Giustizia: il sovraffollamento delle nostre carceri, che non ha uguali nell’intera Europa di Marco Imarisio Corriere della Sera, 30 marzo 2013 La situazione oscena delle carceri è diventata ormai uno stereotipo tutto nostro. Come la pizza e il mandolino, o la dolce vita che purtroppo è finita da un pezzo. Il sovraffollamento degli istituti di pena italiani, con il degrado e i lutti che ne conseguono, viene ormai vissuto non come una indegna anomalia, ma come un tratto minore dell’identità nazionale. Nel migliore dei casi, un problema impossibile da risolvere con il quale si è obbligati a convivere. L’ultima ricerca della Fondazione dell’Istituto Carlo Cattaneo ha il merito di elencare numeri freschi (sia quelli italiani sia quelli europei risalgono al primo bimestre 2013) e il proposito dichiarato di scuoterci da questa sensazione di ineluttabilità, da questo continuo allargare le braccia quando si parla di carceri. Inutile girarci intorno, i paragoni con il resto del continente sono impietosi. La stragrande maggioranza dei nostri istituti - oltre l’80 per cento - ha più detenuti che posti regolamentari, e sono molti quelli che contano la bellezza di tre detenuti per ogni singolo posto disponibile in base alla capienza consentita. Uno sull’altro. Da Nord a Sud, senza eccezioni, come dimostra la classifica delle criticità, capeggiata da Lamezia Terme, Brescia, Busto Arsizio, Varese e Piazza Armerina. Ma forse, e ci si vergogna quasi a scriverlo, non è neppure questo il dato più sconfortante. Nel 2006, dopo l’indulto varato dal secondo governo Prodi, l’Italia passò dalla prima all’ultima posizione per livello di sovraffollamento carcerario. In un Paese normale ci sarebbe voluto poco per mantenersi a livelli medi di decenza, o meglio di umanità. Invece già nel 2009 tornammo a primeggiare tra i peggiori. E non si trattava certo di una mera questione di delinquenza, come sostengono alcuni. Dall’inizio del nuovo secolo Paesi come Francia, Spagna e Inghilterra hanno tassi di detenzione superiori a quelli italiani ma nessun problema di sovraffollamento. Con le sue tabelle e i suoi dati, la ricerca dell’Istituto Cattaneo ci ricorda come il dramma delle carceri sia davvero una delle nostre vergogne peggiori, specchio di una incuria e di un cinismo sempre più dilaganti. Giustizia: cronaca della visita di Papa Francesco ai giovani detenuti di Casal del Marmo di Roberto Zichittella Famiglia Cristiana, 30 marzo 2013 Il 28 marzo, Giovedì Santo, con la visita, la Messa e la lavanda dei piedi nell’Istituto penale per i minori di Casal del Marmo, papa Francesco ha seguito non solo le orme dei suoi predecessori (Giovanni Paolo II vi andò l’Epifania del 1980 e Benedetto XVI nella Quaresima del 2007), ma anche quelle di altri illustri prelati. Un legame fortissimo con i giovani reclusi del carcere minorile romano lo ebbe, infatti, il cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato Vaticano dal 1979 al 1990. Pare che l’attenzione di Casaroli verso i giovani detenuti sia maturato quando era un giovane prete a Roma. Passando spesso davanti al grande complesso del San Michele (l’edificio sul Lungotevere che per molti anni fu il carcere minorile di Roma), Casaroli osservava i ragazzi del carcere mentre si divertivano a prendere in giro i passanti. Così si chiese: che cosa posso fare per questi giovani? Rispose alla domanda dedicando il suo tempo ai giovani reclusi, peri quali fu sempre “padre Agostino”. L’Istituto penale minorile di Casal del Marmo si trova nella periferia nordoccidentale della città, nella zona di Ottavia. Il carcere è strutturato in un complesso architettonico molto ampio, di circa 12 mila metri quadrati. I detenuti maschi sono alloggiati in due palazzine di 24 posti ciascuna; una terza palazzina ospita la sezione femminile, composta da altri 24 posti. È molto elevata la percentuale di detenuti extracomunitari, spesso di religione musulmana, perciò nella struttura si ricorre ai mediatori culturali. La difficile situazione che a volte si vive all’interno del carcere di Casal del Marmo è testimoniata da alcuni recenti fatti di cronaca: ad esempio, lo scorso 29 gennaio due giovani romeni, entrambi maggiorenni, sono evasi dopo aver colpito un volontario in testa con un martello, ma sono stati bloccati poco dopo dalla polizia penitenziaria. Nell’istituto sono organizzate attività scolastiche e, per gli analfabeti, prescolastiche. Sono previste anche attività di formazione lavoro, promosse dalla Caritas diocesana, con laboratori di falegnameria, tappezzeria e pizzeria. Per le ragazze, invece, è in funzione un laboratorio di sartoria. Lo scorso ottobre, proprio a Casal del Marmo, i ministri della Giustizia, Paola Severino, e dell’Istruzione, università e ricerca, Francesco Profumo, hanno sottoscritto un programma speciale per assicurare l’istruzione e la formazione all’interno degli istituti penitenziari, quale elemento fondamentale del trattamento dei condannati e internati. Il protocollo punta a promuovere e sostenere lo sviluppo di un sistema integrato di istruzione e formazione professionale, favorendo l’acquisizione e il recupero di abilità e competenze individuali dei giovani reclusi. È anche previsto l’aggiornamento di insegnanti ed educatori che prestano servizio negli istituti penitenziari. L’intesa, che avrà la durata di tre anni, sarà realizzata in collaborazione con le Regioni e gli enti locali e il coinvolgimento di enti, fondazioni e associazioni di volontariato. Donne e musulmani alla lavanda dei piedi in carcere, di Annachiara Valle Due dei dodici erano donne. Un paio, musulmani. Per la prima volta in assoluto la Messa in Coena Domini del Giovedì Santo celebrata dal Papa, con la lavanda dei piedi in ricordo del gesto di Gesù, ha visto protagoniste anche due ragazze e persone di altre religioni. Una italiana e una romena si sono sedute in mezzo agli altri dieci. Ai ragazzi di Casal del Marmo il Papa parla con parole semplici. Li esorta ad “aiutarci l’un l’altro come insegna Gesù” e spiega il gesto del lavare i piedi come servizio e aiuto reciproco: “È questo che io faccio e lo faccio di cuore perché è mio dovere di sacerdote, ma è un dovere che amo perché ce lo insegna il Signore. Anche voi aiutateci sempre l’uno l’altro e così aiutandoci ci faremo del bene”. E poi li invita, durante la lavanda a pensare “sono disposta, sono disposto a servire l’altro, ad aiutare l’altro? Solo questo, pensiamo solo a questo”. Poco più di tre minuti di omelia per far sentire ai ragazzi il calore del pastore, del Papa che lava loro i piedi: “Un segno”, spiega Francesco, “commovente, un segno che è una carezza di Gesù perché Gesù è venuto per questo, per servirci per aiutarci”. I ragazzi pregano per Papa Francesco, che concelebra anche con il cardinale Agostino Vallini, con monsignor Becciu e con padre Gaetano Greco, perché il Signore lo “custodisca”, con parola a lui cara. E accompagnano la Messa con la chitarra e le loro voci. Al termine della Messa il Papa si sposta in palestra per parlare più liberamente con loro. All’ingresso un lungo applauso e poi il saluto del ministro della giustizia Paola Severino. “delle cose che lei ha detto da Papa molte mi hanno colpito, ma una in particolare: custodire. Una custodia fatta con il cuore. “Un tempo gli agenti della polizia penitenziaria si chiamavano agenti di custodia. Io riproporrei di chiamarli ancora così perché nel termine custodire c’è questo amore. Ed è quello di cui questi ragazzi hanno bisogno per ritornare nella società guariti come possono fare”. E poi rivolta ai ragazzi il ministro insiste: “Ce la potete fare. Oggi voi avete avuto un grande aiuto e di questo siamo molto grati”. Il Papa apprezza e ringrazia. Poche parole ancora per tornare a incoraggiare: “Sono felice di stare con voi, avanti”. E dice anche a loro come aveva fatto con i giovani presenti domenica scorsa in piazza San Pietro: “Non lasciatevi rubare la speranza, sempre con la speranza, avanti!”. Un ragazzo chiede il perché della visita e il Papa risponde: “Ho sentito così, i gesti del cuore non hanno spiegazioni”. “Un atto meraviglioso di servizio”, ha spiegato ai giornalisti, assiepati fuori, padre Lombardi raccontando che il Papa era inginocchiato con entrambe le ginocchia in un gesto di servizio straordinario”. In tutto erano presenti 120 persone compreso il personale del carcere e i volontari. Giustizia: il Cappellano di Casal del Marmo; un incontro semplice, nello stile di Francesco Famiglia Cristiana, 30 gennaio 2013 “Un annuncio che ci ha colto di sorpresa e che ci ha subito emozionati”. Don Gaetano Greco, cappellano del carcere minorile di Casal del Marmo, racconta che i ragazzi, “48 in tutto fra maschi e femmine, tra cui anche musulmani e ortodossi, hanno accolto con gioia e stupore l’annuncio della visita del Papa. Siamo rimasti spiazzati, ma poi ci siamo subito messi a lavorare per preparare l’incontro”. Non è la prima volta che un Papa viene a visitare il carcere minorile... “No, io sono qui dal 1981. L’anno prima era venuto Giovanni Paolo II. Poi, nel 2007, venne Benedetto XVI. C’era stata però una preparazione di mesi. Anche se, forse, i pochi giorni di preavviso ci sono serviti per metterci nello spirito di papa Francesco: non c’è stato il tempo per preparare grandi cose e quindi è tutto all’insegna della semplicità, privilegiando il rapporto personale e le relazioni del vescovo di Roma con i suoi ragazzi”. Quali sono stati i frutti della visita di Benedetto XVI? “Innanzitutto quella visita fu la rivelazione di un aspetto sconosciuto di papa Ratzinger, perché il grande teologo, la persona che tutti pensavamo austera e quasi fredda, coni ragazzi fu di una semplicità unica, fu un vero padre, molto accogliente. Quell’incontro fu il richiamo alla fede e a valori fortissimi che, in certe circostanze, alcuni avevano messo da parte. Questi valori sono riemersi fortemente e oggi molti di loro, anche grazie alla riflessione suscitata da quell’incontro, sono fuori dai circuiti del disagio e delle difficoltà”. Cosa vi aspettate che accada dopo la visita di Francesco? “Che la società faccia marcia indietro rispetto alla tendenza attuale. Si pensa che punendo e rinchiudendo si risolvano i problemi. Invece su questi ragazzi, che sono l’anello più fragile della società, bisogna investire in stimoli nuovi. Questo paga per il recupero e spero che, con la visita di papa Francesco, arrivi alla società il messaggio che questi ragazzi hanno bisogno di essere accompagnati e guidati verso il giusto, verso il bello della vita”. Giustizia: suicidi in carcere, strage silenziosa…. realtà lontana anni luce dalla Costituzione di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 30 marzo 2013 Domenico Antonio Pagano, 46 anni, si è impiccato il 17 marzo nella casa di reclusione di Opera (Milano). Da inizio mese, è il sesto suicidio nelle carceri italiane e altri 3 detenuti sono deceduti per cause in corso di accertamento. Il 4 febbraio, aveva