Raccontare le “vite da galera” per aiutare a fermarsi in tempo Il Mattino di Padova, 4 marzo 2013 Il dialogo che da anni ormai si è instaurato a Padova tra il carcere e le scuole sta diventando sempre più spesso un’occasione di crescita per gli studenti, perché permette loro di riflettere su quanto è sottile la linea che separa il rispetto della legge dai comportamenti illegali, e per i detenuti, perché dà alle storie delle loro vite devastate un senso nuovo, le rende finalmente utili agli altri. È per questo che ci soffermiamo spesso sulle testimonianze dei protagonisti di questo dialogo sui reati, sulle pene e sul carcere: gli studenti e i detenuti. Una liceale racconta: è utilissimo ascoltare chi ha sbagliato Andrea è ormai un uomo sulla quarantina che. a vederlo gironzolare per le vie del centro in sella alla sua bici, si potrebbe pensare abbia trascorso una vita come tutte le altre persone: ma non è così. Andrea quand’era un adolescente ha iniziato a drogarsi, è stato un eroinomane, ha ucciso una persona, è stato in carcere e rimarrà per sempre un assassino. Ho ascoltato la sua storia attraverso un video, a scuola, e quando sono tornata a casa, raccontando a mia madre di questa nostra prima fase del “Progetto Carceri”, sostanzialmente le ho detto questo. Ho tralasciato volutamente i dettagli della storia che descrivevano la famiglia dalla quale Andrea proviene, il percorso che l’ha portato al mondo della droga e soprattutto come vive ora da quando ha finito di scontare la sua pena; non mi interessava e non volevo far apparire Andrea come una vittima, per certi aspetti, di vari problemi adolescenziali o compagnie sbagliate. Drogarsi è una scelta, fumare è una scelta, uscire con le persone sbagliate è una scelta e poiché le conseguenze della droga ora si sanno molto di più rispetto agli anni scorsi, drogarsi e di conseguenza uccidere qualcuno diventa una colpa. E se io ritenevo folle dover andare un’intera mattinata ad ascoltare altre testimonianze di ex-detenuti o ancora carcerati poiché lo ritenevo inutile, non avevo in realtà capito che la folle ero io: presuntuosa liceale diciottenne che pensava di dover andare lei a spiegar loro gli sbagli che avevano fatto e far loro una predica morale sulla vita. Ero uscita di casa quella mattina prima dell’incontro, volendo chiedere a quelle persone se non si vergognavano quando vedevano la loro immagine riflessa nello specchio, e invece, mentre ascoltavo la storia di Daola, un’ex-detenuta una volta all’interno di un’organizzazione che spacciava cocaina, che raccontandosi, aveva gli occhi bassi e si toccava freneticamente mani, capelli e viso, provavo vergogna io stessa per la facilità con la quale avevo giudicato queste persone, che chissà per quale e quanta debolezza e senso di solitudine sono andate dietro le sbarre. L’unica domanda che ho sempre in testa è : “Perché?” perché, se ne sapevano le conseguenze, l’hanno fatto lo stesso? Ma in mente ho sempre la risposta di un attore del film “Radiofreccia” di Luciano Ligabue, in cui il protagonista disintossicatosi dalla droga, alla domanda “Perché ti sei bucato quella sera?”, risponde che l’unica cosa che pensò mentre aveva la siringa in mano era: “Perché no?”. Anche Andrea, nel suo racconto, ha detto più o meno la stessa cosa: nonostante l’educazione, la consapevolezza, l’estate dei suoi diciotto anni, tutti i suoi valori a poco a poco sono precipitati nel nulla. Ammiro Andrea, Paola e gli altri detenuti e non, che hanno avuto il coraggio di raccontare la loro storia senza mezzi termini, senza giustificazioni, consapevoli che avevano sbagliato e che l’unica cosa davvero utile ora è informare soprattutto noi giovani di cosa vuol dire non pensare alle conseguenze dei propri gesti, perché ci si vede tutta la vita davanti e i I mondo sotto il nostro controllo, perché anche noi adolescenti possiamo vedere le vicende da un altro punto di vista e soprattutto perché le persone come me, prima di giudicare, imparino ad ascoltare e a pensare che tutti possono commettere errori e che la differenza sta nel voler ricominciare. Alessandra, Liceo Marchesi-Fusinato Un padre si confessa: parlo con gli studenti per ritrovare mio figlio Io ancora trovo difficoltà a prendere la parola in pubblico, specialmente davanti ai ragazzi che hanno l’età di mio figlio. Molte volte ci ho pensato, anche sentendo i miei compagni, che stanno facendo tanta fatica a raccontare il peggio della loro vita, ed allora cerco di farlo come mi viene meglio, usando la scrittura. Prima di tutto vorrei dire che io con mio figlio non ho un buon rapporto, avendo purtroppo perso tanti anni belli della sua vita, e proprio con questo progetto di confronto tra scuole e carcere sto cercando di trovare quella forza che mi serve per incominciare a parlare del mio passato, magari proprio con i ragazzi che abitualmente vengono a farci visita. Forse è la paura di riaffrontare mio figlio, non sapendo cosa dirgli o cosa insegnare, che mi rende cos’i vulnerabile sapendo che per lui gli anni sono passati senza avere vicino un papà che gli voleva bene, e poteva insegnargli qualcosa per il suo avvenire, perché in quei momenti io non ero in me, per problemi legati alla droga. È da parecchi anni che sono rinchiuso in un carcere, ed il pensiero che sempre viene alla mia mente è che forse non meritavo tutto questo, sapendo che per molti anni io sono stato una buona persona, che cercava di vivere lavorando duramente per farsi una famiglia e crescendo sempre solo, perché durante la mia adolescenza non avevo dei genitori che potessero indirizzarmi nel modo giusto per affrontare i problemi che la vita mi presentava. Proprio in questo periodo sto cominciando faticosamente ad avere i primi permessi premio, tutto questo è una gioia ma anche una sofferenza, perché prima o poi davanti a me ritornerà mio figlio, e io avrò bisogno di tutta la forza possibile, e anche di una grande preparazione, perché sono comunque un padre, anche se purtroppo con mio figlio non l’ho messo molto in pratica. Questo è quello che mi spinge ad ascoltare le domande di voi studenti, sperando che sia un aiuto sia per voi che state incominciando ad assaporare il gusto della vita, sia per me che dovrò riprendere in mano te mia, di vita, con tutti quei problemi che questo comporterà. Alain C. Il confronto: dialogo con ragazzi e rivedo me stesso Frequento da poco la redazione di “Ristretti Orizzonti” grazie alla quale per la prima volta, durante questa mia detenzione, sto riuscendo a fare qualcosa di costruttivo, confrontandomi con gli altri come mai avrei pensato di fare. L’idea di poter