Giustizia: ex detenuti operai a “costo zero”… ma incredibilmente le aziende rifiutano di Francesco Lo Piccolo www.huffingtonpost.it, 7 marzo 2013 Potrebbe essere l’effetto della crisi. O potrebbe dipendere dal cosiddetto marchio di Caino. Oppure per altro che non so. Ma la storia che mi è capitata in queste ultime settimane è sintomatica di qualcosa che non va. In breve: ho avuto grandi difficoltà a trovare aziende e imprese, piccole o grandi, disposte ad assumere in tirocinio formativo ex detenuti e/o detenuti ormai a fine pena. E questo anche di fronte “all’incredibile offerta” di assunzioni part-time per un anno a costo zero perché pagate direttamente da un Ente di formazione che a sua volta ha ricevuto un finanziamento dalla Regione Abruzzo nell’ambito di un progetto di inclusione sociale. Pensate: lavoratori gratis per un anno addirittura con assistenza di tutor e psicologo per agevolare il percorso di inserimento, eppure ugualmente rifiutati con un cortese “no grazie”. Da non credere, quasi inaudito se penso a esperienze simili che abbiamo avuto in passato come Associazione Voci di dentro, e spesso andate a buon fine come nel caso di Tony che dopo la borsa lavoro presso la nostra Onlus a carico del Comune di Chieti, venne assunto in prova dalla Valter Tosto Spa e poi, finito di scontare la pena, venne assunto sempre dalla stessa azienda a tempo indeterminato. Quasi una storia da cinema a lieto fine: con un magazziniere, un marito, un padre... un amico in più. Soprattutto con un carcerato in meno. Ma il mondo cambia, e come si vede in peggio, almeno in questo caso. E così, di fronte ai no di questi giorni, sono ora costretto a cercare il perché e andare a trovarlo nella crisi che sta attraversando il nostro paese. O appunto nel marchio di Caino, in quella parola che è pregiudicato e che resta impressa a vita come quei numeri che vennero impressi dai nazisti sulle braccia di milioni di persone. O nella specificità “dell’essere detenuto”, nel fatto che i detenuti non sono niente se non “detenuti, cioè gente senza arte né parte o che al massimo sono solo capaci di delinquere: per pagarsi la droga, per pagarsi la vita, per pagarsi la bella vita”. Detenuti o meglio dire poveri che da piccoli non sono andati a scuola. Poveri che non hanno avuto modo di imparare un mestiere. Poveri perché in fuga dall’Africa e “costretti” all’illegalità per pagare i vizi di chi la notte va a prostitute, di chi di giorno consuma cocaina per essere più performante e produrre meglio, di chi ha bisogno dell’operaio in nero. E perché lì in carcere - per qualcuno, ma non per me - è bene tenerli a meno che non diventino degli schiavi obbedienti come lo sono i migliaia di operai stagionali impiegati nella raccolta dei pomodori tanto per fare un esempio o nei cantieri pagati in nero per fare un altro esempio. Schiavi o carcerati: i primi senza tempo perché per loro il tempo è solo lavoro; i secondi con tanto tempo ma rinchiusi in piccoli spazi senza fare nulla, distesi su delle brande con lo sguardo al soffitto o ai buchi della branda di sopra. A proposito di tempo e di spazio, ho appena terminato di leggere “Dentro”, il libro edito da Einaudi e scritto da Sandro Bonvissuto, filosofo-cameriere. Un libro che consiglio e che ho apprezzato - ancora prima di leggerlo - grazie a un emozionante reading teatrale-musicale organizzato dall’associazione Aethos che si è tenuto sabato scorso a Pescara e condotto da Simone D’Alessandro, dai bravissimi Luca Breda e Luca Ciarciaglini (I casi clinici), accompagnato dalla voce meravigliosa di Libera Candida D’Aurelio e dalle musiche di Marco Di Marzio. Un libro che vale la pena leggere, specie per chi non sa cos’è il carcere. Perché l’autore non solo descrive la vita in carcere ma ti butta letteralmente nella cella, ti fa mangiare sul fornellino a gas, ti fa passare la notte al freddo su una lurida cuccetta... e il carcere te lo mostra e te lo mette a nudo in tutta la sua bruttezza, come il male assoluto, conficcato nella terra, come caduto dal cielo o sbucato dal sottosuolo, circondato da mura: [...] il muro è il più spaventoso strumento di violenza esistente [...] non c’è niente che ti uccide come un muro. Il muro fa il paio con delle ossessioni interne, cose umane, antiche quanto la paura. [...] concepito per agire sulla coscienza. Perché il muro non è una cosa che fa male; è un’idea che fa male. Ti distrugge senza nemmeno sfiorarti. Lí dentro ho visto anche gente piangere davanti ai muri, davanti alla caparbia ostilità della materia. Perché, se funzionano, i muri sono tutti del pianto. È bravo Sandro Bonvissuto. È bravo perché “usa la scrittura come un pittore usa il colore sulla tela” (Giorgio Mattioli) e nel suo Dentro, nel racconto che apre la raccolta e che si chiama “Il giardino delle arance amare” è stato capace di farmi vedere il carcere meglio di come l’ho visto fino ad oggi: disumano, pieno di non vita, riempito dal puzzo delle cucine, dal fetore delle latrine, dal rumore delle chiavi, senza spazio ma pieno di tempo vuoto, tempo inutile. L’autostrada per impazzire. Un luogo dentro e non fuori dal mondo. Un luogo - il carcere - che riguarda tutti. E Sandro Bonvissuto lo spiega bene facendo parlare il suo Mario, il detenuto “che stava nell’ultima cella del ballatoio, il vecchio che si era fatto vecchio dentro il carcere: “se fuori sarai da solo - dice al protagonista del racconto - è qui che tornerai”. Perché sì, il carcere è abitato da gente che fuori è sola, da gente senza, dai poveri innanzitutto, dalle vittime dei tagli ai servizi, a cominciare dalla scuola, e dalle persone cacciate nei ghetti delle città, nelle periferie, nelle tante Vele di Scampia del nostro e di altri paesi. E poi ri-concentrate in carcere... come vite di scarto (Zigmunt Bauman), riconcentrate in questo luogo contro natura, come contro natura sono le “mali-opere” degli uomini sugli alberi. Anche qui tagli, anche qui ferite, come racconta e denuncia nei suoi libri il mio amico Francesco Nasini, teologo e scrittore, che da anni coltiva la passione per gli alberi monumentali, interessandosi alle loro storie, per la loro salvaguardia, come ha fatto qualche giorno fa quando mi ha inviato le immagini di un pioppo in via Vicinale Chiappini a Pescara salvato dall’abbattimento, ma colpito da una potatura scandalosa e drastica. Anche questa una vita sacrificata nel nome del cemento, del grigio e dell’ordine. Un ordine che non è più vita nel nome di una supposta sicurezza. Scrive il sociologo Loic Vacquant: [...] Si finge di credere che lo scopo della prigione consista nel rieducare e reinserire i suoi ospiti, mentre tutto - dall’architettura all’organizzazione del lavoro di sorveglianza, passando per l’indigenza delle risorse istituzionali (per il lavoro, la formazione, la scolarità e la sanità), i sempre maggiori ostacoli alla concessione della libertà condizionale e l’assenza di concreti aiuti al momento dell’uscita dal carcere - tutto contraddice un simile proposito. La frase di un agente carcerario si rivela, in proposito, particolarmente eloquente: “Il reinserimento serve per tranquillizzare la coscienza di qualcuno. Non della gente come me, ma dei politici... Quante volte mi sono sentito dire: non ci ricasco più!, e sei mesi dopo, paf... Il reinserimento non può essere fatto in prigione. È troppo tardi. Bisogna “inserire” le persone dando del lavoro, e le stesse opportunità all’inizio, a scuola. Bisogna promuovere una politica di inserimento”. Ma se si è incapaci di inserire i giovani disoccupati, pensate quale può essere la sorte degli ex detenuti! Davvero una brutta sorte e le difficoltà per trovare un lavoro “a costo zero” sono la prova di questa cosa che non va, certo della crisi, certo di tante altre variabili, ma anche, e temo soprattutto, in forza di quel marchio di Caino, di quel marchio che ci libera la coscienza per fare male anziché bene. Quel marchio che un sistema di informazione ansiogeno e falsante amplifica a dismisura: e così se un ex detenuto sbaglia, sbagliano tutti gli ex detenuti; se un detenuto in permesso premio non rientra in carcere, allora così fanno tutti. E così, invece di interrogarci, troviamo la soluzione, la prima, la più facile... caso risolto. “Un lavoro a costo zero? No grazie”. Giustizia: per il Pd è al settimo posto tra priorità di intervento, il garantismo scomparso di Dimitri Buffa L’Opinione, 7 marzo 2013 Il Pd e Bersani la lezione delle urne l’hanno capita. Ma solo a metà, come al solito. Infatti, se, al contrario di quanto aveva fatto Vendola il giorno prima con la convocazione della riunione di Sel a porte chiuse, ieri in nome di una ritrovata trasparenza era stata decisa la diretta della direzione nazionale del partito trasmessa anche da Radio Radicale, nel merito del programma in otto punti sciorinato dal segretario, si nota l’assenza del primo problema italiano: la giustizia e la sua amministrazione. Con la propaggine di quelle carceri che ci costano una trentina di condanne l’anno da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per Bersani il punto “giustizia” è il numero sette, non il due o il tre, ma quel che è peggio è che si identifica con banalità come “una nuova legge anti corruzione” e “una stringente normativa sul falso in bilancio”. Non che non siano problemi, per carità, ma in un paese che, come i radicali di Pannella denunciano un giorno sì e l’altro pure, duecentomila processi l’anno cadono in prescrizione, 67mila detenuti occupano i posti per 44mila, 9 milioni di cause penali e civili