì, ricordo un detenuto con una forma di diabete gravissima per cui fu necessario amputargli entrambe le gambe. Andai proprio io dal magistrato e a segnalare che c’era il pericolo che quest’uomo morisse in carcere. In quel caso ricordo che in pochissimo tempo fu affidato alle cure esterne dei medici e scontò il resto della pena all’esterno della struttura carceraria. Ma fu un caso raro” Dunque non è facile ottenere un intervento simile... “Beh, effettivamente ci dev’essere una documentazione precisa e significativa circa la presunta incompatibilità con la situazione carceraria. In carcere mi ricordo anche detenuti cardiopatici oppure colpiti da tumore. Patologie che non sono state comunque sufficienti ad ottenere la scarcerazione per incompatibilità” Avere un buon avvocato di fiducia conta? “Penso di sì, è fondamentale avere un avvocato di fiducia che segua la situazione. Ed è importante anche avere la disponibilità economica di pagarsi qualche consulenza medica...” Sulmona: (Aq): in carcere serve reparto psichiatrico, troppi detenuti lasciati senza cure di Barbara Delle Monache Il Tempo, 10 novembre 2013 “Si sentono abbandonati e reclamano di non aver avuto le cure sanitarie richieste, soprattutto quelle psichiatriche”. A segnalarlo è l’avvocato Catia Puglielli, responsabile dell’area legale del Tribunale per i diritti del malato sulmonese, che ha ricevuto diverse lettere dai detenuti del carcere di Sulmona, i quali sentono la necessità di ricevere cure specialistiche per particolari casi. Ed è per questo che l’avvocato Catia Puglielli ha annunciato: “Sarà presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Sulmona, se non si dovesse trovare una soluzione immediata. Il diritto del malato implica anche quello del malato-detenuto”. La situazione del carcere peligno, almeno a sentire i racconti dei detenuti, starebbe per scoppiare ed è per questo che il responsabile del Tribunale per i diritti del malato di Sulmona Edoardo Facchini ha sollecitato la direzione carceraria ad intervenire al fine anche di evitare il ripetersi di simili episodi. “Nel penitenziario ci sono seri problemi - ha sottolineato Edoardo Facchini - e ancora oggi non capisco per quale motivo i sindacati abbiano detto “no” alla realizzazione di un reparto psichiatrico nella struttura di via Lamaccio. Noi, dal nostro punto di vista, crediamo invece che un carcere come quello abbia bisogno di un centro specialistico, soprattutto se le lettere di richiesta che arrivano alla nostra associazione hanno un minimo di fondamento”. Valutate le possibilità legali, l’avvocato Puglielli, che non può di fatto dialogare personalmente con i detenuti, ha interessato le Camere Penali sulmonesi e non si esclude che possa essere presentato, appunto, un esposto in Procura. A questo chiaramente si va a sommare la questione del “repartino” per detenuti che da tempo, ormai, non avrebbe le caratteristiche in regola per poter ospitare i reclusi malati. La stanza sotterranea ha bisogno di essere rimessa a nuovo, altrimenti si rischiano anche seri problemi igienico sanitari. “Noi in questo momento chiediamo attenzione - ha concluso Edoardo Facchini - e della problematica investiremo presto anche il sindaco di Sulmona Ranalli, al quale chiederemo di dialogare con la direzione del carcere che, per forza di cose, dovrà prendere provvedimenti per andare incontro alle richiesta di circa dieci detenuti che si trovano nella struttura carceraria”. Genova: Marassi scoppia, ma in materia di integrazione diventa un esempio da imitare di Bruno Persano La Repubblica, 10 novembre 2013 Il carcere di Marassi, modello per il progetto di riorganizzazione delle case di pena in Ecuador. Nonostante il sovraffollamento delle celle, nonostante gli scarsi finanziamenti destinati all’edilizia carceraria, i laboratori per i detenuti e il teatro realizzato nel cortile del carcere sono “esempi da imitare per rendere possibile il reinserimento dei detenuti nella comunità sociale”. Ne è convinto il ministro della Giustizia e dei Diritti umani dell’Ecuador, Lenin Lara, in visita alla casa circondariale di Marassi insieme al