scontare la mia pena riflettendo e provando a far riflettere tanti ragazzi delle scuole, attraverso una esperienza personale come quella che mi ha portato in carcere, mi fa sentire una persona migliore. È importante che esista qualcuno che ascolta i giovani come me, qualcuno che ti mostra il male offrendoti la possibilità di imparare a distinguere, valutare e soprattutto saper scegliere. La cosa che più mi intimorisce e che nel contempo mi incoraggia è vedere ragazzi della mia stessa età ed essere già per loro un esempio negativo, da una parte qualcosa mi blocca e infatti non sono ancora riuscito a parlare in uno di questi incontri, dall’altra però mi spinge a provarci perché mi rende consapevole che sto facendo qualcosa di importante e di utile, dando il mio contributo a quei ragazzi nei quali intravedo me stesso qualche anno fa. Nessuno di noi potrebbe mai fare loro la morale sul rispettare le regole, ma semplicemente il nostro è il tentativo di trasmettere qualcosa di positivo raccontando quello che di negativo abbiamo commesso, e di dimostrare loro che non ci vuole molto per perdere tutto e passare dalla parte opposta, che non si risolvono i problemi con gesti violenti come noi credevamo di fare, che cadere in questo tunnel causa davvero solo dolore e distruzione a se stessi, alle persone che ci vivono intorno e a chi è stato vittima dei nostri reati. Alessandro P. Giustizia: i terroristi ai tempi della crisi di Paolo Graldi Il Mattino, 4 marzo 2013 La prima domanda è: torna l’eversione armata? L’assalto al portavalori vicino alla stazione Termini, con furibonda sparatoria per strada in mezzo alla gente, rende inevitabile l’interrogativo. Il rapinatore fulminato dal portavalori, a sua volta gravemente ferito nel conflitto a fuoco, aveva avuto un ruolo nelle Br. E poi nelle Unità comuniste combattenti. Non si era mai pentito, aveva sempre rifiutato di collaborare con i giudici e pur carico di condanne si era votato al crimine professionale. Uno dei complici, vent’anni da scontare per un impressionante ventaglio di reati e recidive, era in permesso premio dal carcere di Sulmona, faceva da spalla al più anziano, il morto, l’ex brigatista, Giorgio Frau, 56 anni, rapine anche in Spagna da latitante brigatista, sfiorato persino dal sospetto di aver avuto un ruolo nell’omicidio del professor Marco Biagi. Una banda metropolitana messa insieme dal comune destino di detenuti, o qualcosa di più e di diverso? Rosario Priore, che per tutta la carriera ha indagato da giudice sull’eversione rossa e nera, spende cautela: andiamoci a fondo prima di liquidare la rapina al furgone come un semplice episodio di criminalità feroce e tuttavia casareccia. Stefano Dambuoso, collega di Priore, esclude un ritorno delle Brigate Rosse. E qui, forse, si apre una terza via, per niente rassicurante, e cioè che nella Capitale da ormai troppo tempo, con cadenza quasi quotidiana, si assiste ad escalation delinquenziali che abbassano il livello di sicurezza complessivo. Statistiche e paragoni con altre realtà vengono spesi per dire che, anzi, Roma è una città tranquilla e quel che accade di male è sotto la soglia dell’allarme. La sensazione e anche i fatti, comunque li si voglia incasellare, non rassicurano: infiltrazioni mafiose e camorristiche, la ‘ndrangheta che sbarca con valigioni di contante e colletti bianchi spinge l’ambizione e la sicurezza di sé fino ad acquistare ristoranti famosi in strade celebrate nel mondo, e poi esecuzioni sommarie di nemici che riecheggiano i tempi della banda della Magliana. Se dunque rigurgiti brigatisti o d’area similare non trovano per adesso elementi che ne accreditino temibili ritorni di fiamma, il quadro della violenza organizzata o della criminalità spicciola ma non meno temibile si fa allarmante. La risposta delle forze dell’ordine (anche ieri i due complici di Frau sono stati catturati dai carabinieri poco dopo grazie all’intuito di una pattuglia) segna punti positivi e tuttavia è il controllo complessivo della città che raccoglie critiche non infondate: interi quartieri, specie nelle periferie, lamentano lo spadroneggiare di clan che tengono in scacco intere zone nelle quali si fa affermando, complice la crisi, l’uso disinvolto dell’usura, del pizzo, della minaccia. Certo, la crisi economica, il suo progressivo acuirsi, mobilita frange sopite o poco esposte e scatena una virulenza che va ingigantendosi: vengono segnalate rapine alle persone, la caccia spietata all’orologio di pregio, per scendere fino all’assalto a chi ritira contati al bancomat. Nello scenario descritto, con ambizioni di più temeraria criminalità, s’inserisce forse l’assalto di via Carlo Alberto: mozziconi di malavita che s’incontrano, complice il carcere, con pericolosi residuati del terrorismo, dentro il quale fioriva il mercato delle armi e se ne imparava l’uso all’interno di una gestione militare. Da brigatisti a rapinatori o rapinatori brigatisti? La prima ipotesi sembra più convincente, anche se tra le righe dei rapporti semestrali del Servizi di sicurezza al Parlamento si colgono chiari segni di una evoluzione dei fenomeni di violenza anche in relazione alle peggiorate condizioni sociali del Paese. Ecco: l’assalto al portavalori è bene inquadrarlo in un contesto che va preso molto sul serio, che va osservato con estrema attenzione e monitorato assai da vicino. È già accaduto che la sottovalutazione di fenomeni solo in apparenza statici ma in realtà in sotterraneo movimento abbia portato a un appannamento delle analisi e delle necessarie misure. Severe autocritiche sono seguite all’iniziale incomprensione del pericolo brigatista e dell’eversione nera e solo dopo molti sforzi è stato recuperato il terreno perduto guadagnando risposte efficaci e definitive. Questo è il tempo giusto per aggredire con ogni risorsa disponibile, e anche con qualcosa di più ove necessario, i sintomi di un pericolo che non è mai morto del tutto e che potrebbe riapparire sotto forme diverse ma non meno inquietanti. In questa materia il sonno della ragione è il vero nemico: anzi, la ragione non dorme mai. Giustizia: caso Cucchi; consulenti del pm contro la maxi-perizia di Valentina Errante Il Messaggero, 4 marzo 2013 Per gli esperti dell’accusa non era difficile diagnosticare il suo stato di salute. Convince poco, e non solo le parti civili, la perizia della Corte d’Assise sulle cause del decesso di Stefano Cucchi, morto all’ospedale Pertini. Perché, dopo le polemiche sollevate dalla famiglia, sono i consulenti dei pm a depositare una memoria che definisce anche “contraddittorie” alcune conclusioni. Nel