fatto discutere il caso di Natale Coniglio, operaio 42enne originario di Stilo (Rc), impiccatosi nella sua cella di Noto (Sr). Era stato condannato per furto e ricettazione e la sua famiglia aveva più volte fatto presente agli organi giudiziari la fragilità psicologica di Natale, chiedendo la detenzione domiciliare in una clinica specializzata per scontare il resto della pena. Il rigetto dell’istanza e il trasferimento dal carcere di Locri a quello di Noto sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Nello scorso anno, sono stati i mesi estivi quelli più drammatici. Un quarantenne italiano, che soffriva di disturbi psichici, si è suicidato il 30 agosto, impiccandosi con la cintura del suo compagno di cella, nel carcere di Udine. Il 5 agosto, invece, Valentino Di Nunzio, 29 anni, è morto, dopo sei mesi di agonia, per essersi buttato “di testa” dal letto a castello della sua cella. È stato il quarto detenuto morto suicida nel carcere di Teramo in otto mesi. Il 1 agosto, nella casa circondariale di Alba, un cinquantenne albanese si è ucciso con una rudimentale corda ottenuta annodando le lenzuola. “Io là dentro non ci torno”, ha detto anche Emanuele Grisanti, padre di un bambino di 4 anni, recluso a Roma, prima di impiccarsi ad un albero nel cortile dell’ospedale in cui doveva essere operato di calcoli. In tutto, secondo l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, nel 2012 sono stati 60 i detenuti che si sono tolti la vita e 154 i morti dietro le sbarre, mentre per il 2013 siamo già a 44 “morti di carcere”, di cui 14 per suicidio Nell’Italia delle celle, si muore da Nord a Sud, senza differenze di età e di reati commessi. Ma anche senza distinzione di ruoli: 9 agenti di polizia penitenziaria si sono uccisi lo scorso anno. Numeri che parlano di un forte malessere “al di là del muro”, dove vivono 100mila persone, tra carcerati e carcerieri. Un mondo in cui dovrebbero farsi strada la rieducazione, la legalità, il rispetto della dignità, per restituire alla società persone libere e responsabili. Per produrre, in definitiva, più sicurezza. Questo è il senso della pena detentiva, il significato imposto dalla Costituzione e dalle successive scelte riformatrici. Eppure, la realtà è lontana anni luce. Il Ministro Severino ha tempo fa usato l’espressione “gironi infernali”, mentre Lucia Castellano, ex direttrice del carcere modello di Bollate, ha parlato di “cimitero dei vivi”. Sicuramente, ed è un paradosso, “fuorilegge”. Un anno fa, la Corte Europea dei Diritti umani ha condannato l’Italia per aver detenuto persone in meno di tre metri quadri. Tortura e trattamento inumano e degradante secondo l’articolo 3 della Convenzione Europea. Dal 1990 ad oggi, infatti, la popolazione carceraria è più che raddoppiata, passando da 25mila a oltre 66mila persone. Il 36% è detenuto per violazione della legge Fini-Giovanardi sulle droghe. Ma nelle 206 carceri italiane non c’è abbastanza spazio: ci sono 145 persone ogni 100 letti disponibili, 21mila detenuti in più. Siamo il Paese più sovraffollato d’Europa. La situazione è drammatica da Nord a Sud: alla Puglia, con il 188,8%, spetta la maglia nera del sovraffollamento, seguita dalla Lombardia e dalla Liguria. Nel mese di agosto, l’associazione Antigone, che dal 1991 tutela i diritti dei detenuti, ha lanciato l’iniziativa “in carcere nella calda estate italiana”: i volontari sono andati a monitorare la condizione di vita interna, gli spazi a disposizione, lo stato delle strutture, e hanno diffuso un report dopo la visita. Una delle situazioni più critiche è a Messina; qui, con un sovraffollamento del 200%, alcuni detenuti vivono in uno spazio inferiore ai 2 metri quadri a testa, “per stare in piedi - rilevano da Antigone - bisogna fare i turni”. Nella sezione femminile, dove vive anche una bambina di due anni e mezzo, “le celle e i corridoi presentano crepe sui muri, intonaco scrostato, gelosie di vetro alle finestre, muffa e umidità nei bagni. Le docce sono in comune e l’acqua calda nelle celle non è disponibile: le detenute lamentano di doversi lavare con le bottiglie”. Giustizia: 7 detenuti su 10 sono malati, tra tossicodipendenze, patologie psichiche e fisiche di Alessandro Guarasci Famiglia Cristiana, 30 marzo 2013 Da quando nel 2008 la sanità nelle carceri è stata demandata alle Asl non ci sono più dati certi. Ma le associazioni del settore, come Antigone e il Forum per la Sanità Penitenziaria, calcolano che nei penitenziari circa il 70% dei detenuti sia malato. Le patologie più comuni sono le tossicodipendenze (almeno 30%); i disturbi psichici con oltre il 16%, seguiti dalle malattie dell`apparato digerente e dalle patologie infettive e parassitarie. E questa è una media. Basta dire che a La Spezia ha problemi di droga circa il 50% dei reclusi. Almeno un terzo della popolazione carceraria ha poi commesso atti autolesivi e circa il 15% ha tentato il suicidio. Quando un detenuto si ammala dovrebbe essere trasferito nel reparto penitenziario dell’ospedale più vicino, ma non di rado le diagnosi sono tardive. A Padova una dottoressa è sotto inchiesta perché avrebbe scambiato un infarto per un dolore allo stomaco. Insomma, le carceri italiane potrebbero essere una vera bomba sanitaria, e il controllo delle malattie non è sempre semplice. Dei 93 detenuti morti nel 2012 per 31 ancora non si conoscono le cause. E a rischio non sono solo i detenuti ma anche gli operatori che lavorano nelle carceri, a cominciare dagli agenti e dai volontari, che possono contrarre le più svariate malattie. “I pericoli sono davvero reali. Quando un detenuto entra in carcere viene sottoposto solo alla visita psicologica, ma non gli si fanno le analisi - dice Donato Capece, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Sappe - Per esperienza dico che chi viene dall’Africa non di rado è portatore di malattie infettive come la tbc”. L’igiene in questi frangenti è fondamentale e questa è particolarmente carente in strutture vetuste come San Vittore a Milano, Buoncammino a Cagliari, Regina Coeli a Roma o Poggioreale a Napoli. Per il senatore Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per la sanità penitenziaria uno dei problemi principali è l’alimentazione di chi è malato che “dovrebbe essere calibrata in base alla malattia e invece questo non avviene. Il vitto di un detenuto costa 3,8 euro, una cifra risibile se si pensa che i comuni spendono per la stessa voce 4 euro per i cani ospitati nei canili. Qua e là, si sta comunque cercando di invertire questa tendenza, costruendo, come avviene in questi giorni a Regina Coeli, una cucina specifica”. Rimane il problema dei sei Opg presenti in Italia, gli ospedali psichiatrico-giudiziari, la cui chiusura è stata rimandata di un anno, al 1° aprile 2014. Una volta aboliti dovrebbero essere realizzate case famiglie per curare chi non può andare in carcere. I fondi sono stati stanziati dal ministero della Giustizia, ora si attende che partano i progetti. Giustizia: Cappellano di Rebibbia; le carceri tutto fanno, tranne ridare dignità e speranza di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 30 marzo 2013 La visita di papa Francesco al carcere minorile di Casal del Marmo riporta l’attenzione sul tema degli istituti di pena. E se quelli del circuito minorile, grazie anche ai pochi numeri, riescono a far fronte alla situazione prevedendo percorsi di recupero e reinserimento, si fa, invece, sempre più disagevole la situazione per gli adulti. Sovraffollamento, mancanza di risorse, strutture obsolete aggiungono una oggettiva “pena accessoria” ai detenuti. In tutto 65 mila, circa 23 mila in più della capienza degli istituti di pena, i detenuti devono spesso affrontare situazioni di vita che, è la denuncia del cappellano di Rebibbia don Sandro Spriano, “tutto fanno tranne che ridare dignità e speranze alle persone”. Non è un caso se, negli ultimi dieci anni, nelle carceri italiane si sono registrati oltre 700 suicidi. Nella prima decade di aprile, partendo dall’istituto di Carinola, in Campania, sarà avviato il progetto “Circuiti regionali” pensato dal Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap). L’idea è quella di sradicare il meno possibile i detenuti dal loro territorio consentendo a chi ha famiglia o parenti di facilitare le comunicazioni e gli incontri e, nel contempo, di “aprire” un po’ gli istituti in modo da favorire il contatto con l’esterno in vista di un migliore reinserimento. L’iniziativa del Dap, che era stata avviata in via sperimentale a Bollate, Civitavecchia, Torino e Porto Azzurro “hanno dato”, spiega il direttore del Dap, Tamburino, “risultati interessanti. Rendere meno ingabbiata la vita dei reclusi ha un effetto positivo”. Quanto serva avviare progetti integrati con il territorio, che non isolino i detenuti, lo sanno molto bene anche gli istituti per minori. Quello di Casal del Marmo, in particolare, che ospita 46 ragazzi (di cui 11 ragazze) si avvale del sostegno di Borgo Amigò, un’associazione realizzata dal cappellano padre Gaetano Greco. Il Borgo fa da ponte tra l’azione all’interno del carcere minorile e l’accompagnamento dei ragazzi fuori dalle sbarre. Molti di loro sono stranieri, in particolare rumeni e magrebini. Le religioni più presenti sono quella musulmana e ortodossa. In realtà, spiega ancora padre Gaetano, i minori stranieri lo sono solo all’anagrafe essendo nati e vissuti nel nostro Paese”. Ma la mancanza della cittadinanza italiana e il vivere la cosiddetta “doppia appartenenza” culturale - è l’esperienza degli educatori - acuisce le problematiche tipicamente adolescenziali legate alla costruzione dell’identità ed è un ulteriore ostacolo all’uscita dai percorsi delinquenziali. Giustizia: Radicali; ragioni e obiettivi del “Satyagraha” per ripristino legalità nelle carceri Agenparl, 30 marzo 2013 Si è svolta oggi alla Camera dei Deputati una conferenza stampa dei Radicali, con Marco Pannella, Marco Beltrandi, Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Michela De Lucia, Filomena Gallo, Maria Antonietta Farina Coscioni, Maurizio Turco, ed Elisabetta Zamparutti, per presentare ragioni e obiettivi del loro “Satyagraha” (letteralmente “forza dell’amore” o “fermezza nella verità”) per il “salvataggio e la riaffermazione di Stato di Diritto e di Diritti Umani, in una parola, Democrazia in Italia”. Il Satyagraha, che è iniziato in appoggio e rafforzamento dei 5 giorni di sciopero della fame nelle carceri, sciopero che si conclude alla mezzanotte di oggi e che ha visto l’adesione di migliaia di detenuti e di centinaia di cittadini fuori, proseguirà a opera dei dirigenti Radicali fino al raggiungimento dei suoi obiettivi. In particolare, l’obiettivo è “interrompere la flagranza di reato di uno Stato come quello italiano condannato duemila volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’irragionevole durata dei processi, e perché sia immediatamente recepito l’ultimatum della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che