pendono per decine di anni e l’obbligatorietà dell’azione penale è quella che abbiamo visto con il caso della prescrizione annunciata (per non parlare di tragedie come quella di un innocente in carcere come Ambrogio Crespi, ormai giunto al sesto o settimo mese di detenzione senza alcun indizio che ne giustifichi la custodia in galera) il problema numero uno è la legge anti corruzione? Ma poi c’è un problema di superfetazione legificativa: se bastasse fare una legge per ogni qual volta un titolo di Tg sensazionalista ed emotivo ci racconta, che esiste il problema del femminicidio, della droga, della corruzione, eccetera, e se bastasse ciò per risolvere detto problema, noi in Italia avremo svoltato. Infatti siamo stati capaci negli ultimi venti anni di fare una legge “anti” qualsiasi cosa. Norme che ovviamente non hanno cambiato alcunché. Ecco, Bersani va incoraggiato nell’operazione trasparenza, e va ringraziato per avere finalmente aperto il conclave rosso, anche se gli archivi del Pci rimangono ben custoditi dai sacerdoti e dalle vestali che bene conosciamo, però abbia anche il coraggio di reagire all’onda “grillista” con quelle idee riformatrici che da decenni radicali come Rita Bernardini, Emma Bonino e Marco Pannella gli mettono sotto gli occhi. Amnistia, giustizia e libertà sono le parole da cui ripartire per rifondare l’Italia. Inseguire il millenarismo della setta di Casaleggio o le parole d’ordine di Ingroia, con il segreto scopo di uccidere, non solo politicamente, l’odiato Berlusconi, non porterà al Pd i voti. Né l’Italia fuori dalla crisi. Ci vuole qualcosa di radicale e di liberale anche da parte del Pd, persino da parte del Pd. La protesta si combatte con la proposta, la demagogia con le cose concrete. Se tagli dei costi vanno fatti con la politica si proceda, ma si facciano tagli anche per i superpagati dirigenti statali del ministero di giustizia e anche per i magistrati che, nessuno ancora lo sa, vista la mala parata hanno ottenuto da Monti una leggina per sganciare i loro stipendi da quelli dei parlamentari. Un trascinamento che ha funzionato per 40 anni e ha arricchito anche i più mediocri ma che ora cominciava a vacillare. E quelli hanno subito risolto così il loro problema di giustizia, coincidente con quello di Bersani: aiutare il sistema (e la loro casta) a perpetuarsi nonostante il mal funzionamento. E le condanne europee. Giustizia: la “follia” di chiudere gli Opg senza aver ancora creato una vera alternativa di Giuseppe Anzani Avvenire, 7 marzo 2013 C’è un tempo per costruire e un tempo per distruggere. Oggi la voglia di distruzione sembra avere qualcosa di furioso, globale, e pare virtù. Ma distruggere senza un progetto di ricostruire, sanando gli errori passati e recuperando i traguardi falliti, può diventare un salto avventuroso nel buio. Il prossimo 31 marzo chiuderanno gli ospedali psichiatrici giudiziari. È da pazzi, che ci siano ancora: perciò tutti fuori i 1.400 internati. Per andare dove? È da pazzi non saperlo ancora, non avere il nuovo indirizzo. Quando fu il tempo di costruire i manicomi criminali, si ragionò così: non è giusto punire un pazzo, perché non è responsabile. Non è però neppur giusto che la società sia esposta al rischio della sua irresponsabile devianza, perché ha necessità di sicurezza. Insomma, per dirla con Lombroso “la prigione è un’ingiustizia, la libertà un pericolo”. Perciò niente prigione, ma ospedale (con le sbarre); non per un tempo di castigo secondo il delitto, ma per un tempo di pericolo, secondo la malattia. Custodire e curare (l’immagine di una “famiglia” dentro un fortino). Che cosa abbia rappresentato in pratica l’internamento per i malati di mente non imputabili e giudicati pericolosi, ci sono voluti gli urti di cronache spaventose a spiegarcelo, se allacciamo i resoconti della Commissione Marino alle testimonianze interne sul vissuto degli internati (nell’emozione solitaria dei “traditi” o dei “rinnegati”) in una sofferenza torturante, anche se son passati più cent’anni da quando Lombroso trovava somigliante un manicomio criminale “a un’immensa latrina”. E ci si può finire per un episodio da niente (da pazzi), che so, un urlo e uno spintone a un carabiniere, per farne sortire resistenza e lesione e interruzione di servizio e poi la pericolosità che fa scattare due anni minimi di internamento per l’imputato “benevolmente prosciolto”. Due anni, prorogabili s’intende. La riforma del 1978 (legge Basaglia) ha appena scalfito questo scenario. La Corte costituzionale ne ha in parte corretto l’impostazione, accentuando il controllo giudiziario e i suoi poteri flessibili. Ma l’impianto sta ancora sui pilastri dell’imputabilità negata e della sicurezza postulata, e la chiusura degli Opg lascia intatto il processo penale e i suoi schemi e le sue angustie, solo cercando un indirizzo diverso al quale spedire i prosciolti. E questa la nuova incognita. Lo si sapeva, lo si era impostato cinque anni fa, col decreto che avviò il trasferimento della sanità penitenziaria alla sanità ordinaria, e adesso il tempo stringe, il tempo scade. Bisogna ospitare 1.400 persone “malate”, reputate “pericolose”, in strutture abitative che le Regioni devono allestire, di dimensioni contenute, con organizzazione tipicamente sanitaria, lasciando alla vigilanza periferica, perimetrale, la sicurezza. Bisogna che le Regioni procurino, udite, “forme di inclusione sociale adeguata”. Che parole difficili e nobili, che hanno dentro il pieno o il vuoto, il tutto o il nulla, e paiono frattanto il momento di rimorso e della vergogna per l’esclusione sociale che ha fatto, in una lunga storia, le carceri e i manicomi simili a discariche. Non siamo pronti, non siamo pronti, è tutto un gridare. Anche assennato, se si vuole, psichiatri in testa, perché il tempo di costruire chiede fatica maggiore del radere al suolo. Inventando, si prega, soluzioni diverse dai micro-manicomi. Difficile compito, assolvibile se si tiene salvo quel “pensiero pazzo” che governare è vocazione e fatica di servire. Giustizia: il caso Gulotta e i costi della tortura di Daria Lucca Il Manifesto, 7 marzo 2013 Ci sono tante maniere per raccontare una storia. Se ne possono sottolineare le emozioni prodotte. Si può spingere l’acceleratore su principi e norme. Oppure si può partire dai numeri. Ecco, questa volta si procederà così, mettendo i numeri in primo piano (è un’epoca in cui le cifre sembrano avere più importanza delle idee, no?). Giuseppe Gulotta è un uomo innocente che si è fatto 22 anni di carcere per un errore giudiziario indotto e, ottenuta un’assoluzione piena per non aver commesso il fatto dalla corte d’appello di Reggio Calabria, ha deciso di chiedere allo stato 69 milioni di euro di risarcimento. Breve riassunto degli eventi. La notte del 27 gennaio 1976, due giovanissimi carabinieri vengono uccisi nella caserma di Alcamo Marina (Trapani). Arrestato e probabilmente torturato, Giuseppe Vesco accusa fra gli altri anche Gulotta, allora diciottenne. Gulotta confessa, anche lui dopo una notte di pestaggi e torture, salvo ritrattare immediatamente non appena messo di fronte al magistrato. Che, primo di una lunga serie, non gli crede. Racconta oggi il legale di Gulotta, Pardo Cellini, di Certaldo, che “l’avvocata d’ufficio ha poi testimoniato di averlo visto in caserma, la mattina dopo l’arresto, rosso e gonfio, recitare la confessione come fosse indottrinato”. Fra l’altro, la stessa avvocata difendeva il chiamante in correità, il che non è esattamente esempio di garanzia processuale. La condanna, nonostante le continue professioni di innocenza, arriva del 1990: ergastolo. Nel frattempo, il teste d’accusa principale, dopo avere anche lui ritrattato, si è impiccato in cella alla grata della finestra, pur avendo una mano sola. Nel 2007, finalmente, uno dei carabinieri presenti al pestaggio racconta la verità, descrive i comportamenti dei suoi colleghi come atti di tortura e parte la richiesta di revisione del processo. Ottenuta l’assoluzione, si è aperta la fase della “riparazione”, prevista dall’articolo 643 del codice di procedura penale. Come si è arrivati alla cifra di 69 milioni? “Intanto, la sentenza di assoluzione, che è già esecutiva, stabiliva la restituzione di 25.000 euro trattenuti dalla busta paga del detenuto lavoratore che l’amministrazione si prende a titolo di mantenimento”. L’amministrazione penitenziaria, tuttavia, sta facendo orecchi da mercante. “La cifra finale è comunque il risultato di un calcolo suggerito da due precedenti pronunce della Cassazione. I modi sono codificati”, dice l’avvocato. La pronuncia sulla quantità spetta alla corte che ha sentenziato l’assoluzione, il risarcimento spetta allo stato (art. 647 cpp), ovvero al ministero dell’economia, che funge da surrogato per quello che dovrà essere individuato come il responsabile. Ma qui c’è un punto in più. “Qui siamo di fronte a una vera e propria induzione all’errore giudiziario”, spiega Cellini. Gli “induttori”, ovviamente sono i carabinieri che ad Alcamo ritennero di risolvere un’indagine per omicidio torturando il primo sospettato e, a catena, i suoi chiamati in correità. Spetterà poi al tesoro rivalersi sul ministero della difesa e sull’arma dei carabinieri. Partendo dalle cifre, anni di galera e calcolo della riparazione, il caso risolleva la questione irrisolta della tortura. Forse soltanto quando il costo della tortura sarà insostenibile in termini monetari, il paese accetterà l’idea che la tortura non può che essere considerata un reato. Emilia Romagna: Fds; misure e percorsi sanitari specifici per affrontare criticità carceri Dire, 7 marzo 2013 Roberto Sconciaforni (Fds) ha rivolto una interrogazione alla Giunta per sapere se nel definire percorsi e protocolli sanitari (anche all’interno del manuale operativo annunciato nel 2012 dall’assessore Lusenti) siano state predisposte azioni mirate ad affrontare le criticità determinate dal sovraffollamento delle carceri. Il consigliere, in particolare, chiede se si sia attivata all’interno delle carceri una vera e propria assistenza psichiatrica, con relativa presa in carico della persona e che superi, come dichiarato dalle istituzioni regionali, la mera consulenza. Sconciaforni, a questo proposito, rileva “che il sovraffollamento producendo un trattamento disumano e contrario alla dignità ha una diretta ed immediata conseguenza sulla serenità psichica del detenuto e di coloro che sono comunque privati della libertà personale”. Il consigliere, infine, chiede se e come la Regione si stia impegnando per favorire il lavoro dei detenuti, ipotizzando anche la costituzione di cooperative sociali dei detenuti ammessi al lavoro esterno. Pescara: detenuto tunisino di 33 anni si suicida con il gas nel carcere di San Donato Ansa, 7 marzo 2013 Un detenuto tunisino di 33 anni è stato trovato morto oggi all’interno del carcere San Donato di Pescara: secondo i primi accertamenti, l’uomo avrebbe inalato del gas da una bomboletta in dotazione per la cucina. A trovare il cadavere sono stati i compagni di cella, allarmati dal fatto che l’uomo non rispondeva alle loro sollecitazioni. Nel carcere sono arrivati gli agenti della Polizia Scientifica e della Squadra Mobile di Pescara che hanno avviato i primi accertamenti per chiarire le cause della morte. Carcere “lager”, tunisino si uccide col gas (www.abruzzoindependent.it) Se la Corte Europea per i Diritti Umani ha denunciato la situazione drammatica delle carceri italiane un motivo ci sarà. Se, poi, anche i presidenti delle Corti d’Appello della Penisola, nell’inaugurazione dell’anno giudiziario, hanno suggerito di ricorrere alla misura detentiva soltanto in casi di necessità allora vuol dire che il problema delle condizioni di vita dietro le sbarre è davvero allarmante. Il problema è sempre lo stesso: il sovraffollamento, le strutture idonee e la carenza di personale specializzato affinché la pena diventi davvero un’occasione di riabilitazione. Così fino ad oggi non è stato nonostante l’impegno di leader importanti quali l’abruzzese Marco Pannella che ha addirittura avviato uno sciopero della fame e della sete interrotto soltanto perché altrimenti sarebbe morto. Dunque, non desta meraviglia l’ennesimo suicidio avvenuto durante la notte nell’istituto “San Donato” a Pescara, dove un detenuto tunisino di 33 anni è stato trovato morto. A trovare il corpo sono stati i compagni di cella, allarmati dal fatto che l’uomo non rispondeva alle loro sollecitazioni. L’uomo si sarebbe ucciso inalando del gas da una bomboletta in dotazione per la cucina. Foggia: Sappe; in dodici ore una tentata evasione e un tentato suicidio www.teleradioerre.it, 7 marzo 2013 Che la situazione nelle carceri pugliesi e nazionali stia diventando sempre più preoccupante lo stanno a dimostrare i fatti che si susseguono in maniera impressionante e che svelano un malessere che ormai non è più possibile arginare, se non grazie all’eroico sacrificio della Polizia Penitenziaria lasciata sola dall’Amministrazione penitenziaria prima, e dalla politica poi, a fronteggiare una situazione sempre più drammatica. Il primo episodio è accaduto verso le ore 14 circa di ieri 6 marzo durante l’ora d’aria un detenuto straniero di circa 30 anni circa in attesa di giudizio per molestie, ha scavalcato il muro di recinzione dei passeggi per tentare di evadere dal carcere. Resosi conto di quanto stava accadendo gli agenti di servizio al controllo dei passeggi sono prontamente intervenuti con una scala e sono andati a fermare il detenuto che resosi conto di essere stato scoperto non ha opposto resistenza. L’atro episodio è accaduto esattamente a dodici ore di distanza verso le ore 2 di questa notte quando, grazie al pronto intervento dell’agente addetto al controllo della sezione è stato evitato un suicidio di un detenuto italiano di circa 40 anni condannato a cinque anni di reclusione per reato vari, il quale aveva tentato di impiccarsi con una corda ricavata da un lenzuolo alla finestra della stanza. Il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria da tempo sta denunciando, tra l’indifferenza dei vertici del Dap che continuano a giocare alla “vigilanza dinamica” oppure studiano patti di responsabilità con i detenuti dimenticando che il carcere non è un convento di suore di clarisse, che la situazione non è più sopportabile ed è pronta ad esplodere con effetti deflagranti per tutti se non si pongono i dovuti rimedi. A Foggia per esempio circa 680 detenuti per appena 380 posti disponibili ed una carenza di almeno 50 poliziotti penitenziari, la situazione è preoccupante e si continua a chiedere ai lavoratori della Polizia Penitenziaria che percepiscono stipendi da fame, sacrifici sempre più gravi , mentre nelle ovattate stanze ministeriali dirigenti pagati decine di migliaia di euro pensano a tutt’altro. Come si diceva prima se la situazione non è esplosa è grazie al coraggio ed all’abnegazione dei poliziotti penitenziari che ultimante proprio a Foggia come in altre carceri, sono stati fatti oggetti di aggressione con gravi ripercussioni sull’incolumità personale. A questi eroi nascosti che fanno un lavoro oscuro e pericolosissimo il Sappe esprime il proprio ringraziamento considerato che sono figli ripudiati da un amministrazione penitenziaria ingrata, pronta a punire per il minimo errore ma che si dimentica del sacrificio e della professionalità di migliaia di lavoratori che dovrebbe ringraziare e premiare ogni giorno, per quello che fanno a tutela della legalità e delle istituzioni. Modena: Maisto; manca personale, rischio di paralisi per il Tribunale di Sorveglianza di Saverio Cioce La Gazzetta di Modena, 7 marzo 2013 A Bologna ci sono quattro magistrati di sorveglianza per circa 700 detenuti reclusi nei cinque penitenziari del Capoluogo e della Romagna. A Modena, per 600 carcerati del S. Anna, ce n’è solo uno e per giunta non è possibile, non è giuridicamente possibile, affiancare un altro giudice a Roberto Mazza, magistrato di sorveglianza. Di questo passo è una questione di giorni la paralisi nella gestione della struttura visto che la mole di lavoro che si prospetta con l’apertura della nuova ala del carcere e l’arrivo dei nuovi detenuti, tutti con pene definitive, finirà per sommergere l’ufficio. A lanciare l’allarme è Francesco Maisto, presidente dell’ufficio del Magistrato di Sorveglianza di Bologna e responsabile regionale della sezione. “La situazione è quella che è - spiega alla Gazzetta di Modena. Mi pare che i numeri parlino da soli. Il rapporto che si è creato a Modena è paradossale, non riesco a trovare una pietra di paragone. Il fatto è che secondo la tabella degli organici ministeriali a Modena è previsto un solo magistrato di sorveglianza. Uno solo, capisce? Quindi io non posso affiancare neanche un applicato, ma trovare una sostituzione solo in caso di ferie o malattie. E ora i nuovi detenuti in arrivo con l’ampliamento del carcere saranno quelli condannati a pene definitive: saranno centinaia, con tutte le problematiche che questo comporta. Io ho provato a sollecitare gli organismi superiori, il Ministero e lo stesso consiglio Superiore della Magistratura. Circa un anno fa, quando il ministro Severino è venuto qui, le ho presentato un’istanza. Ma finora nessuna risposta”. Se la media di condannati definitivi nel resto della regione è di 105 per ogni magistrato di sorveglianza, a Modena le cifre s’impennano a livelli che, assicurano gli addetti ai lavori, non esistono in nessun’altra parte d’Italia. Il peggio però, come sottolinea Maisto, è l’impossibilità di prestare aiuto. A Reggio, per i reclusori dell’Emilia occidentale sino a Piacenza, i magistrati sono due. Per i non esperti basti dire che nella logica carceraria, i “definitivi” devono chiedere con domanda scritta qualsiasi cosa sia al di fuori della routine della cella; permessi di uscita, per lavoro, permessi premio o per gravissime esigenze familiari o lutti, affidamento in prova, valutazione della riduzione di pena. Per quest’ultimo caso, tanto per fare un esempio, il detenuto può chiedere la liberazione anticipata per buona condotta, cioè 45 giorni in meno ogni anno dietro le sbarre senza essere stato punito. Perciò questo vuol dire a tutti i penitenziari dov’è stato recluso la certificazione di buona condotta. E tutto questa mole di richieste, a breve, sarà moltiplicata per 300 persone. Modena: il carcere di Sant’Anna si apre alla città, con la nuova “tecno-ala” La Gazzetta di Modena, 7 marzo 2013 Sant’Anna si apre alla città. Sia per superare antiche paure, sia per venire incontro ai detenuti. Certo, si apre ma solo ad ampie parti di Modena che hanno a che fare con la struttura o la possono raccontare per quello che è, con i suoi difetti ma anche i suoi tentativi di dare un nuovo corso alla detenzione, fuori dall’ozio coatto e verso un lavoro e il reinserimento. L’occasione di questa “operazione porte aperte” nella casa circondariale modenese è arrivato dalla presentazione alle autorità cittadine e regionali e soprattutto alle associazioni del nuovo padiglione carcerario dove