documento, firmato dal collegio dei consulenti del pm presieduti da Paolo Arbarello, si ripercorrono i passaggi che rendono la maxi perizia sovrapponibile ai primi accertamenti. Ma su un punto i consulenti non sono d’accordo: “L’affermazione dei periti secondo cui la forma patologica da loro individuata in sindrome da inanizione fosse di estrema complessità diagnostica appare assolutamente non condivisibile, in quanto la condizione del soggetto, quale desumibile dagli atti, era chiaramente una condizione di compromissione multi organica in rapido peggioramento che poteva e doveva essere diagnosticata da un sanitario di media esperienza”. La valutazione dei periti di fatto alleggerisce la posizione di alcuni imputati, ma per i consulenti dei pm, le stesse analisi di Cucchi avrebbero dovuto rendere semplice “l’inquadramento della situazione clinica”. Di tutt’altro tenore i rilievi di Vittorio Fineschi e Cristoforo Pomara, consulenti di parte civile che, nelle note depositate alla Corte, contestano in toto la maxi perizia: la citano, per dimostrare che non risponde neppure ai quesiti posti: “Pare anche inutile - hanno scritto i periti - perdersi in discussioni sulla causa ultima del decesso”. Fineschi e Pomara sostengono che l’elaborato sia “viziato da errore di metodo” ma, soprattutto, dalla “dichiarata elusione dei periti ai quesiti”. E sono in disaccordo su tutto: dalla bradicardia, per loro causata dal dolore e non dal fisico debilitato, alle fratture vertebrali: “Il segmento lombare - si legge - così come il segmento sacrale sono interessati da franche, ubiquitarie emorragie”. Il nodo rimane “la presenza della frattura della vertebra L3”, negata dalla maxi perizia, perché, dicono Fineschi e Pomara, le lastre “non sono state mai sottoposte all’attenzione dì nessun specialista radiologo”. E allegano i pareri “di tre dei massimi esperti mondiali di radiologia muscolo-scheletrica”. Tutti hanno “confermato la frattura acuta di L3”. Reggio Calabria: Prc; riaprire subito carcere Laureana di Borrello, no ad altre soluzioni www.strill.it, 4 marzo 2013 Di seguito il comunicato diffuso dal Prc: “Avevamo ragione a chiedere la riapertura del L. Daga di Laureana prima delle elezioni politiche, cioè prima che un periodo di vulnus politico potesse consentire operazioni strane e misteriose. Se dovesse essere confermata la notizia della trasformazione del carcere di Laureana in centro sanitario per ammalati mentali gravi, ci troveremmo di fronte ad un atto di una gravità inaudita che mortificherebbe l’impegno di un intero territorio e che offenderebbe la dignità e l’intelligenza di tutti coloro i quali avevano creduto che lo Stato avesse riparato ad un suo precedente pericoloso errore. Non è accettabile che il Dap e la Regione stipulino una convenzione con l’Asp di Reggio Calabria attraverso la quale chiudere un istituto carcerario speranza di recupero per tantissimi giovani solo per ovviare alla carenza di strutture da adibire al ricovero di malati mentali gravi. Si tratterebbe di compiere una scelta miope frutto di una politica incapace di programmare con razionalità ciò che il decreto svuota carceri ha stabilito da tempo. Dove sono e cosa stanno facendo tutti quei deputati e onorevoli regionali che in campagna elettorale assicuravano la riapertura del L. Daga? Il fatto che il Dap regionale non volesse riaprire l’istituto di Laureana non è una novità ma pensare di arrivare sino a tale assurda decisione è davvero troppo e mi auguro che il Ministro della Giustizia lo impedisca categoricamente. Se non rispettasse il nuovo piano nazionale di riorganizzazione delle carceri che prevede la riapertura del L. Daga, ancora una volta verrebbe penalizzata da parte della Regione una eccellenza della Piana di Gioia Tauro che il Dap nazionale aveva premiato per la sua efficienza e specificità. Domani mi farò carico di incontrare il Presidente Raffa affinché si assuma l’impegno di farsi ricevere immediatamente a Roma presso il Ministero della Giustizia per fare in modo che venga rispettato quanto deliberato poche settimane fa. Né il Dap regionale quanto la Regione Calabria possono pensare di sovvertire una decisione frutto di un impegno corale che avrebbe ridato dignità alla Piana e speranza a tante famiglie di giovani che avevano definitivamente abbandonato la criminalità organizzata. In caso contrario verrebbe inflitto al nostro territorio un duro colpo imperdonabile e doloroso che comprometterebbe ancor di più la fiducia dei cittadini nello Stato. Giuseppe Longo, Consigliere provinciale Prc Salerno: nel carcere di Fuorni condizioni disumane per chi è malato di Barbara Cangiano La Città di Salerno, 4 marzo 2013 In otto in una cella di venti metri quadri omologata per tre persone. Con pareti umide e scrostate, bagni chiusi da vecchi cartoni, docce fredde che si possono usare una volta a settimana, biancheria cambiata con frequenza da terzo mondo, vitto e farmaci che scarseggiano e che molto spesso finiscono sul conto delle famiglie che se lo possono permettere. Se il sovraffollamento delle carceri è una emergenza nazionale (a Salerno i detenuti sono 550 a fronte di una capienza massima stimata in 280 unità), l’assistenza sanitaria precaria vede la casa circondariale di Fuorni tra i primi posti in Campania. Parola di Massimiliano Franco, professione avvocato, che con un pool di colleghi (Loredana De Simone, Massimo ed Emiliano Torre, Paolo Vocca, Rosanna Carpentieri, Silverio Sica) si occupa, attraverso l’associazione Radicali salernitani di Donato Salzano e il circolo Nessuno tocchi Caino, delle condizioni disperate in cui vivono i detenuti. Sono tre i ricorsi attualmente curati dai legali salernitani, pronti a finire (uno è già stato introdotto) sulla scrivania dei giudici della Corte europea di Strasburgo. Il primo caso riguarda un 58enne salernitano: a Fuorni doveva scontare un residuo di pena di un mese e mezzo. Affetto da un carcinoma alla prostata, aveva chiesto un differimento di esecuzione della pena per potersi curare in un centro clinico attrezzato per la radio e la chemioterapia che gli erano state prescritte. Non gli fu concesso. “È stato sottoposto ad una terapia chemioterapica in carcere, ma con farmaci diversi da quelli che gli erano stati dati - spiega Franco. Il suo quadro clinico si è molto aggravato, al punto che oggi non può neppure essere operato”. L’istanza di trasferimento in una struttura attrezzata fu rigettata “perché il magistrato lo ritenne superfluo in considerazione che la pena da scontare era limitata. Ma un mese e pezzo per un malato di tumore può significare molto”. All’attenzione