l’8 gennaio scorso ha imposto all’Italia, come obbligo violato ormai da decenni, di rimuovere, entro un anno, le cause strutturali del sovraffollamento e di trattamenti disumani e degradanti nelle carceri”. Tra gli obiettivi figura anche quello di dare immediata esecuzione all’Ordine del 2 agosto scorso con il quale l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha imposto alla Rai di “assicurare la trattazione delle iniziative intraprese dai Radicali e dal loro leader Marco Pannella sul sovraffollamento delle carceri in programmi di approfondimento che, per congrua durata e orario di programmazione, risultano maggiormente idonei a concorrere adeguatamente alla formazione di un’opinione pubblica consapevole su temi di attualità di rilevante interesse politico e sociale, entro il termine di quattro mesi a decorrere dal mese di settembre 2012”. “Dopo sette mesi, tale Ordine è ancora lettera morta”, hanno denunciato i Radicali. Pannella: l’Italia è in una situazione criminale È una “situazione criminale” quella nella quale si trova il sistema carcerario italiano. Lo ha ricordato Marco Pannella nel corso di una conferenza stampa alla Camera. Il leader Radicale ha ricordato la visita al carcere minorile di Casal del Marmo di ieri, in occasione della visita del Papa e, parlando a margine dell’incontro, ha spiegato come i Radicali “da laici, si trovano ormai a dover fare conto più sul Vaticano che sui poteri dello Stato”. Un paradosso che ha portato Marco Pannella a lanciare un nuovo ‘Satyagrahà, uno sciopero della fame che ha il suo culmine oggi. All’iniziativa, ha spiegato Panenlla, partecipano centinaia di cittadini in tutta Italia e i detenuti di 19 carceri. Viva il Grande Satyagraha, di Paolo Niccolò Giubelli (Segretario Radicali Ferrara) Chiediamo a tutti gli elettori ferraresi di Amnistia, Giustizia e Libertà di aderire, se possono, al Grande Satyagraha per il rispetto dei diritti Umani che lo Stato Italiano sta apertamente violando, a cominciare dalle condizioni dei detenuti nelle carceri e dall’irragionevole durata dei processi. Molti esponenti radicali, a cominciare da Marco Pannella, stanno portando avanti un digiuno di 5 giorni per arrivare al cuore dello Stato, e chiedere che venga rispettato l’ultimatum della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che l’8 gennaio scorso ha imposto all’Italia di rimuovere le condizioni che causano il sovraffollamento strutturale degli istituti penitenziari e i trattamenti disumani e degradanti cui sono sottoposti i detenuti. Le adesioni sono già centinaia in tutta Italia, e per ora, di Radicali Ferrara vi stanno aderendo: Luigi Confessore, Felice Bruno, Daniele Bregola e Federico Mongardi. Giustizia: Radicali; iniziative in tutta Italia, grande Satyagraha per la legalità nelle carceri Notizie Radicali, 30 marzo 2013 Il Comitato Nazionale di Radicali italiani nell’ultima mozione generale aveva lanciato un appello ai propri iscritti e simpatizzanti affinché venerdì 29 marzo, al culmine dei 5 giorni di digiuno e nonviolenza lanciati da Marco Pannella, fossero organizzati degli eventi e delle iniziative su tutto il territorio nazionale. Centinaia di cittadini hanno aderito al Grande Satyagraha e molte associazioni radicali hanno voluto rispondere all’appello organizzando dei sit-in davanti alle carceri. Tutti idealmente uniti al messaggio collettivo contro le aberrazioni del sistema giudiziario italiano e per la riconquista della legalità e di uno stato di diritto. Roma. Sit in giovedì 28 marzo presso il carcere minorile di Casal del Marmo in occasione della visita pastorale di Papa Francesco, gli ex parlamentari Radicali assieme a Marco Pannella ed altri esponenti e militanti del Partito Radicale, saranno presenti a partire dalle 17:00, per esprimere la eccezionale comunione d’intenti con i vescovi di Roma in tema di carcere. Milano. L’Associazione Enzo Tortora - Radicali Milano terrà un sit-in il 29 marzo davanti al carcere di San Vittore, con ritrovo in Piazzale Aquileia a partire dalle 14:30 e sino alle 16:30. Vi parteciperanno alcuni parenti di detenuti e iscritti alla Tortora aderenti allo sciopero della fame. Saranno letti pubblicamente alcuni punti del programma della Lista AGL e le parole di Marco Pannella. Torino. L’Associazione radicale Adelaide Aglietta venerdì 29 marzo ha organizzato un sit-in davanti al carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino, in Via Pianezza n. 300 (raggiungibile dal centro col bus 29). Ora di inizio: ore 15:00. Sarà presente anche Gerardo Romano (vice segretario generale Osapp) con una delegazione di agenti di polizia penitenziaria. Pordenone. L’Associazione Radicali Friulani venerdì 29 marzo a partire dalle 16:00 fino alle 17:30 manifesterà presso il carcere di Pordenone in occasione del Satyagraha lanciato da Marco Pannella per interrompere la flagranza di reato di nostro Stato. Salerno. Venerdì 29 marzo i militanti dell’Associazione radicale “Maurizio Provenza” hanno organizzato un sit-in davanti alla Casa Circondariale di Fuorni, via del Tonnazzo n. 1, a partire dalle ore 10:30 fino alle 12:30. Saranno presenti il segretario dell’Associazione Donato Salzano, il presidente Massimiliano Franco, Fabiana De Carluccio dell’associazione “Detenuto ignoto” e il diacono Andrea Petrone della chiesa evangelica. Teramo. I radicali abruzzesi, alcuni dei quali già in sciopero della fame, saranno presenti venerdì 29 marzo alle ore 15.00 dinanzi al carcere di Teramo per manifestare con un walk around il sostegno all’iniziativa di Pannella. Bari. Venerdì 29 marzo l’Associazione Radicali Bari ha organizzato un sit-in davanti al carcere di Bari a partire dalle ore 10:00, in concomitanza con l’orario di visita dei parenti dei detenuti, con i quali intende compiere una battitura per esprimere la comunione d’intenti con coloro che all’interno del carcere hanno voluto partecipare al Grande Satyagraha proclamato da Marco Pannella. Saranno presenti anche Aldo Biagini Majani e Michele Macelletti, appartenenti dell’associazione Radicali Bari, e Giuseppe Simone in sciopero della fame fino alla mezzanotte di venerdì. Palermo. Venerdì 29 marzo nel capoluogo siciliano i militanti radicali saranno impegnati in un sit-in davanti al carcere dell’Ucciardone che avrà inizio alle ore 15:00. A Partire dalle ore 15:00 i militanti radicali del veneto si ritroveranno contemporaneamente in tre carceri della regione per sostenere le ragioni del grande Satyagraha lanciato da Marco Pannella. Padova. Sit-in il 29 marzo presso il carcere Due Palazzi di Padova. Pistoia. 29 marzo alle 12:00 alcuni militanti Radicali e Verdi organizzeranno un sit-in davanti alla casa circondariale di Pistoia, in Via dei Macelli 13, per l’amnistia e la riforma della giustizia. Verona. Sit-in il 29 marzo presso il carcere Montorio di Verona. Vicenza. Sit-in il 29 marzo presso il carcere Pio X di Vicenza. Giustizia: caso Aldrovandi; Ferrara si ferma per abbracciare i genitori di Federico Adnkronos, 30 marzo 2013 Migliaia in piazza Savonarola, al Castello striscione “stop al Coisp”. La mamma Patrizia: “Chiedo alle forze di polizia pulite la forza di liberarsi dalle mele marce”. Anonymous rende inaccessibile il sito del sindacato di Polizia. Gli agenti condannati rientreranno in servizio nel 2014. Questo pomeriggio Ferrara si è fermata ed è scesa in piazza Savonarola, straripante di persone, per abbracciare i genitori di Federico Aldrovandi, il ragazzo morto nel 2005 durante un controllo di Polizia effettuato da 4 agenti condannati in via definitiva. Una manifestazione con migliaia di persone che si sono volute stringere attorno a Lino Aldrovandi e a Patrizia Moretti e rispondere così, con la solidarietà senza bandiere di sorta, al sit-in del Coisp messo in scena il 27 marzo per esprimere sostegno ai 4 agenti arrestati. In piazza, mamma Patrizia è scesa con una grande foto di Federico, ma questa volta era l’immagine di un bel ragazzo bruno, nel pieno dei suoi 18 anni, non quella del cadavere del figlio con la testa in una pozza di sangue che mercoledì mattina la donna ha deciso di mostrare al sit-in del sindacato di Polizia che manifestava proprio sotto le finestre del suo ufficio, in Comune. Sulla cancellata del Castello, simbolo della città, l’associazione Amici di Federico Aldrovandi ha appeso uno striscione blu con la scritta “stop al Coisp”. In piazza con mamma Aldrovandi anche Lucia Uva, sorella di Giuseppe Uva che 4 anni fa morì in ospedale a Varese dopo essere stato fermato dai Carabinieri. Lucia Uva è stata querelata per diffamazione dei carabinieri, dopo un’intervista televisiva. Un fatto che Patrizia Aldrovandi ha commentato oggi con amarezza. “Questo provvedimento contro la famiglia della vittima era urgente - ha scritto la madre di Federico su Facebook - invece l’indagine disposta dal giudice su quanto successo in quella caserma a Giuseppe 4 anni fa rimane chiusa nella scrivania del Pm e fra poco sarà troppo tardi e cadrà in prescrizione”. In piazza Savonarola tantissimi ferraresi di ogni età, ma anche persone venute da fuori, associazioni e forze politiche tra cui il Pd e la Cgil di Ferrara e dell’Emilia Romagna. “Sono meravigliata, questa solidarietà è grande, enorme, ma non è per me, è per Federico, per chi gli vuole bene e per questa città” ha commentato Patrizia Moretti. “Chiedo alle forze di polizia pulite la forza di liberarsi dalle mele marce” ha continuato la mamma di Federico, rinnovando la richiesta di espellere dal corpo i poliziotti condannati. “Quei signori tra poco torneranno liberi, però quella divisa va loro tolta” le ha fatto eco il padre di Federico, Lino, parlando alla folla da un piccolo palco allestito in piazza. “Il ministro Cancellieri ha detto che non rappresentano la polizia e mi auguro che lo dimostri - ha aggiunto l’uomo che è un agente della Polizia Municipale - io quella divisa la amo e ai poliziotti tendo la mano, ma non agli assassini che disonorano quella divisa”. Patrizia Moretti è poi tornata sul sit-in del Coisp rimarcando come quell’iniziativa sia stata “un modo di approfittare di questo dolore, è il culmine della disumanità”. Però, ha aggiunto, “in questo modo hanno anche reso palese quanto sia difficile per le famiglie delle vittime lottare quando dall’altra parte ci sono le forze dell’ordine”. Gli agenti condannati rientreranno in servizio nel 2014. La Commissione disciplinare del Dipartimento di Sicurezza avrebbe infatti deciso, sottolineano fonti sindacali di Polizia, una sospensione dal servizio di sei mesi. La sospensione dal servizio scatterà a giugno e si concluderà alla fine dell’anno. Fino a giugno i poliziotti sconteranno i sei mesi di reclusione restanti dalla condanna a 3 anni e sei mesi (di cui tre anni compresi nell’indulto) per la morte di Federico. Franco Maccari, segretario Generale del sindacato di Polizia Coisp, oggi è tornato sulle polemiche di questi giorni auspicando “che tutti, principalmente la politica, colgano