Giustizia: il Papa Francesco in visita all’Ipm di Casal del Marmo, cronaca e commenti Agi, 28 marzo 2013 Papa Francesco è arrivato al carcere minorile romano di Casal Del Marmo oggi alle 17.30. Al suo passaggio è stato salutato con grande vivacità da un piccolo gruppo di agenti penitenziari con i loro familiari. Il Pontefice li ha quindi salutati con un gesto della mano e un sorriso e ha proseguito in automobile fin dentro il carcere. So presenti il ministro della Giustizia, Paola Severino; il capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile, Caterina Chinnici; il comandante della Polizia Penitenziaria di Casal del Marmo, Saulo Patrizi; e Liana Giambartolomei, direttrice di Casal del Marmo. Intorno alle 17 è arrivato a Casal del Marmo anche il leader radicale Marco Pannella. Sono circa 50 i giovani detenuti che partecipano alla “messa in Coena Domini”: tra di essi ci sono anche 11 ragazze. Papa Francesco laverà i piedi a 12 giovani di nazionalità e confessioni diverse, tra cui due ragazze, una delle quali musulmana. Sarà una cerimonia estremamente semplice per espressa volontà del Papa. Assieme al Pontefice, concelebrano il cardinale vicario Agostino Vallini e padre Gaetano Greco, cappellano del carcere minorile. Con loro anche due diaconi, il primo del Seminario San Carlo, fra Roi Jenkins Albuen (terziario cappuccino dell’Addolorata, confratello di padre Gaetano), due giovani del Seminario romano, di cui uno è vice cappellano (padre Pedro Acosta, colombiano). L’animazione è affidata ad un gruppo di 40 volontari dell’Associazione denominata “Volontari Casal Del Marmo”. Insieme a loro anche i membri del Rinnovamento nello Spirito che animano la liturgia domenicale. Al termine della celebrazione Papa Francesco saluterà la Famiglia dell’Istituto nella palestra, nella quale si prevede la presenza di 150 persone. I ragazzi del penitenziario doneranno al Papa un crocifisso in legno e un inginocchiatoio, sempre in legno, realizzato da loro stessi nel laboratorio artigianale di Casal del Marmo, mentre da parte sua Papa Francesco donerà a tutti i giovani uova e colombe pasquali. È previsto anche un saluto dei ragazzi al Papa. Il Papa a Casal del Marmo, tra messa e scambio doni La Chiesa verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali. Era stato questo il messaggio del cardinale Jorge Mario Bergoglio durante le Congregazioni generali che hanno preceduto il Conclave. E non a caso il Pontefice ha scelto di recarsi nel carcere minorile romano di Casal del Marmo per la Messa in Coena Domini del Giovedì Santo, con cui è iniziato oggi il triduo pasquale. Una celebrazione che si è svolta in forma riservata, alla presenza del ministro della Giustizia, Paola Severino, del capo del dipartimento Giustizia minorile, Caterina Chinnici, del comandante della Polizia penitenziaria di Casal del Marmo, Saulo Patrizi, e di Liana Giambartolomei, direttrice di Casal del Marmo. Ma ad attendere il Pontefice c’erano soprattutto i 50 giovani detenuti che hanno partecipato al rito, tra di essi anche 11 ragazze. Durante l’omelia il Pontefice ha ricordato il significato del gesto della lavanda, sottolineando che “tra noi quello che è più in alto deve essere al servizio degli altri. E questo è un segno. E lavare i piedi significa dire: io sono al tuo servizio. Dobbiamo aiutarci. Aiutarci l’un l’altro: questo è ciò che Gesù ci insegna. E io vi porto la carezza di Gesù”. Papa Francesco ha poi lavato i piedi a 12 dei ragazzi, scelti per rappresentare le diverse nazionalità e le confessioni religiose presenti all’istituto penale minorile. Tra loro anche due ragazze, una italiana cattolica e una serba nata a Roma di fede musulmana. Una cerimonia estremamente semplice, per volontà del Papa che ha concelebrato con il cardinale vicario Agostino Vallini e padre Gaetano Greco, cappellano del carcere minorile. I canti sono stati affidati a un gruppo di 40 appartenenti all’associazione “Volontari Casal Del Marmo”. Insieme a loro anche i membri del Rinnovamento nello spirito che animano la liturgia domenicale. Al termine della celebrazione Papa Francesco ha salutato i dipendenti e i ragazzi dell’istituto nella palestra, dove prima del saluto del Pontefice che ha sollecitato i ragazzi “a non abbandonare mai la speranza”, è intervenuto il ministro Severino che, riferendosi alla parola “custodire” usata più volte dal Pontefice, ha detto che “i ragazzi sono custoditi con sentimento, amore e comprensione. Questi ragazzi hanno trovato la possibilità di trovare quei sentimenti su cui devono rifondare la loro capacità di stare nella società”. Dopo i giovani del penitenziario hanno donato al Papa un crocifisso in legno e un inginocchiatoio, sempre in legno, realizzato da loro stessi nel laboratorio artigianale di Casal del Marmo, mentre Bergoglio ha regalato loro uova e colombe. “La decisione di Papa Francesco di celebrare il rito della lavanda dei piedi a Casal del Marmo - ha commentato Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio - rappresenta un grande segnale di attenzione verso coloro che questa società tiene ai margini e un richiamo forte alla politica italiana che non può permettersi di sottovalutare ancora il dramma che si sta vivendo nelle carceri italiane”. Domani proseguiranno i riti della Settimana Santa per il Pontefice. Prima della cerimonia al Colosseo, Papa Bergoglio presiederà la liturgia della Parola, l’adorazione della Croce e il rito della Comunione. Alle 21.15 invece avvio della Via Crucis con le meditazioni affidate ai giovani libanesi sotto la guida del cardinale Bechara Boutros Rai. Al termine delle quattordici stazioni, il Santo Padre rivolgerà la sua parola ai fedeli e impartirà la benedizione apostolica. Sabato sera alle 20.30 avrà inizio la veglia pasquale della notte santa. Il Papa benedirà il fuoco nuovo nell’atrio della basilica di San Pietro; dopo l’ingresso processionale in basilica con il cero pasquale e il canto dell’Exsultet, presiederà la liturgia della Parola, la liturgia Battesimale e la liturgia Eucaristica, che sarà concelebrata con i cardinali. Il giorno di Pasqua, alle 10.15, Francesco celebrerà la messa sul sagrato della basilica. Al termine della celebrazione, dalla loggia centrale impartirà la benedizione ‘Urbi et orbì. Angelus a mezzogiorno in piazza San Pietro infine lunedì. Papa dai ragazzi del carcere: il più alto a servizio degli altri Il gesto della lavanda dei piedi? “Questo segno è una carezza che Gesù fa. Perché Gesù è venuto proprio per questo: per servire, per aiutarci”. Con poche e semplici parole papa Francesco ha spiegato ai ragazzi detenuti nell’Istituto penitenziario minorile di Casal del Marmo il simbolo della lavanda dei piedi. Poi, cinto di un grembiule, ha lavato i piedi di 12 minori, tra cui due ragazze: una serba e musulmana, nata nel nostro Paese, e un’altra italiana. Sovvertendo le tradizioni, infatti, il pontefice eletto il 13 marzo scorso ha voluto celebrare la Messa in Coena Domini del Giovedì Santo non nella Basilica Vaticana, ma all’interno del carcere minorile romano, senza telecamere. Giornalisti non ammessi a partecipare al rito: disponibile solo la diretta radiofonica di Radio Vaticana, proprio per favorire il raccoglimento e preservare la privacy dei ragazzi. A concelebrare la Messa con il Papa, il cardinale vicario per la diocesi di Roma Agostino Vallini e padre Gaetano Greco, cappellano di Casal del Marmo. Dove attualmente sono reclusi una cinquantina di ragazzi, molti dei quali stranieri; fra loro, anche una decina di ragazze. “È commovente: Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli - ha commentato papa Bergoglio, riprendendo le parole del Vangelo appena proclamato. Pietro non capiva nulla. L’esempio ce lo dà il Signore che lava i piedi, perché fra noi il più alto deve essere al servizio degli altri. È un simbolo, un segno: lavare i piedi significa essere al servizio, aiutarci l’un l’altro. A volte può succedere: mi sono arrabbiato con uno o con un altro; meglio lasciar perdere. Questo è quello che Gesù ci insegna e quello che io faccio - lavare ora i piedi - è un dovere che mi viene dal cuore come prete, come vescovo; lo amo, amo farlo perché il Signore me lo ha insegnato. Anche voi aiutatevi l’uno con l’altro e aiutateci a fare questo