della Corte di Strasburgo c’è già il ricorso di un 46enne di Vallo della Lucania, affetto da cardiopatia ischemica. A febbraio 2012 chiese il trasferimento presso un centro ospedaliero, denunciando l’arbitraria sostituzione di un farmaco che gli era stato prescritto e che avrebbe dovuto assumere ogni otto ore. “Le sue condizioni si aggravarono. Per soli sei mesi fu trasferito primo a Benevento e poi ad Avellino dove a tutt’oggi non segue la cura che dovrebbe. Il gip gli ha anche negato la possibilità di effettuare la prova da sforzo”, ha sottolineato Franco. Illuminante è poi il caso di una 35enne marocchina che, affetta da una grave cirrosi epatica, si è fatta in quattro per tornare a Fuorni dopo essere stata ricoverata per un breve periodo nella sezione detenuti del “Ruggi”. “Le celle non hanno bagni. I detenuti sono obbligati ad attendere l’arrivo di un infermiere o di un agente per qualunque cosa. Se qualcuno si sente male deve sperare che dall’altra parte la sua voce venga ascoltata”. Condizioni devastanti, “aggravate da un abuso della misura cautelare preventiva e da un inasprimento del tribunale di sorveglianza”. Ma al vaglio dell’associazione c’è ora la possibilità di impugnare le ordinanze emesse nelle fasi di esecuzione delle pene, tirando in ballo la responsabilità civile. Una battaglia nuovissima, che va ad aggiungersi alla pioggia di ricorsi che potrebbero arrivare dinanzi ai giudici di pace, dopo la sentenza che ha stabilito un rimborso di mille euro per un detenuto che ha trovato la forza di denunciare le condizioni di degrado in cui era stato costretto a resistere a Fuorni. Cagliari: un caso di sospetta tubercolosi mette in allarme il carcere di Buoncammino L’Unione Sarda, 4 marzo 2013 Un caso di sospetta tubercolosi mette in allarme il carcere di Buoncammino, da anni al centro di polemiche per le precarie condizioni nelle quali sono costretti a vivere ogni giorno i detenuti. Anche se per adesso la situazione è sotto controllo, un uomo ha manifestato alcuni sintomi collegabili alla malattia che hanno fatto insospettire i medici. È partita subito la chiamata alla Asl, che ha avviato nel giro di poco tempo tutte le operazioni previste per casi di questo genere. Il paziente è stato portato in un ospedale del capoluogo per eseguire gli accertamenti, che ieri erano ancora in corso. Per precauzione, così come è previsto dal regolamento, le cinque persone che condividevano la cella con lui sono state isolate da tutte le altre. Una decisione presa per evitare possibili contagi, nel caso le analisi dovessero accertare che davvero il carcerato è affetto da tubercolosi. Una situazione difficile quella dell’istituto penitenziario di Buoncammino. Solo qualche mese fa il consigliere comunale e regionale del Pdl, Edoardo Tocco, aveva denunciato addirittura la presenza di topi nel carcere: “A protestare sono soprattutto i familiari, comprensibilmente preoccupati per il rischio di malattie”, aveva detto. Un problema, secondo il politico, che nasceva all’esterno, proprio nelle vicinanze del penitenziario. “Nella zona dietro il carcere c’è un sito in abbandono con sterpaglie e rifiuti scaricati dagli incivili”. Modena: dal Gruppo Carcere-Città messaggio sul nuovo padiglione del carcere di S. Anna www.bologna2000.com, 4 marzo 2013 A seguire una riflessione dei volontari del Gruppo Carcere-Città in occasione e a margine dell’apertura del nuovo padiglione della Casa Circondariale S. Anna. “Nel nuovo padiglione vengono offerti alle persone detenute più luce, più spazio, la possibilità di muoversi e socializzare con le altre persone del reparto non solo nelle ore d’aria, ma durante tutta la giornata. Anche in cella lo spazio personale è maggiore e ci sono i servizi essenziali. Sono cose buone, perché la dignità dell’uomo è intangibile e va rispettata e protetta sempre, anche quando una persona subisce una condanna a una pena detentiva in carcere. Lì chiusa, deve avere la possibilità di condurre una vita “umana” e prepararsi a rientrare, diversa da come era prima, in società, magari usufruendo di possibilità di studio o di lavoro. Quel lavoro che, malgrado gli sforzi dell’Amministrazione Penitenziaria, le sollecitazioni ad enti pubblici e privati, complice anche la crisi economica più generale, manca negli istituti penitenziari riducendo il tempo della pena ad un tempo vuoto, tempo da trascorrere avanti e indietro in corridoi sì più ampi e luminosi, ma ancora nell’ozio, nell’apatia e nella rassegnazione. Temiamo inoltre che il miglioramento introdotto nel carcere di Modena con l’apertura del nuovo padiglione e la graduale rimodellizzazione del vecchio sia solo parziale e transitorio, perché non so-no state affrontate, a livello legislativo, le cause strutturali del sovraffollamento, legate ad una con-cezione della pena bloccata sulla sola idea carceraria e così le celle si torneranno presto a riempire in modo disumano. Il carcere è una struttura molto costosa. Per il “tutti in prigione” occorrerebbe essere molto ricchi. E poi i risultati sono scadenti, perché il carcere quasi mai si rivela capace di svolgere il compito che gli è richiesto di responsabilizzazione del detenuto. Altre soluzioni, previste per reati meno gravi, come pene alternative o sostitutive al carcere, pene pecuniarie, pene interdittive o prescrittive, l’avvio a lavori socialmente utili, modalità di esecuzione ispirate a finalità riparative e restitutorie nei confronti delle vittime dei reati e della collettività, pos-sono rivelarsi molto più efficaci e già ne abbiamo conferme. Invece di impegnare risorse faraoniche nella costruzione di nuove carceri, per rispondere al problema del sovraffollamento, della dignità della pena insieme alla sua efficacia, sarebbe quindi meglio affrontare la riforma, troppe volte rinviata, del codice penale, riscrivere la normativa sugli stupefacenti e sull’immigrazione, nonché abrogare la legge cd. ex-Cirielli sulla recidiva, leggi che producono la più alta percentuale di persone oggi in carcere senza peraltro risolvere le questioni epocali che ne stanno a monte. Sarebbe meglio utilizzare quei soldi per costruire luoghi di accoglienza e di recupero su tutto il territorio, creare opportunità di formazione, di lavoro, di crescita personale, di incontro e confronto. Questo consentirebbe di ridurre davvero il sovraffollamento, rendendo un servizio alla collettività in termini di maggior sicurezza, ed evitando sofferenze aggiuntive alla persona detenuta e ai suoi familiari”. Messina: D’Alia (Udc): realizzare nuovo carcere a Mistretta, per chiusura quello esistente Asca, 4 marzo 2013 “A causa