console dell’Ecuador a Genova, Esther Cuesta, e all’assessore comunale alla sicurezza, Elena Fiorini. Gli ospiti sudamericani hanno scelto Genova per “copiare” il modello di gestione delle future case di pena in Ecuador. “Pur conoscendo i grossi problemi che affliggono il carcere - spiega il console Cuesta - Marassi resta un modello utile per risolvere quella che il nostro presidente Rafael Correa ha detto essere un’emergenza nazionale”. Con la direzione della casa circondariale genovese, il ministro ecuadoriano ha siglato un protocollo di collaborazione che include il progetto di rieducazione dei detenuti stilato in tanti anni di esperienza sul campo. “Il progetto di realizzare un teatro all’interno di Marassi - spiega l’assessore Fiorini - ha colpito favorevolmente la delegazione ecuadoriana. C’erano parecchi detenuti che lavoravano nella struttura e altrettanti erano impegnati nel forno a cuocere il pane per la mensa del carcere e per le panetterie dei supermercati; nella falegnameria, nella stampa delle t-shirt. Tutte attività utilissime per soddisfare il dettato costituzionale che suggerisce di reintegrare il detenuto nel contesto civile dopo l’espiazione della pena”. La scelta dell’Ecuador non è casuale: la comunità ecuadoriana è la più numerosa in città: “Oltre 17.000 immigrati”, spiega Elena Fiorini, più o meno come gli abitanti di Sestri Levante. Con l’Ecuador, l’assessore si vanta di aver avviato da tempo una collaborazione e proprio sul campo giudiziario l’anno scorso ha organizzato, lei che di professione è un avvocato, un convegno tra giuristi italiani e ecuadoriani sul codice penale minorile e sul diritto di famiglia. Ora si tratta di proseguire con l’integrazione anche di quella minuscola frazione di ecuadoriani che hanno commesso reati e sono detenuti. “L’integrazione passa anche attraverso la poesia - spiega il console Cuesta. Alcuni lavori scritti da detenuti miei connazionali saranno letti nella prossima edizione del Festival della poesia in programma proprio qui, a Genova. E sarà anche questo un modo per far crescere nell’animo dei reclusi uno spirito nuovo, diverso, migliore”. Palermo: tre detenuti bonificano l’area archeologica del rione San Piretro www.strettoweb.com, 10 novembre 2013 “Siamo soddisfatti e vogliamo continuare a renderci utili per la società”. Con queste parole Theodore, Ivan e Giuseppe, tre detenuti del carcere Pagliarelli, manifestano il loro desiderio di continuare l’importante lavoro di bonifica del sito archeologico del rione San Piretro di Palermo, in stato di abbandono da diversi anni, che li ha visti impegnati per due mesi. Da circa due mesi i tre detenuti lavorano, infatti, per portare alla luce gli scavi archeologici dell’antico sito archeologico del rione San Pietro nell’area Schiavoni che si estende per 7 chilometri. Quest’azione è inserita in un progetto più ampio denominato “Al Bab la Nuova Porta di Palermo” presentato ieri mattina in presenza di diverse esponenti istituzionali, e del privato sociale. Il progetto “Al Bab” rientra nelle azioni di riqualificazione ambientale, il reinserimento delle fasce sociali deboli e l’applicazione dell’art. 27 della Costituzione della Repubblica Italiana. L’iniziativa è stata promossa dal Dipartimento Regionale ai Beni Culturali ed Ambientali, con il patrocino del Comune di Palermo, la collaborazione del Centro di Accoglienza Padre Nostro onlus, l’associazione Acunamatata onlus, l’associazione Laboratori Riuniti Altrove onlus, l’associazione Immagininaria Ragazzi Onlus, Communitas Toscana S.C., Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia della Sicilia e la fondazione Giovanni Paolo II di Fiesole e la Casa Circondariale Pagliarelli, associazione gruppo Sali. “Dopo 15 anni di abbandono, abbiamo chiesto alla sovrintendenza ai beni culturali la possibilità di bonificare quest’area a partire dal lavoro di pubblica utilità che stanno facendo questi tre detenuti e a cui presto se ne aggiungeranno altri tre - spiega Maurizio Artale, presidente del centro Padre Nostro -. Deve essere chiaro quanto può essere importante l’utilità dei detenuti che