servizio; in questo modo ci aiuteremo a fare del bene”. Infine papa Francesco ha invitato a una riflessione: “Ciascuno pensi durante questo gesto: ‘Io davvero sono disposto a servire, ad aiutare l’altro? Pensiamo che questo segno è una carezza che Gesù fa. Perché Gesù è venuto proprio per questo: per servire, per aiutarci”. Al termine della celebrazione eucaristica i ragazzi doneranno a papa Francesco un crocifisso e un inginocchiatoio in legno, in linea con la tradizione francescana, realizzati da loro stessi nel laboratorio di falegnameria promosso dalla Caritas diocesana di Roma all’interno del penitenziario. Il Pontefice ricambierà con uova di cioccolato per tutti. Il Papa ai giovani detenuti: non lasciatevi rubare la speranza “Non lasciatevi rubare la speranza” ha ripetuto Papa Francesco ai ragazzi del carcere minorile di Casal del Marmo. Parole che sono riecheggiate nella palestra del penitenziario, dove si è svolto un breve incontro conviviale dopo la Messa in Coena Domini. “Sono felice di stare con voi. Non lasciatevi rubare la speranza, non lasciatevi rubare la speranza, capito?!?!?. Sempre con la speranza avanti” ha detto il Papa. Poi i ragazzi sono andati personalmente a salutarlo e Francesco ha donato loro dolci pasquali. Severino a Papa Francesco: presenza a Casal del Marmo dono straordinario “Santità, La Sua visita oggi a Casal del Marmo completa un percorso che, da Ministro della Giustizia, ho intrapreso pochi giorni prima di Natale del 2011, con la visita di Papa Benedetto XVI a Rebibbia”. Inizia così il messaggio di saluto del Guardasigilli Paola Severino a Papa Francesco, in visita al carcere minorile di Casal del Marmo. “Nel periodo trascorso tra l’una e l’altra - ha proseguito - ho visitato decine di carceri e parlato con centinaia di detenuti. Ho visto abissi di sofferenza e solitudine, insieme a picchi di generosità e riabilitazione. Ho sentito parole di disperazione, ma anche preghiere di diverse confessioni e in diverse lingue. Santità, la Sua presenza qui, oggi, tra i ragazzi e il personale di Casal del Marmo, per la celebrazione della messa del Giovedì Santo, rappresenta un dono straordinario. Un messaggio di amore e di speranza per tutti noi. Ma in particolare per questi giovani. A loro, che vivono situazioni difficili e a volte disperate, spesso lontani dalle famiglie e dal Paese natio, la Sua voce arriva come quella di un padre, se è vero - come ho potuto leggere - che in alcune lettere i ragazzi si rivolgono a Lei come “Papà Francesco”. Il Suo gesto, la lavanda dei piedi ai 12 giovani di fede non solo cattolica ma anche musulmana e cristiano-ortodossa, è stato avvertito con toccante commozione da tutti: “Mai nessun Vescovo di Roma aveva avuto un pensiero così grande, così importante, così affettuoso nei nostri confronti”, Le scrivono dall’Istituto per minori di Acireale. “Il prendersi cura, il custodire, chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza”: con queste parole è iniziato il Suo Pontificato. E ci ha ricordato anche che la bontà, un sentimento spesso considerato estraneo al carcere, consente invece di “aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi” e di “portare il calore della speranza”. Un Papa che viene dalla “fine del mondo” è oggi tra coloro che sono considerati gli ultimi. Ma nell’amore e nella solidarietà non esiste graduatoria. Così come non deve esistere vergogna nell’esprimere i buoni sentimenti perché - Lei ci ricorda - custodire, cioè aver cura di noi stessi, “vuol dire vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono”. Gli operatori penitenziari, gli educatori e tutti coloro che quotidianamente si trovano al fianco di questi ragazzi sono custodi per eccellenza. A loro va la gratitudine di noi tutti per un operato difficile ma che può dare molte soddisfazioni, alla stregua di una missione. Qui ci sono giovani che hanno già intuito il percorso e individuato le vie di uscita, altri le stanno ancora cercando, ma tutti hanno bisogno di essere aiutati e custoditi nella ricerca di sé e della propria speranza. Salvatore, ex ragazzo di questo Istituto, che ha ora moglie e figli, racconta di aver trovato proprio qui una educatrice che è stata una seconda madre e che ha avuto fiducia in lui. Salvatore ha dovuto vincere paure e pregiudizi prima di cambiare e prima di rivedere suo padre dopo 10 anni, anch’egli detenuto. Di quell’incontro ora racconta: al primo colloquio con lui mi ha dato uno schiaffo. Poi mi ha detto: “Se ho sbagliato io, non devi sbagliare anche tu”. La famiglia. Molti ragazzi hanno i genitori distanti; so che uno ha perso la mamma da poco tempo, unico legame affettivo con il mondo esterno; mi sono state raccontate storie di sofferenze e difficoltà. Credo che sia in questo luogo che, voi ragazzi, dovete mettere il cuore; costruire rapporti che, se non sostituiscono completamente quelli della famiglia di origine, possono però affiancarla ed aiutarvi a compiere un percorso di crescita e cambiamento personale e di gruppo. Santità, sia Lei il primo custode di questi ragazzi e delle loro speranze. Sognano - come Le hanno scritto - che la “vita futura possa essere semplice e onesta”. “Pietro - ha sottolineato Papa Francesco - non capiva ma Gesù ha spiegato il suo gesto. Dio ha fatto questo e spiega ai suoi discepoli che devono seguire il suo esempio”. “Se il Signore e il Maestro ho lavato i piedi ai discepoli - ha detto Bergoglio - anche voi dovrete fare altrettanto. È l’esempio del Signore. Tra noi quello che è più in alto deve essere al servizio degli altri. E questo è un segno: lavare i piedi significa dire: io sono al tuo servizio. Dobbiamo aiutarci”, ha affermato il Pontefice. Aiutarci l’un l’altro: questo è ciò che Gesù ci insegna”. “E questo - ha detto testualmente - è ciò che io faccio. E lo faccio di cuore perché è il mio dovere come prete e come vescovo. È un dovere che mi viene dal cuore. Amo farlo perché il Signore così mi ha insegnato. Ma anche voi - ha concluso Papa Francesco rivolto ai ragazzi - aiutateci sempre e così aiutandoci ci faremo del bene. Ciascuno di noi pensi: sono disposto a servire, sono disposto ad aiutare l’altro? Questo segno è una carezza di Gesù che è venuto proprio per questo, per servire, per aiutarci”. Severino: agenti di Polizia penitenziaria tornino a chiamarsi “agenti di custodia” Gli agenti di Polizia penitenziaria tornino a chiamarsi agenti “di custodia”: la proposta è stata formulata dal ministro della Giustizia Paola Severino, dal carcere minorile di Casal del Marmo, dove ha presenziato alla Messa celebrata da Papa Francesco. Rivolgendosi a lui, nel momento conviviale nella palestra, al termine della celebrazione ha ripreso il termine che il Papa ha usato nella messa di inizio ministero: custodire: “Nelle tante carceri che ho visitato ho trovato abissi di disperazione e picchi di speranza, e una capacità enorme di stare vicino persone. Nella parola “custodire” c’è un senso speciale, il senso non solo di tenere dentro, ma di tenere dentro il proprio cuore. Questi ragazzi sono custoditi qui dentro con tanto sentimento e anima. Molti hanno la famiglia lontana, uno di loro ha perso da poco mamma ma qui hanno trovato comprensione ed educazione, la possibilità di avere una cultura e dei sentimenti nei quali devono affondare la loro capacità di stare nella società. E lei è il primo custode di questi ragazzi e della loro speranza” ha detto rivolta a Francesco. “Grazie per averci ridato questo termine”. Quindi ha sottolineato “che gli agenti di Polizia penitenziaria si chiamavano agenti di custodia, ma non hanno voluto più chiamarsi così. Riproporrei che fossero chiamati così. Nel temine “custodire” c’è amore, quello di cui hanno bisogno questi ragazzi per tornare nella società guariti”. La Severino ha letto un breve pensiero in cui un ragazzo esprime il desiderio di tutti i giovani detenuti “che la vita futura sia semplice e onesta”. Realacci (Pd): la politica prenda esempio dal Papa Ermete Realacci, deputato del Pd, ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia sulle condizioni della carceri italiane: “Un altro gesto di grande significato di Papa Francesco, che oggi pomeriggio celebrerà il rito della lavanda dei piedi tra i detenuti del carcere minorile di Casal del Marmo a Roma