Giustizia: carceri al centro dell’attenzione parlamentare, già proposti amnistia e indulto di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 29 marzo 2013 Le questioni del sovraffollamento delle carceri e della tortura sono all’attenzione delle Camere. Vari i disegni di legge presentati nei due rami del Parlamento. Va ricordato che sia il presidente del Senato Piero Grasso che la Presidente della Camera Laura Boldrini, nei loro discorsi di insediamento, hanno fatto riferimento alla necessità di intervenire prontamente. L’Italia, a seguito della sentenza di condanna della Corte europea per i diritti umani dello scorso 8 gennaio, ha un anno di tempo per rimediare alla condizione tragica di affollamento delle carceri, 22 mila detenuti in più rispetto ai posti letto regolamentari. Sono già comparse due proposte di amnistia e indulto. Una à firma del senatore del Pd Luigi Manconi e l’altra del senatore del Gruppo Grandi Autonomie e Libertà Luigi Compagna. La deputata democratica Donatella Ferranti ha ripreso invece i temi all’ordine del giorno verso il finale della precedente legislatura, ovvero quelli della messa alla prova e delle modifiche al sistema sanzionatorio. Il senatore Luigi Manconi ha presentato anche una proposta sul numero chiuso nelle carceri e più precisamente l’obbligo di conversione della pena detentiva in detenzione domiciliare qualora il magistrato accerti che in carcere non vi sia posto. A tal fine è giusto ricordare che la Corte di Strasburgo sui diritti umani, seguendo le indicazioni provenienti dal Comitato europeo contro la tortura del Consiglio di Europa a lungo presieduto da Mauro Palma, ha affermato perentoriamente che mai un detenuto deve avere meno di tre metro quadri a disposizione, altrimenti si configura una violazione dell’articolo 3 della Convenzione del 1950 sui diritti umani che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano o degradante. Con due recenti ordinanze di altrettanti magistrati di sorveglianza di Venezia e Monza, la Corte Costituzionale è stata investita della questione. Tre invece le proposte di legge dirette alla introduzione del delitto di tortura nel codice penale, una presentata al senato da Luigi Manconi, e le altre due alla Camera dai deputati Giancarlo Bressa del Pd e Pino Pisicchio del Centro Democratico. Su questi e altri temi (tortura, legalità nelle carceri, modifiche alla legge Fini-Giovanardi sulle droghe) una ventina di associazioni. tra cui anche l’Unione delle Camere Penali Italiane e la Cgil, stanno raccogliendo le 50 mila firme utili a depositare tre leggi di iniziativa popolare in Parlamento. Una della cause del sovraffollamento è la custodia cautelare che produce il 40% dei detenuti in Italia. A tal riguardo l’onorevole Mauro Pili del Pdl ha presentato una proposta di modifica degli articoli 275, 294, 303, 310 e 453 del codice di procedura penale, mirante a ridurre i casi e i termini di durata della custodia cautelare, nonché ad aumentare le garanzie in favore delle persone sottoposte a custodia cautelare. Infine anche l’amministrazione penitenziaria cerca di intervenire per ridurre i danni da sovraffollamento e ha presentato il Progetto Circuiti Regionali spingendo l’acceleratore sulla differenziazione degli istituti penitenziari e sulla possibilità per la gran parte dei detenuti di trascorrere più tempo in spazi comuni e all’aperto. Il progetto riuscirà a seconda della determinazione del Dap a fronteggiare e ridimensionare le ritrosie conservatrici dei sindacati autonomi di polizia penitenziaria legati a una idea di sicurezza statica e da sempre legittimati da varie forze politiche nel loro ruolo interdittivo rispetto a proposte riformatrici. Giustizia: sistema minorile da proteggere dal rischio di una deriva poliziesca di Susanna Marietti Il Manifesto, 29 marzo 2013 Cosa ha trovato ieri Papa Francesco quando ha superato il cancello del carcere minorile romano di Casal del Marmo? Cosa ha trovato in quel posto scelto per celebrare la messa in memoria dell’ultima cena di Gesù e del suo gesto sbigottente di lavare i piedi ai discepoli? Un grande prato, 12 mila metri quadrati di verde ben curato, con un campo da calcio, uno da pallacanestro, palazzine basse che ospitano camere doppie e refettori. Una sessantina di giovani reclusi, di cui una quindicina ragazze. Vanno a scuola, fanno sport, seguono laboratori di pizzeria, falegnameria, informatica, corsi di inglese. Il Papa avrà percepito quel rapporto di fiducia che unisce i ragazzi con i rappresentanti dell’istituzione che li ha in carico: la direzione, gli educatori, gli psicologi, gli agenti di polizia (che qui vestono in borghese). La direttrice chiama per nome tutti quelli che incontra, ricorda a memoria la loro storia, chiede a ciascuno notizie pertinenti. Se Papa Francesco fosse andato a Regina Coeli, pochi chilometri più in là, avrebbe assistito a quel degrado che la Corte Europea ha certificato lo scorso gennaio imponendo di porvi rimedio entro un anno. Il sistema minorile regge perché ha numeri bassi. Sono poco meno di 500 i ragazzi nelle 16 carceri minorili italiane. Quasi il 40% è costituito da stranieri. In oltre la metà dei casi sono accusati di furti e rapine, più di un 10% ha violato la legge sulle droghe. È raro che si finisca in galera una volta entrati nel sistema della giustizia minorile. Molte le possibilità offerte ai giudici, dall’istituto della messa alla prova, passando per misure cautelari in casa o in comunità, fino alle varie alternative alla reclusione. L’interesse del minore e della sua personalità in formazione viene privilegiato rispetto alle supposte esigenze di sicurezza. Se in Italia si è commesso un crimine tra i 14 e i 18 anni, per ritrovarsi in carcere bisogna essere in una situazione parecchio seria. E seria può purtroppo esserlo per due motivi: o il reato è particolarmente grave oppure si è particolarmente marginali in quanto a relazioni sociali. Il sistema funziona ma non per tutti, scrivevamo nel nostro primo rapporto sulle carceri minorili del 2008, che tra poche settimane vedrà una seconda edizione. Il sistema tuttavia, da quando nel 1988 entrò in vigore il codice di procedura penale per minorenni, ha dimostrato una buona solidità, senza cedere pezzi - come accaduto invece per gli adulti - alle periodiche grida di allarme per il criminale bambino destate dai vari fatti di cronaca. Oggi deve spingersi pm avanti: la specificità della giustizia minorile - la centralità del percorso scolastico, la maggiore importanza degli elementi affettivi, la diversa gestione degli aspetti disciplinari - deve tradursi in una legge apposita per regolamentare le carceri per minori, ancora soggiacenti all’ordinamento penitenziario degli adulti del lontano 75. Da qualche tempo in qua una nuova ondata di polemiche è in atto contro la giustizia minorile, accusata di avere mano morbida con piccoli ma non meno pericolosi criminali. Rischiosamente si parlò tempo addietro dell’ipotesi di accorpare il Dipartimento ministeriale della giustizia minorile a quello degli adulti. Gli episodi di violenza negli istituti per minori si risolvono in qualche rissa tra detenuti, a volte colorita da gesti plateali. Da arginare, ma con una finalità educativa ben più che punitiva. “C’è qualcosa che non va nella giustizia minorile”, tuonava il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria quando proprio a Casal del Marmo un ragazzino diede fuoco a un materasso senza immaginarne le conseguenze e terrorizzandosi. I sindacati autonomi di polizia, come abbiamo visto a Ferrara, sono troppo spesso avamposto di una cultura reazionaria. Papa Francesco ieri avrà sentito che non c’è niente che non vada nell’atteggiamento che il sistema ha verso i ragazzi. Non giovani delinquenti, bensì elementi di quella nuova generazione di cui la collettività ha il dovere di farsi carico con strumenti condivisi. Come quelli di un sistema scolastico pubblico e dalle spalle larghe. Non come quelli di un sistema carcerario poliziesco. Se mandiamo allo sfascio la giustizia minorile saremo tutti più poveri e perdenti. Giustizia: malati di carcere… migliaia di detenuti faticano a ricevere assistenza adeguata di Arianna Giunti L’Espresso, 29 marzo 2013 Diabete, leucemie, tumori. Persino disabili. E l’Europa ci condanna. Antonio respira a fatica, si trascina zoppicando appoggiandosi al muro. I suoi passi lenti dalla cella all’infermeria sono un calvario quotidiano che percorre quasi nell’oscurità. Il diabete gli ha portato via la vista e il piede sinistro è ormai consumato dalla cancrena. Michele, invece, quando è entrato a Rebibbia pesava più di novanta chili. Oggi, divorato dall’anoressia, non arriva a trentotto. Nei penitenziari italiani Antonio e Michele non sono eccezioni. L’elenco di reclusi con patologie gravi è sterminato: ci sono persone colpite dall’Alzheimer e dal cancro, leucemici ed epilettici come ha raccontato “l’Espresso” un mese fa. Dati ufficiali non esistono ma secondo le stime di alcune associazioni - tra cui Antigone e Ristretti Orizzonti - i147 per cento dei detenuti ha bisogno di assistenza per seri problemi medici o psicologici: quasi 31mila persone tra le 66mila e 685 rinchiuse negli istituti di pena. Adesso il caso di Angelo Rizzoli ha permesso di aprire uno squarcio su questi drammi: i legali hanno denunciato la situazione dell’editore settantenne arrestato per bancarotta, provocando interrogazioni parlamentari e l’intervento del Guardasigilli. Rizzali soffre di sclerosi multipla ma nella sezione detenuti dell’ospedale Peroni di Roma non c’è la possibilità di fisioterapia e quindi il morbo stava avanzando. Il Tribunale del Riesame gli aveva negato la possibilità di andare ai domiciliari ma adesso il gip lo ha autorizzato: potrà curarsi in un centro adeguato. Più a Nord, nel carcere di Busto Arsizio esiste un reparto di fisioterapia completamente attrezzato: non è stato mai aperto. Uno spreco e un paradosso rispetto