saranno rinchiuso 200 detenuti. Ieri, tra una delegazione e l’altra, in presenza del provveditore regionale Pietro Buffa, il direttore di Sant’Anna Rosa Alba Casella, il comandante della polizia penitenziaria Pellegrino e il personale - gli agenti sono 227, nettamente sotto il fabbisogno - anche i giornalisti hanno potuto visitare il nuovo spazio. Un ingresso ampio con sala monitor e colori sgargianti - rosa salmonato, verde pisello e verde veronese - portano verso le celle di riposo serale dei detenuti. Boffa, la Casella e Pellegrini hanno concordemente sottolineato l’importanza dell’alta e diffusa dotazione tecnologica di ultima generazione che ha questa ala nuova: le telecamere nei corridoi e i citofoni nelle celle rendono non solo meno urgente il controllo diretto dei detenuti ma può abbassare notevolmente quella tensione che caratterizza la vita carceraria classica. Altro elemento sottolineato dal provveditore regionale, “Modena acquisisce una centralità nel progetto che riguarda le carceri dell’Emilia-Romagna e che di fatto è un ritorno attento al Codice penitenziario”. In sostanza, anche se a Sant’Anna ci sono solo tre educatori, uno psicologo e un cappellano a disposizione, nella nuova ala verranno incoraggiate le attività lavorative e di formazione. Non a caso infatti, vi saranno rinchiusi detenuti con condanne a fine pena di 5 anni al massimo e motivati in questa direzione di collaborazione e reinserimento personale e sociale. Si parla quindi di un po’ meno della metà degli “ospiti” di Sant’Anna. I dati forniti dalla direttrice Casella indicano che esiste un fenomeno di sovrappopolazione ma che è in fase di razionalizzazione. Oggi sono infatti 422 i detenuti: 395 maschi e 27 femmine. Di questi il 60% sono stranieri (175). Non tutti sono criminali, è stato sottolineato: in carcere trovano spazio anche persone con gravi disagi materiali e psichici dei quali si dovrebbe occupare la città. I sindacati: pochi agenti per il carcere I sindacati Fp/Cgil, Cisl/Fp, Uil-PolPen, Osapp, Cnpp e Sinappe, nonostante avessero salutato con soddisfazione l’assegnazione di nuovi agenti per rendere operativo il nuovo padiglione di Sant’Anna, “devono purtroppo prendere atto che i numeri del personale di sorveglianza sono cambiati a causa dei trasferimenti di personale assegnati ad altre destinazioni. Dovevano essere 223 agenti e sono invece 213 ! Inoltre, il nuovo padiglione sarà soggetto ad una nuova forma di vigilanza detta “dinamica” che prevede il controllo a distanza dei detenuti anche attraverso sistemi di video sorveglianza”. Scelta non è stata condivisa dai sindacalisti che ritengono che questa scelta abbia come unico scopo la riduzione di organico. Verona: la Garante Forestan denuncia; cibi avariati e scaduti ai detenuti di Montorio di Manuela Trevisani L’Arena, 7 marzo 2013 Gli accertamenti effettuati dall’Ulss. E la Garante chiede l’intervento del Comune. La Garante Forestan: “Sono costretti a buttarli e a comprarne altri”. Resta alta l’emergenza affollamento. Tra i disagi, anche i trasporti Frutta e verdura avariate, carne scaduta e altra merce di cui non si conosce la provenienza: questo viene servito ogni giorno nei piatti dei detenuti del carcere di Montorio. La denuncia arriva direttamente da Margherita Forestan, garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il Comune: il problema l’ha sollevato di fronte alla Quinta commissione di Palazzo Barbieri, presieduta dal consigliere Antonia Pavesi. “La società che ha vinto l’appalto non rispetta gli standard qualitativi previsti dal contratto di fornitura”, spiega la Forestan. “I generi alimentari per la cucina sono spesso avariati e non si sa da dove provengano: i detenuti sono costretti a buttarli nel cestino e poi ad andare a comprare altro cibo nel cosiddetto “sopravvitto”, che è gestito sempre dalla stessa azienda toscana”. Una prassi che anche gli ispettori dell’Ulss 20 e la direzione del carcere avrebbero avuto modo di accertare, ma per il momento le segnalazioni effettuate non hanno portato alcun esito. “Abbiamo già riferito la situazione alla Direzione generale dell’amministrazione penitenziaria a Roma e persino alla Procura”, prosegue la Forestan. “Al Comune chiediamo un sostegno affinché questo scandalo termini”. La società, di cui non è stato riferito il nome, aveva vinto la gara d’appalto della Direzione regionale delle carceri, con sede a Padova: nelle prossime settimane verrà indetto il nuovo bando per l’assegnazione della fornitura e l’auspicio del garante per i detenuti è che la scelta ricada su un’altra azienda. Ma se il grado di civiltà di una società - come sosteneva Fedor Dostoevskij e prima di lui Voltaire - si misura dalle sue prigioni, ci sono anche altri problemi da risolvere all’interno del carcere di Montorio. “Va segnalata la carenza sia di personale rieducativo, fondamentale per il recupero dei detenuti, sia di polizia penitenziaria”, fa sapere la Forestan. “Per non parlare dell’annosa questione del sovraffollamento delle celle: a fine dicembre le persone accolte a Montorio erano 873, a fronte di una capienza di 500 posti. Le stanze, che sarebbero adibite per due detenuti, ne accolgono normalmente quattro”. Nonostante sia stata finita di costruire 18 anni fa, la casa circondariale veronese presenta già diversi problemi strutturali: “I primi interventi sono stati realizzati tre anni fa con il rifacimento dell’impianto idrico: di recente è stata ristrutturata l’infermeria ed è stata costruita la nuova portineria per l’ingresso dei familiari”, prosegue la Forestan. E conclude: “Nei mesi scorsi, però, è stato soppressa la fermata degli autobus davanti al carcere e ciò crea parecchie difficoltà a chi non è dotato di mezzi propri per raggiungerlo: i parenti devono percorrere a piedi tutto il tragitto dall’ultima fermata in Borgo Venezia, vicino alla Mondadori, fino a Montorio”. Benevento: intesa Asl e carcere, per il recupero di detenuti alcolisti e tossicodipendenti www.ntr24.tv, 7 marzo 2013 Firmato Protocollo d’Intesa: una equipe di 5 figure professionali si occuperà delle valutazioni cliniche, oltre agli aspetti psicologici e assistenziali. Responsabile del servizio sarà il dirigente Asl, Vincenzo Biancolilli. Un Protocollo Operativo d’Intesa per l’assistenza ai detenuti tossicodipendenti ed alcoldipendenti. È quanto è stato sottoscritto tra la direzione della Casa Circondariale di Benevento e l’Asl sannita. Una equipe di cinque figure professionali - un infermiere, due dirigenti medici, uno psicologo e un assistente sociale - si occuperà della valutazione clinica dell’eventuale terapia farmacologica relativa ai singoli casi. Alla visita di primo ingresso dei carcerati, il personale sanitario provvederà ad individuare i nuovi arrivati affetti da alcol-tossicodipendenza. Dopo le analisi e i controlli presso il laboratorio del Distretto Benevento, il detenuto con una tossicodipendenza in condizione “attuale” sarà segnalato e verrà preso in carico dall’equipe esterna dell’Uoc Dipendenze Patologiche per l’elaborazione del programma terapeutico. Il grado di adesione del detenuto al programma e il livello di motivazione al cambiamento saranno utilizzati poi per la stesura della relazione che, congiuntamente con la scheda sanitaria e la posizione giuridica, correderà l’istanza per l’inserimento del detenuto nel circuito assistenziale differenziato (Icatt). Il team si occuperà direttamente anche dei contatti con le famiglie dei detenuti per capire, in prossimità della scarcerazione, la disponibilità ad accoglierli; nonché con i servizi territoriali per l’applicazione di misure alternative. L’Asl, inoltre, garantirà al Carcere di Contrada Capodimonte l’approvvigionamento dei farmaci sintomatici e sostitutivi provvedendo alla loro fornitura con mezzi e personale. Il medico è la figura professionale che incontrerà per primo il detenuto per valutare un quadro clinico, con particolare riferimento alle crisi di astinenza e agli aspetti psicologici. Al dottore spetterà prendere decisioni urgenti, come ad esempio la prescrizione di farmaci. Dopo l’incontro, l’utente verrà indirizzato ad uno o più colloqui con lo psicologo, il cui compito è quello di valutare la necessità di un trattamento individuale o di gruppo. Seguirà infine il contatto con l’assistente sociale, figura fondamentale per il collegamento con l’ambiente sociale di riferimento e l’apparato giudiziario. Gli assistenti sociali, infatti, garantiranno un supporto concreto alle loro esigenze come l’informazione sulle offerte terapeutiche del servizio, la possibilità di stabilire contatti con il contesto sociale, con i Ser.T territoriali ecc... Il responsabile del servizio sarà Vincenzo Biancolilli, referente dell’Area Coordinamento Ser.T dell’Azienda Sanitaria Locale. Il suo compito sarà quello di predisporre un apposito report trimestrale sull’andamento delle attività e sul numero di utenti in carico, distribuiti per Ser.T di provenienza. Il dirigente dell’Asl provvederà anche a trasmettere i report al Settore Fasce Deboli della Regione Campania e al referente aziendale per la tutela della salute in carcere. Frosinone: attivato il Tavolo per attuazione progetto “Welfare in carcere. Inps - con te” Dire, 7 marzo 2013 Si è costituito, a Frosinone, il Tavolo Welfare Penitenziario per l’attuazione, negli istituti penitenziari del capoluogo ciociaro e di Cassino, del progetto “Welfare in carcere: Inps - con te”. Il progetto - promosso dal Garante dei detenuti del Lazio, dalla Direzione Regionale dell’Inps e dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria - prevede l’utilizzo della nuova piattaforma telematica dell’INps per consentire agli oltre 830 detenuti delle due carceri (534 al “G. Pagliei” di Frosinone e 298 a Cassino), l’accesso ai servizi previdenziali, alle prestazioni a sostegno del reddito e ad ogni altro servizio erogato dall’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale. Del Tavolo Welfare Penitenziario fanno parte, oltre al Garante, le Direzioni delle due carceri, la Direzione Provinciale dell’INps e i patronati che hanno aderito all’iniziativa (Inca Cgil ed Enapa). Questi ultimi saranno chiamati a svolgere un ruolo delicato e prezioso visto che, con i propri operatori, dovranno occuparsi sia di sensibilizzare i detenuti che di gestire le procedure. Nelle prossime settimane il servizio prenderà ufficialmente il via con una campagna informativa all’interno del carcere, con la diffusione del Manifesto dei servizi welfare in carcere, specificamente pensato per illustrare ai detenuti presenti le opportunità del progetto. “Il progetto “Welfare in carcere: Inps - con te” - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - è un tassello fondamentale del sistema che abbiamo costruito coinvolgendo istituzioni, enti pubblici, associazioni, Centri per l’impiego, Agenzia delle Entrate, organizzazioni sindacali e di volontariato. Attraverso questo progetto abbiamo dato vita ad un sistema che consentirà ai reclusi nelle due carceri della Provincia di Frosinone di poter finalmente accedere, sulla base di percorsi specificamente mappati e con tempi certi, alle prestazioni economiche, sociali e previdenziali cui hanno diritto”. Il progetto “Welfare in carcere: Inps - con te” è frutto di un Protocollo d’Intesa firmato nei mesi scorsi, tra il Garante Marroni, il Provveditore alle carceri del Lazio dott.ssa Di Paolo e la Direttrice Regionale dell’Inps dott.ssa Di Michele, che prevede l’attivazione, nelle 14 carceri della Regione, di un nuovo servizio ai detenuti destinato all’implementazione di un modello per facilitare l’accesso ai servizi previdenziali ed assistenziali. Inoltre, si semplificherà il lavoro da parte delle Direzioni delle carceri e tempi certi nelle risposte e nell’erogazione delle prestazioni dovute. Grazie al servizio Welfare in carcere, i detenuti che ne hanno diritto potranno presentare domande in materia di previdenza sociale e di invalidità, presentare la documentazione di disoccupazione con requisiti ridotti e riscuotere la relativa indennità, riscuotere gli assegni di invalidità e trovare soluzioni per altre specifiche prestazioni a sostegno del reddito. Oltre a questi servizi, l’implementazione del Progetto prevede la certezza nell’erogazione della prestazione richiesta. Fino ad oggi, infatti, il beneficio economico veniva erogato dall’Inps con assegni postali che il recluso era impossibilitato a riscuotere. Grazie al progetto, invece, la somma sarà accreditata sul conto corrente del carcere e da qui versata sui conti personali dei detenuti. Roma: una delegazione Radicali ha visitato Regina Coeli, confermate gravi carenze Dire, 7 marzo 2013 Un delegazione di Radicali, guidata dal Consigliere Regionale del Lazio Rocco Berardo, accompagnato da Josè De Falco e Sergio Rovasio, ha visitato oggi il Carcere di Regina Coeli. Sono stati visitati alcuni reparti del carcere con particolari situazioni di criticità. Il Direttore di Regina Coeli ha fornito alcuni dati che confermano la grave situazione riguardo il sovraffollamento e la grave carenza di personale. Due reparti del centro clinico sono in ristrutturazione e questo determina una ulteriore carenza di servizi sanitari che si riverbera sulle condizioni dei detenuti malati. Il Carcere ha una popolazione di 1.040 detenuti su una capienza teorica di 850 detenuti ma reale, vista la chiusura di alcuni reparti di non più di 600 detenuti circa. Il problema del sovraffollamento del carcere determina l’occupazione di aree destinate alla socialità a vere e proprie celle con anche 10 letti ciascuna. Molti detenuti visitati hanno lamentato la detenzione dentro le celle anche per 23 ore al giorno con una sola ora d’aria proprio per la mancanza di altre aree idonee per altre attività. Il personale è costretto a svolgere normalmente doppi turni anche di 15 ore. Vi sono anche gravi carenze riguardo ogni forma di assistenza psicologica e sociale. La V sezione non viene aperta pur essendo ristrutturata in attesa che arrivi nuovo personale e relativi nuovi arredi. La VI sezione dovrebbe aprire il prossimo giugno. Tra i gravi problemi riscontrati vi è quello del lavoro che è assegnato a non più di un centinaio di detenuti per pochissime ore ciascuno. Tra gli altri problemi di carenze strutturali vi è la mancanza di riscaldamento nelle celle e una forte umidità riscontrabile in tutte le aree del carcere. Alcuni detenuti hanno riferito di non aver potuto votare nonostante abbiano fatto regolare richiesta senza comprenderne le ragioni. L’Aquila: Sappe; non ci facciamo intimidire, denunciamo inadeguatezza della dirigenza Comunicato Sappe, 7 marzo 2013 Il Sappe non si fa intimidire dal vice Capo del Dap Luigi Pagano e continua a denunciare l’inadeguatezza gestionale della dirigenza del Dap che mette a rischio la sicurezza degli istituti penitenziari. Record di evasioni nell’ultimo anno: 9 nel 2009, 22 nel 2012. “Ieri il Sappe ha denunciato un pericoloso abbassamento della sicurezza nel carcere di L’Aquila dove sono ristretti detenuti ad alta sicurezza ed in regime di 41 bis. Il Vice Capo del Dap Luigi Pagano ha replicato con una smentita di circostanza senza entrare nel merito e tendando di intimidire il Sappe con una vergognosa minaccia di denuncia penale. Il Sappe non si fa intimidire da nessuno e ribadisce che la gestione Tamburino Pagano è la peggiore della storia dell’amministrazione penitenziaria. La coppia di dirigenti a capo dell’amministrazione penitenziaria con la scellerata intenzione di introdurre una vigilanza attenuata nelle carceri italiane scendendo a patti con i detenuti ha ottenuto il solo risultato di raggiungere il record di 22 evasioni nel 2012 (erano state 9 nel 2009)”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, in relazione al comunicato stampa diffuso dal Dap nella serata di ieri. “Con dirigenti del genere il Sappe è molto preoccupato per la sicurezza degli istituti penitenziari ed in particolare per i detenuti in alta sicurezza e in regime di 41 bis”, prosegue. “Il dott. Pagano, invece di negare l’evidenza, giustifichi invece le decine di evasioni accadute anche in istituti ad alta sicurezza come Parma. I vertici del Dap spieghino all’opinione pubblica perché stanno praticamente smantellando i reparti specializzati della polizia penitenziaria come il Gruppo Operativo Mobile, L’Ufficio per la sicurezza e la Vigilanza e il Nucleo Investigativo Centrale. Il dott. Pagano, invece di negare l’evidenza, giustifichi le traduzioni che ogni giorno vengono fatte al di sotto dei limiti minimi di sicurezza e ammetta pubblicamente che esistono elevati rischi per l’incolumità pubblica. E il Sappe sarebbe colpevole di procurato allarme? O è giusto denunciare l’inadeguatezza di dirigenti che si occupano di un settore delicatissimo per l’ordine e la sicurezza pubblica ? Ed infine, il dott. Pagano si preoccupi di chiarire la sua posizione in alcune indagini in corso per le quali è stato anche ascoltato dalla Guardia di Finanza e, nel frattempo, si dimetta immediatamente dal proprio incarico. L’allarme sociale che paventa il vice capo del Dap, secondo il Sappe, è quello che discende dalla scellerata amministrazione delle carceri ad opera sua e del suo capo Tamburino. Proprio per chiedere l’avvicendamento dei vertici dell’amministrazione penitenziaria il Sappe manifesterà il prossimo 4 aprile davanti al Dap (ed è la quinta volta in un anno)”. Parma: Bernardo Provenzano dimesso da ospedale torna in carcere, in area riservata Adnkronos, 7 marzo 2013 A confermarlo sono fonti qualificate del Dap. Per l’ex capo mafia, letto con sbarre protezione, supporto sanitario e sorveglianza a vista, 24 ore al giorno. Bernardo Provenzano è tornato in carcere a Parma. A confermarlo sono fonti qualificate del Dap. Provenzano e ‘ stato trasferito dal reparto detentivo ospedaliero, dove era ricoverato. All’ex capo mafia, nel penitenziario emiliano, sono assicurate una costante attenzione e cure mediche adeguate al suo stato di salute. È stata un’ambulanza, con il supporto dei sanitari sotto la stretta sorveglianza del Gom (Gruppo Operativo Mobile della Polizia Penitenziaria), a riportare Bernardo Provenzano nel carcere di Parma. Il boss di Cosa Nostra è al 41 bis, in un’area riservata allestita appositamente per assicurargli le cure necessarie. Ha un letto con sbarre di protezione, di tipo ospedaliero. La sorveglianza a vista permane 24 ore al giorno ed è assicurato il supporto dei sanitari della Asl di Parma per ogni evenienza. Pochi giorni fa Provenzano è stato sottoposto a una perizia medica per accertare le sue condizioni psicofisiche di salute. Voghera (Pv): avviato “piano di lavoro” per il carcere, con il Comune e il Volontariato La Provincia Pavese, 7 marzo 2013 Ieri il tavolo programmatico indetto dalla carcere di Voghera, diretto da Maria Gabriella Lusi, ha visto la partecipazione dell’assessore alla Cultura del Comune di Voghera, Marina Azzaretti, insieme agli enti ed associazioni che collaborano quotidianamente con la struttura vogherese tra cui Cooperativa 381, Uisp Voghera, volontari