dimostrando nuovamente la sua attenzione verso i più deboli. Speriamo che l’impegno e le parole del nuovo Pontefice siano di esempio anche per la politica italiana affinché si affronti finalmente e senza barricate ideologiche la grave questione del sovraffollamento che affligge le nostre carceri. La maggior parte degli istituti di pena italiani hanno perso da tempo la loro funzione rieducativa, contravvenendo peraltro alla Costituzione, per la quale la detenzione non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Per affrontare questi nodi delicati ho presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia, chiedendo quali iniziative urgenti intenda intraprendere per risolvere l’emergenza carceri per dare sì effettività alla pena ma anche al processo di rieducazione del reo”. “Secondo gli ultimi dati Istat - prosegue Realacci - il numero di detenuti presenti negli Istituti per adulti è a fine 2012 di quasi 66 mila, dato che configura un sovraffollamento a livelli record: per ogni 100 detenuti che gli istituti di prevenzione e pena dovrebbero ospitare, ve ne sono mediamente 151. Un’emergenza per la quale, lo scorso gennaio, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato la Repubblica Italiana, chiedendo alle nostre autorità di mettere in campo entro un anno soluzioni adeguate per invertire la tendenza e garantire che le violazioni non si ripetano. L’Italia ha tempo un solo anno per porre rimedio al problema, in caso contrario dovrà affrontare pesanti sanzioni anche di in termini pecuniari”. “Visto il sovraffollamento record delle nostre carceri - conclude il deputato del Pd - ogni detenuto ha a disposizione soli 3 metri quadri, situazione in cui i diritti umani minimi, come quello alla salute, sono di fatto negati. Per rispondere a questa emergenza in tutte le sue declinazioni, inoltre, chiedo al ministro interrogato se non voglia dare effettiva attuazione alla riforma della medicina penitenziaria per permettere il pieno godimento di questo diritto ai detenuti e quali provvedimenti possano essere messi in campo affinché siano trasferite alle Regioni le risorse spettanti al Servizio sanitario penitenziario”. Garante detenuti Lazio: laverà i piedi anche a due ragazze Ci saranno anche due ragazze fra i dodici giovani ospiti dell’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo cui questa sera Papa Francesco laverà i piedi. Lo rende noto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Le giovani prescelte sono una ragazza italiana di religione cattolica ed una serba nata a Roma, di fede musulmana. Gli altri dieci ragazzi cui Papa Francesco laverà i piedi sono stati scelti per rappresentare sia le diverse nazionalità presenti nel Carcere di Casal del Marmo che le religioni attualmente professate all’Ipm: oltre ai cristiano cattolici, infatti, i ragazzi sono cristiano ortodossi e musulmani. I dodici giovani sono stati scelti fra i 50 minori attualmente ospiti della struttura, che assisteranno tutti al rito della lavanda dei piedi. Secondo il Garante dei detenuti Angiolo Marroni “la decisione di Papa Francesco di celebrare, in una forma così intima e quasi privata, il rito della lavanda dei piedi a Casal del Marmo rappresenta, al tempo stesso, un grande segnale di attenzione verso coloro che questa società tiene ai margini e un richiamo forte alla politica italiana che non può permettersi di sottovalutare ancora il dramma che si sta vivendo nelle carceri italiane”. Antigone: sistema penale minorile resti distinto da quello per gli adulti “Il sistema della giustizia minorile regge nel tempo. La pena del carcere è fortunatamente residuale nei confronti dei minori. Sono in media 500 i ragazzi reclusi nelle 16 carceri minorili italiane che quindi non sono affollate come quelle degli adulti. Il sistema va difeso, anzi va ulteriormente rafforzato”. Lo sostiene Susanna Marietti, coordinatrice dell’Osservatorio sui minori in cella dell’associazione Antigone, in occasione della visita del Papa a Casal del Marmo. “È infatti grave che ai minori si applichino le norme presenti nell’ordinamento penitenziario per adulti del 1975 – aggiunge. Era presente in quella legge una norma transitoria che affermava che essa valeva per i minori in attesa di una legge ad hoc mai intervenuta. Secondo Susanna Marietti c’è necessità di un ordinamento penitenziario per minori che tenga conto dei loro bisogni educativi (ad esempio più colloqui coi familiari, niente isolamento disciplinare che sarebbe nefasto, più permessi e ore di aria). Va inoltre stigmatizzato il comportamento di quei sindacati autonomi di polizia penitenziaria che vorrebbero smantellare il sistema della esecuzione penale minorile chiedendone una cooptazione da quello in crisi degli adulti. È invece sacrosanto - prosegue - che i poliziotti che lavorano coi minori siano specializzati in questo settore, indossino abiti civili e abbiamo sempre a disposizione una risposta non-violenta. E Antigone ricorda “il brutto caso di quanto accaduto nell’istituto penale minorile di Lecce di qualche anno fa dove operava una squadretta di agenti che intimidiva e usava violenza. Uno dei ragazzi pestati - poi costituitosi parte civile nel processo - si è suicidato nel carcere per adulti di Bari. Si chiamava Carlo Saturno. Il processo per le violenze è invece andato in prescrizione”. Volontaria Casal del Marmo: ragazzi hanno bisogno di perdono “I ragazzi di Casal del Marmo, che oggi parteciperanno alla Messa del Papa, hanno sbagliato ma debbono avere l’opportunità di cambiare e hanno sempre bisogno di pensare che al di là di tutto c’è qualcuno che pensa a loro e che li perdona”. Lo dice ai microfoni di Radio Vaticana una volontaria del penitenziario, Annalisa Marra, riferendo anche che oggi i ragazzi chiederanno al pontefice di pregare per loro. La notizia della sua visita in carcere è stata accolta da alcuni con molta sorpresa e gioia, da altri con molta curiosità, nel senso che molti di loro, soprattutto quelli non cattolici, si sono chiesti chi fosse. Invece è stata presa gioiosamente dai ragazzi italiani. I reati più comuni per questi giovani sono lo spaccio e i furti. Il ruolo della fede nel carcere è importante: è un ‘segno di speranza. Loro durante la giornata - racconta la volontaria - sono sempre attivi, ma arriva un certo punto in cui la porta si chiude e rimangono da soli. E questo durante la giornata è un momento che arriva abbastanza presto: dalle 18-18.30 fino alle 8 del mattino sono completamente da soli con il loro compagno di cella. Ed è in quei momenti che fanno di più appello all’unico Dio. Quindi loro hanno sempre bisogno, comunque, di un appoggio di fede, di speranza e di pensare che al di là di tutto c’è qualcuno che pensa a loro e che li perdona. Moretti (Ugl): visita carcere minori sia richiamo per le istituzioni “Auspichiamo che la visita del Papa nel carcere minorile di Roma possa lanciare un segnale forte anche a tutte quelle istituzioni che hanno colpevolmente rimandato la risoluzione delle complesse criticità del sistema penitenziario”. Lo afferma il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria Giuseppe Moretti, in merito alla celebrazione che il papa officerà oggi nell’istituto penale di Casal del Marmo. “Sin dai suoi primi discorsi - aggiunge - il Pontefice ha posto l’accento sulla necessità di una maggiore vicinanza alle persone in difficoltà. Vorremmo quindi che la sua presenza nel carcere minorile non fosse interpretata solo come un gesto simbolico, ma fungesse da richiamo affinché‚ chi di dovere cominci finalmente ad occuparsi delle problematiche di un sistema così complesso”. “Negli istituti di pena per minori, in particolare, - spiega il sindacalista - sono impiegati agenti altamente qualificati che ogni giorno si trovano ad affrontare situazioni che sotto molti aspetti sono di gran lunga più critiche di quelle che si presentano nelle strutture penitenziarie per adulti. Per i minori, infatti, è necessario stabilire un preciso percorso di recupero che li allontani dal pericolo di recidiva ed in tale attività il personale di Polizia Penitenziaria è coinvolto in prima persona. Ci auguriamo che l’attenzione rivolta da Papa Francesco ad una realtà così difficile - conclude Moretti - sia anche l’occasione per far emergere