l’occasione per affrontare le questioni che fin dall’inizio abbiamo voluto mettere in evidenza”. “Delle persone sono state mandate in carcere a scontare sei mesi di pena mentre la legge prevede che chi abbia da espiare condanne inferiori ai 12 mesi non deve starci. La legge si applica diversamente ai poliziotti? Perché?” ha chiesto Maccari. In una lettera al ministro dell’Interno, Maccari ha poi sottolineato: “Credere che l’iniziativa del Coisp sia stata rivolta contro la signora Patrizia Moretti è assurdo, come dimostrano tutte le dichiarazioni da sempre rilasciate da questo sindacato di Polizia e non solo, ma come evidenzia anche una banale logica: la mamma di Federico non ha alcun ruolo nell’applicazione delle misure detentive a carico dei quattro poliziotti condannati”. Intanto un attacco di Anonymous ha reso inaccessibile il sito del Coisp. È stato il blog di Anonymous Italia a rivendicare l’azione #opcoisp Tango Down con una scritta sovrapposta all’immagine di Guy Fawkes, il ribelle mascherato reso celebre dal film V per Vendetta raffigurato mentre abbraccia la madre di Federico. Agenti condannati rientreranno in servizio nel 2014 Rientreranno in servizio nel 2014 i quattro agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi. La Commissione disciplinare del Dipartimento di Sicurezza avrebbe infatti deciso, sottolineano fonti sindacali di Polizia, una sospensione dal servizio di sei mesi. La sospensione dal servizio scatterà a giugno e si concluderà alla fine dell’anno. Fino a giugno i poliziotti sconteranno i sei mesi di reclusione restanti dalla condanna a 3 anni e sei mesi (di cui tre anni compresi nell’indulto) per la morte di Federico Aldrovandi. Giustizia: caso Uva; chiuse indagini sui Carabinieri, ma l’indagata è la sorella di Giuseppe di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 30 marzo 2013 Luigi Manconi (A Buon Diritto): “Se Lucia è colpevole, allora mi dichiaro corresponsabile” Lucia Uva, sorella di Giuseppe morto a Varese il 14 giugno 2008, è indagata per diffamazione insieme a Mauro Casciari delle “Iene” e Asl direttore di Italia Uno Luca Tiraboschi. In un’intervista rilasciata nel 2011, Lucia ha affermato che nella caserma dei carabinieri dove il fratello Giuseppe ha perso la vita furono compiute violenze ai suoi danni, e anche una violenza sessuale. Lucia è anche indagata per avere scritto il nome dei carabinieri sulla sua pagina Facebook, chiamandoli “assassini”. “Ho ricevuto l’avviso di garanzia - ha detto Lucia. Sono indagata solo perché ho detto la verità. Continuo a chiedere che venga riaperto il caso per fare chiarezza su quello che è successo quella notte”. La procura di Varese ha chiuso ieri l’inchiesta bis per accertare se Giuseppe è stato picchiato prima di morire in un letto dell’ospedale della città lombarda. Il Pm Agostino Abate sostiene che i carabinieri e i poliziotti si sono comportati correttamente e non praticarono alcuna violenza, confermando così l’esito della prima inchiesta. La testimonianza di Alberto Biggioero, l’amico di Giuseppe anche lui fermato quella notte, non è stata considerata attendibile. Ne udì le urla ma non vide la scena del pestaggio, dato che era in un’altra stanza della caserma. La conclusione della procura smentisce tutte le attese della famiglia Uva e di tutti coloro che l’hanno sostenuta: l’avvocato Fabio Anselmo, che difende anche la famiglia Aldrovandi e la famiglia Cucchi, l’associazione “A buon diritto” del senatore Pd Luigi Manconi e “Antigone”. “Il fascicolo relativo a questa vicenda tragica - ha detto Manconi - resta tenacemente e immotivamente chiuso, mentre il pm che ne è titolare denuncia la sorella della vittima. Ma se Lucia è colpevole, io che seguo da anni la vicenda mi dichiaro corresponsabile e correo”. Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, ha scritto sulla sua pagina Facebook: “Questo provvedimento contro la famiglia della vittima era urgente. Invece l’indagine disposta dal giudice su quanto successo in quella caserma a Giuseppe 4 anni fa rimane chiusa nella scrivania del pm e fra poco sarà troppo tardi e cadrà in prescrizione”. Giustizia: Ambrogio Crespi resta in cella, le motivazioni stanno nel “giudicato cautelare” di Dimitri Buffa L’Opinione, 30 marzo 2013 Lo sapevate che esiste anche un “giudicato cautelare”? Ossia un giudizio asseritamente definitivo che stabilisce la custodia cautelare in carcere per l’imputato almeno fino alla scadenza dei termini previsti dal codice di procedura penale? In realtà l’istituto è prettamente giurisprudenziale, ma viene esaltato a fondamento, meramente burocratico, della giustizia penale nelle motivazioni dell’ennesimo incredibile rifiuto di mettere almeno agli arresti domiciliari Ambrogio Crespi. Per il quale è stato richiesto da pochi giorni anche il giudizio immediato per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa legato a un presunto voto di scambio tra politica e ‘ndrangheta a Milano. Il tutto relativamente alle elezioni regionali del 2010 in Lombardia. Reato incentrato sulla figura dell’ex assessore alla casa della giunta Formigoni, Domenico Zambetti. Persona che Ambrogio Crespi non aveva mai conosciuto e incontrato prima. Ma cosa è questo giudicato cautelare? Prendiamo la lettera delle argomentazioni del collegio del riesame depositate lo scorso 26 marzo a Milano: “...Osserva in via preliminare il collegio che, a seguito di rigetto del ricorso per Cassazione proposto dalla difesa, si è formato il c.d . giudicato cautelare in ordine a tutte le questioni dedotte dalla difesa con l’atto di ricorso, questioni che, come risulta dall’ordinanza emessa ex art 309 c.p.p. in data 25.10.2012 e trascritte a pag. 47-48 dell’ordinanza del 25.10.2012 - e riproposte anche in sede di appello 310 c.p.p. in data 28.1.2013 e riportate a pag. 3 - (entrambe ordinanze note alle parti) in larga parte sono state riproposte in questa sede”. Tradotto dal magistratese in italiano la cosa è semplice: qui cari avvocati potete inventarvi ciò che vi pare ma noi abbiamo già anticipato un giudizio in materia di custodia cautelare e non lo cambieremo. Anche se emergono fatti nuovi? Anche se alcuni fatti possono essere interpretati in maniera differente e nuova? Evidentemente sì, visto il prosieguo del ragionamento che farà il collegio e che chiuderà ogni porta ad Ambrogio Crespi, incensurato ma detenuto in attesa di giudizio su accuse veramente risibili e con indizi labile da oltre sei mesi. Insomma non potendo crearsi un giudicato in tempi brevi, in Italia si surroga l’inconveniente con il cosiddetto giudicato cautelare che ha il vantaggio, senza doversi da parte dei giudici stare li a lambiccarsi troppo il cervello, di potere essere usato per comminare un anticipo di pena, a prescindere dal merito del processo. Custodia in carcere, quindi, che nel caso di specie, Ambrogio Crespi, può arrivare sino a un anno, dicasi un anno. Vediamo allora i “ragionamenti”, abbastanza confusi, del fulcro delle motivazioni di rigetto: “quanto alla questione ripresentata nell’odierno appello dalla difesa, incentrata sull’analisi dei flussi di voti raccolti proprio nel quartiere Baggio ( zona 7 delle circoscrizioni in cui è diviso il territorio di Milano) nel quale Zambetti avrebbe conseguito un numero di preferenze inferiori rispetto ad altre, rileva il collegio che tale dato non basta ad inficiare la tesi accusatoria poiché il prospetto non contiene dati di comparazione con le precedenti elezioni; tale dato di comparazione, invece, è contenuto nella relazione del consulente e che consente di rilevare che nel 2005 Zambetti otteneva 309 voti e nel 2010 n. 474; tale dato numerico indica un rilevante incremento, avendo Zambetti aumentato di oltre un terzo il consenso; e del resto la difesa non contesta tale aumento significativo di voti, ma lo giustifica con il fatto che Zambetti, come altri candidati che si sono ripresentati hanno tutti beneficiato di incrementi che la difesa riconduce alla maggior visibilità e al fatto che l’elettorato aveva premiato l’impegno nella precedente amministrazione; quindi si sposta l’attenzione dal dato numerico a quello “ermeneutico” ma ancora una volta tale operazione non spiega e non appare idonea a sconfessare la tesi accusatoria che vede l’interessamento di una organizzazione a favorire un candidato piuttosto che altri dietro il pagamento di somme rilevanti (dato che nessuno ha in concreto contestato)”. Il collegio però, nella propria ansia di ribadire il giudicato cautelare, confonde i voti presi nella zona 7 di Milano che comprende anche Baggio ma non si identifica con quel quartiere, con i voti dati a Zambetti nel 2010 dal quartiere natìo di Ambrogio Crespi, quelli che si suppone sarebbero stati manovrati dalla ‘ndrangheta tramite il suo interessamento. E a Baggio l’incremento di voti per il quale sarebbero stati promessi, ma non dati secondo la stessa accusa, ben 80mila euro, 30mila dei quali destinati allo stesso Crespi, sono alla fine nove. Dai 30 dell’elezione regionale del 2005 ai 39 di quella del 2010. Sai che incremento! Nove voti in più e uno va dalla ‘ndrangheta per ottenerli? Ma anche nella logica distorta del collegio del riesame che confonde Baggio, il contenuto, con la zona 7 di Milano, il contenitore, veramente si crede che qualcuno si andava a compromettere con la ‘ndrangheta per 165 voti in più pagando 80mila euro? E poi, last but not least, fa mica una qualche differenza che Zambetti nel 2005 fosse candidato Udc e nel 2010 con il Pdl rispetto al sia pur minimo incremento di voti? Ma dove la logica non soccorre, anzi fa a cazzotti con la realtà, basta invocare il “giudicato cautelare” e cimentarsi in tortuosi ragionamenti per lasciare qualcuno in carcere e non turbare i sonni dei pm. I quali oramai contestano a Crespi e ne chiedono il giudizio immediato solo il capo dieci dell’imputazione originaria, concorso esterno e voto di scambio, avendo stabilito che per il capo 4, cioè le minacce e i metodi intimidatori tipici di organizzazioni mafiose come la ‘ndrangheta, le prove non sono sufficienti. Insomma un mafioso esterno che usa metodi non mafiosi per ottenere 9 voti a favore di uno che non conosce nemmeno in cambio di soldi che non verranno mai pagati. In Italia si può finire in carcere per questi sillogismi alla Woody Allen (Socrate è un uomo, io sono un uomo, io sono Socrate) e rimanerci per almeno un anno, se il reato è quello previsto dall’articolo 416 bis del codice penale sia pure nella forma attenuata, e inventata giuridicamente dalla Cassazione, del concorso esterno. L’importante è che si formi un “giudicato cautelare”. Lo richiede la feroce burocrazia della pubblica accusa. Perché? Perchè sì! Pavia: troppi detenuti, le celle vengono aperte. In alcune sezioni reclusi liberi di muoversi di Maria Fiore La Provincia Pavese, 30 marzo 2013 Nella cella, un rettangolo di sette metri quadrati, c’è posto per due detenuti. Ma ogni sera lo spazio si restringe. All’interno