della persistenze situazione di sovraffollamento e degrado delle carceri siciliane, sarebbe utile realizzare il nuovo istituto penitenziario di Mistretta e non chiudere quello esistente, la cui struttura è stata migliorata da recenti interventi del Comune”. A chiederlo in un’interrogazione al ministro della Giustizia, Paola Severino, è il segretario regionale dell’Udc e neoeletto alla Camera dei Deputati, Gianpiero D’Alia. Nell’interrogazione, si evidenzia, che lo stesso Comune di Mistretta “ha ribadito la volontà di cedere gratuitamente un’area edificabile proprio per la realizzazione del nuovo carcere”. “Il carcere di Mistretta è stato cancellato dal governo nazionale dalla lista delle case circondariali da costruire, poiché mancherebbero i fondi. Fondi che, invece, erano previsti nel piano carcerario redatto dal precedente Guardasigilli, Angelino Alfano e che ammontavano, proprio per la costruzione del carcere mistrettese, a 42 milioni e 500 mila euro. È necessario dunque fare chiarezza, ribadendo l’importanza che gli istituti penitenziari di Mistretta hanno per il comprensorio e nell’ambito del sistema carcerario siciliano”. Pistoia: discipline orientali al carcere di Santa Caterina, al via i corsi per i detenuti La Nazione, 4 marzo 2013 Il Tai Chi Chuan, antica tecnica psicofisica cinese, per migliorare il benessere e la disciplina interiore dei detenuti del carcere di Pistoia. È questa l’idea portata avanti da Jessica Venturi e Alessio Tinturli, entrambi maestri di discipline orientali, incaricati dell’insegnamento delle tecniche a una quindicina di detenuti della casa circondariale pistoiese. L’iniziativa è stata resa possibile grazie alla disponibilità del direttore del carcere Tazio Bianchi e dell’educatrice Liliana Lupaioli. Gli organizzatori dell’iniziativa sostengono così la volontà di mettere la struttura carceraria e i detenuti in contatto con il mondo esterno: il carcere come luogo di rieducazione, non isolamento. Roma: nel carcere di Rebibbia concerto aperto al pubblico del gruppo “Il muro del canto” Adnkronos, 4 marzo 2013 Il carcere più grande d’Europa apre i cancelli al pubblico, alla cultura e alla musica live. Dopo i successi del primo appuntamento, venerdì 15 marzo alle 15.30, si ripete l’esperienza all’interno della Casa Circondariale di Rebibbia che consente di abbattere le barriere e consentire alla musica e alla cultura di arrivare ai detenuti con un evento musicale gratuito aperto anche al pubblico. L’evento è organizzato dal Traffic Live, locale famoso per i suoi eventi e concerti dal vivo che, situato nel cuore di Tor Tre Teste, prova a coinvolgere e creare aggregazioni culturali per i cittadini del VII Municipio. Un’iniziativa, quindi, senza alcun patrocinio o finanziamento ma nata dalla libera volontà di artisti e organizzatori. Nel secondo appuntamento, assolutamente in linea con le intenzioni e con il senso dell’iniziativa, si esibirà “Il muro del canto”, gruppo folk rock che canta in romanesco e che, attraverso la rivisitazione dell’immaginario pasoliniano, descrive una Roma in bianco e nero, romantica e decadente. Il Muro del Canto è uno straordinario ensemble di musicisti romani che ha dato vita a questo incredibile progetto dalle venature drammatiche e dalle atmosfere surreali è composto da: voce e testi Daniele Coccia, alle percussioni e alla voce narrante Alessandro Pieravanti. Alla chitarra elettrica Giancarlo Barbati. Ludovico Lamarra e Eric Caldironi, rispettivamente basso e chitarra acustica. A trascinare il tutto con struggente melodia è la fisarmonica di Alessandro Marinelli. Il Muro del Canto è una voce senza tempo, una voce di popolo, è l’inno alla terra, è il disincanto e la serenata. È un canto accorato di lavoro, è la ninna nanna antica. Il Muro del Canto è il progetto musicale che commuove, risveglia e infuoca gli animi, che fa piangere, sorridere e danzare. Immigrazione: terminata “l’emergenza Nord Africa”… ce n’è nuova per i Comuni italiani di Andrea Gabellone www.linkiesta.it, 4 marzo 2013 Quella ufficiale, “l’emergenza Nord Africa”, è finita. Ma come sistemare ora migliaia di persone? I bagagli sono sulle panchine, ai bordi dei binari, in attesa di essere caricati su un treno; e la destinazione, in buona parte dei casi, poco importa. I profughi della guerra libica, dal primo marzo, non rappresentano più un’”emergenza” per il nostro Paese: dalle prime ore di venerdì, le strutture di accoglienza, diventate case per migliaia di persone nell’ultimo anno e mezzo, sono vuote. In Puglia, a Carovigno, alle 10, i pullman della Prefettura sono passati a prelevare gli ospiti dei centri per condurli alla stazione ferroviaria di Brindisi. E, come a riprodurre fedelmente una metafora, è proprio tra i binari che decidono del loro destino. Da due giorni, terminato ufficialmente l’impegno del governo, delle Prefetture e della Protezione Civile, l’emergenza è tutta per loro. In questo drammatico passaggio di testimone, che solleva da ogni responsabilità le istituzioni italiane, ai 13.000 richiedenti asilo, fino a giovedì scorso nei centri di accoglienza, non sono rimasti che 500 euro. La somma, stanziata dallo Stato italiano come “buonuscita”, servirà loro per vivere, o meglio, sopravvivere fino a data da destinarsi. E quei 500 euro, ora, devono bastare per tutto: mangiare, dormire ed, eventualmente, viaggiare. Tra i binari, i gruppi più numerosi sono costituiti da nigeriani. “Siamo qui perché qui ci hanno portati. Forse hanno scelto la stazione perché vogliono che andiamo via. Io prenderò il treno per Padova - racconta Frederick , seduto affianco alla sua unica valigia - e andrò a stare un po’ a casa di alcuni amici. So che non c’è lavoro né per noi né per gli italiani, ma devo provare a fare qualcosa. Non posso rimanere qui a morire”. Kelvin, anche lui nigeriano, 20 anni, look da rapper americano, non sembra sopraffatto dagli eventi. “Non possiamo fermarci - dice - e piangere per quello che sta succedendo. È vero, non abbiamo scelta. Da quel viaggio che ci ha portati dalla Libia fino a qui, la nostra vita non è stata facile, ma dobbiamo reagire. Con gli altri ragazzi nigeriani, siamo un gruppo unito e ci facciamo forza a vicenda. Bisogna avere la mentalità aperta e trovare una soluzione. Noi ci stiamo provando, ma ci sono altri che proprio non ce la fanno”. Gli “altri” sono i profughi che arrivano dal Mali. Loro, a differenza dei nigeriani, se ne stanno in disparte, hanno un’aria mesta e parlano controvoglia. I loro volti sono lo specchio della loro condizione: abbandonati, in balia degli eventi, in un Paese del quale non conoscono