anziché stare in cella a non fare niente operano per il bene pubblico. L’ozio in carcere non giova a nessuno né al detenuto né allo Stato. Loro danno un senso alla loro pena, si sentono accettati e in più la gente capisce quanto si sono impegnati. Il progetto è avvenuto senza alcun sostegno pubblico e speriamo di continuare magari sensibilizzando le istituzioni a darci una mano”. “Solo partendo dalle pene alternative si aiuta la persona - continua Artale -. Se oggi ogni associazione si pigliasse, secondo le sue possibilità, alcuni detenuti, immaginiamo quante opere importanti si potrebbero fare. Certamente senza fondi è difficile e il nostro sforzo è stato finora quello di reperire e utilizzare tutte le risorse disponibili. Non vogliamo che faccia notizia soltanto il detenuto che uccide ma anche tutti gli altri che in vario modo si rendono utili alla società. Occorre promuovere quindi le pene alternative con tutte le garanzie possibili per la collettività, valutando i diversi casi. I detenuti vanno sostenuti e affiancati con un a lavoro di rete tra le istituzioni e il privato sociale. Adesso vogliamo fare un accordo quadro con il sindaco per fare un piano programmatico che veda i detenuti impegnati nel recupero di alcune aree della città”. “Mi sento fortunato ad avere avuto questa possibilità - dice Thedore Middlebrook, 52 anni di origine colombiana. In questa area abbandonata abbiamo trovato di tutto e adesso vogliamo che i cittadini ne riapprezzino il suo valore culturale. Ringrazio tutti coloro che mi hanno dato fiducia perché questo ha fatto crescere il mio senso di responsabilità. La pena alternativa è oggi l’unica finestra sulla vita che ci fa uscire dall’incubo della reclusione e privazione della libertà”. “È stata finora un’esperienza che mi ha dato tanto rispetto all’ozio del carcere - dice pure Ivan Mattiolo di 26 anni -. Se soltanto i politici capissero quanto può essere importante il nostro lavoro tutto sarebbe diverso”. “Si dovrebbe procedere oggi ad una diversa concezione dell’esecuzione della pena - sottolinea Francesca Vazzana, direttrice del carcere Pagliarelli -. Il carcere non deve essere visto come l’unica possibilità ma, a seconda dei casi, occorrerebbe applicare sanzioni di tipo diverso che sono anche quelle di svolgere a titolo gratuito lavori per la pubblica utilità. In particolare, il recupero di questa area archeologica è un modo di restituire il mal tolto e di risarcire la società rispetto al danno che si è commesso. Occorre trovare le strade per sviluppare un impegno sociale dei detenuti che veda l’adesione ai principi di legalità. Il rispetto del luogo che hanno recuperato li porterà ad avere anche rispetto, una volta tornati liberi, anche della loro vita ordinaria”. “È la prima volta che a Palermo si realizza un rapporto di collaborazione tra diverse istituzioni e privato sociale per il recupero di un’area attraverso il lavoro all’esterno dei detenuti - afferma il sindaco Orlando -. È sicuramente un segnale importante rispetto ad una disattenzione nel passato per le condizioni di vita di chi è recluso in carcere. Il carcere è la città e la città è il carcere cioè dentro la città come dentro il carcere si può trovare tutto il male e tutto il bene possibile sta a noi scoprirlo e farlo emergere. Quando capiremo che chi è detenuto in carcere ha diritto al trattamento di umanità e alla speranza del reinserimento sociale vivremo in un mondo migliore possibile anche a partire da Palermo. Viterbo: 14 detenuti in permesso-premio sono stati ricevuti in Vaticano Adnkronos, 10 novembre 2013 Il Vaticano ha aperto le porte a quattordici detenuti del carcere di Viterbo. Un pellegrinaggio “alla ricerca di serenità e conforto”, ha spiegato la direttrice del carcere Mammagialla, Teresa Mascolo, alla Radio Vaticana. Insieme al cappellano e a diverse rappresentanze dell’Istituto penitenziario, la direttrice ha accompagnato un gruppo di detenuti già autorizzati ad uscire, per una visita prima alle Grotte Vaticane e poi alla Basilica di San Pietro. Al centro della mattinata l’incontro con il cardinale Angelo Comastri, vicario generale