lo spirito di abnegazione dei tanti agenti che ogni giorno operano in condizioni di enorme difficoltà e per elogiare il loro lavoro”. Radicali: sit-in davanti all’Ipm di Casal del Marmo, in sintonia con il Papa In occasione della visita pastorale di Papa Francesco all’istituto penale minorile di Roma Casal del Marmo, gli ex parlamentari Radicali assieme a Marco Pannella ed altri esponenti e militanti del Partito Radicale, saranno di fronte al carcere, alle ore 17, per esprimere la comunione d’intenti con i vescovi di Roma e le massime gerarchie cattoliche. Un comune impegno che prosegue ininterrotto dal discorso di Papa Giovanni Paolo II pronunciato di fronte al Parlamento italiano nel novembre del 2002 quando si espresse con forza per un provvedimento di clemenza. L’attenzione per le carceri del Cardinale Bergoglio è nota da tempo e oggi si conferma. Nel 2000 di fronte alla situazione drammatiche delle carceri argentine chiese un’amnistia “ampia e generosa” per le migliaia di immigrati irregolari in carcere o che rischiavano la detenzione. L’amnistia oggi in Italia è l’unico provvedimento che può riconsegnare al nostro paese un primo indispensabile perimetro di legalità nazionale, europea ed internazionale sulla condizione degli istituti di pena e sull’intero funzionamento della giustizia. È quanto comunicano i Radicali. Zampa (Pd): visita carcere sia presa coscienza del problema “La scelta di Papa Francesco I di celebrare il Giovedì Santo con la liturgia della lavanda dei piedi in un carcere minorile del nostro richiama tutti noi, istituzioni, opinione pubblica e mass media, a prendere atto che la condizione carceraria minorile è grave, con troppe situazioni di non tutela e a rischio”. È quanto dichiara Sandra Zampa, deputata del Partito democratico e già capogruppo in Commissione Bicamerale Infanzia. Per Zampa, “il tema della giustizia minorile è una vera emergenza che da troppo tempo attende soluzione. La Legge Gozzini sull’Ordinamento penitenziale del 1975 riconosce l’esigenza di un ordinamento apposito per i minori di età ma non si è mai provveduto in tal senso. Lo stesso istituto della carcerazione minorile appare ormai superato e va di certo ripensato”. Per la parlamentare del Pd è giunta l’ora di una nuova, articolata ed efficace riforma. “La tutela dei minori - conclude Zampa - è una materia che deve trovare una sua definizione precisa che metta al primo posto il loro superiore interesse. I bambini e gli adolescenti rappresentano, per la loro fragilità, i meno tutelati. Anche per questo, ne sono certa, il Papa ha scelto con suo gesto di farsi “loro servo” invitando la società e le istituzioni a fare lo stesso. Giustizia: la grave - ma non sorprendente - denuncia da Bruxelles di Valter Vecellio Notizie Radicali, 28 marzo 2013 Il vice presidente della Commissione e commissario Ue alla Giustizia Viviane Reding, presenta a Bruxelles i risultati di un monitoraggio sulla giustizia, che pone l’Italia agli ultimi posti della graduatoria, una grave - anche se non sorprendente denuncia, e immediatamente scatta la cortina fumogena, il depistaggio. Tutto viene riassunto in “Giù le mani” dai magistrati. Eppure Viviane Reding ha parlato chiaro: “L’attrattiva di un paese per essere un luogo dove investire e fare business è senza dubbio rafforzata dall’avere un sistema giudiziario indipendente ed efficiente. Per questo sono importanti decisioni legali prevedibili, puntuali e applicabili. E per questo le riforme in tema di giustizia sono diventate un’importante componente strutturale della strategia economica europea”. Ancora più chiaro il vice presidente degli Affari economici e monetari Olli Rhen: “Una giustizia efficiente, indipendente e di alta qualità è essenziale per un ambiente che favorisce il business”. Come si replica? L’Associazione Nazionale dei Magistrati, con il suo presidente Rodolfo Sabelli esprime soddisfazione: “La giustizia deve essere tenuta fuori dallo scontro politico, e in Italia questo non è avvenuto quando vicende giudiziarie sono trasferite sul piano della lotta politica, avviene qualcosa di sbagliato: la politica e la giurisdizione sono due cose distinte. Ben vengano questi moniti, sono importanti noi l’abbiamo detto ripetutamente: la difesa dell’indipendenza della magistratura è anche un richiamo al principio dell’efficienza della giustizia”. E poi fa sapere che l’irragionevole durata dei processi in Italia non dipende da magistrati scansafatiche. Al contrario, i giudici italiani sono al primo posto per produttività in Europa nel campo penale e al secondo in quello civile. Il problema è che devono fare i conti con un contenzioso eccessivo. Bingo! Hanno davvero capito tutto, all’Anm. Poteva non intervenire il Consiglio Superiore della Magistratura? No, naturalmente. Ed ecco che il vice presidente del Csm Michele Vietti, si dice “d’accordo con il commissario alla Giustizia Viviane Reding sia sullo stretto collegamento che esiste tra funzionamento del sistema giudiziario e attrattiva degli investimenti, sia sulla necessità che sia garantita al massimo l’indipendenza dei magistrati. Ho sostenuto più volte che tra le priorità del nuovo governo ci deve essere un posto prioritario anche per riforme strutturali della giustizia, che ci liberino dalla maglia nera della eccessiva durata delle cause civili. Non possiamo più permetterci di essere il fanalino di coda dei ventisette sistemi giudiziari europei”. Doppio Bingo! Anche al Csm sanno andare dritti al cuore del problema. Tace invece - dopo essersi prodotta in una quantità di sterili e stucchevoli auspici - il ministro dell’(in)Giustizia, signora Paola Severino. Ma è facile prevedere che non rinuncerà nelle prossime ore. Torniamo a Viviane Reding. La domanda che pone è questa: conviene fare impresa in Italia? No, è la risposta che si ricava dal rapporto sull’efficienza dei sistemi giudiziari nazionali nei 27 paesi dell’Unione Europa. Il nostro paese risulta al terz’ultimo posto, dopo di noi solo Cipro e Malta. In Italia occorrono in media 500 giorni per risolvere una causa civile. Ma una controversia commerciale può durare più di tre anni, nei paesi Ocse la media è di 500 giorni. Prima di recuperare un credito, in Italia possono trascorrere oltre 1.200 giorni; meno della metà in Spagna; in Inghilterra, Francia, Stati Uniti, si va dai 300 ai 400 giorni. Tutto ciò si traduce in mancati investimenti esteri, altri paesi, in condizione di poter offrire maggiori garanzie vengono beneficiati. Non solo: grazie al cattivo funzionamento della giustizia, le imprese ci rimettono oltre due miliardi euro l’anno. Se, per una sorta di magia, si riuscisse a smaltire l’arretrato cumulato, il Pil farebbe per questo un balzo del 4,9 per cento. Secondo la Banca Mondiale, l’Italia si colloca al 160° posto, sui 185 paesi analizzati, per la durata di una normale controversia di natura commerciale. Ci superano abbondantemente paesi come Iraq, Togo, Gabon, mentre riusciamo a stento a battere in classifica l’Afghanistan. L’Italia è anche il paese europeo con il maggior numero di cause civili e commerciali pendenti per ogni 100 abitanti: 7; il doppio del secondo in classifica: il Portogallo con 3,5 cause in sospeso per 100 abitanti. A questa denuncia aggiungiamo che la Corte Europea sui Diritti dell’Uomo (Cedu) è stata categorica: l’Italia ha un anno di tempo per porre rimedio al sovraffollamento che produce condizioni inumane di detenzione. Carcere e condizioni di vita intollerabili per l’intera comunità carceraria, epifenomeno della più generale situazione Giustizia: questioni politiche, che tuttavia vengono relegate come fossero “tecniche”. Ogni giorno nei tribunali si consuma quella che si può ben definire amnistia strisciante, clandestina e di classe: l’amnistia delle prescrizioni, di cui beneficia solo chi si può permettere un buon avvocato, o si potrebbe maliziosamente osservare, chi ha “buone amicizie”; sono circa 150mila i processi che ogni anno vengono chiusi per scadenza dei termini. Ogni giorno almeno 410 processi vanno in fumo, ogni mese 12.500 casi finiscono in nulla. I tempi del processo sono surreali: in Cassazione si è passati dai 239 giorni del 2006 ai 266 del 2008; in tribunale da 261 giorni a 288; in procura da 458 a 475 giorni. Spesso ci vogliono