al panorama disastroso delle prigioni italiane: ci sono istituti clinici solo in tredici penitenziari su 207. La Corte europea dei diritti dell’uomo è stata perentoria: “Le disfunzioni strutturali del sistema penitenziario non dispensano Io Stato dai suoi obblighi verso i detenuti malati. Chi non assicura terapie adeguate viola la Convenzione europea e all’Italia sono già state inflitte diverse condanne. L’ultima lo scorso gennaio: un detenuto di Foggia, parzialmente paralizzato e costretto a scontare la pena in una cella di pochi metri quadrati, verrà risarcito per il danno morale. Una sentenza poco più che simbolica: lo Stato dovrà pagargli 10 mila curo. Spesso però il danno più grave viene dalla burocrazia, che impedisce di fatto le cure specifiche. L’acquisto dei farmaci deve essere autorizzato dal direttore, mentre i ricoveri e persino le visite urgenti passano attraverso procedure lente e complesse, con effetti disumani. Certo, bisogna impedire le fughe e i contatti con l’esterno: il trasferimento in centri clinici è uno strumento utilizzato soprattutto dagli uomini di mafia per evadere o mantenere i rapporti con i clan. Ma, a causa della carenza di mezzi e organici, troppe volte diventa impossibile organizzare il trasporto in ospedale, che prevede la sorveglianza costante da parte degli agenti. Così soltanto a Roma nelle ultime settimane quattro persone sono morte nei penitenziari. Anche i disabili faticano a ricevere assistenza adeguata. Nelle carceri italiane sono quasi mille. Come Cataldo C., 65 anni, detenuto a Parma per reati di droga. Nel 1981 è stato colpito da un proiettile e il trauma midollare Io ha costretto sulla sedia a rotelle. Da allora deve sottoporsi a una particolare terapia riabilitativa, la idrokinesiterapia, con iniezioni al midollo spinale, per alleviare il dolore e permettergli un parziale recupero. I medici hanno più volte dichiarato la sua totale incompatibilità con il carcere, che fra l’altro non ha ambienti idonei per chi si muove sulla sedia a rotelle. Le istanze presentate dal difensore Francesco Savastano sono state bocciate e oggi l’uomo non può più neppure sottoporsi alle iniezioni: Cataldo C. ha perso anche quel poco di mobilità che era riuscito a recuperare grazie alle cure. Dietro le sbarre moltissimi detenuti si ammalano di anoressia. Arrivano a perdere più della metà del peso e si riducono a larve umane, esposte a traumi e infezioni. Alessio M., 48 anni, dal 2011 è recluso ad Avellino, in attesa di giudizio per usura. A raccontare la sua storia attraverso l’associazione “Detenuto Ignoto” è la moglie Lucia: “Soffre di una forma di idrocefalo che gli provoca mal di testa lancinanti, parzialmente curati con un drenaggio alla testa di cui è tuttora portatore”. È riuscito a ottenere i domiciliari solo per pochi mesi. Poi, con il ritorno in cella, è cominciata anche l’anoressia. Inevitabile che la detenzione provochi o amplifichi disturbi mentali. Spiega l’associazione Antigone, tra le più attive nel denunciare l’abisso dei penitenziari: “Molto spesso arrivano sani, o magari con una lieve tendenza alla depressione, e nel giro di qualche mese la loro mente precipita nel buio”. È il caso di Osvaldo G., 57 anni, detenuto a Reggio Calabria. Invalido e affetto da dieci gravi diverse patologie al lo stomaco, al pancreas, al fegato e ai reni, è in carcere da più di un anno per aver danneggiato la porta dell’ufficio di un uomo con il quale aveva litigato. In cella deve condividere il wc alla turca con altri quattro reclusi. Durante il giorno ha violenti conati di vomito e fitte di dolore che lo costringono a letto. Ha diritto a quattro ore d’aria, ma non riesce a uscire: vive sempre in una cella gelida d’inverno e torrida d’estate. L’affollamento rende praticamente impossibile la pulizia personale, che nelle sue condizioni dovrebbe essere ancora più accurata. Nella débâcle del nostro sistema carcerario anche assistere i diabetici è difficile: secondo l’Associazione medici dell’amministrazione penitenziaria italiana sono circa il 5 per cento dei reclusi. Oltre tremila persone che devono fare i conti con un duplice ostacolo. Le dosi di insulina che devono farsi iniettare quotidianamente e più volte al giorno a volte sono irreperibili. La mensa interna non è in grado di garantire i pasti totalmente privi di zuccheri e scarsi di amidi, gli unici compatibili con la loro condizione. Secondo il regolamento, il detenuto diabetico avrebbe diritto all’insulina 3-4 volte al giorno e a una dieta personalizzata. La realtà però è molto diversa. L’associazione Ristretti Orizzonti si è occupata attraverso l’avvocato Davide Mosso del caso di un detenuto algerino di 36 anni, Redouane M., trovato senza vita nel reparto psichiatria del carcere di Monza. L’uomo - diabetico, epilettico e con diagnosi di disturbo borderline - il giorno prima della morte si era rifiutato di prendere l’insulina e i medici del carcere non gli avevano fatto la somministrazione forzata. Ancora più penalizzati gli anziani. Soli e malati, spesso restano dietro le sbarre anche dopo i 70 anni, il limite di età previsto dal nostro codice penale. Nel carcere di Cagliari è rinchiuso ad esempio Carlo F, 75 anni. Soffre di cardiopatia ischemica dovuta a tre infarti al miocardio, claustrofobia e morbo di Parkinson. Ad aggravare la situazione fisica c’è la depressione che, insieme all’ansia, gli provoca un’accentuazione del tremore al punto da fargli cadere gli oggetti dalle mani. Le sue istanze per ottenere i domiciliari sono rimaste inascoltate. E solo di recente gli è stata concessa una cella con un wc normale, e non quello alla turca, inagibile per un anziano. Giustizia: si aprano le carceri… più trasparenza, senza aver paura di sporcarsi le mani di Valentina Ascione Gli Altri, 29 marzo 2013 Mentre impazza la moda del “tutto online” e da più parti si levano - apprezzabili - proclami sulla trasparenza delle istituzioni; mentre la rete si popola di scontrini fotografati e pubblicati, branditi come nuove armi della lotta alla casta, ci sono dati e cifre che scompaiono dalle cronache, poiché sembrano non interessare nessuno. Eppure sono numeri che riguardano un’istituzione (totale) e anch’essi raccontano una casta: quella dei “paria” delle nostre galere. Parliamo infatti delle statistiche che danno conto dei decessi tra i detenuti nelle carceri italiane: un dramma che aveva faticosamente conquistato un suo piccolo spazio, da riserva indiana, nel dibattito politico, presto spazzato via dalla campagna elettorale e dalle nuove vicende politiche. Lo tsunami elettorale non ha però fermato il contatore dei lutti e, anche se non fa più notizia, dietro le sbarre si continua a morire esattamente come prima. Sono 45 le morti dall’inizio dell’anno, di cui 14 per suicidio, fa sapere Ristretti Orizzonti. Nove i decessi e quattro i suicidi solo nelle prime tre settimane di marzo. Due gli internati morti nel giro di 48 ore negli ospedali psichiatrici giudiziari che per legge avrebbero dovuto chiudere i battenti entro il 31 marzo; e che invece resteranno attivi per un altro anno ancora grazie a un decreto del governo che è stato incapace di organizzare il processo di superamento di questi veri e propri manicomi criminali. Il nuovo pontefice Francesco ha scelto i giovani detenuti dell’istituto minorile romano di Casal di Marmo per il rito della lavanda dei piedi del Giovedì Santo. Marco Palmella e i radicali - i soli nella scorsa legislatura a difendere i diritti dei carcerati - hanno intrapreso con la comunità penitenziaria una nuova iniziativa nonviolenta di digiuno; mentre ha preso il via la raccolta firme sulle tre leggi di iniziativa popolare “Per la giustizia e i diritti” promosse da venti organizzazioni per introdurre il crimine di tortura nel nostro codice penale, per modificare la normativa sulle droghe e riportare il sistema penitenziario alla legalità attraverso misure decisive, tra cui l’abrogazione della legge ex Cirielli e dell’odioso reato di clandestinità. Mentre dunque la politica è impegnata a trovare maggioranze su “alcuni precisi punti programmatici” che mai contemplano l’emergenza carceraria, sono diversi i segnali di attenzione e i fronti di mobilitazione che fuori dai palazzi richiamano le istituzioni alle proprie responsabilità. Il prossimo Parlamento non potrà restare sordo, ma dovrà intervenire con urgenza per condurre le prigioni e la popolazione detenuta fuori dal tunnel nel più breve tempo possibile. Lo hanno capito i neo presidenti delle camere, Laura Boldrini e Pietro Grasso, che hanno dedicato alla questione un passaggio dei loro discorsi di insediamento, ma l’impegno deve essere comune. Insomma, si aprano anche le carceri come scatolette di tonno. Senza aver paura di sporcarsi le mani. Giustizia: sarebbe irresponsabile chiudere gli Opg senza aver creato delle alternative di Antonio Mattone Il Mattino, 29 marzo 2013 La data fatidica doveva essere il 31 marzo 2013. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, antico retaggio dei manicomi criminali, avrebbero dovuto chiudere. Ma dove sarebbero finiti i circa 1.000 internati reclusi nei sei Opg dislocati sul territorio nazionale? Mettere la parola fine a questi luoghi dove si concentra la pazzia umana senza pensare a vere alternative sarebbe stato un salto del buio ma anche una ipotesi poco realistica. E così, come auspicato da più parti, è arrivata la proroga al 1° aprile 2014, in attesa che le Regioni realizzino quelle strutture alternative previste dalla Riforma. I fondi destinati alla riconversione delle strutture sanitarie sostitutive non sono ancora disponibili, e le Regioni non hanno ancora approntato il cronoprogramma per la realizzazione di tali siti. Appare, dunque, davvero difficile immaginare cosa sarebbe successo all’indomani della chiusura. Che gli Opg debbano chiudere è un fatto sacrosanto ed è previsto dalla Riforma della sanità penitenziaria del 2008 che, in un disegno globale, ridefinisce tutto l’approccio con cui i detenuti e gli internati devono essere curati nelle carceri italiane. Si passa dall’isolamento all’accoglienza, con un sostanziale cambio di passo nei progetti e prospetti riabilitativi. Sappiamo bene che questo processo è lungo e complesso, e richiede i tempi necessari per la sua attuazione. Un primo risultato delle battaglie di questi anni è stato quello di far riemergere persone abbandonate e dimenticate di cui si erano perse le tracce. È indubbio però che ci sono dei ritardi e dei rimpalli di responsabilità tra Regioni, Asl e Ministero. In fondo rimandare e allontanare la soluzione del problema fa comodo a tutti. Così come è vero che ci sono delle resistenze culturali degli operatori penitenziari e sanitari, poco inclini a questo cambiamento epocale. Nei due Opg della Campania, ad Aversa e Secondigliano, sono attualmente presenti 278 internati, mentre alla fine del 2008 erano 405. Quelli di origini campane, che quindi devono essere seguiti dalle strutture della nostra Regione, sono 109. Un numero, tutto sommato, abbastanza esiguo. In questi anni già 79 persone in carico ai servizi sanitari hanno usufruito di licenza finale di esperimento o libertà vigilata. Tuttavia, se non si bloccano i meccanismi che producono gli ingressi, difficilmente si potrà arrivare ad una chiusura reale degli Opg. Solo negli ultimi giorni nella struttura di Secondigliano ci sono stari 10 nuovi arrivi. Qui molti ricoverati provengono dalle carceri. Alcuni hanno manifestato disturbi psichiatrici subentrati durante la detenzione. Il sistema carcere, invece di rieducare, produce malattia mentale e sembra inadeguato a trattare queste fragilità. Se pensiamo alla promiscuità e al sovraffollamento di un carcere come Poggioreale, dove qualche settimana fa si è superata la cifra record di 2900 detenuti, ci rendiamo conto di come un disagio si può trasformare in patologia psichiatrica. Altri internati, invece, sono stati dichiarati socialmente pericolosi e sono sottoposti a misure di sicurezza provvisorie o definitive, una normativa proveniente dal Codice Rocco. Questo significa che se non decade la pericolosità sociale il giudizio può essere sospeso sine die, oppure si può restare in Opg anche dopo aver espiato la pena. Sono i cosiddetti ergastoli bianchi. E poi c’è tutto il problema del sostegno alle famiglie. Molte sono abbandonate a se stesse, non sanno cosa fare. Non ci dimentichiamo che molti ricoverati hanno commesso reati o atti violenti proprio all’interno della mura domestiche. È inutile fare grandi proclami e grandi battaglie se non si combattono le cause principali per cui le persone entrano in Opg. Se non si riduce il sovraffollamento e non cambiano le condizioni di vivibilità delle carceri e se non vengono modificate quelle norme legislative che sono la porta principale con cui si finisce in un Opg, difficilmente in tempi brevi si arriverà ad un superamento effettivo. Mi sembra che la campagna per la chiusura tout-court, senza avere alternative certe, è veramente da irresponsabili, e può servire solo alla costruzione di qualche carriera politica. Qualche giorno fa ho incontrato alcuni internati dell’ Opg di Napoli. Insieme agli operatori dell’area educativa e penitenziaria avevano allestito una versione musicale de I Promessi Sposi. Mi ha colpito l’intenso dialogo che essi hanno con gli educatori e persino con il direttore. Dire che sono segregati e abbandonati non mi sembra onesto. Anche la follia merita i suoi applausi diceva la poetessa Alda Merini. Mille persone meritano risposte sul loro futuro e attendono che si attivi un impegno serio e determinato per arrivare finalmente al superamento degli Opg. Che quest’anno non passi invano. Giustizia: Radicali e detenuti in sciopero della fame per la legalità… notizie da tutta Italia di Fabrizio Ferrante www.epressonline.net, 29 marzo 2013 Sono giorni importanti, questi, se non addirittura decisivi non solo per le sorti del Governo e dell’intero paese ma, nella fattispecie, per la lotta radicale a sostegno dei diritti in capo alla comunità penitenziaria. Settimane che preludono un nuovo grande appuntamento di piazza, a Roma, quando si potrebbe avere la riedizione della fortunata marcia per l’Amnistia dello scorso anno tempo da utilizzare allo scopo di informare gli interessati, invitandoli a partecipare in massa. Quello che, a Napoli, stanno cercando di fare i “soliti militanti” dell’associazione radicale Per la grande Napoli, che solo nella giornata di ieri hanno raccolto circa 30 adesioni tra i parenti dei detenuti allo sciopero della fame in corso. Iniziativa che, nella giornata di domani, sarà portata avanti in modo simbolico anche dal Radicale Libero. Marco Pannella è in sciopero della fame dallo scorso fine settimana e da lunedì 25 marzo fino a domani, quando l’iniziativa terminerà in attesa di altre azioni, dirigenti, militanti e semplici simpatizzanti si sono uniti a quello che è stato definito un “grande Satyagraha”. C’è chi lo ha fatto per l’intera durata del digiuno e chi - come nel caso di chi scrive, in riferimento a domani - sceglierà o ha scelto di aderire in maniera simbolica con un’astensione dal cibo di 24 ore. La parzialità dell’adesione allo sciopero della fame non ci ha impedito, nella giornata di ieri, di portare avanti e documentare un’attività politica che all’esterno del carcere napoletano di Poggioreale prosegue da oltre due anni e, seppur fra qualche malcontento, continua a dare i suoi frutti a livello di seguito. Circa 30 cittadini in coda e in attesa di accedere alla struttura per visitare i congiunti, hanno ascoltato le argomentazioni che Rodolfo Viviani, Luigi Mazzotta, Angela Micieli, Paola Laperuta e chi vi scrive, hanno portato all’attenzione delle centinaia di persone presenti e hanno scelto di aderire per uno o due giorni allo sciopero della fame. Riferimenti, nelle parole dei militanti, all’iniziativa di Pannella, alla manifestazione da organizzare prossimamente al fine di chiedere al Parlamento una risposta definitiva sul tema della Giustizia e dell’Amnistia, in un clima caldo ma inaspettatamente - in minima parte - ostile. “Che fine hanno fatto i nostri voti alla lista Agl”? Oppure, “ma possibile che Pannella lo abbiamo votato solo noi”? fino a un perfido “Pannella fa solo scioperi della fame ma poco altro”. Queste alcune delle espressioni dettate dallo sconforto e dall’impazienza per un provvedimento di clemenza che rischia di diventare un boomerang perfino nei confronti dell’immagine dell’unico politico seriamente impegnato sul tema. Compito svolto ieri dai militanti napoletani (video intervista a Mazzotta, clicca qui, video intervista a Viviani, clicca qui) è stato dunque anche quello di spiegare le cause dell’insuccesso elettorale ricordando a tutti la natura della presenza della lista di scopo, già evocata durante la campagna elettorale quando Mazzotta ha più volte spiegato che: “noi non entreremo in Parlamento ma i voti alla lista servono per dare un segnale che abbiamo la forza per continuare la lotta”. Concetto già ampiamente espresso nei giorni che hanno preceduto il voto ma che evidentemente per qualcuno non è ancora chiaro anche all’interno del mondo radicale, figurarsi per quello ruotante dentro e fuori al pianeta carcere. Un interesse per il mondo dimenticato delle carceri è giunto anche da due parlamentari di Sinistra Ecologia e Libertà, che questa mattina hanno svolto una - seppur breve - visita ispettiva all’interno del carcere di Poggioreale. Peppe De Cristofaro e Arturo Scotto - rispettivamente senatore e deputato Sel - assieme al presidente di Antigone Campania, Mario Barone e a Rodolfo Viviani - presidente dell’associazione Plgn - hanno visitato alcune celle del padiglione Avellino, ovvero quelle per i detenuti in isolamento sanitario. Non un caso, data la difficile situazione sanitaria del penitenziario napoletano che nelle scorse settimane ha portato almeno quattro decessi all’interno della struttura. Importante il fatto che altri partiti decidano di interessarsi al problema delle carceri, sebbene in passato ci siamo abituati a visite lunghe più di tre ore condite da lunghe conferenze stampa dei parlamentari radicali - e non - per illustrare quanto appreso nel corso dell’ispezione. Una prassi oggi non osservata ma sempre utile, anche a dimostrare un reale coinvolgimento in una battaglia che, prima ancora che umana è per l’affermazione della legalità, della Costituzione e delle norme di giurisdizione internazionale. La speranza, dunque, è che alla toccata e fuga di stamattina possano seguire non solo altre visite - Poggioreale è immenso - ma soprattutto azioni legislative e politiche concrete. Le Proposte di legge per l’Amnistia, in fondo, Luigi Compagna (Pdl) e Luigi Manconi (Pd) le hanno già presentate. Padova: mobilitazione dei Radicali e appello di De Poli (Il Mattino di Padova) Sovraffollamento al Due Palazzi, un problema che ha portato una decina di militanti radicali a manifestare fuori dal carcere. Lettera aperta del senatore padovano alla ministro Severino Attivisti e simpatizzanti dei Radicali italiani, una decina in tutto, si sono dati appuntamento davanti al carcere di Padova per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema del sovraffollamento e sulla mancanza di lavoro negli istituti di pena italiani. Nella casa di reclusione di Padova ad esempio lavorano, grazie anche al consorzio di cooperative Rebus che in carcere produce panettoni e colombe pasquali, biciclette e valigie, 300 persone su un totale di 900. Si tratta della mobilitazione fatta di cinque giorni di digiuno e nonviolenza lanciata da Marco Pannella in occasione della Settimana Santa. "Stiamo lottando per fare verità sulle carceri - dicono i militanti - l’ultimatum imposto allo Stato Italiano dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo l’8 gennaio scorso, affinchè siano rimosse le cause strutturali che generano trattamenti