del Papa per la Città del Vaticano. “Un gruppo di 14 detenuti - tra coloro che già andavano in permesso - hanno scelto di recarsi in pellegrinaggio, in occasione dell’Anno della Fede. È la prima volta che - tra poliziotti penitenziari, ma anche educatori, amministrativi ed assistenti volontari - veniamo insieme alla Città del Vaticano. Quindi - ha spiegato la direttrice del carcere -è un momento di un cammino che mi auguro proseguirà, alla ricerca dello spirito di solidarietà e soprattutto di comunanza di intenti, in un contesto difficile quale può essere quello del penitenziario”. Dal canto suo, il cappellano padre Antonio Brignuolo, ha ammonito: “Concretizzare quello che il Papa ha detto, cioè fare sentire a ciascuno la misericordia di Dio, la fiducia nella misericordia di Dio”. Cinema: Valeria Golino racconta il dramma di Armida, direttrice di carceri Il Tempo, 10 novembre 2013 È passato fuori concorso, al Festival capitolino “Come il Vento” di Marco Simon Puccioni con Valeria Golino, Filippo Timi, Francesco Scianna e Chiara Caselli. La storia è tratta dalla vita di Armida Miserere, una delle prime donne direttrici di carcere, chiamata durante la sua carriera a dirigere i penitenziari più caldi d’Italia a contatto con i peggiori criminali, terroristi e mafiosi del nostro tempo. Una donna condannata dalla perdita del suo amato a vivere una vita al limite, in cerca, fino alla fine, di giustizia e amore nel sistema penitenziario. Distribuito da Ambi Pictures, il film uscirà nelle sale italiane il 28 novembre. Un personaggio complesso e contradditorio, distrutto dalla sofferenza e intensamente interpretato dalla Golino, nel ruolo di una donna che, negli anni ‘80, riuscì pian piano ad affermarsi in un ambiente duro e maschilista, guadagnandosi il rispetto con i suoi atteggiamenti anche duri, senza lasciarsi sopraffare dalle intimidazioni. “Non conoscevo Armida prima che il regista me ne parlasse - ha raccontato Valeria Golino - Ho conosciuto la sua Armida, mi sono affidata al suo punto di vista, è una donna così complessa e piena di zone d’ombra, misteriosa. All’inizio non volevo fare questo film perché avevo paura, oggi è così difficile fare un film in Italia che non sia di puro intrattenimento, temevo che non trovassimo una distribuzione, poi mi ha convinto la voglia di farlo di Puccioni. L’ho incontrata brevemente un anno prima che morisse, ero andata a Sulmona con Emanuele Crialese a un piccolo festival di cinema per i detenuti, andavamo a mostrargli il film “Respiro” ed è stata un’esperienza molto toccante. Lei mi ha accolta e accompagnata e ci siamo fatti delle foto insieme. Studiando il personaggio ho visto alcune foto di Armida e ho ritrovato la nostra, me la ero scordata: è curioso che, anche se ci eravamo conosciute da poco, nello scatto siamo abbracciate e lei mi guarda. Mi ha fatto molto effetto”. Girato in 5 regioni, racconta la storia di Armida nell’arco di 15 anni, dal carcere di Sulmona, a Pianosa, all’Ucciardone, il suo rapporto con i detenuti, la sua professionalità ma anche la sua sofferenza dopo l’uccisione del compagno (Filippo Timi). Un dolore incolmabile, una ferita che non è riuscita mai a rimarginare, anche perché quella stessa giustizia per cui lavorava, ha continuato a deluderla, così come l’umanità in generale, fino a portarla al gesto estremo di togliersi la vita. Il regista ha raccontato le difficoltà nel fare il film, quando “il Dap per fortuna ci ha dato un grande aiuto e ci ha fatto entrare nelle carceri, ma non è stato semplice girare”. Musica: con l’orchestra Mozart cantano i detenuti del carcere di Bologna Adnkronos, 10 novembre 2013 Il Coro Papageno, formato da detenuti e da coristi volontari, tornerà ad esibirsi per il pubblico esterno, in un concerto che vedrà anche la partecipazione di un gruppo strumentale formato da musicisti dell’Orchestra Mozart. L’appuntamento è per sabato 14 dicembre alle 15.00 alla Casa Circondariale della Dozza di Bologna. Un’iniziativa che si colloca nell’ambito delle attività del Progetto Papageno, che dall’ottobre 2011 l’Orchestra Mozart di Bologna realizza in