nemmeno la lingua. Omar, 23 anni, è di Timbuctu e aspetta, solo con i suoi bagagli, sul binario 1 della stazione. Tutta l’angoscia della sua attesa affiora quando ammette che è lì, ma non salirà su nessun treno. Omar si trova affianco ad un binario, ma potrebbe essere in qualsiasi altro posto. “Non so cosa fare - spiega in un francese condito da qualche parola italiana - e, probabilmente, rimarrò qui. Oggi sono andato via da Lecce. Eravamo in 13, in una piccola casa che ci ha ospitati fino a due giorni fa. Alcuni sono rimasti in quella zona, io ho deciso di spostarmi, ma non ho destinazioni e non ho nessuna idea sul mio futuro”. Intanto, mentre Brindisi è diventata crocevia di tanti destini diversi, a Taranto si fatica a trovare una soluzione per chi è rimasto. “Ci stiamo provando in tutti i modi - ammette con rammarico il presidente dell’associazione Babele Enzo Pilò, ma ci sentiamo soli. Abbiamo proposto più volte al Comune di Taranto, nel corso del tempo, che ci aiutasse con la realizzazione di un dormitorio, ma siamo arrivati ad oggi senza essere stati ascoltati. Eppure, lo sapevano tutti che questa giornata sarebbe arrivata. Con quasi 50 persone che non sanno dove dormire, per noi è il problema è diventato insormontabile. La notte scorsa siamo riusciti a trovare una sistemazione improvvisata, al centro sociale occupato Archeo Tower, ma hanno dormito tutti per terra; non avevamo neanche una brandina. Tra loro, c’era anche un ragazzo che aspetta un trapianto di fegato ed era a terra, proprio come gli altri”. Il disagio sociale cresce ora per ora: coloro che non sono riusciti a programmare temporaneamente il loro futuro, a crearsi un’aspettativa, ad avere una speranza, sono i soggetti più deboli; proprio quelli che ora, paradossalmente, sono rimasti senza niente e nessuno. Ci sono persone che soffrono di patologie gravi e poi ci sono quelle che si sono ammalate durante questi 20 mesi nei centri di accoglienza: depressione, autolesionismo, alcolismo e tentativi di suicidio. Ad aggravare una situazione già molto critica, c’è un’emergenza abitativa dilagante. I 13.000 profughi dell’emergenza Nord Africa si vanno a sommare ai circa 50.000 immigrati che, nel nostro Paese, sono in costante ricerca di un alloggio. In Italia, il 15% degli immigrati senza una casa propria dorme a casa di amici o parenti, il 10% in posti letti a pagamento, il 6% in strutture di accoglienza; il resto si arrangia tra baracche, stazioni, edifici pericolanti, ponti, portici ed, extrema ratio, carceri. Quello che molti dei profughi in strada da ieri non sanno - considerata la tendenza - è che il “problema casa” diventa ancor più grave nelle grandi città e nel Nord Italia. Basti pensare che la ripartizione degli immigrati sull’intero territorio italiano - secondo il rapporto Migrantes 2012 della Caritas - è del 63,4% al Nord, del 23,8% al Centro, e del 12,8% al Sud. Come se non bastasse, gli immigrati in cerca di affitto devono, in molti casi, fare i conti con alcune forme di “discriminazione”: i proprietari di case non affittano a stranieri, specie se di colore, senza adeguate garanzie; si pretendono costi aggiuntivi, si richiede un pagamento a persona, anziché per l’intera abitazione. Adesso, quella che fu “emergenza Nord Africa” si sta, pian piano, trasformando in un allarme per i Comuni, costretti a dover togliere i profughi dalle strade e trovare loro una sistemazione degna. Con il passare del tempo, quando i gruppi più corposi di migranti si saranno dissolti, ognuno porterà l’emergenza con sé, riducendo ad un’odissea personale quello che, fino a ieri, è stato il dramma di tanti. In questo modo, lontano dal clamore delle proteste di Rosarno o Nardò, anche la percezione del problema, da parte di cittadini e istituzioni, verrà inevitabilmente meno. E si dimenticheranno quei 13.000 destini, già uniti da una guerra, che si incrociano per la seconda volta sui binari di una stazione, aspettando - forse - un treno. Immigrazione: Sentenza Cassazione; evita l’espulsione solo chi convive con il coniuge di Stefano Rossi Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2013 La legge fissa il requisito della coabitazione tra marito e moglie per evitare che si celebrino matrimoni solo formali. È necessaria la convivenza con il coniuge per ottenere il ricongiungimento familiare ed evitare così l’espulsione del clandestino. Lo precisa la prima sezione penale della Cassazione con la sentenza 7912 depositata lo scorso 18 febbraio. La vicenda vede coinvolto un cittadino albanese condannato con giudizio abbreviato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione per immigrazione clandestina. L’uomo, già in precedenza espulso con accompagnamento alla frontiera, aveva fatto rientro in Italia senza l’autorizzazione del ministro dell’Interno. In seguito, fermato dagli agenti della Questura, l’albanese aveva cercato di giustificare la sua presenza in Italia con il motivo di ricongiungersi alla moglie, una cittadina italiana con la quale aveva contratto matrimonio in Albania pochi mesi prima. In precedenza, l’extracomunitario era stato già investito da due provvedimenti di espulsione con contestuale divieto di ingresso per dieci anni, l’ultimo dei quali era stato violato con l’illegale rientro nel territorio italiano per ufficializzare il matrimonio con la moglie presso gli uffici comunali del Paese dove dimorava. La corte d’appello ha respinto la richiesta di assoluzione avanzata dal pubblico ministero e dal difensore dell’extracomunitario, ritenendo che non si poteva invocare il ricongiungimento familiare poiché non giustificato da alcun visto di ingresso per motivi familiari e, soprattutto, perché non vi era la prova delta Convivenza con la moglie. Dall’istruttoria era infatti emerso che l’uomo viveva con il fratello in un comune diverso da quello di residenza della moglie. La vicenda è così giunta in Cassazione che, rigettando il ricorso, ha affermato che il matrimonio con una cittadina italiana contratto in Albania dopo la terza espulsione non giustifica il rientro in Italia dello straniero senza alcuna autorizzazione. Questo perché è necessario l’ulteriore presupposto della convivenza con il coniuge, come si ricava dal sistema legislativo e dall’esigenza di evitare matrimoni solo formali, strumentali a ottenere il permesso di soggiorno. Infine, conclude la sentenza, la condotta di reingresso, senza autorizzazione, nel territorio dello Stato del cittadino extracomunitario, già destinatario di un provvedimento di rimpatrio, ha conservato rilevanza penale anche dopo la direttiva dell’Unione Europea 2008/115/CE del 