della stanza viene portato un altro letto, una branda pieghevole, per ospitare il terzo detenuto. A Torre del Gallo, quando le luci si spengono, si dorme così, con i letti affiancati e il respiro del compagno a pochi centimetri. Alle 8 del mattino la branda viene portata fuori e la cella si apre. Liberi tutti. Il progetto “celle aperte”, con i detenuti che possono muoversi per le sezioni durante il giorno e rientrare nelle celle alla sera, è l’unico antidoto al sovraffollamento del carcere di Pavia. L’istituto ha una capienza di 244 posti e una tollerabilità di 442 detenuti. Ma attualmente ospita 485 reclusi. Per il 45 per cento sono stranieri. Sono alcuni dei dati forniti agli avvocati della Camera penale di Pavia, che hanno fatto visita al carcere nell’ambito del progetto nazionale, avviato dall’Unione delle Camere di penali, di un osservatorio sulle condizioni dei detenuti in Italia. La visita degli avvocati. “Lo scopo è monitorare la situazione delle carceri - spiega il presidente della Camera penale di Pavia, l’avvocato Luca Angeleri. I dati raccolti durante le visite degli avvocati saranno poi portati all’attenzione degli organi politici, nel tentativo di trovare una soluzione ai problemi”. Oltre ad Angeleri hanno avuto la possibilità di entrare nel carcere di Pavia anche gli avvocati Roberta Valmachino, che è la referente per le carceri per la Camera penale, l’avvocato Marco Casali, componente del direttivo, Manuela Deorosola, della giunta dell’Unione Camere penali di Torino, e Stefano Sambugaro, di Genova, dell’Osservatorio carceri dell’Unione camere penali. Gli avvocati sono stati accompagnati dal direttore del carcere, Jolanda Vitale, e dal comandante della polizia penitenziaria Angelo Napolitano. Celle piene. “Il primo problema è sicuramente quello del sovraffollamento - racconta Angeleri. Ma va detto che a Pavia si sta cercando di risolvere il problema. Con l’apertura delle celle, che si unisce alle quattro ore d’aria già previste, i detenuti hanno la possibilità di socializzare. Abbiamo parlato con loro, ci hanno detto di trovarsi bene. Ovviamente nelle sezioni protette questo non avviene, ma lì non c’è nemmeno il problema del sovraffollamento”. In queste sezioni si trovano i reclusi per reati sessuali, coloro che hanno collaborato con la giustizia e gli ex appartenenti alle forze dell’ordine. “E poi c’è la sezione di chi si è macchiato di reati di criminalità organizzata - prosegue Angeleri. Da una parte ci sono i calabresi, dall’altra i detenuti provenienti da Sicilia e Campania. Abbiamo visitato anche questa sezione. Le celle ci sono sembrate ben tenute, anche da un punto di vista igienico. La doccia è in spazi comuni, ma ogni cella ha il bagno chiuso”. Per tenersi impegnati. “Ci sono diversi progetti in corso - spiega Angeleri. C’è il panificio, la cucina, il teatro, la palestra. Le attività non mancano. Questo serve anche a migliorare la qualità della vita. Parlando con il medico ci è stato spiegato che in carcere sono aumentati, negli ultimi anni, i casi di pazienti cardiopatici e i diabetici. Non è tutto rose e fiori. Alla fine del 2012 due detenuti hanno tentato di togliersi la vita, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. “Il carcere è una realtà difficile ed è chiaro che l’individuo è messo a dura prova - spiega Angeleri. Parlando con lo psichiatra abbiamo capito, però, che la forbice del disagio è talmente ampia che non sempre siamo di fronte a problemi psichiatrici e comunque i problemi non sempre sono così individuabili e facili da affrontare. Il vero problema è quello della sorveglianza”. Troppi detenuti, pochi agenti. “Il nodo a Pavia riguarda l’organico della polizia penitenziaria - denuncia Angeleri. Pochi uomini non possono controllare tutti i detenuti. E ora che sarà aperto il nuovo padiglione sarà anche più difficile, visto che non è previsto un aumento di agenti. Il progetto “celle aperte” è importante, ma i poliziotti stanno con il fiato sospeso dalla mattina alla sera. Lo scorso anno c’è stata una rivolta di 75 detenuti e in quel momento c’erano solo quattro agenti. Si riuscì a mediare, ma il poliziotto rischia ogni giorno”. Le soluzioni. L’Unione Camere penali propone l’indulto e l’amnistia per rientrare nei parametri imposti dalla Corte europea. “Questo potrebbe risolvere la situazione nell’immediato - spiega Angeleri, ma si deve fare anche di più. Adottare, ad esempio, un uso più moderato della carcerazione preventiva. O rivedere il reato di clandestinità, che ha intasato anche il carcere di Torre del Gallo, e il reato di spaccio di sostanze stupefacenti”. Bolzano: la direttrice chiede aiuto; nel carcere ormai manca tutto, dal sapone alle lenzuola di Riccardo Valletti Alto Adige, 30 marzo 2013 Dietro le sbarre non c’è nulla da fare, e sono pochi i posti di lavoro, tra la mensa e la lavanderia, che permettono di guadagnare qualche soldo. E li si occupa a rotazione, per permettere più o meno a tutti di avere qualcosa. Nelle lunghe giornate i detenuti cercano di sfruttare al meglio il loro tempo di reclusione, e allora ecco che basta offrire loro un corso per vedere la fila di chi chiede di partecipare. È quello che avviene grazie alle associazioni di volontariato e agli insegnanti della Provincia, che prestano servizio a titolo gratuito per lezioni di italiano e tedesco, tengono corsi di informatica di base e altri piccoli temi che aiutano al reinserimento. Lo Stato non risponde alle chiamate: tra spending review e tagli e quant’altro è stato al centro dell’agenda economica degli ultimi mesi, di certo la situazione delle carceri non era nelle priorità. Nonostante il richiamo dell’Europa e delle organizzazioni umanitarie internazionali. E non ha risposto nemmeno quando chiamava il carcere di Bolzano. “L’umanizzazione della pena è il nostro compito principale - affermava la direttrice del carcere di via Dante Maria Rita Nuzzaci davanti al vescovo durante l’incontro per i saluti di Pasqua - però è sempre più difficile realizzare questo dettato costituzionale per la penuria di strumenti”. Dietro le sbarre condividono gli stessi problemi guardie e detenuti: non c’è un euro per nessuno. Alla chiamata hanno però risposto le associazioni di volontariato, le amministrazioni locali e gli enti benefici, che nel corso degli anni sono andati intensificando il loro lavoro di supporto mentre lo Stato si ritirava. E allora l’incontro con il vescovo e i saluti per le festività sono anche l’occasione per parlare dello stato dell’arte in via Dante. “La situazione è penosa soprattutto per chi non ha nessuno fuori”, spiega Karl Fink, anziano volontario della San Vincenzo. Fink è un punto di riferimento per molti detenuti che non hanno nessuno a cui demandare tutte le cose della vita comune che dal carcere non si possono fare: chiama gli avvocati per dare o chiedere informazioni, ritira il denaro dal bancomat per chi ne ha bisogno, avvisa sullo stato di salute amici e parenti lontani, sempre che esistano. “Faccio anche il bibliotecario, e se riusciamo ad ottenere qualche finanziamento, distribuiamo anche qualche soldo perché i detenuti possano comprare il caffè o altre piccole cose che alleviano la detenzione”. In sostanza, manca tutto: biancheria intima, lenzuola, prodotti per le pulizie e nemmeno saponette e dentifricio. “Ho imparato a chiedere aiuto”, chiosa la direttrice. Due o tre volte l’anno s’incarica Bruno Bertoldi, anziano presidente dell’Associazione Volontari Carcere attivo da quarant’anni nel sostegno ai detenuti, a portare provviste e distribuirle. Bertoldi fa da “ufficiale di collegamento” tra il penitenziario e la società civile, raccoglie i fondi per il suo progetto dalla Fondazione Cassa di Risparmio e da altri enti, e li convoglia a soddisfare i bisogni primari. Ma da qualche tempo gli aiuti servono anche al personale in servizio nella struttura, al quale non viene più fornito nemmeno il materiale di cancelleria, “grazie ancora - afferma la direttrice - ora abbiamo una fotocopiatrice”. Ma anche aiuti destinati alla mensa e alle cucine, “abbiamo voluto intensificare il nostro sostegno - spiega il direttore della Fondazione Cassa di Risparmio Andreas Riverbacher - perché abbiamo visto con quanto impegno la direttrice sta affrontando una situazione sostanzialmente ingestibile, e perché dopo tanti anni consideriamo questa attività una costola della nostra vocazione filantropica”. Per tutti, anche da parte dei detenuti, c’è solo una parola: grazie. Pordenone: l’emergenza carcere diventa cronica, da 30 anni in attesa di un nuovo Istituto di Stefano Polzot Messaggero Veneto, 30 marzo 2013 Ieri ennesimo sopralluogo: 82 detenuti e un caso di autolesionismo nell’ultimo anno. I radicali vogliono l’amnistia. A Roma un nuovo governo non c’è e le voci di nuove elezioni si rincorrono; a Trieste le consultazioni sono imminenti e quindi un rinnovato esecutivo entrerà in carica solo a maggio. Nel frattempo in carcere a Pordenone la situazione è sempre dettata dall’emergenza: 82 detenuti, 30 in più della capacità della struttura, molte celle con tante persone che convivono e un clima che non porta a episodi di protesta o suicidi (un solo caso nell’ultimo anno di autolesionismo) solo grazie alla competenza del direttore, Alberto Quagliotto - che si divide tra Pordenone e Trieste perché da 17 anni non vengono indetti nuovi concorsi - e a 46 poliziotti penitenziari. Quando il disagio diventa cronico, appare naturale anche per un consigliere regionale come Piero Colussi, che da tempo si è occupato della vicenda, e un radicale storico come Stefano Santarossa plaudere tutto sommato a un clima sereno all’interno della struttura dopo la visita di ieri pomeriggio in castello. Mentre Papa Francesco compie uno dei suoi primi atti visitando un carcere minorile, Pordenone reitera una vicenda irrisolta da trent’anni, con alcune occasioni perse (negli anni Ottanta e a fine anni Novanta) che sono solo da rimpiangere. Il nuovo penitenziario è al vertice delle priorità nazionali, ma senza finanziamenti, e dei 20 milioni dell’accordo con lo Stato promessi dalla Regione non c’è traccia. Così non resta che la manutenzione ordinaria, in alcuni casi affidata proprio ai detenuti. Allarga le braccia il deputato del Pd, Giorgio Zanin, che ha accolto l’appello dei radicali: appare fin troppo ottimista assicurare l’interessamento nei confronti di un governo di cui non si vede la luce. “L’urgenza di una nuova struttura - ha affermato ieri pomeriggio - è palese ed è per questo necessario sbarazzarci dei campanilismi per ottenere il risultato”. Il problema non è la soluzione ideale, ma quella che può arrivare in “carestia” finanziaria, sia essa quella della ristrutturazione della Dall’Armi a San Vito piuttosto che il nuovo carcere in Comina. Colussi ipotizza anche una eventuale permuta tra un nuovo carcere realizzato dai privati e la cessione dell’area del castello ma tutto ciò rientra nella logica dei desideri. La constatazione è che siamo