ed educatori, docenti in pensione e non, il preside Filippo Dezza dell’Istituto Maserati-Baratta, il cappellano del carcere, agenti dell’area trattamentale, Uepe, Apolf e lo staff del museo di Scienze Naturali. L’incontro è stato finalizzato ad un primo approccio conoscitivo tra le varie realtà che hanno presentato le loro esperienze maturate all’interno della struttura carceraria a contatto con i detenuti ed hanno espresso la volontà di condividere un percorso programmatico. Grande soddisfazione è stata espressa sia dal direttore della casa circondariale che dall’assessore che, su mandato del sindaco Carlo Barbieri, ha rimarcato lo stretto sodalizio venutosi a creare tra l’amministrazione comunale e il carcere manifestatosi già nei numerosi progetti realizzati insieme in città. Cuneo: il “Valsusa Filmfest” entra nel carcere di Fossano, giuria composta da detenuti www.targatocn.it, 7 marzo 2013 Progetto sulla proiezione di cortometraggi nel carcere e sulla costituzione di una giuria di detenuti per il concorso a cura del Valsusa Filmfest e delle associazioni Sapori Reclusi e Rete del Caffè Sospeso. Scade il 15 marzo 2013 il bando di concorso della XVII edizione del Valsusa Filmfest - Festival di film e video sui temi del recupero della memoria storica e della difesa dell’ambiente. Il titolo di questa edizione, che si svolgerà dal 27 marzo al 30 aprile 2013, è “Donne e Libertà” in quanto, oltre ai temi consueti della memoria storica e della salvaguardia dell’ambiente, vengono riservate sezioni di concorso ed eventi collaterali dedicati alle donne, con una particolare attenzione ai crescenti casi di femminicidio, e a vicende legate a conquiste e privazioni di libertà individuali o collettive, con approfondimenti particolari sui casi delle carceri. Il Valsusa Filmfest ogni anno riceve per il concorso cortometraggi più di 100 opere realizzate da filmakers di diverse nazionalità; i filmati vengono visionati dai responsabili del festival che ne selezionano una decina da proiettare e far valutare da una giuria nominata ad hoc. Tra le novità del XVII Valsusa Filmfest, il progetto “Corti Dentro”, in collaborazione con le associazioni Sapori Reclusi e Rete del Caffè Sospeso: il Valsusa Filmfest entra nella Casa di Reclusione Santa Caterina di Fossano e, per la sezione ‘Cortometraggi - Ali della libertà’, crea una giuria mista composta dalla giuria del festival e da una selezione di detenuti. Le opere verranno proiettate contemporaneamente il 13 aprile dalle ore 15.30 nel cinema di Condove (To) e nel carcere, grazie ad un collegamento skype autorizzato dal Ministero dell’Interno, all’inizio ed al termine delle proiezioni. La comunicazione live permetterà all’evento che si svolge nel carcere di essere in connessione con il mondo esterno e tramite i social network sarà possibile commentare e interagire. Designato il vincitore, una cena curata da Sapori Reclusi in collaborazione con chef amici e detenuti, concluderà la giornata vissuta tra immagini, parole e cibo, sul filo della libertà d’espressione. A marzo è previsto un laboratorio di avvicinamento alla produzione filmica con il duplice obiettivo di coinvolgere i detenuti e definire la giuria: i detenuti visionano filmati selezionati nelle precedenti edizioni del Valsusa Filmfest e sviluppano un’analisi realizzata insieme a collaboratori del festival. Le proiezioni avverranno ogni mercoledì a partire dal 6 marzo per quattro settimane. L’idea del progetto è nata in un recente incontro dell’associazione “Rete del Caffè Sospeso - festival, rassegne e associazioni culturali in mutuo soccorso” (alla quale aderiscono sia il Valsusa Filmfest che Sapori Reclusi) in cui si decise di attivare collaborazioni con le case circondariali per consentire ai detenuti di vedere cortometraggi che normalmente vengono proiettati solo nei festival di settore. Il primo di questi appuntamenti si è svolto il 20 dicembre 2012, sempre nel carcere di Fossano, in un incontro con i detenuti e con un gruppo di studenti di Mondovì in cui, dopo un breve dibattito, sono stati visionati sette cortometraggi selezionati dall’archivio del festival valsusino. Dopo questa positiva esperienza il Valsusa Filmfest ha deciso di continuare l’esperimento con la collaborazione dell’associazione Sapori Reclusi e con la definizione del progetto “Corti Dentro”. L’associazione culturale Sapori Reclusi di Fossano (www.saporireclusi.org), che aderisce alla Rete del Caffè Sospeso, è nata dall’idea del fotografo Davide Dutto, di portare la fotografia e la gastronomia in carcere attraverso laboratori foto grastronomici in collaborazione con importanti chef del territorio. Oggi ha ampliato il proprio raggio d’azione in molti altri luoghi in cui i sapori e gli odori possono diventare vita, immagini e storie che danno voce a chi non ce l’ha. Il Valsusa Filmfest (www.valsusafilmfest.it) è un Festival sui temi del recupero della memoria storica e della difesa dell’ambiente che da 17 anni anima la Valle di Susa con concorsi cinematografici, proiezioni fuori concorso e numerosi eventi collaterali tra letteratura, cinema, musica, arte e impegno civile. Per questa edizione è stata anche avviata una raccolta fondo dal basso attraverso Kapipal, una delle esistenti piattaforme di crowd funding, il sistema che permette di condividere idee online e raccogliere fondi per la loro realizzazione mobilitando persone e risorse a sostegno di iniziative culturali. Visitando la pagina www.kapipal.com/valsusafilmfest chi lo desidera potrà trovare informazioni e istruzioni su come contribuire a questa edizione con una piccola o grande donazione. Il Valsusa Filmfest è tra i fondatori della “Rete del Caffè Sospeso - Festival, rassegne e associazioni culturali in mutuo soccorso” (www.retedelcaffesospeso.com) costituita a Napoli nel novembre del 2010 dalla Rete dei Comuni Solidali www.comunisolidali.org, dall’Asgi - Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione www.asgi.it e da questi 7 festival: Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli www.cinenapolidiritti.it, Valsusa Filmfest della Valle di Susa (To) www.valsusafilmfest.it, Lampedusainfestival di Lampedusa (Ag) www.lampedusainfestival.com, Festival S/paesati di Trieste www.spaesati.org, Filmfestival sul Paesaggio di Polizzi Generosa (Pa) www.fondazioneborgese.it , Marina Cafè Noir - festival di letterature Piacenza: agente penitenziario arrestato per sfruttamento prostituzione e assenteismo Ansa, 7 marzo 2013 Un assistente capo della polizia penitenziaria di Piacenza è stato arrestato per sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione, spaccio e assenteismo ingiustificato dal lavoro. L’uomo, 42 anni di Torre del Greco (Napoli), e in servizio alle Novate di Piacenza, è stato raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere del gip Giuseppe Bersani richiesta dal sostituto Antonio Colonna. Indagato anche un medico piacentino. Gli agenti della polizia municipale piacentina hanno scoperto che l’assistente aveva una doppia vita: spesso si dava ammalato telefonando al suo medico e ordinando alla segretaria certificati per malattia “senza che nemmeno il dottore lo andasse a visitare” spiegano gli inquirenti. Intanto, con la sua convivente, avrebbe messo a disposizione di alcune prostitute il suo appartamento a Piacenza, facendosi pagare. Gli agenti della Municipale hanno scoperto che qualche volta avrebbe provveduto lui stesso a procacciare nuovi clienti alle lucciole, offrendo le prestazioni ai detenuti che sapeva sarebbero usciti in permesso premio o in semilibertà. Arrestati anche la convivente, palermitana di 50 anni, e un 36enne di San Rocco al Porto (Lodi). Libri: Dead man walking…. la mia vita di innocente nel braccio della morte di Damien Echols La Repubblica, 7 marzo 2013 Esce il memoriale di Damien Echols, uno dei “Tre di West Memphis”: 18 anni aspettando l’esecuzione. Sulla parete della mia cella ho la sagoma di un uomo morto. Ce l’ha lasciata l’ultimo occupante. Si è messo in piedi contro il muro, ha tracciato il proprio contorno con una matita e poi l’ha riempito. Assomiglia a un’ombra molto tenue e ci vuole un po’ per accorgersene. Io ci ho messo quasi una settimana a vederla, ma una volta vista non si riesce più a ignorarla. Nel corso della giornata, mentre sto sdraiato sulla mia cuccetta, mi sorprendo spesso a guardarla. Sembra attirare lo sguardo come una calamita. Dio solo sa cosa avesse in mente quell’uomo mentre faceva questa cosa, ma non riesco a non pensarci. Da quando l’hanno giustiziato, è l’unica traccia che rimane di lui. È nella tomba ormai da quasi cinque anni, eppure la sua ombra perdura. Non era nessuno, non era niente. Tutto ciò che resta di lui sono alcune accuse di stupro e uno schizzo a matita a forma d’uomo. Forse è soltanto superstizione, ma non posso fare a meno di pensare che cancellarla sarebbe come cancellare il fatto che lui sia esistito. Potrebbe anche non essere una cattiva cosa, tutto considerato, ma non sarò certo io a farlo. A un certo punto ho cominciato a pensare che magari i detenuti vivi non erano gli unici a ritrovarsi intrappolati nel braccio della morte. In fondo, se esistono davvero luoghi infestati, il braccio della morte non dovrebbe essere il posto ideale? Prima o poi l’idea ha attraversato la mente di tutti, qui. Qualcuno ci scherza su, un po’ come quando si fischietta attraversando un cimitero di notte. Altri non amano affatto parlarne, e può essere un argomento molto sensibile. In fondo, chi ha voglia di pensare che stai