collaborazione con la Casa Circondariale, organizzando laboratori corali sotto la guida del maestro Michele Napolitano. Dal primo concerto pubblico del novembre 2012, i progressi del gruppo sono stati concreti ed evidenti: coloro che un anno fa, alle prime armi con la musica, faticavano ad intonare i canti e a seguire i brani sulle parti musicali, oggi supportano i nuovi entrati, dando indicazioni sul rigo da seguire e fungendo da colonne portanti nel guidare le voci dei colleghi meno esperti. Il 14 dicembre si ripeterà l’opportunità, per la cittadinanza, di entrare a diretto contatto con la realtà del carcere, e di sperimentare in prima persona quanto la musica possa trasformare la vita, regalando benessere e senso di appartenenza ad un gruppo solidale, nel quale ognuno è spronato a rispettare gli spazi altrui e ad offrire il meglio di sé a favore di tutti. Immigrazione: una proposta per il Mediterraneo di Luigi Manconi Il Manifesto, 10 novembre 2013 È passato ormai un mese dalla tragedia di Lampedusa e stentano a intravedersi risposte politiche e istituzionali significative a quanto è accaduto. Ancora una volta rischia di venire rimosso quel dato essenziale e crudele: nel corso dell’ultimo quarto di secolo, ogni giorno in quel mare che abbiamo chiamato “nostro” sono morti mediamente 6-7 fuggiaschi che cercavano di raggiungere il continente europeo. Partiamo da qui. Se si vuol mettere fine alle condizioni istituzionali che hanno reso possibile la trasformazione del Mediterraneo in un cimitero liquido, certo sarà necessaria una revisione organica della legislazione nazionale e delle direttive europee, che faciliti l’ingresso legale dei migranti e l’asilo dei profughi. Intanto, però, se non si vuole degradare quello sgomento collettivo del 3 ottobre in una cerimonia di lavacro delle coscienze, è nella responsabilità di ciascuno fare qualcosa, subito, allo stato della legislazione vigente. Con questo spirito, insieme al sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini, ho presentato al capo dello Stato un piano per la “ammissione umanitaria” dei profughi e dei potenziali richiedenti asilo che si affacciano sul Mediterraneo dalla sua sponda meridionale, nel continente africano. Il progetto è semplicissimo, anche se - lo riconosco - di ardua realizzabilità, e si fonda su un assunto elementare: se il principale attentato all’incolumità dei migranti è rappresentato da quei viaggi nel Mediterraneo, va fatto in modo che quel tragitto possa realizzarsi in condizioni di sicurezza. Dunque, va anticipato geograficamente il momento e il luogo in cui è possibile chiedere all’Italia e ai paesi europei una misura di protezione temporanea, in modo tale - appunto - che l’attraversamento del Mediterraneo possa svolgersi alla luce del sole. Deve essere possibile, cioè, formulare quella richiesta di protezione temporanea e indirizzarla all’Unione Europea già nei paesi di transito o di aggregazione dei flussi. Si tratta, in sostanza, di ricorrere a un piano di reinsediamento, come già si fa per i profughi siriani, e al riconoscimento di una forma di protezione prima della traversata del Mediterraneo. Del resto, la protezione temporanea è prevista dalla direttiva Ue del 2001 in presenza di un “afflusso massiccio di sfollati”, ovvero di persone che hanno dovuto abbandonare la propria terra a causa della guerra o di violazione dei diritti umani. Una volta riconosciuta la sussistenza delle condizioni per la protezione temporanea, l’Unione Europea definirà le quote di accoglienza per ogni Stato Membro, garantendo a ciascun interessato il ricongiungimento familiare previsto dal regolamento europeo Dublino III. La procedura per il riconoscimento di quella protezione deve avvenire - questo è il punto fondamentale - direttamente nei paesi rivieraschi della sponda sud del Mediterraneo e deve attuarsi attraverso il Servizio europeo per l’azione esterna e la rete delle ambasciate e dei consolati degli Stati Membri, con il coinvolgimento delle organizzazioni internazionali. Questo comporta la realizzazione di presidi dell’Ue, così che in quei Paesi - Egitto, Giordania, Libano, Algeria, Tunisia, Marocco e, se ve ne sono le condizioni, Libia - si possa avviare la procedura di concessione della protezione temporanea. A questo punto, l’arrivo in Europa per quei profughi potrebbe avvenire con mezzi legali e sicuri. Ovviamente, la misura di protezione temporanea non precluderebbe la domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato nei singoli Paesi. Infine, quanto alla praticabilità del progetto, è possibile ricorrere al Fondo europeo per i Rifugiati e a quello per la Protezione civile. So bene che un simile progetto può apparire, allo stato attuale, irrealizzabile, ma da qualche parte bisogna pur iniziare per superare l’attuale desolante inerzia. Certo, perché questo piano funzioni, è necessario che l’Europa lo condivida. E, invece, oggi l’Europa appare sorda, lontana, avarissima. Ma non c’è alternativa, come hanno bene inteso la comunità di Sant’Egidio e il Consiglio italiano per i rifugiati, che hanno accolto con molto interesse la nostra ipotesi. Che può essere articolata anche in modo diverso, affidarsi a un’altra base giuridica e ricorrere a procedure differenti, salvaguardando la sostanza della proposta. Se non si farà così, l’intera responsabilità di quel flusso di profughi ricadrà ancora sull’Italia, e produrrà l’inevitabile e indecente mobilitazione degli imprenditori politici della paura. E l’ennesima chiusura sciovinista. Dunque, questa è una occasione e questo è un progetto in grado di verificare quanto l’Europa sia davvero propensa a superare quell’immagine di tetra fortezza che ha dato di sé ai migliaia di migranti che in questi anni si sono avventurati per il Mediterraneo. Se uno spiraglio si aprisse, è proprio lì - in quei paesi dell’Africa - che una politica europea di accoglienza può fare le sue prove. Non avremo ristabilito l’antico ius migrandi, ma certamente avremo ridotto le dimensioni di quella terribile ecatombe marina. Immigrazione: Sabelli (Anm); il reato di clandestinità è dannoso e demagogico Ansa, 10 novembre 2013 “Ogni tanto, e non soltanto in tema di immigrazione, purtroppo si corre il rischio di fare del diritto penale uno strumento simbolico, da manifesto”. Lo ha detto Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, commentando il reato di clandestinità. “Un reato punito con una sanzione pecuniaria - ha spiegato Sabelli a margine della sesta edizione di “Sponde”, convegno organizzato dal Centro Mediterraneo di Studi in collaborazione con l’Anm - non può esercitare alcuna dissuasione e quindi non può fare prevenzione. È inoltre un reato anche dannoso, perché ingolfa gli uffici giudiziari con numerosi procedimenti e sostanzialmente inutili e poi perché trasforma i migranti da testimoni, non solo di tragedie umane, ma anche di reati, come quello degli scafisti che sfruttano queste situazioni, in imputati”. Per Sabelli: “Questo vuol dire che poi, quando noi andiamo a raccogliere le loro dichiarazioni li dobbiamo sentire in forma garantita con altri strumenti che rendono che rendono più complessa la procedura e trasformano anche il valore probatorio di queste dichiarazioni. Paradossalmente, quindi, il reato di clandestinità diventa un ostacolo all’accertamento delle responsabilità penali di coloro che invece lucrano sfruttando questa gente. Chi legifera, insomma, non sempre conosce bene il diritto”. “Questo uso strumentale, dunque, del diritto penale si unisce a una sorta demagogia della sicurezza -conclude - che fa leva sulle paure diffuse. Invece, servirebbe un approccio più sereno”. Assurdo minori accolti ma a 18 anni clandestini “La legge sull’immigrazione esclude la possibilità di respingimento ed espulsione dei minorenni. Però accade che queste persone se restano nel nostro Paese perché non possono essere respinte, finiscono con l’integrarsi. Quando compiono i 18 anni, questi soggetti che si sentono ormai di fatto italiani, rischiano di trovarsi improvvisamente clandestini nel loro Paese”. A evidenziarlo è il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, oggi a Marsala per la rassegna “Sponde” dedicata alla tutela dei diritti degli immigrati, a