ben nove mesi perché un fascicolo passi dal tribunale alla Corte d’Appello. Sarà un gran giorno, il giorno in cui un “Servizio Pubblico”, un “Ballarò”, un “Porta a porta” o un qualunque altro programma di approfondimento politico affronterà questi temi, e Marco Pannella potrà finalmente spiegare a tutti noi, “gente comune” perché quella della Giustizia è la vera, grande emergenza di questo paese. Come da tempo ci dicono Banca Mondiale, Confindustria, Cedu e ora il vice presidente della Commissione e commissario Ue alla Giustizia Viviane Reding. Giustizia: Verona e Milano, i Radicali e raccolgono firme contro un carcere “disumano” L’Arena di Verona, 28 marzo 2013 Un Venerdì Santo che fa luce sulla disumanità in cui è costretto a vivere non solo chi è recluso in carcere, ma anche chi vi lavora. La cosiddetta Settimana di Passione indetta dai Radicali su tutto lo Stivale, iniziata ieri a Verona con una raccolta firme di fronte al carcere, domani tornerà a fare tappa anche nella nostra città. Familiari dei detenuti, volontari e persone sensibili alla tematica di una giustizia “inadeguata piena di lacune”, si raduneranno di fronte alla casa circondariale di Montorio, in segno della loro vicinanza a un mondo chiuso tra disagi enormi e il non rispetto della dignità di chi lo popola. “Da tempo proseguiamo la battaglia per l’amnistia e 1a riforma della giustizia penale e civile” ricorda Maria Grazia Lucchiari della direzione nazionale di Radicali Italiani che ieri mattina raccoglieva firme di fronte a Montorio. “La nostra battaglia parta da una realtà disumana e lo fa a Pasqua, per pungolare la tradizione cattolica del Paese a essere sensibile sulle gravi mancanze che regnano tra le sbarre delle carceri. Ma l’obiettivo ha poi un raggio più lungo, e punta ad una riforma complessiva di quella giustizia che calpesta anche i cittadini comuni, soggetti a lungaggini burocratiche e processi che finiscono in prescrizione”. L’invito a radunarsi di fronte al carcere, domani alle 15, va quindi a tutti. “Abbiamo raccolto una sessantina di firme soprattutto dei familiari dei carcerati, ma anche di volontari e cappellani. Chi ha dato la sua adesione alla nostra iniziativa, abbraccia la proposta di fare rete tra detenuti, mondo esterno e comunità penitenziaria, per riportare legalità e dignità in un sistema ormai al collasso”. Milano: in corso la Cinque giorni di nonviolenza e digiuno… Milano: in corso la Cinque giorni di nonviolenza e digiuno lanciata da Marco Pannella per l’Amnistia e lo stato di diritto (dalla mezzanotte di domenica 24 marzo alla mezzanotte di venerdì 29 marzo). Per venerdì 29 alle ore 15 si stanno organizzando, in tutta Italia, sit-in davanti alle carceri in coincidenza con il “Venerdì di Passione” per i cattolici. L’Associazione Enzo Tortora - Radicali Milano si ritroverà quindi dalle ore 14:30, e fino alle 16:30, davanti alle mura del carcere di San Vittore, in Piazzale Aquileia: l’iniziativa punta a coinvolgere tutto quel mondo penitenziario - dai detenuti e i loro familiari, a chi dentro il carcere ci lavora o fa volontariato - oggi vittima della sopraffazione della legge da parte di quelle istituzioni che, invece, sono chiamate per prime a farla vivere e rispettare: per incoraggiare e rafforzare lo “Stato” a rispettare la sua propria legalità, gli impegni presi, la parola data. Saranno con noi i parenti dei detenuti e i compagni e gli amici che hanno aderito allo sciopero della fame per la giornata di venerdì 29 marzo: Vi invitiamo a raggiungerci, per testimoniare, con la Vostra presenza, che l’amnistia rappresenta l’unica riforma immediatamente disponibile per rimuovere le cause strutturali che determinano i trattamenti disumani e degradanti negli istituti penitenziari e per determinare le condizioni per la riforma della giustizia oggi annientata da milioni di procedimenti penali e cause civili pendenti. Giustizia: Realacci (Pd); nelle carceri condizioni di vita inumane, a rischio salute detenuti Adnkronos, 28 marzo 2013 “Ogni detenuto nelle carceri italiane ha a disposizione soli 3 metri quadri, situazione in cui i diritti umani minimi, come quello alla salute, sono di fatto negati”. Ad affermarlo in una nota è Ermete Realacci, responsabile green economy del Partito democratico, che ha depositato una interrogazione scritta al ministro della Giustizia. “La maggior parte degli istituti di pena italiani - prosegue Realacci - hanno perso da tempo la loro funzione rieducativa, contravvenendo peraltro alla Costituzione, per la quale la detenzione non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. “Per affrontare questi nodi delicati - spiega Realacci - ho presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia, chiedendo se il ministro non voglia dare effettiva attuazione alla riforma della medicina penitenziaria per permettere il pieno godimento di questo diritto ai detenuti, e quali provvedimenti possano essere messi in campo affinché siano trasferite alle Regioni le risorse spettanti al Servizio sanitario penitenziario”. “Secondo gli ultimi dati Istat - osserva Realacci - il numero di detenuti presenti negli Istituti per adulti è a fine 2012 di quasi 66 mila, dato che configura un sovraffollamento a livelli record: per ogni 100 detenuti che gli istituti di prevenzione e pena dovrebbero ospitare, ve ne sono mediamente 151. Un0emergenza - avverte il deputato del Pd - per la quale, lo scorso gennaio, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese, chiedendo alle nostre autorità di mettere in campo entro un anno soluzioni adeguate per invertire la tendenza e garantire che le violazioni non si ripetano. L’Italia ha tempo un solo anno per porre rimedio al problema - conclude - In caso contrario dovrà affrontare pesanti sanzioni anche di in termini pecuniari”. Giustizia: madre e detenuta… i diritti violati e le legittime aspettative di Simona Carandente (Avvocato) www.ilmediano.it, 28 marzo 2013 In alcuni casi il Tribunale è costretto ad adottare misure drastiche come la sospensione e la decadenza dalla potestà genitoriale. Parlare del mondo della detenzione non è affatto semplice, visto che la maggioranza della gente comune, per propria fortuna, difficilmente nell’arco di una vita è destinata ad averci a che fare. Del resto, le numerose incognite che avvolgono il quotidiano tra le mura del carcere restano tali, sovente, anche per gli operatori del diritto, i quali ne vengono a contatto solo in misura limitata, negli spazi all’uopo riservati e per brevi sprazzi di tempo. La perdita della possibilità di coltivare i propri affetti, prerogativa principale della vita da recluso, subisce una vistosissima impennata nel caso in cui il detenuto sia di sesso femminile e madre: alla privazione della libertà, difatti, si aggiunge la costante preoccupazione per la vita dei propri figli “fuori”, nell’amara consapevolezza di perdere un pezzo importante della loro esistenza, che probabilmente non tornerà mai. Purtroppo, specie nei casi in cui la detenuta abbia figli minori, e sia priva di altri soggetti che possano occuparsene, il Tribunale è costretto ad adottare misure drastiche, ancorché temporanee, sia di sospensione che di decadenza dalla potestà genitoriale, imposte dalla necessità di salvaguardare il diritto dei minorenni ad un’esistenza dignitosa, il più possibile serena e tale da consentire ai piccoli un adeguato sviluppo in termini psicofisici. La storia di P. ha a dir poco dell’incredibile: orfana di padre, ha cominciato sin da piccola a far uso di sostanze stupefacenti, rendendosi più volte responsabile di piccoli reati contro il patrimonio che le servivano a procurarsi denaro. Storie sentimentali malate, con uomini tossicodipendenti come lei, dai quali traeva la forza necessaria per alimentare una spirale di illegalità, droga ed incolmabile vuoto, destinati a segnare irrimediabilmente gli anni migliori della sua vita. Da una di queste relazioni nasce un bambino, G.: nei suoi primissimi mesi di vita P. si trova in regime di arresti domiciliari, per uno dei numerosi furti commessi, ma la sua instancabile madre riesce a prendersi cura di lei e del piccolo, visto che il padre naturale del bambino è a sua volta in carcere, e non ha neanche provveduto a riconoscerlo. La vita, purtroppo, non è mai