16/12/2008 e la pronuncia della Corte di giustizia C-61/11 del 28 aprile 2011, perché i principi affermati sulle modalità di rimpatrio non possono assumere rilievo per valutare la condotta di reingresso in assenza di autorizzazione. Nella medesima direzione si pone l’ordinanza 15294 del 12 settembre 2012 in cui la Cassazione ha affermato che deve essere accertata la convivenza tra i coniugi per il rilascio del permesso di soggiorno allo straniero. In sostanza, l’extracomunitario che intende opporsi al decreto di espulsione deve dimostrare non solo di essere coniugato con un cittadino di nazionalità italiana, ma anche che la convivenza con il coniuge è concreta e effettiva. Questo per evitare un uso strumentale della norma di salvaguardia (articolo 19, comma 2, lettera e, del decreto legislativo 286/98). Il caso riguardava una cittadina marocchina, sposata con un cittadino italiano, che aveva la residenza in una casa abbondonata da tempo. La Corte ha rigettato la domanda della donna poiché il marito aveva già presentato le carte per la separazione e aveva trasferito la sua residenza in un’altra città. Droghe: anche a Firenze firmato protocollo per applicazione lavoro di pubblica utilità Ansa, 4 marzo 2013 Pena ridotta in cambio di ore di lavoro con gli anziani e i portatori di handicap per chi venga condannato perché guidava ubriaco o drogato, per reati legati alle scommesse clandestine o per alcuni di quelli di discriminazione razziale o religiosa. È quanto regolamenta un protocollo firmato dalle istituzioni fiorentine, che incentiva l’applicazione delle leggi sul lavoro di pubblica utilità. Il protocollo - ce ne sono di simili a Milano e a Torino - è stato presentato dal presidente del tribunale di Firenze Enrico Ognibene, dal prefetto Luigi Varratta, dal presidente della seconda corte di assise Fernando Prodomo e dal rappresentante dell’ordine degli avvocati Sigfrido Fenyes. Per le violazioni del codice della strada, per esempio, la legge prevede che la pena o la multa possano essere sostituite dal lavoro di pubblica utilità, con vantaggo che possono andare dal dimezzamento del periodo di sospensione della patente all’estinzione del reato. Al momento, il protocollo prevede convenzioni soprattutto con misericordie e associazioni di volontariato che operano con gli anziani e i portatori di handicap, ma possono aggiungersi anche enti pubblici, da quelli statali ai Comuni. “Il protocollo - ha spiegato il presidente Ognibene - è un lavoro egregio che resuscita il lavoro di pubblica utilità, finora troppo poco applicato”. In un mese sono state un centinaio le patenti sospese: “Dalla stipula del protocollo - ha ricordato il prefetto Varratta - con il provvedimento viene anche notificato al contravventore un avviso con cui lo si mette al corrente dell’opzione del lavoro di pubblica utilità”. L’avvocato Fenyes ha sottolineato il contributo dell’iniziativa in tema di lotta al sovraffollamento carcerario. Libia: da carcerati a secondini… il nuovo volto delle prigioni post-Gheddafi Aki, 4 marzo 2013 Hanno le barbe lunghe e incolte la maggior parte delle guardie carcerarie delle prigioni libiche dell’era post Gheddafi. Proprio come quelle che portavano gli islamici nel mirino del deposto regime di Muammar Gheddafi. E sono proprio loro, gli ex detenuti, a essere diventati i secondini delle carceri della nuova Libia, le cui celle ospitano ora coloro che torturarono gli oppositori di allora. Si stima che nel Paese molti degli uomini che ora controllano i circa ottomila prigionieri arrestati durante e dopo la Rivoluzione libica siano ex ribelli o ex detenuti. Alla guida del governo libico e dei servizi di sicurezza ci sono persone legate al Gruppo combattente islamico libico che ha contrastato il regime di Gheddafi negli anni Novanta. Ex membri di questo gruppo estremista fanno anche parte della nuova guardia nazionale. Il nuovo capo del carcere di Tripoli, Mohamed Gweider, è un ex ribelle islamico che ha trascorso oltre dieci anni in una prigione libica. Due delle guardie che lo hanno torturato sono ora suoi prigionieri, così come l’ex capo dell’intelligence Abdullah al-Senussi. Gweider spiega che è “impossibile” che la Libia invii all’estero questi detenuti, anche se Senussi e Saif al-Islam Gheddafi sono accusati dal Tribunale penale internazionale di crimini per crimini di massa e altre atrocità durante la rivoluzione libica del 17 febbraio 2011. Per Gweider, come per molti altri, si tratta di una missione personale. Gweider, 49 anni, fu arrestato nel 1986 con l’accusa di cospirazione all’interno di una cellula jihadista mentre era agente dell’intelligence guidata da Senussi. Uscito dal carcere di Abu Salim nel 1997, ha sofferto delle torture subite per dieci anni sia sul piano fisico, sia su quello psicologico. La maggior parte dei prigionieri libici è stato “detenuto per oltre un anno senza un’accusa e senza aver accesso a un legame”, ha denunciato Human Rights Watch nel suo rapporto del 2013, nel quale si legge che in alcune strutture i carcerati erano “ripetutamente torturati e morti in custodia”. E ora il rischio è quello di ritorsioni e vendette. Turchia: Erdogan esclude ipotesi amnistia generale per Pkk “niente grazia ad assassini” Tm News, 4 marzo 2013 Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha escluso qualsiasi ipotesi di amnistia generale verso i ribelli indipendentisti curdi, mentre sono in corso dei negoziati fra in servizi segreti di Ankara e il leader storico del Pkk, Abdullah Ocalan. “Non siamo autorizzati a concedere la grazia agli assassini, non ci occuperemo di tale questione”, ha ribadito Erdogan le cui dichiarazioni sono state riportate dall’agenzia ufficiale turca, Anatolia. I contatti con Ocalan - condannato all’ergastolo e detenuto nel carcere di Imrali - hanno come obbiettivo il disarmo del Pkk, organizzazione considerata come terroristica dalla Turchia e dagli alleati occidentali di Ankara. Marocco: Amnesty International denuncia; il Codice penale discrimina donne e ragazze Tm News, 4 marzo 2013 Nel marzo 2012 Amina Filali, 16 anni, si uccise ingerendo veleno per topi. Era stata costretta a sposare l’uomo che l’aveva stuprata. Una storia tragica ma non rara in Marocco, a causa dell’articolo 475 del codice penale che consente a chi ha commesso uno stupro di evitare la condanna se sposerà colei che ha stuprato. Il suicidio di Amina provocò un’ondata d’indignazione nella società civile marocchina, che nel gennaio 2013 ha spinto le autorità a proporre una modifica a quel vergognoso articolo. Le organizzazioni per i diritti umani, Amnesty International