proposito del fenomeno dei minori migranti non accompagnati che giungono nelle nostre coste. “L’art 32 della legge sull’immigrazione - ha proseguito Sabelli - consente in alcuni casi il percorso di accompagnamento all’integrazione anche al raggiungimento dell’età adulta. Bisogna insistere su questo per non creare situazioni paradossali di soggetti che ormai sono di fatto italiani, non hanno la cittadinanza ma non si sentono neppure di fatto cittadini del loro Paese d’origine”. Molteni (Lega): da sabelli affermazioni irrispettose Parlamento Dal presidente dell’Anm sono state pronunciate affermazioni gravi e strumentali, che continuano ad alimentare immotivatamente uno stato di tensione e contrapposizione con la politica”. Lo afferma Nicola Molteni, capogruppo per la Lega Nord in commissione Giustizia della Camera. “Affermare, come ha fatto Sabelli, che il reato di clandestinità è dannoso e demagogico - aggiunge -, conferma che la tendenza di una parte della magistratura è quella di entrare sistematicamente a gamba tesa nelle scelte legittimamente assunte dalla politica. Ricordo che il reato di clandestinità infatti è stato introdotto da un voto democratico del parlamento, riconosciuto conforme alla costituzione da una sentenza della Corte e applicato in molti altri pese europei. Il reato di clandestinità inoltre non ingolfa i tribunali e men che meno che meno le carceri e affermare il contrario purtroppo alimenta una propaganda demagogica ancora più grave se caldeggiata da chi dovrebbe invece limitarsi ad applicare il diritto rispettando la sfera di autonomia e indipendenza della politica. L’Italia - conclude Molteni - è il paese in Europa con il maggior numero di magistrati e al contempo con la peggiore irragionevole durata dei processi, ciò dovrebbe indurre tutti a concentrarsi maggiormente sulle riforme necessarie”. Afghanistan: Pentagono; Governo pronto a liberare “pericolosi” detenuti Aki, 10 novembre 2013 Il governo di Kabul si appresterebbe a liberare 80 “pericolosi” detenuti consegnati quest’anno dai militari americani alle autorità afghane. È quanto emerge da un rapporto del Dipartimento della Difesa Usa. Il rilascio dei detenuti sarebbe la conseguenza di valutazioni di una commissione afghana (Administrative Review Board, Arb), molte delle quali sono state contestate dai militari americani secondo i quali gli 80 prigionieri costituiscono ancora una minaccia per le forze di sicurezza afghane e per il Paese. La commissione, in contrasto con le speranze degli Usa, ha deciso per la scarcerazione nella maggior parte dei casi esaminati sostenendo che manchino prove sufficienti contro i prigionieri. La task force militare Usa che si occupa delle questioni dei detenuti “non è d’accordo con alcune decisioni dell’Arb”, si legge in un rapporto del Pentagono, ma il governo americano continua a sostenere la commissione “nell’ambito della transizione alla sovranità afghana”. Quest’anno i militari Usa hanno ceduto agli afghani il controllo di un carcere di massima sicurezza nei pressi di Kabul. Con il passaggio di consegne è passata agli afghani la responsabilità per la detenzione di 880 detenuti afghani ritenuti responsabili di attacchi e altri reati. L’Arb ha esaminato 461 casi e per 77 detenuti ha chiesto un processo, mentre per gli altri è stata consigliata la scarcerazione. Nel rapporto si sottolinea anche come i militari Usa attualmente dispiegati in Afghanistan siano meno di 40mila e come siano state chiuse 290 delle 349 basi nel Paese. Ora le forze di sicurezza afghane conducono il 95% delle operazioni militari e il numero dei caduti afghani negli ultimi sei mesi, secondo il rapporto, è aumentato del 79%, mentre si è registrato un calo del 59% per quanto riguarda i caduti Usa. L’aumento delle vittime tra le forze di sicurezza afghane ha portato a un aumento di casi di militari che abbandonano la divisa: stando al documento, negli ultimi 12 mesi un soldato afghano su tre si è licenziato o ha disertato. Secondo il rapporto, le forze di sicurezza afghane “non sono ancora del tutto” autosufficienti e servirà un ulteriore “notevole sforzo”.