inumani e degradanti nelle carceri italiane rischia di rimanere lettera morta: vorrebbe dire tradire 60mila detenuti e le migliaia di operatori che ogni giorno lavorano in condizioni non degne di un paese civile". De Poli: "Severino intervenga su Padova". "È assurdo che si parli tanto di emergenza sovraffollamento nelle carceri e che poi, a Padova, ci sia un padiglione completamente ristrutturato e pronto ad ospitare nuovi detenuti ma che rimane chiuso per ragioni di sicurezza. Il muro di cinta, infatti, è pericolante ed è stato dichiarato inagibile nel 1994. Quando tempo dovrà passare prima di intervenire?". A porre l’interrogativo, in una lettera inviata al Ministero della Giustizia e al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, è stato il senatore Antonio De Poli (Scelta civica per l'Italia). Il coordinatore regionale veneto dell’Udc chiede al Ministero di "farsi carico della questione e di sollecitare una risposta". "Secondo quanto apprendiamo dalla stampa locale – ha scritto De Poli nella missiva indirizzata al Ministero, il carcere Due Palazzi, a Padova, ospita un numero di detenuti quasi 3 volte superiore alla capienza della struttura (900 anziché 350) e il fatto che ci sia una nuova ala, appena ristruttura, già pronta ad ospitare 100 detenuti rappresenta una beffa perché quando è stato deciso di ristrutturare il vecchio padiglione, nessun intervento è stato programmato sulle mura di cinta che sono dichiarate inagibili dal lontano 1994". "E’ indispensabile trovare una soluzione operativa al più presto", conclude De Poli che, nei giorni scorsi, ha lanciato la proposta di un Garante per i diritti dei detenuti. "Dopo il richiamo dell’Ue all’Italia sulla questione sovraffollamento nelle carceri – spiega -, sarebbe una prima risposta concreta alla preoccupazione espressa dall’Europa sulla situazione delle nostre carceri". Paola: sciopero della fame contro il sovraffollamento (Avvenire) “Lottare per sopravvivere”: è lo slogan esplicito che ha accompagnato lo sciopero della fame cominciato lunedì da 250 detenuti del carcere di Paola, lungo il Tirreno cosentino. I reclusi - la cui protesta dovrebbe concludersi oggi - con una nota hanno comunicato alla direzione del penitenziario, al provveditorato regionale della Calabria e al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che avrebbero rifiutato il vitto ministeriale giornaliero (colazione, pranzo e cena) chiedendo di darlo in beneficenza al convento dei frati minimi di San Francesco di Paola o a un altro ente. Portavoce dei manifestanti è Emilio Quintieri, recluso poiché coinvolto in una retata di presunti pusher, e recentemente candidato alla Camera dei deputati con la lista “Amnistia, giustizia e libertà”. Lo sciopero promosso dai Radicali per le condizioni delle carceri italiane si estende ai familiari dei detenuti, invitati anch’essi a digiunare. E non è finita, perché nel penitenziario del Cosentino anche la polizia penitenziaria s’è astenuta dalla mensa ordinaria di servizio, preoccupata dalla realizzazione di un nuovo padiglione che farà salire da 250 a 300 i detenuti reclusi. L’Ugl polizia penitenziaria lamenta “l’esiguità del numero delle guardie e il crescente senso di malessere avvertito dal personale che non può non denunciare la grave situazione gestionale in ordine, soprattutto, alla mancata osservazione degli accordi contrattuali che allo stato ledono i diritti soggettivi del personale che deve fruire di migliaia di giorni di congedo e riposi arretrati a far data dal 2010”. Ieri nel carcere di Paola s’è recato in visita, per verificare di persona la situazione, il neo deputato del Partito democratico, Ernesto Magorno. Il sovraffollamento delle carceri calabresi è stato denunciato durante l’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario dal presidente della Corte d’appello di Catanzaro, Gianfranco Migliaccio. Secondo i dati enumerati da Migliaccio la percentuale media di sovraffollamento dei penitenziari ricadenti nel distretto catanzarese sfiora il 119 per cento. Radicali: walk around davanti al carcere di Castrogno (Il Centro) Per dare più vigore alla loro protesta i membri della lista Amnistia Giustizia Libertà organizzano per domani (a partire dalle 15) un “Walk around” dinanzi al carcere di Castrogno. L’intento è quello di far sentire la propria presenza e manifestare in favore dell’amnistia per un più umano trattamento dei detenuti. Dallo scorso 20 marzo infatti il leader dei radicali Marco Pannella è tornato ad attuare, insieme ad altri militanti, lo sciopero della fame con l’intento di non far spegnere i riflettori sulla condizioni di enorme disagio delle carceri italiane. Una nuova richiesta di attenzione verso la legalità che i radicali teramani Ariberto Grifoni, Orazio Papili, Rosa Quasibene e Rosario Papili vogliono sottolineare con questa iniziativa: “Giova a tal fine ricordare - si legge in una nota - che, entro 10 mesi (due sono già passati), l’Italia deve procedere alla rimozione delle cause strutturali che determinano i trattamenti disumani e degradanti negli istituti penitenziari, così come dsposto dalla sentenza (8 gennaio 2013) emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’amnistia, secondo i radicali, rappresenta l’unica riforma immediatamente disponibile per rimuovere quelle cause e per determinare le condizioni per la riforma della Giustizia, oggi annientata da milioni di procedimenti penali e civili pendenti”. Alla manifestazione, a quanto fa sapere Vincenzo di Nanna, referente regionale A.G.L., parteciperanno anche il consigliere Comunale del Pd Alberto Melarangelo e Piero Romanelli, assessore alla Pubblica Istruzione del Comune di Teramo. Sit-in dei Radicali e visita al carcere di Pordenone (Notizie Radicali) Domani pomeriggio l’associazione Radicali Friulani a partire dalle ore 16.00 alle ore 17.30 manifesterà presso il carcere di Pordenone in occasione del Satyagraha lanciato da Marco Pannella per interrompere la flagranza di reato di uno Stato condannato duemila volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’irragionevole durata dei processi, e perché sia immediatamente recepito l’ultimatum della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che l’8 gennaio scorso ha imposto all’Italia, come obbligo violato ormai da decenni, di rimuovere, entro un anno, le cause strutturali del sovraffollamento e di trattamenti disumani e degradanti nelle carceri. Stefano Santarossa, presidente dell’Associazione Radicali Friulani, domani sarà in sciopero della fame insieme a più di 300 cittadini, tra cui detenuti, agenti e familiari dei detenuti. Santarossa ricorda che l’amnistia rappresenta l’unica riforma immediatamente disponibile sia per rimuovere le cause strutturali che determinano i trattamenti disumani e degradanti negli istituti penitenziari, sia per determinare le condizioni per la riforma della giustizia oggi annientata da milioni di procedimenti penali e cause civili pendenti. Insieme ai radicali ci sarà il consigliere regionale dei Cittadini Piero Colussi che incontrerà i detenuti insieme ai radicali per spiegare le motivazioni dell’iniziativa. Giustizia: il ministro Severino; da Papa Francesco un dono per chi ha fame di speranza di Danilo Paolini Avvenire, 29 marzo 2013 Da papa Benedetto XVI a papa Francesco, dal carcere di Rebibbia a quello minorile di Casal del Marmo. Seduta alla scrivania del suo studio in via Arenula, è lo stesso ministro della Giustizia Paola Severino a far notare questa “straordinaria” coincidenza che ha caratterizzato il principio e la fine del suo incarico. Sarebbe stato difficile perfino immaginarlo, osserviamo. “Se avessi voluto ipotizzare una regia di questo mio periodo da ministro della Giustizia, non sarei mai riuscita a sognare una cosa più bella”, è la sua risposta. Con il Papa a Casal del Marmo, di Giovedì Santo, per la Messa “in Coena Domini”. Tra i tanti significati possibili, ne scelga uno. È la chiusura straordinaria di un percorso, di un anno e mezzo eccezionale della mia vita. Un percorso che, appunto, si è aperto con la visita a Rebibbia di Benedetto XVI nel 2011 e che si è chiuso così, tra i ragazzi di Casal del Marmo insieme a papa Francesco. Due personalità diverse, ma entrambe attente alla necessità di essere vicini alle persone solitamente lasciate sole dalla società. Persone che, nel conforto della religione o di figure di riferimento come questi due Papi, possono trovare grande consolazione. Le espressioni con le quali questi giovani guardano al Papa sono quelle di chi ha bisogno di un modello, di una figura paterna. Tanto che nelle lettere che gli hanno scritto, alcuni lo hanno chiamato “Papà”... Negli occhi di Francesco ho visto tanto amore e spirito di servizio. Mi ha colpito il suo invito ai ragazzi: “Non lasciatevi rubare la speranza”. Parole che danno un senso speciale al nostro “custodirli”. Già da arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Bergoglio usava celebrare la Messa “in Coena Domini” tra i bisognosi: poveri, malati, detenuti. Quanto “bisogno” c’è in una realtà come quella di Casal del Marmo? Tantissimo. È un discorso valido per tutti i detenuti minorenni. Avvertono l’esigenza di cambiare, di fidarsi, di sperare. Spesso non hanno una famiglia o, se ce l’hanno, li ha cresciuti nella sub-cultura dell’illegalità. Non di rado sono analfabeti, a volte vengono sfruttati dai loro familiari e costretti a commettere reati. La forte percentuale di recidiva tra gli ex-detenuti giovani è dovuta proprio a questo fenomeno. Il vero problema di un detenuto minorenne è l’uscita dal carcere, non l’ingresso, che anzi è il momento in cui comincia ad avere delle regole. Ma farcela da soli è dura. Come aiutarli? L’intera società è chiamata a farlo, non si può delegare il recupero soltanto all’opera, preziosa, del volontariato. Il lavoro, per l’ex-detenuto minorenne o adulto, è il punto di partenza: oltre il 97% delle persone che trovano un’occupazione