stata troppo buona con P. La madre, sua unica fonte di sostentamento economico e morale, in una fredda mattina d’inverno, rimane vittima di un gravissimo incidente e combatte tra la vita e la morte: il Tribunale, in mancanza di valide figure genitoriali di riferimento, colloca il piccolo in casa famiglia ed apre una procedura di adottabilità, dichiarando la madre sospesa dalla potestà genitoriale. Da allora P. non ha più potuto vedere il piccolo: dalla casa famiglia le comunicazioni sono sempre stringate, concise, condizionate dagli eventi e comunque solo telefoniche. Il magistrato di sorveglianza le ha negato ogni diritto di visita, sulle indicazioni della casa famiglia. Il bambino, dal canto suo, sembra quasi più non riconoscere la madre, dalla quale fu strappato in tenerissima età e che, giorno dopo giorno, rischia di diventare per lui solo un’estranea. Il Tribunale per i minorenni, tuttavia, palesando un’evidente sensibilità, prima di decretare l’adottabilità del piccolo, ha disposto un’attenta valutazione delle capacità genitoriali di P., che nel frattempo si è recuperata, non fa più uso di sostanze, è vicina al suo fine pena e partecipa costantemente all’opera di rieducazione inframuraria: la speranza è che possa riabbracciare al più presto il piccolo, da libera, senza costrizioni o vincoli, pienamente restituita al suo ruolo di madre ed al diritto di crescere suo figlio e vederlo diventare grande. Giustizia: il caso Aldrovandi e la scelta sbagliata del Coisp di manifestare sotto il Comune di Paolo Graldi Il Messaggero, 28 marzo 2013 Era un sabato sera quel 25 settembre 2005 e a Ferrara l’aria sapeva già di autunno. Fu l’ultima sera per il giovane Federico Aldrovandi. Un giovanottone di 18 anni, occhi neri sfavillanti, la corporatura slanciata, da atleta. Ma pur sempre un ragazzo. Fermato dalla polizia assieme a degli amici Federico si è forse agitato, magari qualche parola di troppo, niente rispetto alla reazione: calci e pugni fino a finirlo. Quattro poliziotti sono stati condannati in via definitiva, dopo un’aspra battaglia giudiziaria. E sono finiti in carcere. Fosse ancora al mondo Antonio Manganelli, così come aveva fatto da capo della polizia dopo il massacro alla Diaz, avrebbe chiesto scusa, sicuro d’essere al vertice di un Corpo sano, con uomini capaci, pronti a qualsiasi sacrificio pur di garantire la sicurezza. Avrebbe chiesto scusa con quel suo sguardo calmo e profondo, sinceramente addolorato per l’accaduto. E invece questa bruttissima storia di violenza, non la prima (caso Cucchi!), sperabilmente l’ultima, ha preso tutt’altra piega, si è imbastardita, stupidamente incattivita a causa dell’idea balzana di un gruppo di poliziotti del sindacato Coisp di manifestare solidarietà con i colleghi condannati proprio sotto le finestre del Comune dove lavora come impiegata la mamma di Federico, Patrizia Moretti. Bandiere, manifesti, cartelli raggruppati in piazza Savanarola, davanti agli uffici del Municipio. Forse non era nelle intenzioni di tutti e però era pensabile che qualcuno si risentisse considerando quel gesto una sorta di provocazione, qualcosa di molto al di là e al di fuori di un raduno per far sentire la propria vicinanza ai poliziotti puniti dalla legge, quella stessa che non avevano rispettato. A riscaldare gli animi era arrivata la sentenza di assoluzione per la mamma di Federico, imputata di diffamazione verso Maria Emanuela Guerra, pubblico ministero di turno quella tragica notte di settembre. Patrizia Moretti, dice la sentenza, non ha calunniato la magistrato, dunque, assolta. Della manifestazione ci sono dei filmati. Alcuni spezzoni mostrano il sindaco Tiziano Tagliani che invita i manifestanti a spostarsi di qualche decina di metri. Un invito accolto con minacciose alzate di braccia: di qui non si muove nessuno! Facile da immaginare: poliziotti del sindacato e primo cittadino. Cosi tanto calda che a un certo punto la mamma di Federico è scesa dall’ufficio con una grande foto del figlio ripresa all’obitorio: il volto tumefatto, il lenzuolo sotto la testa sul quale s’allarga una grande macchia rossa. “Speravo di non doverla mai più mostrare”, ha detto la donna in lacrime, il cuore gonfio di dolore e anche di rabbia. Questa coda maligna di quel tragico fatto è diventata un caso politico e a sera come in un boato è scoppiata una solidarietà per quella mamma e una indignazione per l’accaduto. Il ministro Cancellieri ha pronunciato poche, lapidarie parole: “Quei manifestanti non rappresentano la polizia”. E nell’aula del Senato, governo compreso, tutti in piedi per esprimere lo sdegno per l’accaduto. Non sono giorni facili, per tutti. E la Polizia è chiamata a uno sforzo se possibile ancora più grande per assicurare il rispetto della legge. E mai e poi mai con l’uso della forza se non come estrema ratio, come inevitabile argine ad una violenza più alta e pericolosa. Ecco perché la giornata nera vissuta dalla civilissima Ferrara contiene un ordine e un insegnamento: il rispetto della legge è sacro per tutti, un po’ di più per quelli che sono chiamati a farla rispettare. Divise sporche, ministro debole, di di Mauro Palma (Il Manifesto) Indegni d’indossare la divisa. Al di là di ogni retorica, la divisa di un agente di polizia indica il suo agire in nome della collettività, del rispetto delle istituzioni e delle leggi. Gli iscritti a un sindacato di polizia che ancora ieri hanno manifestato sotto casa di Patrizia Aldrovandi non rappresentano il sentire di una società che è rispettosa verso le vittime e che è densa di quella pietas e di quel senso di giustizia che fanno sì che una madre non debba essere costretta a mostrare la foto del figlio morto, ucciso da alcuni agenti, per difendere se stessa dagli attacchi verbali e suo figlio dagli attacchi al suo ricordo. Non rappresentano il rispetto delle leggi e della Costituzione, che vuole che una sentenza passata in giudicato debba essere semplicemente accolta e debba esserlo in primo luogo da chi svolge una funzione pubblica di tutela del bene collettivo. Non rappresentano il rispetto delle istituzioni chiamate - come è stato il caso del sindaco ferrarese - a dover intervenire per tutelare una propria cittadina, vittima e aggredita dal presunto branco di supporto degli aguzzini di suo figlio. Non rappresentano la tradizione di un paese che è risorto dopo aver sconfitto la cultura squadrista che quella manifestazione esprime. Ogni persona civile di questo paese si attende provvedimenti. Pretende che si accerti se la manifestazione era stata autorizzata e che, nel caso, il questore spieghi come sia stato possibile autorizzare una manifestazione in quel luogo, sotto quella sede. Ci si attende che il ministro degli Interni trovi le parole giuste per condannare senza minimizzare quanto avvenuto. Altrimenti il rischio di una complicità culturale altrettanto - e forse più - dannosa di quella materiale, diventerà certezza. Giustizia: il ritorno di Pietro Maso… quel che resta del male di Carlo Verdelli La Repubblica, 28 marzo 2013 Il 17 aprile del 1991, a 19 anni, massacrò il padre e la madre insieme a tre complici. “L’ho fatto per i soldi”, disse. E diventò famoso. Quasi il simbolo del diavolo. Il 15 aprile prossimo lascerà il carcere dove ha trascorso gli ultimi 22 anni. La vera condanna di Pietro Maso è la fama. Sono passati 22 anni da quando sprangò a morte, insieme a tre amici, la madre e il padre. C’era ancora la lira, non esisteva Internet, si era da poco insediato il settimo e ultimo governo Andreotti. Un’altra Italia, un altro mondo. Eppure, quando tra pochi giorni, il 15 aprile, lascerà per sempre il carcere, ad attenderlo ci sarà la folla di telecamere e fotografi che di solito si raduna per i “famosi”. E sarà solo l’inizio. Per esempio, lo aspetta già un libro, “Il male ero io”, edito niente meno che da Mondadori, firmato da lui, anche se a comporlo e scriverlo è stata la giornalista di Mediaset Raffaella Regoli. Data prevista per il lancio: il 16 aprile, a cavallo tra il 15, fine della pena, e il 17, anniversario della mattanza. Ma potrebbe non finire qui, il Maso parte seconda. Pare che Alfonso Signorini, direttore di “Chi”, già lo volesse in un programma natalizio su Canale 5. Tema surreale della puntata: l’amore per i genitori, con Maso che avrebbe dovuto spiegare, al termine del suo travagliato percorso di conversione e pentimento, quanto siano importanti per la vita di un figlio. Tutto saltato per un provvidenziale no del giudice. Pazienza, ci saranno altre occasioni. Perché, a suo modo, Pietro Maso è una star. Figura, ancora per qualche giorno, tra gli ospiti di spicco della severa galera di Opera, insieme a Riina, Vallanzasca, Sandokan e qualche bestia di Satana. Durante un permesso, è stato ritratto in amichevole conversazione con Fabrizio Corona, e “Novella 2000” gli ha dedicato pagine su pagine. Anche Lapo Elkann si è interessato a lui, forse per via della “seconda possibilità”. Il problema di Pietro Maso è che l’abisso in cui si è ficcato, deliberatamente, è di quelli che passano alla storia, non solo criminale. E la notizia della sua imminente e definitiva scarcerazione ha sollevato dichiarazioni pubbliche violente e uno sgomento diffuso. Ma come, con quello che ha fatto, non gli hanno dato l’ergastolo? “L’altra mattina mio figlio di 12 anni mi ha chiesto proprio questo: mamma, ma per te è giusto che Maso esce?”