dormendo sullo stesso materasso su cui hanno riposato tre o quattro uomini che sono stati giustiziati? Immaginatevi come può essere guardarsi allo specchio ogni mattina e domandarsi quanti morti si siano osservati su quella stessa superficie. Quando succede qualcosa di strano, alcuni danno la colpa all’ultimo giustiziato, chiunque fosse. Una volta, nel carcere di massima sicurezza di Tucker, per diversi mesi mi godetti il privilegio di avere i dormitori di un intero piano del braccio della morte tutti per me. Le recenti esecuzioni avevano liberato parecchie celle ai primi due piani, così le guardie avevano pensato che fosse una buona idea spostare i detenuti dal terzo al primo e al secondo per riempire i posti vuoti. Speravano di poter fare a meno di salire fin lassù. Il problema era che mancava un posto, e così io fui l’unico a essere lasciato al terzo piano insieme a diciassette celle vuote. La situazione comportava un sacco di benefici, quindi non mi lamentai. Per prima cosa, avevo un televisore tutto per me. Non dovevo più litigare con nessuno su quale programma vedere. Avevo anche il mio telefono personale e non dovevo più aspettare che qualcun altro finisse di usarlo. Non c’era nessuno sopra di me a darmi fastidio camminando avanti e indietro, e non avevo nessuno di fianco. Potevo stare in meditazione per tutto il tempo che volevo senza temere di venire interrotto. Ero abbastanza in alto da guardare fuori dalla feritoia e vedere un campo in cui pascolavano dei cavalli. Li guardavo correre anche per ore di seguito. E ancora meglio dei cavalli era il campo vero e proprio, specialmente quando d’inverno nevicava. A guardare quella distesa innevata e un cerchio di alberi nudi e grigi mi si stringeva il cuore in un modo che non potete nemmeno immaginare. Niente sa farmi piangere di nostalgia e crepacuore come l’inverno. A volte ho l’impressione che il vento freddo soffi attraverso un foro che mi si è aperto nel petto. Fa male, gente. Fa un male d’inferno e mi ricorda da quanto tempo sono rinchiuso qua dentro. Immigrazione: Cgil; al Cie di Bologna “evidente inadeguatezza del soggetto gestore” Dire, 7 marzo 2013 Esposto del sindacato che chiede di “cercare le responsabilità del disastro”. Chiesto un incontro con il procuratore capo Roberto Alfonso. Nel frattempo la struttura di via Mattei è stata chiusa per lavori e i migranti trasferiti a Modena e Trapani. La condizione delle persone trattenute, in virtù di diversi articoli del Testo unico sull’immigrazione (Tui) “non rispettati”. Le condizioni d’appalto e “l’evidente inadeguatezza del soggetto gestore”, ovvero il consorzio siciliano L’Oasi. La situazione dei lavoratori coinvolti, tra diritti e trattamento contrattuale, retribuzioni non corrisposte e rischi per la salute. Sono i 3 aspetti principali su cui si concentra l’esposto sul Cie di Bologna presentato alla Procura dalla Cgil, con l’obiettivo di “segnalare possibili profili di responsabilità - recita la nota del sindacato - e di violazione delle leggi”. Il sindacato parla di “quadro disastroso” e ha già chiesto un incontro al procuratore capo Roberto Alfonso per trasmettergli le “fortissime preoccupazioni” su questi temi. Si tratta di un esposto “descrittivo”, spiega l’avvocato Andrea Ronchi della Consulta legale della Cgil dell’Emilia-Romagna, che si presenta “quando una situazione è confusa per chiedere a chi può di entrare nello specifico” della situazione illustrata. Dal quadro non è escluso il ministero dell’Interno, visto che l’appalto che affida la gestione all’Oasi “non garantisce garanzie” né ai trattenuti né ai lavoratori. Per quanto riguarda il mancato rispetto del Tui, in particolare, la Cgil punta la lente su quei casi di migranti affetti, ad esempio, “da scabbia o malattie psichiche e che non possono essere tutelati nei loro diritti fondamentali nel Cie e tantomeno nei loro Paesi d’origine”, spiega Ronchi: circostanze che, ravvisate sia dall’Ausl che dal Garante, “ci fanno dire che queste persone non possono stare al Cie”. La struttura di via Mattei presenta “problemi enormi” per i dipendenti e una situazione “inaccettabile sotto il profilo della civiltà” per i cittadini stranieri lì trattenuti, sottolinea Mirto Bassoli, della segreteria regionale della Cgil. Nel frattempo, “nel corso della notte dovrebbe essere stato completato lo svuotamento del Cie per i lavori di ristrutturazione”, riferisce Bassoli, con i migranti inviati principalmente dei Centri di Trapani e Roma dove troveranno “condizioni non certo migliori di Bologna”. La chiusura temporanea decisa dalla Prefettura è una decisione “certamente opportuna”, continua Bassoli, “ma non ci deve allontanare dall’obiettivo principale: il Cie di Bologna deve cessare l’attività definitivamente”. Per il sindacato “soluzioni parziali o palliativi” non possono bastare, perché i Cie “non sono neanche normali carceri - aggiunge Bassoli - ma luoghi di sospensione del diritto”. In tutto questo il ruolo dell’Oasi, per la Cgil, è centrale. “Il gestore non sta gestendo”, afferma Bassoli: se è vero che la gara d’appalto “escludeva in radice la possibilità di una gestione normale”, è altrettanto vero che il consorzio era “consapevole” di questo. Rispetto ai 75 euro al giorno per migrante, del resto, la gara partiva da una base d’asta di 30 e l’Oasi ha vinto con un’offerta di 28,50: eppure, sottolinea la Cgil, in base alle tabelle ministeriali ne servono 51,14 solo per rientrare del costo del lavoro e dei pasti. Una contraddizione che la Cgil aveva segnalato già a luglio, dopo che la stessa Oasi aveva assunto la gestione del Cie di Modena, alla Direzione provinciale del lavoro che a sua volta aveva scritto alla Prefettura: “Non è mai arrivata risposta - commenta oggi il sindacato - se non, 3 mesi dopo, l’assegnazione dell’appalto”. Non a caso, per il sindacato, il consorzio fin da subito è andato in difficoltà con il pagamento degli stipendi ai 33 addetti. Quelli di dicembre li ha coperti la Prefettura, quelli di gennaio l’Oasi li ha versati ma solo a 28 lavoratori. “Siamo già preoccupati per febbraio”, avverte Anna Maria Margutti della Fp-Cgil di Bologna: il sindacato incontrerà proprio oggi pomeriggio il consorzio e chiede di incontrare anche il Prefetto perché, tra l’altro, sul tavolo c’è anche la necessità di attivare la cassa integrazione straordinaria in deroga per il periodo di chiusura causa lavori. Stati Uniti: Onu denuncia ostruzionismo autorità su incontro con detenuti Guantánamo di Luca Pistone www.atlasweb.it, 7 marzo 2013 Il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, l’argentino Juan Méndez, ha denunciato che la Casa Bianca e il suo attuale inquilino, Barack Obama, “continuano a negare all’Onu il permesso di visitare i detenuti della base navale di Guantánamo” a Cuba. “Quando Barack Obama è stato eletto presidente nel 2009, abbiamo pensato che ci sarebbe stato un cambiamento di posizione” degli Stati Uniti sulle visite a Guantánamo, ha detto ieri Méndez ai giornalisti. “Ma, con mio grande disappunto, le condizioni (offerte dalla nuova amministrazione) non sono state differenti”, ha aggiunto. Tali restrizioni e i permessi non concessi per indagare sulla situazione dei prigionieri e per accedere ad essi, erano imposti anche durante la precedente amministrazione di George W. Bush. Allora, Washington aveva più volte respinto le richieste del predecessore di Méndez, l’austriaco Manfred Nowak. Lo scorso anno, Méndez aveva presentato una richiesta tramite il dipartimento di stato Usa ed è ancora in attesa di una risposta. In base alle convenzioni delle Nazioni Unite, i relatori sui diritti umani devono essere autorizzati a visitare in qualunque momento i detenuti, senza la presenza di alcun ufficiale o guardia di sicurezza. Guantánamo ospita ancora 169 prigionieri, presunti terroristi. Al suo apice, è arrivata a detenere fino a 779 persone. Iraq: inchiesta del “Guardian” sui centri detentivi… torture sistematiche sui detenuti di Emanuela Di Pasqua Corriere della Sera, 7 marzo 2013 “Allah, Allah”, ma non erano grida di estasi religiosa, bensì urla di terrore e di panico: così il reporter Peter Maas inizia il suo crudo resoconto di quanto avveniva nei centri di detenzione irachena sotto responsabilità americana. L’inchiesta del Guardian e della Bbc araba rischia ora di far esplodere una bomba: il Pentagono chiamò in Iraq due colonnelli in pensione a sedare la rivolta sunnita e questi ultimi gestirono le unità con metodi molto discutibili, come dimostra l’esistenza di veri e propri centri di tortura per ottenere informazioni dai prigionieri. Veterano delle guerre sporche. Così il Guardian definisce il colonnello James Steele, cinquantottenne ex membro delle forze speciali in America Centrale (El Salvador e Nicaragua), chiamato dall’ex Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld a gestire il corpo paramilitare del Pentagono nel tentativo di placare l’insurrezione sunnita insieme alla forze collaborazioniste irachene. Oltre a Steele c’era poi anche il Colonnello James H. Coffman, che riportava direttamente al Generale David Petraeus, ex direttore della Cia costretto alle dimissioni dopo il noto scandalo sessuale, inviato in Iraq nel giugno del 2004 per organizzare e addestrare le nuove forze di sicurezza irachene e ora definito dalla stampa estera come “collegato allo scandalo delle torture”, in quanto responsabile del monitoraggio dei centri di detenzione. I fatti emersi si rivelano decisamente scomodi per la reputazione a stelle e strisce e la responsabilità