dopo aver lasciato il carcere non ricadono nella criminalità. Si deve creare una cultura sociale, che in Italia manca, per cui chi ha sbagliato non è escluso a vita. Il fatto che tra i suoi primi impegni, e in una giornata molto significativa come il Giovedì Santo, Francesco abbia scelto di visitare un carcere minorile rappresenta un’occasione per un risveglio delle coscienze verso questo problema. Ci può raccontare come è nata l’iniziativa? Posso dire che, appena ho visto il Papa affacciarsi dalla Loggia delle benedizioni, sono stata colpita dal suo sguardo profondo e dalla sincerità dei suoi accenti. Mi sono detta: “Mi piacerebbe invitarlo a visitare un carcere insieme”. La mattina dopo, per le vie informali, ho fatto presente questa ipotesi, che il Pontefice ci ha fatto l’onore di rendere realtà. Tra le “periferie esistenziali” che Francesco ci esorta a frequentare c’è quella carceraria. Lei, da ministro, lo ha fatto molto spesso. Che situazioni ha trovato? Ho trovato abissi di disperazione e picchi di speranza. E anche picchi di qualità tra coloro che nelle carceri lavorano. Ogni visita è un segnale di speranza che va al di là dell’esigenza, che è e resta fondamentale, di risolvere problemi drammatici come quello del sovraffollamento. Perché la visita è la società che entra nel carcere. E se la società è rappresentata dalle istituzioni, ciò è ancora più importante per il detenuto. In realtà difficili come San Vittore, Poggioreale, Marassi, dove pensavo di trovare rabbia e critiche, ho al contrario constatato la gioia di ricevere la mia visita: strette di mano, sorrisi, detenuti che tenevano la mia fotografia nell’armadietto, uno mi ha regalato un mio ritratto dipinto a olio su tela... Ed erano visite non preannunciate! Mi sono chiesta e ho chiesto loro perché. La risposta è stata che un ministro che entra nelle celle e osserva da vicino come vivono, dove dormono, che cosa mangiano, dà l’idea che c’è qualcuno che si occupa delle loro enormi difficoltà. Per i minorenni è vigente l’istituto della “messa alla prova” con sospensione del processo, che lei ha cercato di estendere anche agli adulti con il disegno di legge sulle pene alternative, silurato sul traguardo da alcuni gruppi politici. Nutre qualche speranza che venga ripescato? Due buoni segnali sono arrivati dai presidenti di Senato e Camera, Grasso e Boldrini, che nei loro discorsi di insediamento hanno fatto riferimento al carcere. Credo fermamente nelle misure alternative e in particolare nella “messa alla prova”, perché ne ho verificato l’efficacia da avvocato. Una volta ho assistito il figlio di conoscenti accusato di un grave reato, ottenendo la “messa alla prova” con affidamento ai servizi sociali prima per 12 mesi, poi per 18. Quando l’ho rivisto, quel giovane era completamente cambiato: voleva riprendere a studiare e laurearsi in Giurisprudenza per fare l’avvocato penalista come me. Ecco come una misura applicata bene può veramente cambiare la vita di un ragazzo. Ma anche di un uomo o di una donna. Del resto si tratta di istituti ampiamente sperimentati, con successo, all’estero: in Francia e in Germania il 75% delle condanne viene scontato fuori dal carcere, da noi meno del 20%. Se dovesse lasciare un appunto sulla scrivania per il suo successore? Scriverei proprio questo: “Non dimenticarti del carcere”. Penso che debba essere la prima cura di un ministro della Giustizia, in una situazione grave come la nostra. Adesso tornerà a fare l’avvocato? Tornerò soprattutto a fare il professore universitario, credo che travasare agli studenti questa mia esperienza da ministro sia molto importante e formativo per loro. Ne avverto l’urgenza, ho quasi paura di dimenticare qualche particolare e di non poterlo riferire: come si fanno le leggi, come si pensano le norme che incidono sulla vita di tutti noi. Oltre quello che studiano sui libri, c’è la vita vissuta. Ci salutiamo. Dalle pareti dell’austero corridoio del ministero ci osservano i ritratti dei precedenti Guardasigilli. Tra poco si aggiungerà anche quello di Paola Severino. E chissà che non venga appeso quello realizzato dal detenuto pittore. Forum sanità penitenziaria: da Papa grande gesto di apertura “Dal Papa un grande gesto di apertura verso il carcere. Mi auguro che anche le istituzioni dimostrino una sensibilità simile, varando una serie di misure alternative al carcere”. Lo afferma il senatore Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per la sanità penitenziaria. “Accanto a questo serve un impegno di tutti i ministeri interessati affinché tra un anno si possano davvero chiudere gli Opg - continua Di Giovan Paolo. Altri rinvii non li accetteremo”. Giustizia: Consulta; no a custodia cautelare solo in carcere per reati connessi al 416-bis Adnkronos, 29 marzo 2013 No alla presunzione assoluta e generalizzata della custodia cautelare in carcere per reati indirettamente connessi con l’art. 416-bis del codice penale (associazione di tipo mafioso): la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di parte dell’articolo 275 (comma 3, secondo periodo) del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38. L’illegittimità costituzionale è stata dichiarata per la parte in cui, nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Era stato il Tribunale di Lecce, sezione riesame, con due ordinanze depositate, rispettivamente, il 16 maggio e il 7 giugno 2012 a sollevare, in riferimento agli articoli 3, 13 e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale. Nella sentenza n° 57, depositata oggi, la Consulta rileva che la posizione dell’autore dei delitti commessi avvalendosi del cosiddetto metodo mafioso o al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso, delle quali egli non faccia parte, si rivela non equiparabile a quella dell’associato o del concorrente nella fattispecie associativa, per la quale la presunzione delineata dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. risponde a dati di esperienza generalizzati. A giudizio della Corte costituzionale, deve escludersi che l’inserimento dei delitti commessi avvalendosi del cosiddetto metodo mafioso, o al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall’art. 416-bis cod. pen., tra i reati indicati dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. sia idoneo, di per sé solo, a offrire legittimazione costituzionale alla norma in esame: la disciplina stabilita da tale disposizione, infatti, risponde a una logica distinta ed eccentrica rispetto a quella sottesa alle disposizioni sottoposte a scrutinio, trattandosi di una normativa ispirata da ragioni di opportunità organizzativa degli uffici del pubblico ministero, anche in relazione alla tipicità e alla qualità delle tecniche di indagine richieste da taluni reati, ma che non consentono inferenze in materia di esigenze cautelari, tantomeno al fine di omologare quelle relative a tutti procedimenti per i quali quella deroga è stabilita. Deve, pertanto, concludersi - sottolinea la Consulta - che le norme censurate sono in contrasto sia con l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi riconducibili alle due fattispecie in esame; sia con l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, con l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena. Ciò che vulnera i parametri costituzionali richiamati, rileva la Consulta, non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilevanza al principio del minore sacrificio necessario. La previsione, invece, di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria - atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio, suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario - non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso. La presunzione assoluta sulla quale fa leva il regime cautelare speciale non risponde per la Corte, con riferimento ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. o al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, a dati di esperienza generalizzati, essendo agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa. Infatti - viene rilevato - la possibile estraneità dell’autore di tali delitti a un’associazione di tipo mafioso fa escludere che si sia sempre in presenza di un reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità - per radicamento nel territorio, intensità dei collegamenti personali e forza intimidatrice - vincolo che solo la misura più severa risulterebbe, nella generalità dei casi, in grado di interrompere (sentenza n. 164 del 2011). Se, come si è visto, la congrua base statistica della presunzione in questione è collegata all’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso (sentenza n. 265 del 2010), una fattispecie che, anche se collocata in un contesto mafioso, non presupponga necessariamente siffatta appartenenza non assicura alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere un fondamento giustificativo costituzionalmente valido. Giustizia: a Pasqua lo “sciopero della messa” degli uomini ombra 9Colonne, 29 marzo 2013 “Ognuno combatte con le armi che ha ed ho pensato di proporre a tutti gli uomini ombra, sparsi nelle nostre Patrie Galere, lo sciopero della messa di Pasqua, perché per noi, almeno su questa terra, non ci sarà mai resurrezione”. È quanto si legge in una “lettera aperta” che Carmelo Musumeci - ergastolano 57enne con pena ostativa e che dal carcere da anni denuncia la disumanità del “fine pena mai” - invia a don Oreste Benzi, il fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII scomparso nel 2007 ma anche a don Gallo, don Ciotti e don Mazzi, primi firmatari di una proposta di iniziativa popolare per l’abolizione dell’ergastolo cui si può aderire tramite il sito www.carmelomusumeci.com. “Diglielo tu a Dio, io non ho il coraggio (e poi sono anche ateo) che gli uomini ombra per Pasqua non andranno a messa”, “guarda cosa puoi fare da lassù perché stiamo invecchiando e non abbiamo più tempo. Siamo disperati, molti di noi (siamo già quasi in 300 che hanno aderito) a settembre sono pronti anche per uno sciopero della fame: non ci resta che la nostra vita per cercare di ritornare nel mondo dei vivi e lotteremo con quella” scrive Musumeci nella lettera al religioso scomparso: “Don Oreste, nonostante le numerose iniziative, appelli, le lettere, le firme raccolte e le numerose adesioni di persone importanti, come Margherita Hack, Umberto Veronesi, Agnese Moro e Bianca Berlinguer, ma anche di tanti uomini e donne di Chiesa, contro l’esistenza in Italia della Pena di Morte Viva, l’ergastolo senza benefici, nulla è cambiato”. “Don Oreste, è da pazzi giudicare un uomo o una donna colpevole per il resto della sua vita e, a parte l’errore, è un orrore - prosegue -. Molti di noi sono diventati uomini nuovi, perché continuano a punirci? Che c’entriamo noi con quelli che eravamo prima? Don Oreste, dall’ultima volta che ti ho visto nel carcere di Spoleto, quando ti schierasti dalla parte dei più cattivi (prima di te lo aveva fatto solo Gesù) mi manchi, ma perché te ne sei andato così presto in cielo? Ora ci sentiamo più soli”. Carmelo Musumeci è nato ad Aci Sant’Antonio il 27 luglio 1955 ma è emigrato dalla Sicilia da quando aveva 6 anni. In Versilia gestiva bische clandestine e traffico di stupefacenti che lo hanno fatto entrare in conflitto con altre bande rivali, per questo motivo e per la natura della sua associazione è stato condannato in base al 416 bis, senza però avere mai contatti con la mafia siciliana. Condannato all’ergastolo, nel luglio scorso è stato trasferito dal carcere di Spoleto a quello di Padova. Ha scontato finora 22 anni di carcere. Ha una famiglia vicino a Viareggio. Oltre alla compagna, ha due figli, Barbara e Mirko e due nipotini, Lorenzo e Michael. Egli ama definire tutti loro come “la luce dell’Uomo Ombra”. Entrato in carcere con la licenza elementare, quando era all’Asinara, in regime di 41 bis, ha ripreso gli studi e da autodidatta ha terminato le scuole superiori. Nel 2005 si è laureato in giurisprudenza con una tesi in sociologia del diritto dal titolo “Vivere l’ergastolo”. Attualmente è iscritto all’università di Perugia al corso di laurea specialistica e sta preparando la tesi di laurea con il prof. Carlo Fiorio, docente di Diritto processuale penale. È promotore della campagna “Mai dire mai” per l’abolizione dell’ergastolo, riproponendo i temi che diffonde attraverso il suo sito web www.carmelomusumeci.com. È autore di diverse raccolte di racconti e poesie, tra le quali Le avventure di Zanna Blu (pseudonimo che Musumeci si è dato) e Gli Uomini Ombra, editi da Gabrielli Editori. Ha scritto nella conclusione della sua tesi di laurea: “Spesso si vuole che il detenuto, in quanto prigioniero, debba accettare di essere punito ingiustamente, si vuole che il detenuto sia sempre e soltanto ciò che il carcere lo farà essere. Spesso al detenuto conviene non avere mai un pensiero autonomo e conviene essere sempre d’accordo con il suo carnefice. Invece il carcerato ha tanto da trasmettere e da comunicare. In carcere convivono: dolore, prostrazione, fede, abbandono, odio, pentimento, talvolta brutalità, ma anche un senso infinito di umanità e la possibilità di rinascere”. Nel febbraio del 2010, ha scritto in uno dei suoi post: “Non mi sento innocente, ma neppure colpevole, piuttosto mi sento innocente di essere colpevole. La mia storia giudiziaria è semplice, lo dice la motivazione di condanna che mi ha condannato per un omicidio alla pena dell’ergastolo, che, nonostante la grande differenza fra verità vera e quella processuale, ha stabilito: “In un regolamento di conti il Musumeci Carmelo è stato colpito da sei pallottole a bruciapelo, salvatosi per miracolo, in seguito si è vendicato e per questo è stato condannato alla pena dell’ergastolo”. In molti casi non ci sono né vittime, né carnefici, né innocenti, né colpevoli, perché sia i vivi che i morti si sentivano in guerra. E quando ci si sente in guerra, al processo non ci si difende, si sta zitti e ci si affida alla Dea bendata. Non si maledice la buona o la cattiva sorte, anche se si pensa spesso che i morti sono stati più fortunati dei vivi se i vivi sono stati condannati all’ergastolo”. Giustizia: caso Aldrovandi; la madre sporge querela contro il Coisp e ex senatore Balboni di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 29 marzo 2013 Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, 18 anni, ucciso durante un controllo di polizia il 25 settembre 2005 da quattro agenti, condannati in via definitiva a tre anni e sei mesi di reclusione (di cui tre indultati) per omicidio colposo, dice basta a chi “infanga la memoria di mio figlio”. E al sindacato di polizia Coisp che ieri ha accusato il ministro degli interni Anna Maria Cancellieri di “ipocrisia”, chiedendone le dimissioni, risponde: “Sono parole che confermano la loro mancanza di rispetto verso le istituzioni, verso Federico e la sua famiglia, la nostra città e le sentenze dei tribunali. Sono alla ricerca di visibilità. Prima di Ferrara sono stati a piazza Alimonda a Genova, dov’è stato ucciso Carlo Giuliani. Sono persone che si introducono nelle situazioni più buie della storia delle forze dell’ordine e rivendicano queste azioni come solidarietà ai chi si è reso protagonista di episodi terribili. Lo trovo disumano. Il Coisp si ritiene libero di torturarci, di venire a Ferrara a cercare notorietà ai danni della famiglia della vittima. È ora di cambiare le cose. Bisogna che le istituzioni prendano provvedimenti. Fino ad oggi nessuno ha fatto veramente qualcosa. Basta dire che non rientra nelle loro competenze e che non sono responsabili. Noi familiari restiamo sempre soli. Penso a Lucia Uva che si è presa una querela per diffamazione da parte di chi ha probabilmente causato la morte di suo fratello. Invece di proseguire le indagini, il pubblico ministero apre un fascicolo su di lei”. A quali provvedimenti sta pensando? Non sono un legale, ma torturare la gente in questo modo dovrebbe essergli impedito a monte. Cavolo, queste persone sono sempre libere di venire a torturarci. Io tra un po’ le denuncio per stalking. E questo lo devo fare sempre io, capisce? E arriva sempre da quella gente che si fa forte del fatto che tanti loro colleghi sindacalisti hanno mantenuto questo atteggiamento a Ferrara per molto tempo. Basta leggere i giornali online locali che si riempiono di insulti nei nostri confronti. In generale, penso all’istituzione del reato di tortura o al numero di riconoscimento degli agenti sulle divise o sui caschi. Da chi arrivano questi insulti? Da chi appartiene alle forze dell’ordine che guarda caso non si firma e usa pseudonimi. Conferma di avere esposto querela contro il segretario del Coisp Franco Maccari e contro l’ex senatore Pdl, ora in Fratelli d’Italia, Alberto Balboni? Certo. La mia querela riguarda quello che hanno affermato sulla stampa che riporta anche quanto affermato durante il congresso del Coisp tenutosi mercoledì a Ferrara. La querela riguarda le affermazioni di Maccari secondo il quale la foto di Federico che lei ha esposto pubblicamente sia un “fotomontaggio” e non sarebbe stata accettata in sede processuale? Questa è una bugia enorme. È stato uno degli atti decisivi del processo. Quanto all’affermazione di Balboni, secondo il quale le finestre del suo ufficio non affacciano sulla piazza dove il Coisp ha tenuto il suo presidio? Il mio ufficio non affaccia sulla piazza, ma io in comune non sono inchiodata sulla sedia. Il presidio lo guardavo da una finestra in un corridoio. Loro manifestavano davanti agli uffici dove lavoro. Dicono anche che lei, scendendo in piazza insieme a due colleghe, abbiate improvvisato una “manifestazione non autorizzata” durante il vostro orario di lavoro. Ci siamo premurate di marcare il cartellino per recuperare il nostro orario. Nessuno ha rubato tempo al lavoro. Eravamo indignate per il comportamento di quel deputato, che non sapevamo fosse tale, che ha affrontato con fare aggressivo il sindaco Tagliani. Allora abbiamo deciso di scendere. Eravamo solo tre donne, e non c’era nessuna organizzazione. Lei parla di difficoltà imposte dagli organi inquirenti in sede processuale che hanno impedito di fare luce sull’omicidio di Federico. A cosa allude? Prima delle condanne definitive ci sono stati insabbiamenti e depistaggi avvenuti nei primi mesi, fondamentali per stabilire la verità. Ad esempio non sono stati sequestrati i manganelli. Abbiamo saputo che erano stati rotti da un’interrogazione parlamentare. Durante il processo in che modo la polizia le ha manifestato solidarietà? Ieri mi ha telefonato l’ex questore Longo, ora a Catania, oltre a molti suoi colleghi. Il processo è stato difficile. Il questore Graziano querelò dodici persone che hanno scritto sul mio blog. Ad un anno dalla morte di Federico subentrò Savina che aprì gli armadi e permise di accedere alle prove. Un cambiamento di atteggiamento confermato anche con Longo che ci è stato vicino. Si augura che al sit-in di oggi ci sia anche una rappresentanza della polizia? Io ho invitato i poliziotti che si sono dissociati dal comportamento dei loro colleghi. Sono i benvenuti se se la sentono. Però so benissimo che è molto difficile, visto il clima tra di loro. Lettere: il carcere e i bambini di Cecilia Sechi (Garante dei diritti dei detenuti di Sassari) La Nuova Sardegna, 29 marzo 2013 L’articolo di venerdì 22 marzo “Un carcere per le detenute mamme”, mi permette di dare alcune informazioni in un’ottica collaborativa sull’istituto di San Sebastiano le cui gravi condizioni strutturali e il sovraffollamento, che tutti purtroppo conosciamo, non devono, però, offuscare il grande lavoro che dentro quelle mura viene svolto, tra mille difficoltà, dagli educatori, dal personale amministrativo, dagli agenti e ovviamente dalla Direzione. Al momento è presente in carcere un solo bambino che, grazie all’abnegazione di educatori ed agenti, viene