. La mamma in questione è Roberta Cossìa, il giudice del Tribunale di sorveglianza di Milano che ha firmato il fine pena. La condanna era di 30 anni e 2 mesi, spiegabile con l’età dell’omicida, che allora aveva appena 19 anni e 9 mesi. Sarebbe dovuto restare detenuto fino al 2021, ma tra i 3 anni di indulto e i 45 giorni maturati ogni sei mesi per buona condotta (fanno altri 5 anni), la scadenza è stata anticipata. Nessun favoritismo. È la legge. I protagonisti dei delitti familiari più angosciosi di cui abbiamo memoria sono tutti liberi. Lo è Doretta Graneris, la “belva di Vercelli”, che nel 1975, a 18 anni, insieme al futuro sposo, uccise a colpi di pistola madre, padre, nonni materni e il fratello di 13 anni, più il cane che abbaiava. Lo sono Erika e Omar, i due diciassettenni che nel 2001, a Novi Ligure, squartarono con 97 coltellate la madre di lei più il fratello di 11 anni. È libero anche Ferdinando Carretta, che nel 1989 a Parma sparò ai genitori e al fratello, e poi scomparve per 9 anni. Liberi per legge. Ma, appunto, è giusto? “A mio figlio ho risposto che sì, lo è. Quando il castigo è stato espiato, ognuno ha diritto a una nuova vita. Semmai, c’è da augurarsi che non la sprechi”. E secondo lei, signor giudice, il Maso di 42 anni che sta per tornare libero cittadino saprà non sprecarla? “La cosa più saggia sarebbe quella di ripartire altrove, che so, un bar a Santo Domingo. Diventare uno qualunque. Il rischio, invece, è quello di fare del proprio male un business, ovvero un’altra prigione”. Il male che ha trasformato il ragazzino Piero in Pietro Maso è grande e terribile. Atroce e solo in parte spiegabile. Anche da lui stesso: “L’ho fatto per i soldi, i vestiti, i profumi”. L’ha fatto per comprarsi una Bmw bianca con gli interni bianchi e i sedili in pelle, 47 milioni di lire di allora. L’ha fatto perché quel Nord-Est dove cresceva era la locomotiva d’Italia, il denaro era la misura della realizzazione di se stessi, più ne hai più vali. Ma quanto denaro c’era realmente in ballo nell’eredità di famiglia? Non tanto, non abbastanza per passare dalla vita alla bella vita. Il padre Antonio era un contadino, come tanti a Montecchia di Crosara, 35 chilometri da Verona, 4 mila abitanti, vigneti che danno il Soave e ciliegi che in primavera riempiono la campagna di fiori bianchi. La madre Maria Rosa cresceva i tre figli, Pietro più due sorelle maggiori, e badava alla casa, una villetta su due piani, grigia, semplice, modesta, con un balconcino che dà su una strada stretta (per tragica ironia, via San Pietro) e alle spalle, più sopra, il cimitero. Tra campi e risparmi, i signori Maso possedevano beni per neanche un miliardo e mezzo di vecchie lire. Posto che fossero deceduti, l’eredità sarebbe finita divisa tra i tre figli, mezzo miliardo a testa. Se a questo si toglie il compenso pattuito per i complici del doppio assassinio, il ragazzo Piero avrebbe intascato, in cambio di una discesa senza ritorno agli inferi, 400 milioni o giù di lì, 200 mila euro. Sarebbe stato molto più conveniente, e meno devastante, darsi alle rapine. Perché allora quella strage, e perché così selvaggia? Al camposanto di Montecchia, quel che resta dei signori Maso è custodito sotto un monumento matrimoniale, in una seconda fila anonima, tomba tra le tombe, una scritta dolentemente standard (“i vostri cari”), qualche fiore finto e una piantina di sempreverdi. Antonio, 56 anni. Maria Rosa, 48. La foto li ritrae vicini e sorridenti. Due brave persone qualunque. La notte del 17 aprile 1991, un mercoledì, alle 23 e 30, rientrando a casa dopo una riunione in parrocchia, smetteranno di esserlo. Il loro Pietro era un figlio normale, si dice sempre così. Chierichetto da bambino, un anno in seminario, tre anni di istituto agrario che poi molla per i primi lavoretti. È bello, piace e si piace. Mamma Rosa gli confeziona vestiti alla moda, tra cui una giacca rossa doppiopetto con due file di bottoni, con stoffe che sceglievano insieme. Nei bar, nelle discoteche della zona, ai primi tavoli da gioco, fa carriera in fretta. Gioventù bruciante, con lui capobranco emergente. “Uno a quell’età assorbe l’aria che si respira in giro”, dice il sindaco di Montecchia, Edoardo Pallaro, titolare dell’unica farmacia del paese (tre le banche). “E allora giravano quattrini a go-go, si respirava un deserto sentimentale alimentato dal consumismo. Adesso è diverso, la crisi si sente anche qui”. Lei ha detto che Maso non è più cittadino di Montecchia. “È una cosa tecnica. Chi è in carcere prende la residenza di dove sta”. Si avverte però del rancore nelle sue parole. “Conoscevo i suoi genitori, gente a postissimo. E poi la storia dello sconto di pena è un po’ come le sanatorie fiscali: è un’ingiustizia verso chi si è comportato bene tutta la vita. Comunque non escludo che Pietro Maso torni, nessuno di quella tragedia abita più qui”. Non i tre complici, Giorgio Carbognin, Paolo Cavazza e Damiano Burato (all’epoca, minorenne); tutti già fuori ma tutti lontani. Non le due sorelle rimaste orfane in quel modo, Nadia e Laura: sposate, con figli, sono riuscite nell’impresa difficile di ridarsi un futuro e in quella, quasi impossibile, di perdonare il fratello. C’è ancora la villetta Maso, ma è stata venduta a uno di fuori, che l’affitta a rotazione. L’unica traccia rimasta intatta è il supermercato A&O, sull’altro lato del marciapiede. Lì, a 50 metri da casa, Pietro ha lavorato tre anni. Cassa numero tre. “Era un tipo vivace, molto brillante, molto per bene”, lo ricorda il direttore Agostino Righetto. “Pensi che avevamo deciso di abolire il libretto, dove uno segnava il conto e poi magari pagava a fine mese. Ecco, capitava che delle clienti non avessero i soldi per la spesa di quel giorno, e più di una volta ce li metteva lui. Cinque, diecimila lire, poca roba, ma aveva quella bontà lì”. E i rapporti con i genitori? “La mamma si scioglieva per quel figlio, avrebbe fatto lei i suoi turni di pulizia delle vetrate. Forse gli stava un po’ tanto addosso... Comunque, negli ultimi mesi lui era più inquieto. A Natale mi ha detto che si licenziava, voleva nuove esperienze”. E le fa, le nuove esperienze. Tenta una prima volta la strage di tutta la famiglia, sorelle comprese, con delle bombole a gas nella tavernetta. Qualcosa va storto e allora ci riprova con piani separati: lo sterzo manomesso della macchina del padre, la madre da eliminare mentre lui la porta da qualche parte in auto, col fido Carbognin seduto dietro con una bistecchiera (che però, all’ultimo, non ce la fa a usare). Fino alla notte del 17 aprile, quando Antonio e Rosa rientrano dalla parrocchia e trovano ad aspettarli tre ragazzi con delle maschere da carnevale con capelli posticci e loro figlio Pietro a volto scoperto. È il primo a picchiare: suo padre, in testa, con un tubo di ferro da 50 centimetri. E sarà ancora lui a dare il colpo di grazia alla madre, dopo 53 minuti di strazio e di orrore. Cinquantatré minuti: il tempo medio che un italiano passa su Facebook al giorno, la durata dell’intera Sinfonia n. 4 di Gustav Mahler. Nessuno dei carnefici è drogato né ubriaco. Alla fine dell’esecuzione, vanno in una discoteca, il