nuovamente al punto di partenza e questo incoraggia i radicali a chiedere “di discutere seriamente - afferma Santarossa - di un’amnistia per i detenuti. La Regione qualcosa può fare a partire dall’istituzione del garante dei carcerati”. Zanin apre al dialogo, anche se non si sbilancia sull’amnistia: “Sono illuminista e quindi credo nei delitti e nelle pene, ma bisogna raccogliere il messaggio del Pontefice e fare in modo che i governi, a tutti i livelli, intervengano”. Appunto, proprio i governi: lo stallo della politica ha fatto scendere una fitta nebbia sul futuro del castello di piazza della Motta. Potenza: caso Tarricone, intrigo per gli appalti delle mense dentro le carceri italiane di Fabio Amendolara Gazzetta del Mezzogiorno, 30 marzo 2013 “Il vecchio” mostrava incertezze. “Rallentava”. Ma a breve avrebbe “lasciato l’incarico”. Secondo gli investigatori “il vecchio” è un alto dirigente del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E lì, secondo l’accusa, stavano cercando di entrare i fratelli Tarricone. Volevano mettere le mani sulle mense nelle carceri italiane. Con metodi “fuori legge”, secondo gli investigatori della Squadra mobile di Potenza. “Fuori ambito Cee”, secondo Giuseppe Tarricone. Lo spiega ai giudici nel corso del suo interrogatorio. “Per ragioni di segretezza - sostiene Tarricone - non si fanno delle gare come si fanno normalmente”. È quello che ha insospettito la Procura? In alcune informative della polizia di Stato - di cui la Gazzetta è in possesso - vengono ricostruiti i tentativi di espansione economica del gruppo imprenditoriale di Baragiano. Che per partecipare alla gara d’appalto per le mense nelle carceri ha bisogno “delle referenze bancarie”. E allora a “Renato”, dipendente di banca al quale viene promesso l’abbonamento per le partite del Napoli, Vito Tarricone chiede la “riconferma delle certificazioni interne”. Gli investigatori sospettano che Renato possa rendersi disponibile a fornire le certificazioni “utilizzando - si legge in una nota investigativa - documentazione già compilata dai Tarricone”. Per vincere l’appalto, però, secondo la polizia, erano necessari “referenti all’interno del ministero della Giustizia da far valere al momento opportuno”. E allora annotano le telefonate di Giuseppe Tarricone con Giuseppe Magni (persona che ancora non è stata identificata con precisione dagli investigatori) “per alcuni regali che Magni - si legge nel rapporto giudiziario - richiedeva di fare a dirigenti del ministero, alle loro segretarie e a un avvocato della provincia di Lecce”. Livorno: Garante Solimano; raccolta firme per tre proposte di legge a favore dei detenuti di Valeria Cappelletti Il Tirreno, 30 marzo 2013 “C’è un dato che ci dà speranza: il numero dei detenuti in Italia non sta aumentando e negli ultimi mesi del 2012 si è anche registrata una lieve flessione verso il basso”. A dirlo è Marco Solimano, garante delle persone private della libertà personale del Comune di Livorno che, ieri ha presentato la campagna di raccolta firme per tre proposte di legge a favore dei detenuti. La raccolta partirà il 9 aprile in 40 città italiane. A Livorno, il banchetto sarà posizionato in via del Giglio (angolo via Grande), dalle 9.30 alle 12.30 e vede la collaborazione di Arci Solidarietà e Associazione P24. La prima proposta di legge riguarda “L’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Nel 1984 - dice Solimano - le Nazioni Unite definirono il concetto di tortura e invitarono gli stati membri ad adeguare i loro ordinamenti. In Italia invece il crimine di tortura manca, si tratta di una lacuna normativa che non si addice a uno Stato democratico”. La proposta intende punire “con la reclusione da quattro a dieci anni il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che infligge a una persona lesioni o sofferenze, fisiche o mentali, al fine di ottenere da essa o da terza persona informazioni o confessioni. La pena è aumentata se ne deriva una lesione personale. È raddoppiata se ne deriva la morte”. La seconda proposta è “per la legalità e il rispetto della Costituzione nelle carceri” e vuole istituire: “Il Garante nazionale per i diritti dei detenuti - prosegue Solimano - e ridurre il sovraffollamento carcerario, imponendo l’introduzione di un “numero chiuso” che limiti l’ingresso nei penitenziari, affinché nessuno vi entri se non c’è posto, favorendo pene alternative”. Inoltre, viene proposta l’abolizione del reato di clandestinità previsto dalla legge Bossi-Fini. “Chi può effettuare un percorso alternativo al carcere - spiega Vinicio Vannucci, presidente provinciale Camere penali - che comprenda la rieducazione e la formazione professionale, una volta scontata la pena, ha solo il 20% di probabilità di commettere un nuovo reato”. La terza proposta riguarda le “Modifiche alla legge sulle droghe: depenalizzazione del consumo e riduzione dell’impatto”. Affinché i detenuti tossicodipendenti e alcool dipendenti siano trattati in luoghi diversi dal carcere. Solimano ha poi ricordato la necessità di aprire al più presto il nuovo padiglione del carcere di Livorno: “Come casa circondariale per la media sicurezza e non per la massima sicurezza come invece si sente dire”. Firenze: progetto della Cooperativa Ulisse; a Sollicciano 3 detenuti-vivaisti coltivano rose www.ilsitodifirenze.it, 30 marzo 2013 Un giardino di rose cresce dietro le sbarre di Sollicciano: un vivaio con più di mille piantine, che dalla fine di aprile saranno vendute nei mercati di tutta la città. A prendersene cura sono proprio i detenuti del carcere fiorentino. Che imparando l’arte della botanica, oltre alle rose, coltivano un mestiere che potrà aiutarli quando usciranno di prigione. Si tratta del nuovo progetto di orticoltura “Le rose di Sollicciano”, promosso dall’assessorato all’agricoltura della Regione Toscana e gestito dalla cooperativa sociale Ulisse di Firenze in collaborazione con la cooperativa Valle Verde di Scandicci. Un’attività entrata nel vivo in questi giorni, con l’acquisto di alcune centinaia di esemplari di rose rifiorenti da un noto vivaio di Pistoia. Le piantine sono adesso affidate alle mani di tre detenuti (due ospiti del carcere di Sollicciano, uno dell’istituto Gozzini), che in un’apposita struttura coperta messa a disposizione dall’amministrazione penitenziaria di Sollicciano, impareranno a travasare e invasare le rose, a potarle e farle crescere, per poi rivenderle nei mercati fiorentini, ma anche alle attività commerciali, ai vivai e a singoli acquirenti. Il progetto avrà una durata di tre anni. I detenuti che vi prendono parte, scelti in base a una selezione che ne ha messo in luce l’attitudine alla botanica e le capacità manuali, sono stati assunti dalla cooperativa Ulisse. Lavoreranno per 4 ore al giorno tre volte la settimana, sotto la guida di un tutor della cooperativa e un esperto di botanica. Tutti e tre italiani, tra i 40 e i 50 anni e con una pena superiore ai 3 anni, potranno apprendere in questo modo un mestiere - per di più “green” - che favorirà il loro reinserimento nella società civile una volta scontata la condanna. L’obiettivo dei “detenuti - vivaisti” di Sollicciano è produrre entro maggio 1.500 piantine di rose rifiorenti. Tante le varietà che si impegneranno a coltivare: dalla Dama di Cuori alla Mr. Lincoln, dalla Regina alla Mona Lisa, dalla Serenata alla Landora. Ma le rose, in realtà, sono solo il punto di inizio di un’attività botanica ben più ampia che punta alla produzione di 60mila piante pronte alla vendita tra sempreverdi, piante aromatiche e da ortaggio, oltre alla cura dei 150 olivi ospitati dalle du e case circondariali Sollicciano e Gozzini. Il 25 aprile le rose di Sollicciano usciranno per la prima volta dal carcere, per partecipare alla mostra dei fiori di Firenze. Pochi giorni dopo, il 4 e il 5 maggio, saranno presenti anche alla Fiera dei fiori di Greve in Chianti. “Acquistando una rosa di Sollicciano - spiega il presidente della cooperativa Ulisse Giovanni Autorino - si potrà favorire la rieducazione dei carcerati e contribuire alla costruzione di un ambiente più confortevole e accogliente, non solo per coloro che sono interessati dal progetto, ma per tutti gli operatori del penitenziario”. L’auspicio di Ulisse è che anche la grande distribuzione accolga con favore le rose dei detenuti. Ma intanto, chiunque volesse acquistare un fiore di Sollicciano, può prendere contatto con la cooperativa telefonando al numero 055.6505295 o inviando una mail all’indirizzo: segreteria@cooperativaulisse.org. Il sito di Ulisse inoltre a breve ospiterà una sezione ad hoc per le rose di Sollicciano (www.cooperativaulisse.it). Quella botanica però è solo la prima di una lunga serie di iniziative che la cooperativa Ulisse sta potenziando a Sollicciano per l’inserimento lavorativo dei detenuti e il miglioramento della qualità della vita nel penitenziario. Tra poche settimane, il carcere vedrà riaprire l’ormai storica officina per la riparazione delle biciclette. L’altro progetto in cantiere riguarda la gestione della lavanderia dell’ala femminile, che darà lavoro a quattro persone, tra cui due carcerate. Per seguire da vicino i progetti avviati a Sollicciano, infine, Ulisse ha recentemente aperto un suo ufficio all’interno dell’istituto. Ogni giorno un tutor della cooperativa potrà dare così ai detenuti tutte le informazioni e gli strumenti tecnici e operativi necessari per le attività svolte. “Tutti questi progetti - spiega Autorino - nascono e vanno avanti anche se il governo ha di fatto sospeso i contributi e gli sgravi derivanti dalla legge Smuraglia, che in passato sosteneva e agevolava con le cooperative le attività sociali per il recupero e la rieducazione dei detenuti”. “Il nostro impegno continuerà anche senza contributi - prosegue Autorino -. La crisi non può fermare le opportunità offerte dal lavoro ‘verò come forma di riabilitazione e reinserimento sociale dei carcerati. Sarebbe la morte dei diritti”. Varese: da sei anni studenti e detenuti insieme, nel percorso di educazione alla legalità www.varesenews.it, 30 marzo 2013 Venerdì 5 aprile si svolgerà, nella Casa circondariale, l’evento finale del progetto giunto al sesto anno e che coinvolge i ragazzi di cinque istituti superiori. Percorsi a confronto è il progetto che porta all’interno della Casa circondariale di Varese, gruppi di studenti delle scuole superiori. Tra le attività educative promosse, infatti, “Educazione alla legalità” è un percorso che, per il sesto anno consecutivo, vede protagonisti i ragazzi di 5 istituti superiori: Isis Newton di Varese, Isis di Bisuschio, Istituto Maria Ausiliatrice di Varese e Liceo Artistico “Frattini” di Varese e ISIS di Gazzada. Da novembre, ad intervalli regolari, gli studenti si confrontano con alcune persone detenute. Il progetto si è articolato in diverse fasi Laboratoriali (Intercultura, Cucina, Artistico) che sono culminate con un momento di incontro tra alunni e detenuti presso