accompagnato ogni giorno presso un nido privato per non gravare troppo sulla disponibilità dell’Ufficio Nidi del Comune di Sassari che ha firmato col carcere in data 8 marzo 2012 una convenzione voluta dal Garante per l’inserimento dei bambini presenti a San Sebastiano nei nidi comunali e che anche quest’anno ha rinnovato la piena disponibilità; un altro bambino, dallo scorso anno, frequenta regolarmente un nido comunale, grazie ad una cordata di mamme che si danno il turno per accompagnarlo e riprenderlo e che sono state assicurate gratuitamente dalla Reale Mutua. Particolarmente rilevante è, però, il fatto che senza “l’assenso formale” della madre alla frequentazione del nido, niente possono fare educatori ed agenti, se non un delicato e spesso lungo lavoro con la mamma per convincerla dei lati positivi che la frequentazione del nido potrebbe avere sul suo bambino: purtroppo non sempre questo lavoro degli educatori e degli agenti porta ad un esito positivo. Mi sia permesso in questo breve intervento, per quanto concerne, invece, l’eccellente lavoro che le varie aree del carcere riescono a svolgere, fare un esempio per tutte: come Coordinamento Nazionale Garanti abbiamo vigilato sul diritto di voto dei detenuti e il carcere di Sassari è stato tra i più virtuosi a livello nazionale, grazie anche alla scrupolosa precisione dell’Ufficio Matricola e della Direzione: a San Sebastiano hanno votato 43 detenuti su una popolazione di 141, 15 detenuti hanno rifiutato di votare, 35, invece, hanno perso il diritto al voto e 48 non hanno potuto votare poiché stranieri. Veneto: protocollo d’intesa tra Unioncamere e Prap su lavoro penitenziario Agenparl, 29 marzo 2013 Il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige e Unioncamere del Veneto sottoscrivono un protocollo d’intesa per l’attivazione di una rete stabile di comunicazione finalizzata alla valorizzazione delle lavorazioni penitenziarie. La cerimonia di presentazione e la sottoscrizione dell’accordo si terranno: Giovedì 4 aprile 2013, alle ore 11.00 presso la Sala Europa di Unioncamere del Veneto Pst Vega - Edificio Lybra, Via delle Industrie 19/c - Marghera Venezia Obiettivo del protocollo è sviluppare una sinergica rete di comunicazione tra i rispettivi referenti sul territorio veneto: gli Istituti penitenziari e gli Uffici di esecuzione penale esterna dell’Amministrazione Penitenziaria da una parte, le Camere di Commercio del Veneto dall’altra. Le azioni che, attraverso il protocollo, i firmatari si propongono di realizzare mireranno a fare conoscere alle imprese della nostra regione le problematiche dell’ambiente penitenziario in materia di lavoro, valorizzare le lavorazioni presenti all’interno delle strutture detentive e promuovere attività di orientamento e di formazione riguardanti la cultura della creazione di impresa a favore delle persone ristrette negli istituti penitenziari e di quelle in esecuzione penale esterna. Il protocollo d’intesa sarà illustrato da Roberto Furlan, Vicepresidente Unioncamere del Veneto, e Pietro Buffa, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenzia ria per il Triveneto. Parma: Barbacini (Sel); cosa ne sanno del carcere quelli del M5S? www.parmadaily.it, 29 marzo 2013 Leggo il comunicato della consigliera Gianferrari del M5S, in cui si dichiara toccata dalla visita effettuata nelle carceri di Via Burla, per la realtà carceraria in sé ed anche per le condizioni dei detenuti, e chiede alla cittadinanza di farsi carico del problema ed evitare di negarne l’esistenza, affrettandosi ad informare che con l’assessore Rossi sta pensando di istituire la figura del Garante cittadino. Non posso che restare esterrefatta di fronte a tali affermazioni. Faccio presente alla consigliera Gianferrari, nel caso le fosse sfuggito, che lo stesso assessore che adesso si prodiga per la figura del garante dei detenuti, non più tardi di 3 mesi fa ha decurtato del 60% le risorse per le attività che le associazioni svolgono internamente, proprio quelle figure che lei tanto ringrazia e decanta, l’opinione delle quali mi piacerebbe conoscere relativamente alla questione. Il tutto dopo aver messo mano, nel dicembre scorso, alle graduatorie per l’accesso ai nidi togliendo, guarda caso, proprio ai bimbi figli di detenuti la possibilità di avere un punteggio aggiuntivo, in virtù della disagiata situazione. Sottolineo che tutto ciò rientra nell’attuazione dell’art.27 della costituzione che lei stessa cita, ma che forse non conosce a fondo. E per finire porto a conoscenza della consigliera e di tutta l’amministrazione, che a livello regionale esiste la figura del garante nella persona di Desi Bruno, a disposizione dallo scorso anno grazie al lavoro del gruppo Sel-Verdi, e che la nomina è stata osteggiata anche dai rappresentanti del M5S che non hanno partecipato alla votazione assentandosi. Più che chiedersi dunque, che cosa sanno i parmigiani delle carceri, suggerisco alla Sig.a Gianferrari di chiedersi cosa ne sanno i suoi referenti, perché con tali affermazioni si dimostra ancora una volta, la totale confusione nell’agire di un’amministrazione che procede senza un progetto globale e senza una conoscenza approfondita della realtà che si trova a governare. Federica Barbacini Coordinatrice provinciale Sel Parma Lamezia: Camera Penale e Sindacati PolPen in protesta contro chiusura carcere in città www.lametino.it, 29 marzo 2013 Giornata di mobilitazione a difesa del carcere di Lamezia, l’unico che, secondo il Piano Carceri, dovrebbe essere chiuso in Calabria. Una struttura che esiste sul territorio lametino e calabrese da oltre 200 anni e che è ospitata in un antico convento del 1400 nel cuore della città. Un carcere diretto da donne che lo stesso Osservatorio Antigone ha definito come “piccolo ma efficiente”. Purtroppo, a meno di ripensamenti dell’ultima ora, il carcere di Lamezia è destinato a chiudere nell’ambito di una politica di risparmio. I detenuti ed il personale dovrebbero essere trasferiti a Siano, a Catanzaro, dove è invece previsto il potenziamento del carcere con la realizzazione di un nuovo padiglione da 300 posti. Questa mattina a protestare c’erano un po’ tutti: quelli del comitato Sintal con il presidente Materasso, gli altri avvocati in rappresentanza anche della Camera Penale cittadina, quelli delle varie associazioni del territorio e di categoria, i politici locali. Presente anche Damiano Bellucci segretario regionale Sappe che si è augurato “che venga rivista questa decisione sulla rivisitazione dei circuiti penitenziari in ambito regionale”. Per Bellucci comunque l’errore fondamentale è che negli anni passati “non è mai stato previsto per Lamezia la realizzazione di un nuovo istituto penitenziario. Per noi deve continuare a funzionare questa struttura ma è certo che poi bisognerebbe intervenire per la costruzione di una nuova, funzionale per tutta la regione considerato il baricentro di questo territorio”. L’avvocato Cesare Materasso del comitato Sintal, promotore dell’iniziativa odierna, ha spiegato come il “nostro movimento ha deciso di prendere una posizione forte a difesa del carcere e della città di Lamezia perché questo è un simbolo, una struttura fondamentale d’appoggio per il tribunale. Togliere questa struttura detentiva - ha spiegato - significherebbe ancora una volta tentare d’indebolire l’apparato giustizia in questa città nonché di indebolire l’attività del tribunale che avrebbe difficoltà pratica e logistica, non avrebbe più la possibilità di avere i detenuti nel territorio comunale e sorgerebbero problemi anche nel caso di convalida di fermi e arresti, tanto per fare un esempio, con aggravio dei costi e dei tempi”. Materasso ha poi aggiunto come non debba “passare assolutamente il concetto che si vuole chiudere una struttura che non è a norma o per un fatto di risparmio perché questa è una struttura che lavora da oltre due secoli e che l’Associazione Antigone, ha definito piccola ma a norma ed efficiente per tutto quel che viene organizzato al suo interno, con tutta una serie di servizi al suo interno”. Per il presidente del Comitato Sintal non si tratterebbe di “una politica del risparmio, in quanto tutto verrebbe trasferito a Siano e ci sarebbero comunque dei costi”. Infine, Materasso sprona la popolazione a reagire rispetto a quest’ennesimo torto subìto dalla città: “Lamezia deve reagire - e aggiunge come - noi faremo il nostro fungendo da pungolo rispetto alla politica, perché chi rappresenta questo territorio non può subire passivamente questo ennesimo spoglio. L’opinione pubblica deve capire che Lamezia è sottoposta ad un nuovo spoglio che va a rinforzare i capoluogo di regione. Non va tolto più nulla a questa città - conclude con veemenza - siamo stanchi di subire spogli. Questa città va tutelata, difesa e noi siamo qui a dare questo segnale forte, nuovamente”. Cagliari: Sdr; sopralluogo tecnici Asl in Centro Diagnostico Terapeutico di Buoncammino Agenparl, 29 marzo 2013 “È iniziato il percorso che consentirà al Centro Diagnostico Terapeutico di Buoncammino di essere a norma. Un primo sopralluogo dei tecnici dell’Asl n. 8 ha infatti consentito di verificare le condizioni dell’area della Casa Circondariale di Cagliari destinata ai detenuti in precarie condizioni di salute”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, sottolineando che “finalmente saranno avviati i lavori indispensabili per restituire dignità al Cdt, ormai obsoleto”. “L’abbandono di questi ultimi anni che si è aggiunto alle condizioni strutturali dell’edificio - ha aggiunto Caligaris - hanno trasformato un luogo di degenza e di cura in uno spazio con mura scrostate, docce intasate e tubi arrugginiti da cui spesso non fuoriesce neppure l’acqua e dove l’impianto elettrico non risponde alle esigenze di pazienti e medici. La messa a norma comporterà una riduzione dei posti letto e l’adozione di strumenti diagnostici più moderni e funzionali. L’intervento si è reso