inclusa, hanno apprezzato la proposta ma hanno sottolineato che molti altri articoli del codice penale dovrebbero essere modificati per proteggere dalla violenza e dalla discriminazione le donne e le ragazze. Uno di questi articoli è il 486, che include lo stupro tra i reati contro la decenza, che punisce “la relazione sessuale di un uomo con una donna contro la volontà di quest’ultima” con pene da cinque a 10 anni di carcere. Se lo stupro è compiuto nei confronti di una minorenne, di una disabile o di una donna incinta, la pena sale da 10 a 20 anni. L’entità della pena può dipendere da ulteriori fattori, quali lo stato civile o la verginità. L’articolo 488 prevede pene ancora più severe se lo stupro e “l’attentato al pudore” determinano la perdita della verginità: da 10 a 20 anni in questo caso, da cinque a 10 anni nel caso opposto. Le attiviste per i diritti umani ritengono che la definizione di stupro debba essere modificata, in modo da essere resa neutra dal punto di vista del genere e da comprendere altre forme di coercizione che non necessariamente prevedono la violenza fisica. Lo stupro coniugale dovrebbe essere riconosciuto come reato specifico. “Il fatto che lo stupro sia catalogato nella sezione dei reati contro la decenza pone l’enfasi sulla moralità e sullo stato coniugale piuttosto che evidenziare che si tratta di un attacco contro l’integrità di una persona” - ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. “Temiamo che la proposta di modifica dell’articolo 475 conterrà ancora la distinzione relativa alle donne vergini e a coloro che non lo sono, una distinzione discriminatoria e degradante”. Altri articoli del codice penale dovrebbero essere emendati per contribuire a proteggere le donne dalla violenza. L’articolo 496 afferma che offrire riparo a una donna sposata, “che è venuta meno all’autorità cui è legalmente sottoposta”, è punibile con una multa e con una pena detentiva da uno a cinque anni. “Questo articolo significa che chi offre protezione alle donne che fuggono dalla violenza domestica rischia una sanzione penale. La norma pone l’accento sulle donne che vengono sottratte all’autorità di qualcun altro” - ha sottolineato Sahraoui. L’articolo 490 criminalizza le relazioni sessuali consensuali tra persone non sposate, con pene da un mese a un anno di carcere. “Rendere reato le relazioni tra adulti consenzienti, a prescindere dal loro stato civile, viola il diritto alla riservatezza e alla libertà d’espressione. Inoltre, questo articolo pregiudica la possibilità di presentare denuncia da parte di una donna che ha subito uno stupro, la quale rischierebbe di essere processata” - ha commentato Sahraoui. el luglio 2011, il Marocco ha adottato una nuova Costituzione che garantisce l’uguaglianza tra uomo e donna. Tuttavia, Amnesty International ritiene che questo possa non bastare a proteggere le donne e le ragazze dalla violenza e dalla discriminazione. “Per garantire i diritti delle donne, è fondamentale che il Marocco riformi le leggi in modo da renderle conformi agli standard internazionali. Ma neanche questo potrebbe essere sufficiente. In una società in cui le donne non hanno lo stesso status degli uomini, non sono solo le leggi ma le radicate attitudini sociali a produrre discriminazione. Tra le misure fondamentali da adottare, riteniamo debba esservi la formazione del personale di polizia e di quello giudiziario su come trattare in modo sensibile le denunce di violenza contro le donne e le ragazze e proteggere le donne come persone, non il loro cosiddetto onore o la loro moralità” - ha concluso Sahraoui. Israele: Hamas chiede intervento Egitto per liberare detenuti palestinesi in sciopero fame Nova, 4 marzo 2013 Il gruppo islamico palestinese di Hamas ha chiesto alle autorità egiziane di esercitare delle pressioni sui vertici israeliani per liberare i militanti palestinesi detenuti nelle loro carceri. Il movimento islamico si dice preoccupato per il destino del gruppo di detenuti palestinesi che stanno sostenendo uno sciopero della fame. La richiesta giunta da parte del premier del governo di Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, Ismail Haniyeh, il quale ha detto che “l’Egitto deve assumersi le sue responsabili e spingere Israele ad attenersi a ciò che era stato concordato durante lo scambio” di prigionieri deciso lo scorso anno tra Israele e Hamas. Il gruppo guidato da Khaled Meshaal si riferisce alla promessa di Israele di scarcerare migliaia di detenuti palestinesi in cambio del rilascio del caporale Gilad Shalit sequestrato nel 2006 dai miliziani di Hamas nella Striscia di Gaza. Issawi in sciopero fame da 214 giorni: Gb imponga sanzioni su Israele La Gran Bretagna imponga sanzioni su Israele perché interrompa l’occupazione della terra palestinese, riconosca i diritti dei palestinesi e liberi tutti i detenuti politici. È questo l’appello che il detenuto palestinese Samer Issawi, da 214 giorni in sciopero della fame in un carcere israeliano, ha rivolto al governo britannico. “Israele non può continuare la sua oppressione senza il sostegno dei governi occidentali”, ha scritto Issawi in una lettera rivolta al quotidiano The Guardian, sottolineando la responsabilità storica della Gran Bretagna ‘per la tragedia del mio popolo”. In merito a una sua possibile morte per il prolungato rifiuto del cibo, Issawi ha parlato di vittoria contro l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi. “Non preoccupatevi se il mio cuore smetterà di battere. Sono ancora vivo e lo sarà anche dopo la mia morte perché Gerusalemme scorre nelle mie vene. Se io muoio, è una vittoria. Se saremo liberati, sarà una vittoria, perché in ogni modo mi sono rifiutato di arrendermi all’occupazione israeliana, alla sua tirannia e arroganza”, ha scritto Issawi nella lettera al Guardian. “La mia salute è peggiorata progressivamente, ma continuerò il mio sciopero della fame fino alla vittoria o al martirio. Questa è l’ultima pietra che mi rimane da lanciare ai tiranni contro la loro occupazione razzista che umilia il nostro popolò, ha detto. Somalia: annullata condanna donna accusata di essersi inventata stupro Adnkronos, 4 marzo 2013 La corte d’appello di Mogadiscio ha ribaltato la sentenza di condanna della donna che era stata incarcerata con l’accusa di essersi inventata di avere subito uno stupro da parte di un gruppo di soldati. Inoltre, è stata ridotta a sei mesi la pena detentiva per il giornalista Abdiaziz Abdinur Ibrahim, condannato, al pari della donna, a un anno di carcere. Il caso, esploso a febbraio, era stato duramente condannato da Human Rights Watch.