la Casa Circondariale. Venerdì 5 aprile alle ore 14.30 è previsto l’evento finale , con la realizzazione di uno spettacolo musicale a cura di un gruppo di studenti dell’Istituto Superiore Statale “A. Manzoni” di Varese. A questo momento spettacolo parteciperanno le autorità locali, gli allievi delle Scuole coinvolte nel progetto e una larga compagine di persone detenute e Operatori interni ed esterni. “La Direzione della Casa Circondariale - spiega il direttore Gianfranco Mongelli - nonostante la situazione di incertezza che sta vivendo continua a sostenere questo genere di iniziative in quanto ritiene che una proposta di “riscatto sociale” è possibile e più che mai urgente”. Nuoro: sequestro Melis; Grazia Marine, anziana “carceriera” malata, lascia Badu Carros Agi, 30 marzo 2013 Grazia Marine, la donna di Orgosolo (Nuoro) di 76 anni arrestata nell’aprile del 2006 e condannata definitivamente a 25 anni e 6 mesi di reclusione per il sequestro di Silvia Melis, da ieri pomeriggio è agli arresti domiciliari. Il giudice di sorveglianza del Tribunale di Nuoro Adriana Carta le ha consentito di lasciare il carcere nuorese di Badu ‘e Carros per motivi di salute. L’anziana, ritenuta la carceriera della giovane di Tortolì rapita nel febbraio del 1997, è gravemente malata e quando, verso le 14 di ieri, le è stato notificato il provvedimento del magistrato era all’ospedale San Francesco di Nuoro grazie a un permesso di “necessità”. La donna, difesa dall’avvocato Mario Lai, si trovava da anni nell’ex carcere di massima sicurezza assieme al figlio Antonio Marine, anch’egli condannato per il sequestro. Da sempre vestita di nero con gli abiti tradizionali, “Tzia Grà” negli ultimi mesi aveva una cella singola, dove trascorreva il tempo a ricamare con l’uncinetto. Nell’istituto penitenziario l’anziana si occupava personalmente di rammendare abiti e lenzuola spesso lavorando in un apposito spazio dotato di una macchina da cucire. Grazia Marine era sempre presente agli appuntamenti culturali e di intrattenimento ospitati Badu ‘e Carros come concerti e rappresentazioni teatrali. Parma: Raimondi (rapitore di Tommaso Onofri); il senso colpa mi fa rifiutare i permessi Ansa, 30 marzo 2013 “La mia dignità e il senso di colpa mi costringono a rifiutare i permessi, non mi sembra giusto dopo le ferite causate a quella donna (la mamma di Tommy, ndr) anche se la mia volontà era ben differente, come diverse erano le informazioni ricevute dal quel diavolo del mio coimputato”. È un brano, di una lettera dal carcere che l’ex pugile Salvatore Raimondi, 34 anni - in cella a Ferrara per l’omicidio di Tommaso Onofri, il bimbo di 17 mesi rapito e ucciso sette anni fa alle porte di Parma - ha fatto pervenire al suo avvocato Franco Cavalli. Un atteggiamento diverso rispetto a quello di Mario Alessi, 52 anni, condannato all’ergastolo per l’omicidio, che partecipa ai corsi da giardiniere nel carcere di Prato, con sullo sfondo l’ipotesi di richiedere il permesso di lavoro esterno “quando i tempi saranno maturi”, come ha detto recentemente il suo legale, Laura Ferraboschi. “Rifiutare i permessi mi fa sentire meglio nei confronti della mamma di Tommaso”, scrive invece Raimondi, che potrebbe teoricamente usufruirne fra un anno e quattro mesi. Arrestato il primo aprile 2006 e condannato a vent’anni (era accusato di concorso in sequestro di persona con la morte non voluta dell’ostaggio), ha scontato finora sette anni di carcere, che diventano 8 anni e 3 mesi considerando la cosiddetta liberazione anticipata: 90 giorni annui da detrarre a fine pena, se il detenuto ha una buona condotta. Raimondi chiede di essere trasferito da Ferrara al carcere di Torino, dove c’è una palestra ad hoc che vorrebbe utilizzare per riavvicinarsi alla boxe. Salerno: in attesa di trapianto fegato, da casa finisce in cella per scontare meno di 2 mesi La Città di Salerno, 30 marzo 2013 Un mese e 24 giorni: è questo il tempo che Michelangelo Iovine, 57 anni, deve ancora trascorrere in carcere. È il residuo di una pena di otto mesi, peraltro patteggiata, che i giudici gli hanno inflitto lo scorso mese di novembre, per un furto d’auto avvenuto a gennaio dello scorso anno. Fino ad oggi l’uomo ha scontato la sua pena tra arresti domiciliari e l’affido ad una cooperativa sociale a Campagna, dove l’uomo faceva del volontariato. Una misura che gli era stata concessa anche in virtù delle sue gravi condizioni fisiche - l’uomo soffre di cirrosi epatica ed è in attesa per un trapianto di fegato - che lo rendevano incompatibile con il regime carcerario, come ha testimoniato anche una perizia medica. Ma per i giudici di sorveglianza, quindici giorni fa la condizione di Iovine sembra essere cambiata. “Un giorno - hanno raccontato le figlie Cinzia e Luigia - sono venuti i carabinieri a casa e lo hanno trasferito al reparto detenuti del “Ruggi”“. Secondo il suo legale, l’avvocato Valentina Restaino, il giudice di sorveglianza ha rigettato la richiesta del pubblico ministero di far scontare il residuo di pena ai domiciliari, nonostante le gravi condizioni di salute. “Non è accettabile - ha tuonato la Restaino - Iovine non è un criminale. Il suo primo reato risale al 1993. E, fin dall’arresto per furto del gennaio scorso, ha sempre collaborato assumendosi le sue responsabilità. Trasferirlo in carcere significherebbe mettere in pericolo la sua vita”. I medici del reparto, infatti, in vista delle festività pasquali, sarebbero intenzionati a dimetterlo, trasferendolo a Fuorni. Trasferimento che, al momento, sembra essere slittato. E, grazie anche all’interessamento dell’associazione “Andrea Proto”, che si batte per i diritti civili e alla quale l’uomo è iscritto, il reparto non resterà scoperto durante le festività pasquali, come era stato paventato in un primo momento. Anche se, denunciano i familiari, cambia poco. “Se succede qualcosa durante la notte - dicono - nessuno ti sente. E non c’è possibilità di comunicare”. Si vive, insomma, in uno stato di isolamento. “Questo - ha aggiunto Franz Cittadino dell’associazione “Andrea Proto” - è accanimento giudiziario”. Le figlie, che ieri mattina hanno fatto visita al padre, lo descrivono come “una larva umana. Non si può muovere, ha continui dolori alle gambe. Non può restare lì né - concludono - tornare in carcere”. Immigrati: a Lampedusa ripresi gli sbarchi, riaperto il Cpa di Contrada Imbriacola Tm News, 30 marzo 2013 Il miglioramento delle condizioni meteo nel Canale di Sicilia ha fatto sì che in Sicilia riprendessero in modo consistente gli sbarchi di immigrati provenienti dal nord Africa. Negli ultimi due giorni sono state dieci le richieste d’aiuto giunte alla Guardia Costiera, per un totale di oltre 800 migranti. Le prime cinque richieste d’aiuto, due giorni fa, hanno riguardato altrettanti gommoni avvistati a Sud di Lampedusa. I migranti, tra i quali anche diverse donne e minori, sono stati trasferiti al centro d’accoglienza dell’isola, a contrada Imbriacola. Ieri sono state quattro le richieste d’intervento. Il primo in mattinata. Il rimorchiatore Asso 25 ha segnalato un gommone con un centinaio di migranti. Nel pomeriggio un’altra imbarcazione con 130 persone è stata segnalata a seguito della telefonata effettuata da un extracomunitario con un telefono satellitare. Verso le 18 la terza richiesta d’aiuto, effettuata sempre da un telefono satellitare, ha riguardato un’imbarcazione con 29 persone a bordo. La quarta richiesta d’aiuto è giunta alle 19 alla Sala Operativa della Guardia Costiera di Palermo. In questo caso sul barcone in difficoltà nel Canale di Sicilia c’erano novanta persone. Per due occupanti del gommone, raggiunto intorno alle 3 di notte dalla Motovedetta della Capitaneria di porto partita da Lampedusa, il freddo è stato fatale. Un altro sbarco, infine, è avvenuto nel Siracusano, ad Arcile di Brucoli. Qui 86 migranti egiziani sono stati rintracciati da polizia e carabinieri dopo essere approdati con una piccola imbarcazione. Zampa (Pd): serve collaborazione con paesi provenienza “Come prevedibile con l’arrivo della primavera ricominciano gli sbarchi a Lampedusa. È di poche ore fa la notizia di due migranti morti per ipotermia dopo essere stati soccorsi dalle motovedette della Guardia costiera. Le associazioni umanitarie denunciano già da alcuni giorni difficoltà ad incontrare i migranti sbarcati sulle coste dell’isola siciliana”. È quanto dichiara Sandra Zampa, deputata del Partito democratico e già capogruppo in commissione Bicamerale Infanzia. “Due giovani tunisini - continua - sono stati rimpatriati, secondo quanto riportato da una agenzia di stampa, dopo aver trascorso la notte a Contrada Imbricola. Resta da chiarire se questi ragazzi erano minorenni e quindi se è stato violato il loro diritto all’accoglienza. Intendo dunque presentare un’interrogazione urgente perchè sia fatta chiarezza su questo così come sulle difficoltà registrate dalle organizzazioni umanitarie ad incontrare i migranti sbarcati”. Per Zampa è “sbagliato proseguire su questa strada. Bisogna mettere in campo iniziative concrete di collaborazione con i paesi di provenienza dei flussi migratori. La mia preoccupazione per la sorte dei migranti riguarda soprattutto le donne e i minori. Il centro di accoglienza di Lampedusa rischia di trovarsi presto in condizioni di sovraffollamento tali da non poter garantire tutela ai minori e soprattutto ai minori non accompagnati”. India: caso marò; governo indiano punta a nuove indagini sul caso Tm News, 30 marzo 2013 L’Agenzia nazionale di investigazione (Nia) indiana potrebbe condurre nuove indagini sul caso dei due marò italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, su richiesta del governo di Nuova Delhi: una proposta in tal senso potrebbe essere notificata già la prossima settimana, secondo canuto riferisce oggi la stampa indiana. L’obiettivo, secondo l’Ibn, è provare che le leggi del paese sulla sicurezza marittima e sulle acque territoriali non entrano in conflitto con nessuno dei trattati o delle convenzioni internazionali, in particolare quella delle Nazioni Unite sul diritto marittimo. Il governo, con questa decisione, intenderebbe inoltre ribadire la giurisdizione indiana sulla vicenda, in modo che i due Fucilieri della Marina militare possano essere processati in India, sulla base delle leggi indiane. Germania: nel carcere di Suhl detenuto prende ragazza in ostaggio, chiede trasferimento Tm News, 30 marzo 2013 Un detenuto di 52 anni della prigione di Suhl, in Turingia, è riuscito a prendere in ostaggio ieri poemriggio una ragazza di 26 anni e minaccia di ucciderla con un coltello sulla gola. L’uomo ha chiesto assistenza legale e il trasferimento in un altro istituto penitenziario. Un commando speciale si trova già sul posto, scrive lo Spiegel online. Mozambico: iniziativa Ong “Progetto Mondo Mlal” per migliorare il sistema delle carceri progettomondomlal.blogspot.it, 30 marzo 2013 “Sistema di governo e carceri mozambicane vanno