dei funzionari statunitensi nella vicenda è chiara, gravissima e crea un triste precedente per l’America. L’opinione pubblica irachena chiese di interrompere lo show televisivo “Terrorismo nelle mani della giustizia” quando iniziarono a emergere le prime inquietanti testimonianze. Da lì gradatamente iniziò a venire a galla uno scandalo che coinvolge le truppe irachene e americane. Emerge dunque l’esistenza di veri e propri centri di tortura, dove i colonnelli e i loro adepti delle unità di commando sapevano far parlare i nemici con metodi molto convincenti. Come al solito lo scandalo esplode in maniera dirompente e poco dopo si scopre che tutti (o comunque troppi) sapevano tutto. Compreso probabilmente Petraeus, del quale Coffman si definiva “gli occhi e le orecchie sul terreno iracheno”. “Lavoravano mano nella mano - così parla dei due militari il Generale Muntadher al-Samari, che ha collaborato a sua volta con Steele e Coffman per un anno, alla nascita della forza paramilitare -. Li vedevo nei centri di tortura, sempre rigorosamente insieme, e loro erano al corrente di ogni minima cosa succedesse al loro interno e di tutte le torture, le più terribili”. Certo non vi è alcuna prova che gli stessi Steele e Coffman torturassero i prigionieri, ma è risaputo che erano spesso presenti e che i metodi erano crudeli: i detenuti venivano appesi a testa in giù per ore, venivano utilizzate scosse elettriche o ancora venivano loro strappate le unghie. Ogni metodo di tortura è stato usato, sotto lo sguardo complice dei due veterani e di molti altri occhi e orecchie complici. L’inchiesta è stata innescata dalla diffusione su Wikileaks di alcuni documenti Usa che rivelavano le testimonianze di molti soldati americani imbattutisi in detenuti torturati e abusati. E ora si scopre anche che i metodi di tortura nei centri detentivi erano assolutamente routine, come specifica ancora Samari, parlando di un ragazzino appena quattordicenne “legato alla colonna di una libreria, a testa in giù, con il corpo livido a causa delle frustate”. Violazioni dei diritti umani gravissime. Questa dunque l’accusa a carico delle forze speciali. E il Pentagono sapeva o quantomeno poteva immaginare. Né Coffman né Steele hanno commentato l’inchiesta del Guardian e in passato James Steele aveva pubblicamente condannato ogni abuso o tortura, definendoli metodi incivili. Un portavoce di Petraeus ha riferito invece che l’ex generale “era al corrente dei sospetti a carico delle forze speciali irachene, ma ha sempre condiviso con i vertici ogni informazione”. Le accuse a questo punto non riguardano solo le pesantissime violazioni ai diritti umani, ma anche un’indiretta responsabilità nei confronti della sanguinosa guerra civile, certamente alimentata da questa strategia del terrore. Tremila sono stati i morti registrati ogni mese e quei morti pesano evidentemente sulla coscienza di molti. O così dovrebbe essere. Iran: Sakineh da 7 anni in carcere, attivista iraniana lancia appello Aki, 7 marzo 2013 “La vita di Sakineh non è ancora salva, la Repubblica Islamica deve abolire, una volta per sempre, la lapidazione dal proprio codice penale. Chiedo quindi a tutte le organizzazioni internazionali di fare pressione su Teheran affinché venga cancellata questa punizione medievale e barbara”. È l’appello lanciato da Fariba Amini, nota attivista iraniana per i diritti umani, da anni impegnata contro la pena di morte in Iran e a difesa di Sakineh Mohammadi Ashtiani, l’iraniana da sette anni in carcere e condannata alla lapidazione per adulterio che grazie a una campagna di Aki-Adnkronos International e alla mobilitazione internazionale è riuscita ad evitare la pena di morte. Alla vigilia della giornata internazionale della donna, Amini sottolinea che si tratta di “un’occasione per la comunità internazionale per esercitare pressioni su quei paesi che violano i diritti umani e in particolare quelli delle donne. Bisogna essere severi nei confronti di tutti i paesi che applicano la pena capitale sulle donne - afferma - sia con quelli non allineati all’Occidente, come l’Iran, sia con quelli alleati, come l’Arabia Saudita e il Pakistan”. Riferendosi alla situazione della Repubblica Islamica, Amini evidenzia le contraddizioni nella linea del governo di Teheran che, da un lato, “parla di modernizzazione del paese e prosegue il suo programma nucleare, mentre, nello stesso tempo, applica punizioni primitive e tribali quali la lapidazione contro donne anche minorenni. È un fatto insopportabile per i cittadini persiani”, conclude la Amini, auspicando la fine di queste violenze nei confronti delle donne nei paesi islamici, in generale, e in Iran in particolare. Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata alla lapidazione per adulterio, è diventata un simbolo per chi si batte contro la pena di morte nella Repubblica Islamica. La sua vicenda risale al 2006, quando venne arrestata con l’accusa di adulterio e complicità nell’omicidio del marito, messa in prigione a Tabriz e condannata a 99 frustate. Una sentenza della Corte Suprema nel 2007 condannò Sakineh alla lapidazione, ma la sua esecuzione venne rinviata in seguito alla presentazione di un ricorso. La vicenda balzò all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale all’inizio della primavera 2010, quando una grande mobilitazione internazionale spinse le autorità di Teheran a parlare di sospensione della sentenza. L’11 agosto Sakineh, dal braccio della morte della prigione di Tabriz, ammise in diretta tv di essere colpevole sia di adulterio che di complicità nell’omicidio del marito. Una confessione che, a detta degli attivisti e dei familiari della donna, venne estorta con la forza, ma che produsse un effetto boomerang, accendendo ancor di più i riflettori sul caso. Dagli Stati Uniti partì un appello di premi Nobel e star di Hollywood, dalla Francia quello della ex premiere dame Carla Bruni (per questo definita “prostituta” dalla stampa iraniana ultraconservatrice), dall’Italia quello di media come Aki-Adnkronos International, a cui si associarono politici, intellettuali e ‘big’ dello sport, tra cui Francesco Totti. Intanto, soprattutto in Italia e Francia, le piazze si riempirono di manifestanti pro-Sakineh e di gigantografie della donna, esposte anche sui municipi di Roma. Teheran cominciò a sentirsi alle strette e il ministero degli Esteri, tramite il suo portavoce Ramin Mehmanparast, accusò Italia e Francia di essersi attivate sulla base di informazioni false. Ma poi, l’8 settembre, fu lo stesso Mehmanparast ad annunciare che la lapidazione di Sakineh era stata sospesa. Poche settimane fa l’ultimo capitolo della vicenda, con il Consiglio dei Guardiani che ha bloccato la bozza del nuovo codice penale, elaborata dal Parlamento, imponendo alla commissione per i diritti civili e penali di inserire, in modo inequivocabile, la lapidazione come pena. L’abolizione della lapidazione è ancora un tema al centro del dibattito politico in Iran e nelle prossime settimane è attesa una decisione definitiva in merito. Nord Corea: Amnesty International denuncia sovrapposizione tra gulag e villaggi Adnkronos, 7 marzo 2013 L’analisi di nuove immagini satellitari mostra che il governo della Corea del Nord sta annullando la differenza tra i campi di prigionia politica e la popolazione circostante. Lo denuncia Amnesty International, che ha rinnovato la richiesta alle Nazioni Unite di istituire una commissione indipendente d’inchiesta “sulle gravi, sistematiche e diffuse violazioni dei diritti umani, compresi crimini contro l’umanità, in corso nel Paese”. Di fronte alle notizie sulla possibile costruzione di un nuovo Kwanliso (campo di prigionia politica), adiacente al campo n. 14 di Kaechon, nella provincia di Pyongan Sud, il programma Scienza per i diritti umani di Amnesty International Usa, si legge in una nota, aveva chiesto alla società DigitalGlobe di fornire immagini satellitari e un’analisi di queste ultime. L’analisi delle immagini ha rivelato che, dal 2006 al febbraio 2013, la Corea del Nord ha costruito 20 chilometri di perimetro intorno alla valle di Ch’oma-bong (70 chilometri a nord-nordest della capitale Pyongyang) e ai suoi abitanti, con nuovi punti d’accesso controllati e possibili torri di guardia. Gli analisti hanno anche individuato la costruzione di nuovi edifici che potrebbero essere dormitori per operai, forse collegati all’espansione dell’attività mineraria nella regione. Questo sviluppo punta a rafforzare i controlli sul movimento della popolazione che vive nei pressi del campo n. 14, annullando in questo modo la distinzione tra i detenuti del campo di prigionia e gli abitanti della valle. Amnesty International è “preoccupata per le condizioni di vita della popolazione residente all’interno del nuovo perimetro e per le future intenzioni del governo nord-coreano”. Russia: la “Pussy Riot” Nadia Tolokonnikova chiede la libertà condizionale Adnkronos, 7 marzo 2013 L’attivista del gruppo rock Pussy Riot Nadia Tolokonnikova ha chiesto la libertà condizionale al tribunale distrettuale di Zubovo Polyansky in Mordovia, dove sconta una condanna a due anni. L’avvocato difensore ha sottolinrato che Nadia, che è stata arrestata esattamente un anno fa e ha quindi scontato la metà della pena, ha buoni rapporti sia in carcere che a casa, e ha una figlia piccola e troverà immediatamente un lavoro dopo il suo rilascio (Novaya Gazeta le ha proposto di scrivere commenti e il gallerista Marat Gelman, le ha proposto una collaborazione, fra gli altri).