inderogabile in seguito al passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia alla Azienda Sanitaria Locale e in attesa della realizzazione della nuova struttura penitenziaria di Uta i cui lavori sono in grave ritardo”. “Il disagio dei detenuti nel Centro Diagnostico è stato più volte segnalato - ha concluso la presidente di Sdr - dai loro familiari, ma fino ad ora era stato ignorato. L’iniziativa della Asl 8, che dovrà essere completata in tempi contenuti, garantirà una migliore qualità igienico-sanitaria per la vita di persone anziane e malate che soffrono per disturbi invalidanti ma alle quali non è concesso, secondo alcuni periti, lasciare le celle”. Nelle scorse settimane peraltro sono stati rimossi i letti a castello che per il sovraffollamento esponevano i degenti a rischio di incidenti. Torino: crisi economica e sovraffollamento, il carcere ha bisogno di aiuti esterni www.torinotoday.it, 29 marzo 2013 L’Amministrazione da sola non ce la farebbe a pagare le spese per i beni di prima necessità per tutti i detenuti. Colpa della crisi e del sovraffollamento. In aiuto arriva la donazione dell’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo Il problema del sovraffollamento delle carceri è cosa tanto nota quanto denunciata dai sindacati di polizia penitenziaria. A monte c’è una condizione precaria per i detenuti e un problema per la sicurezza degli agenti stessi, che già di per sé sono meno del numero ottimale. A tutto questo si aggiunge anche una parte economica, in cui rientra una grossa spesa che serve per i generi di prima necessità per i carcerati. Nonostante la crisi però la Casa Circondariale di Torino, intitolata a Lorusso e Cutugno, potrà contare anche per quest’anno sui soldi messi a disposizione dall’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo. Centomila euro che rappresentano una somma quasi necessaria per continuare a garantire i beni di prima necessità agli oltre 1.500 detenuti (400 in più rispetto a quanto dovrebbero essere). I soldi ricevuti saranno spesi per la pulizia delle celle, per le cure odontoiatriche dei carcerati, per il materiale sanitario e di igiene personale, oltre che per gli alimenti e vestiario. La triste realtà è che senza la donazione ricevuta l’Amministrazione della Casa Circondariale non ce la farebbe a farcela da sola. I detenuti in teoria eseguono alcuni lavori e vengono in cambio retribuiti. Sì, però questo avviene in teoria, soprattutto per quanto riguarda il lavoro a supporto dei detenuti disabili. Il vicedirettore dell’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo, Maria Pia Brunato, firmando il rinnovo della convenzione ha ammesso che i due euro all’ora che guadagnano i carcerati in realtà non sono retribuiti da mesi da parte dell’Asl. Bolzano: direttrice; la spending-review ci ha rovinato, tiriamo avanti grazie al volontariato Alto Adige, 29 marzo 2013 “Ho imparato a chiedere”. Così la direttrice del carcere di via Dante, Maria Rita Nuzzaci, riassume la situazione della struttura nell’era del dopo spending-review. “Hanno chiesto di risparmiare sugli optional, ma qui non ne abbiamo mai avuti, e quindi i tagli sono arrivati all’osso”. Manca più o meno tutto, spiega la direttrice, “dalla carta ai toner per la fotocopiatrice, fino alle attività e la biancheria per i detenuti, “siamo debitori dell’immensa generosità delle associazioni di volontariato”. Non si tratta ormai solo di rendere meno penosa la detenzione, spiega la direttrice, “ma di garantire il funzionamento della struttura: senza la San Vincenzo non avremmo la cancelleria e il corredo per le celle”. Lo stesso vale per i progetti della Fondazione Cassa di Risparmio e per le sovvenzioni di Comune e Provincia. “Da tempo ho imparato a bussare alle porte al di fuori di questa struttura, e per fortuna le ho sempre trovate spalancate”. In attesa della realizzazione del nuovo carcere e della fine, si suppone, dei problemi, “il progetto è in marcia - conferma la direttrice - nel frattempo però non possiamo fermarci, e quindi ci impegniamo giorno dopo giorno”. Stati Uniti: a Guantánamo niente acqua potabile per detenuti in sciopero della fame Tm News, 29 marzo 2013 I prigionieri di Guantánamo in sciopero della fame hanno denunciato di non aver accesso all’acqua potabile e di essere tenuti in celle a temperature “estremamente rigide”. Le accuse, mosse dai loro legali, sono state respinte come “false” dalle autorità americane. Nella sua denuncia, un detenuto yemenita, Musaab al-Madhwani, detenuto nel carcere di Cuba da 11 anni, ha chiesto “un aiuto umanitario d’urgenza” ai suoi carcerieri sotto forma di acqua potabile e di indumenti caldi. Al Madhwani “non assume più acqua e cibo”, aderendo allo sciopero della fame in atto da sette settimane. Ora, da tre giorni, ai detenuti viene negato l’accesso all’acqua potabile, secondo quanto riferito dal legale dello yemenita, secondo cui “i guardiani gli dicono di bere dal rubinetto, ma l’acqua del rubinetto non è potabile a Guantánamo”. Inoltre, “da 10 giorni, le autorità carcerarie tengono l’aria condizionata a temperature estremamente rigide”, mentre i detenuti hanno solo indumenti di cotone. Secondo il legale, il comando di Guantánamo starebbe così cercando di far rientrare lo sciopero della fame”. Le accuse sono state confermate alla France presse da altri due avvocati che rappresentano 17 prigionieri. Da parte sua un portavoce della prigione, il capitano Robert Durand, ha dichiarato che “la temperatura è confortevole e non è stata modificata per punire i prigionieri”, mentre l’acqua del rubinetto nel carcere è “la stessa acqua con cui faccio il mio caffè”. Sono 31 i prigionieri in sciopero della fame, sui complessivi 166. Russia: truffato il Servizio penitenziario; decine di migliaia di braccialetti elettronici finti di Astrit Dakli www.globalist.it, 29 marzo 2013 Ma è solo la punta dell’iceberg, rivelata dalla campagna anticorruzione promessa da Putin e avviata nei ministeri. Truffe e varie operazioni fraudolente per oltre 10 miliardi di rubli (250 milioni di euro) sono state scoperte da un’inchiesta interna al Servizio penitenziario federale russo (Fcin in sigla). La notizia non rivela niente che ai cittadini russi non sia noto da sempre - la corruzione all’interno del mastodontico sistema penitenziario è una costante fin dai tempi di Pietro il Grande, e ovviamente anche da prima, salvo essere chiamata con altri nomi - ma fornisce alcuni interessanti flash sui nuovi modi in cui il sistema creato per punire i reati finisce per incoraggiarne altri ai massimi livelli. La truffa più assurda, riportata dai media locali con gran rilievo, è quella che ha visto il Fcin ordinare e acquistare a caro prezzo - per una somma totale di oltre un miliardo di rubli, circa 25 milioni di euro - una grossa partita di braccialetti elettronici per la sorveglianza dei detenuti agli arresti domiciliari. Gli apparecchi, dall’aspetto simile a quello di semplici orologini digitali da polso, sono stati ordinati personalmente dall’ex capo del servizio penitenziario, Aleksandr Reimer, a una ditta praticamente sconosciuta, in quantità molto superiore alle necessità (la detenzione ai domiciliari non è una misura molto usata in Russia) e saltando ogni verifica sulla qualità del prodotto fornito. Il risultato è stato un “pacco” da commedia alla napoletana, visto che le decine di migliaia di braccialetti arrivati a destinazione si sono rivelati degli aggeggi del tutto inutili perché privi dell’elemento più importante (e pregiato), cioè il collegamento con uno dei sistemi satellitari di geolocalizzazione, il classico Gps o il più patriottico (tutto made in Russia) Glonass. In pratica erano davvero degli orologini di plastica da pochi centesimi. A questa truffa vanno poi sommate decine e decine di altri casi più “classici”, fondamentalmente basati su estorsioni e bustarelle imposte dai responsabili del servizio penitenziario ai fornitori, su materiali non rispondenti ai capitolati d’acquisto e via dicendo; ed è chiaro che la somma totale di 10 miliardi di rubli, essendo frutto di un’inchiesta interna, è molto probabilmente assai inferiore alla realtà. Come che sia, sembrerebbe che davvero il presidente Vladimir Putin stia cercando di ripulire almeno in parte le spaventose incrostazioni di corruzione e malaffare che appesantiscono in modo micidiale tutte le strutture amministrative. Il presidente ha indicato questa come una delle massime priorità del suo terzo mandato, ed effettivamente è ormai da diversi mesi che le notizie relative a inchieste e repulisti nei ministeri e nei servizi federali stanno occupando le prime pagine. Subito prima delle truffe nel servizio penitenziario erano state diffuse le notizie sull’ammontare dei danni provocati dalle malversazioni all’interno di uno dei sancta sanctorum del regime russo, il servizio di amministrazione e approvvigionamento della difesa (Oboronservis), in cui la sola vendita illegale di proprietà immobiliari del dipartimento ha portato oltre 13 miliardi di rubli di danni per l’erario - ed enormi guadagni illeciti nelle tasche di una serie di funzionari in divisa. Per lo scandalo Oboronservis sono finora finiti in carcere parecchi ufficiali d’alto grado, a partire dall’ex ministro della difesa Anatoly Serdyukov. Resta tuttavia da capire se la pulizia che viene ora sbandierata su tutti i media sia effettivamente tale o se non sia condotta in modo da colpire soltanto alcuni casi indifendibili lasciando sostanzialmente inalterato il sistema che consente alla corruzione di proliferare. La Russia, ricordiamo, è agli ultimi posti in assoluto nella graduatoria mondiale sulla trasparenza e la corruzione nelle strutture amministrative pubbliche. In ogni caso, va comunque notato, il rilievo e lo spazio che queste vicende hanno sui media non potrà non avere effetti sull’opinione pubblica e sulla capacità stessa dei media di affrontare più in generale il tema della corruzione.