migliorate”. A dichiararlo, in un’intervista al giornale Verdade On line è Francesco Margara, coordinatore per Progetto Mondo Mlal del programma Vita Dentro, nato per migliorare la condizione dei detenuti, soprattutto giovani, nella provincia di Nampula. Un’esigenza dettata non solo dalle condizioni di vita dei detenuti, ma anche dalla discriminazione che sono costretti a subire dalla società, una volta usciti di progione e ritornati nelle comunità di riferimento. Che cosa è Progetto Mondo Mlal? Progetto Mondo Mlal è un’organizzazione non governativa italiana, impegnata nella provincia di Nampula dal 2002. All’inizio, abbiamo lavorato con la Caritas in materia di diritti umani, in particolare per le persone con poca conoscenza della cultura giuridica, specie detenute. Qual è il vostro obiettivo? Puntiamo a migliorare le condizioni di base dei prigionieri nella provincia di Nampula, dove lavoriamo in particolare nella Penitenziaria Industriale e nel Carcere femminile, che si trova in una zona chiamata Rex, oltre alla Prigione Provinciale di Nampula. Mi preme rilevare che ci dedichiamo in particolare ai giovani detenuti, dai 16 ai 21 anni, in Mozambico. Cosa ha motivato la scelta della provincia di Nampula per svolgere le vostre attività? Dopo un attento studio, abbiamo scoperto che la provincia di Nampula ha il più alto numero di casi penali in Mozambico, quindi abbiamo concentrato le nostre attività per i detenuti, perché eravamo preoccupati per la loro situazione. Abbiamo ideato un progetto in grado di garantire il rispetto dei loro diritti umani, e progettato strategie che ci permettano di vivere a contatto con chi vive in carcere, che ha così potuto comprendere noi e il nostro lavoro. All’inizio si è trattato di scegliere detenuti di buona condotta, spiegando loro come comportarsi e come evitare conflitti con gli ufficiali penitenziari. Piano piano abbiamo guadagnato forza introducendo diversi pacchetti formativi, puntando molto sull’aspetto culturale con gruppi di teatro, musica, squadra di calcio, e tutte le altre attività che possono creare un momento di svago. Puntiamo molto anche sull’istruzione, impegnandoci per il recupero dei giovani detenuti insieme al Servizio Nazionale delle Prigioni (Snapri), l’Università Cattolica del Mozambico (Ucm), Unilurio, Caritas e l’Istituto per assistenza legale (Ipaj). Che cosa è stato fatto in concreto per il bene dei detenuti? Abbiamo un programma basato sull’ “arte terapia”, che serve per aprire le menti dei detenuti, farli divertire e creare spazi abitativi degni durante la loro permanenza negli istituti di detenzione. Ciò che spesso accade nelle carceri del Mozambico è che molti reclusi non vivono davvero la propria vita, e questa si riduce a una condizione di inutilità. Partecipando al nostro programma, invece - che prevede anche attività come agricoltura e allevamento di polli - non sono obbligati a pensare troppo alla situazione in cui si trovano. È per questo che abbiamo formato “Anamawenchiwa”, un gruppo musicale che ha partecipato a numerosi festival, in particolare il Tambo Tambulani Tambo a Pemba, provincia di Cabo Delgado, il Festival della cultura di Beira, il Festival dei Giochi tradizionali a Lichinga e il Festival di musica tradizionale di Ilha de Moçambique. Oltre a questo ensemble musicale, è stato formato un gruppo teatrale che ogni settimana viaggia nelle carceri distrettuali della provincia di Nampula. Abbiamo poi aiutato nel reinserimento sociale i detenuti che hanno finito di scontare la pena, soprattutto per renderli capaci di realizzare attività generatrici di reddito e gestire il proprio auto-sostentamento, smettendo così di commettere crimini. Il risultato sono fabbri, falegnami, elettricisti, muratori, operatori turistici, idraulici e agricoltori, formati con corsi riconosciuti dall’Istituto Nazionale del Lavoro e la Formazione Professionale e finanziati da Progetto Mondo Mlal attraverso i fondi dell’Unione Europea. Quanti detenuti sono stati formati fino ad ora? Finora abbiamo formato più di 200 persone che sono già fuori dalle loro celle e che stanno svolgendo attività produttive nelle loro comunità d’origine. Ciò che vogliamo è che gli ex-detenuti non vengano emarginati dalla società a causa della mancanza di conoscenza di alcune attività. La loro formazione inizia in prigione e sono accompagnati fino al ritorno nella comunità. Così abbiamo promosso seminari su salute, educazione civica, comprese le leggi che li difendono e li condannano e l’istruzione. Quest’anno sono 500 le persone che sono state coinvolte nelle attività. Chi si occupa delle formazioni ai detenuti? La nostra equipe è formata da professionisti di livello superiore in diversi settori, quali la sanità, l’istruzione, il commercio, l’agricoltura, l’allevamento dei polli e l’imprenditorialità. Essi lavorano dentro e fuori delle carceri. Dopo l’uscita dal carcere, gli educatori accompagnano gli ex-detenuti per presentarli alle autorità locali, in modo che non vengono respinti dalla comunità per il timore che commettano nuovi reati. Lo facciamo perché in Mozambico esiste una cultura di esclusione sociale nei confronti delle persone che escono di prigione. In questo momento stiamo dando assistenza a 30 ex detenuti per il loro reinserimento nelle comunità, e anche se non facciamo miracoli, ci sono utenti che decidono di non ritornare a commettere reati. Coloro che seguono i nostri consigli riescono a formare famiglie, continuano a studiare e sviluppano le loro attività produttive. Esiste l’emarginazione degli ex detenuti nella società mozambicana? Sì, dopo che un cittadino rimane a lungo in carcere, la sua reintegrazione nella società non è facile. La comunità non ne vuole sapere di lui, afferma che è un criminale, non importa che abbia scontato la sua pena. Sostiene che non si può vivere con gli altri senza correre il rischio di trasmettere loro “un comportamento deviante”. Questo è il motivo per cui seguiamo il detenuto dopo il suo rilascio, oltre a finanziare i corsi professionali. Ha parlato giovani detenuti in Mozambico, quanti sono detenuti nelle carceri in cui promuovete le vostre attività? In questo momento lavoriamo con 200 giovani detenuti. Con la nostra presenza nelle carceri, si crea uno spazio che noi chiamiamo “Prigione Scuola” dove hanno celle separate dagli adulti, si riuniscono durante il tempo libero o durante l’ora d’aria. Il nostro sforzo è evitare, per quanto possibile, l’interazione tra giovani e adulti detenuti. Nel 2006, nella Penitenziaria Industriale di Nampula esisteva solo la sesta classe (equiparabile alla nostra prima media) mentre ad oggi siamo arrivati ad avere l’undicesima, e il prossimo anno si arriverà alla dodicesima. Questo è stato uno dei più grandi successi ottenuti in tutti questi anni, perché ora tutti i giovani detenuti (200 in totale) frequentano la scuola, senza dimenticare che anche gli adulti hanno la stessa possibilità di studiare. I certificati vengono rilasciati dal Ministero della Pubblica Istruzione. Purtroppo devo riconoscere che alcuni giovani non hanno l’età minima imputabile di 16 anni, come a norma di legge in Mozambico. Alcuni di loro, infatti, hanno 14 o 15 anni e sono detenuti perché non hanno un documento identificativo che permetta loro di dimostrare la loro età reale. Questo è un problema in un paese dove è normale trovare persone che raggiungono l’età adulta senza mai aver posseduto un documento di identità valido. Chi finanzia la realizzazione delle vostre attività? Abbiamo avuto due progetti fino ad oggi, il primo finanziato dal Ministero degli Affari Esteri italiano, il secondo dall’ Unione Europea. Per la realizzazione abbiamo avuto un finanziamento di circa € 800.000, che ha consentito l’introduzione di corsi di formazione professionale per i detenuti, la promozione delle attività agricole e di allevamento di polli e l’installazione di postazioni sanitarie all’interno degli istituti penitenziari. Cosa si produce nei centri aperti di Itocolo e Rex? Abbiamo a disposizione circa 500 ettari di terreno, dove produciamo vari prodotti agricoli come mais, ortaggi, manioca, alberi da frutta e dove facciamo allevamento di polli. In questi campi lavorano solo detenuti che poi usufruiscono del risultato che viene destinato al miglioramento della loro dieta. L’anno scorso abbiamo fornito alimenti per circa due mila persone nel corso di otto mesi con due pasti al giorno, cosa che non accadeva prima, quando avevano diritto a un solo pasto al giorno. Nel centro aperto nella zona Rex, abbiamo creato un nucleo di produzione di polli, gestito da quattro donne detenute. Questo ha migliorato la loro dieta. Ora mangiare pollo due volte a settimana è, di fatto, una realtà. Con i fondi del progetto abbiamo inoltre finanziato tre cicli di produzione di poco più di 500 polli e tutti gli utili sono stati utilizzati per aumentare lo spazio a disposizione e per ripartire con altre produzioni. Da tre mesi stiamo producendo tra i 600 e i 700 polli, che sono destinati al mercato locale e all’alimentazione delle detenute. I diritti dei detenuti sono violati nelle carceri della provincia di Nampula? Da quando Progetto Mondo Mlal ha iniziato a lavorare in questa città, le cose sono migliorate in modo significativo. Le violazioni sono sempre esistite, non è colpa di qualcuno in particolare, ma piuttosto è il sistema di governo del paese che non è giusto. Bisogna capire che quando si parla di violazioni dei diritti umani delle persone, non ci si riferisce solo ai maltrattamenti o alla mancanza del diritto di parola, ma si deve guardare alla mancanza del rispetto delle procedure rispetto alle leggi esistenti. Ancora una volta dico che sono il sistema di governo o le prigioni a dover essere migliorati, non le persone. Quali sono le condizioni di vita nelle celle della provincia Nampula? Per quel che ho potuto vedere esiste il problema del sovraffollamento, ma non è una situazione preoccupante. Le condizioni più precarie sono nei carceri distrettuali dove, oltre al sovraffollamento, esistono problemi per le condizioni igieniche precarie, che richiedono un intervento immediato. Quali sono i prossimi passi di Progetto Mondo Mlal? Come ho detto all’inizio, dopo aver completato il progetto “Vita Dentro”, nell’ambito dei diritti dei detenuti, stiamo cominciando un nuovo progetto coordinato dal Centro di Ricerca Konrad Adenauer, la cui missione sarà quella di eseguire una ricerca sulla situazione della componente sociale di megaprogetti che svolgono le loro attività in Mozambico. Vogliamo portare tutti coloro che sfruttano le risorse naturali a lasciare un’eredità che può segnare tutti i mozambicani e coloro che un giorno verranno a visitare questo paese. Vogliamo anche fare una ricerca che promuova la questione della responsabilità sociale in Mozambico, che mira a richiamare l’attenzione delle autorità governative, al fine di dare un contributo in un ambito purtroppo molto nuovo nel paese.