Berfìs, ma non riescono a entrare perché è prenotata per una festa. Quando gli investigatori perquisiranno la stanza di Maso, troveranno decine di abiti firmati e 50 profumi diversi. Ai primi processi, l’assassino si presenterà in blazer blu, camicia bianca aperta e un foulard scuro a pois bianchi portato con strafottenza. Come a sfidare la giuria e la coscienza, come se quel bagno di sangue non lo riguardasse. Non per estraneità al fatto, visto che confesserà dopo neanche due giorni. Piuttosto, come ulteriore oltraggio, con quegli occhi freddi e beffardi che gli valgono subito centinaia di lettere di fan e ammiratrici. L’assassino che diventa eroe, il simbolo della rivolta contro il potere dei genitori padroni. “Ipertrofia narcisistica”, decreterà la perizia psichiatrica di Vittorino Andreoli. “Padre e madre percepiti solo come un salvadanaio da cui prelevare quando serviva, e da rompere se il bisogno lo richiedeva”. L’eredità, appunto. I soldi subito, d’accordo. Ma non può bastare. E infatti non basta a spiegare come si possa sopportare, per 53 infiniti minuti, la vista e l’esperienza della mutilazione e del massacro di tua madre, quella che ti faceva ciao con la mano dal balcone quando andavi al supermercato, o di tuo padre che, per quanto taciturno, aveva provato con la sua dedizione ai campi a spiegarti il valore della terra, e dei suoi frutti, e dei fiori. Negli anni in prigione, poco alla volta, viene a galla una verità complementare. Emerge come un iceberg imprevisto un odio tremendo verso la famiglia, l’unico detonatore che renda minimamente comprensibile la notte del diavolo. Una relazione disastrosa con le sorelle, vissute come assenti; col padre, percepito come un estraneo, capace di fargli una battuta velenosa quando lo sorprende in un bar frequentato da gay; e con la madre, perennemente insoddisfatta di lui, del suo rendimento a scuola, la pecora nera che non si riesce a sbiancare. Poco importa che questi sentimenti di Pietro Maso corrispondano alla realtà. Ma sono la molla che lo spinge oltre il confine del male. E in quell’altrove lo lascia, per ventidue anni, in una cella. Ventidue anni: un diploma in ragioneria, il poster del Milan alla parete, tanta palestra (“sta in fissa per il fisico”, dicono da dentro), una parte in un Jesus Christ Superstar per detenuti dove faceva l’angelo, un rosario al collo simbolo di una conversione guidata da don Guido Todeschini, quello di Telepace, il prete che il 10 ottobre 2010 lo unisce in matrimonio religioso con Stefania, ragazza milanese conosciuta durante un permesso: aveva un negozio di abiti di marca, ora si è spostata nel ramo tatuaggi. Questa la superficie. Ma sotto? Quanto e come è cambiato lo sguardo di Maso su se stesso e sul mondo? Don Marcellino Brivio, parroco al Gratosoglio, è stato a lungo il cappellano di Opera. È uno dei “pretacci” raccontati nel libro di Candido Cannavò: “Pietro l’ho visto tanto, veniva quasi sempre alla messa, ma ci siamo parlati poco. È uno che dentro ha rigato dritto, gli agenti e gli altri detenuti si sono comportati con lui come se fossero tutti dentro uno spettacolo. Non so se quel ragazzo ha incontrato fino in fondo il suo demonio. Quello che spero è che, uscendo, si lasci alle spalle Pietro Maso e ridiventi Pietro”. Un bar a Santo Domingo, per dire, oppure la compagnia del Gatto e la Volpe. A lei la scelta, cittadino Maso. Giustizia: legali Provenzano; incompatibile col carcere, ricoverarlo in struttura sanitaria Ansa, 28 marzo 2013 I legali del boss Bernardo Provenzano, gli avvocati Franco Marasà e Rosalba Di Gregorio, chiedono il ricovero del loro assistito in una struttura sanitaria in cui gli “siano prestate le cure e l’assistenza che la sua condizione richiede”. L’istanza è indirizzata al ministero della Giustizia, ai tribunali di sorveglianza di Roma e Bologna e al magistrato di sorveglianza di Parma. Citando le perizie effettuate su Provenzano che parlano di un quadro clinico di estrema gravità, tale da indurre il Gup a sospendere il processo per la trattativa Stato-mafia in cui il boss è imputato, i penalisti denunciano un’omissione di soccorso da parte del carcere di Parma che avrebbe atteso due giorni per occuparsi dell’ematoma cerebrale che il detenuto aveva a dicembre a seguito di una caduta. “La collocazione in una cella - scrivono gli avvocati nell’istanza - (sia pure tardivamente dotata di letto con sponda e telecamera) non può essere ritenuta consona” alle condizioni del detenuto, riportato nell’istituto di pena, dopo il ricovero, le settimane scorse. “L’abbandono di un soggetto in queste condizioni fisiche - proseguono - è contrario, oltre che ai principi di umanità anche al diritto alla salute e al diritto di permanenza in vita di un individuo”. Nell’istanza si sollecita anche la revoca del carcere duro essendo venuta meno la pericolosità sociale del boss. Padova: le colombe della pasticceria del carcere non conoscono crisi, produzione + 20% Redattore Sociale, 28 marzo 2013 La produzione per il 2013 cresce del 20 per cento. Il successo dei dolci pasquali si somma a quello, già collaudato, degli altri prodotti. Il laboratorio di pasticceria del consorzio Rebus dà lavoro oggi a 120 detenuti. La pasticceria del carcere Due Palazzi di Padova non conosce crisi. Mentre le cronache raccontano di un calo dei consumi a causa della difficile congiuntura economica, i forni del laboratorio lavorano a pieno ritmo. La produzione 2013 in vista della Pasqua si attesta sulle 13mila unità, oltre il 20 per cento in più rispetto all’anno scorso, quando si vennero sfornate poco più di diecimila colombe. Non c’è solo la solidarietà dietro il successo dell’iniziativa, ma soprattutto l’alto valore della produzione artigianale e la cura nei dettagli, che richiede 72 ore di lavorazione complessiva. Il successo dei dolci pasquali si somma a quello, già collaudato, degli altri prodotti de “I dolci di Giotto”, come i panettoni, le focacce, e della linea dei Dolci di Antonio ispirati al Santo di Padova e con gli ingredienti e i gusti del medioevo, i grissini, i biscotti e gli altri dolci artigianali, dalla sbrisolona al torrone. Le colombe dal carcere in questi giorni volano in diverse parti d’Italia: a partire da Firenze, dove ancora una volta hanno partecipato all’esclusiva competizione “Vola colomba vola” a cura del Gastronauta di Radio24 Davide Paolini, nel quadro di “Fuori di Taste”, rassegna di gusti e sapori di Pitti Immagine. Il volo prosegue fino a Perugia: “Andrei”, uno dei più prestigiosi esercizi commerciali perugini, ha puntato sul dolce padovano per celebrare il suo 180° anniversario di una storica boutique cittadina, che dal 23 marzo si è ripresentata con un nuovo look. “La pasticceria del carcere di Padova sbarca nel centro di Perugia all’insegna di parole come storia, qualità, arte, moda, bellezza, gusto - è il commento di Nicola Boscoletto, leader del Consorzio Rebus, che nel carcere di Padova dà lavoro complessivamente a 120 detenuti. Un punto vendita per noi assai ricco di significati”. Oltre a quello perugino ci sono altri 160 punti vendita in cui sono sfoggiati i dolci del carcere, da Bolzano ad Agrigento, mentre prosegue positivamente anche la vendita online dal sitowww.idolcidigiotto.com. Calabria: Talarico (Regione); chiudere il carcere di Lamezia sarebbe un grave errore Ansa, 28 marzo 2013 “In merito alla paventata chiusura del carcere di Lamezia Terme, raccogliendo le preoccupazioni espresse da organizzazioni sindacali, istituzioni ed associazioni, il presidente del Consiglio regionale, Francesco Talarico, ha scritto al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino, per ribadire la sua più netta contrarietà”. È quanto riferisce un comunicato dell’ufficio stampa del Consiglio regionale. “L’Istituzione che rappresento - aggiunge Talarico - promuoverà tutte le azioni che saranno necessarie per garantire il mantenimento di un presidio di sicurezza importante nella sede di Lamezia (terza città della Calabria per densità abitativa) che, in caso contrario, sarebbe l’unica a vedere soppressa la Casa Circondariale in cui lavorano oltre settanta operatori. Auspicando un’immediata riconsiderazione di decisioni che porterebbero alla soppressione del carcere di Lamezia e, in attesa di poter incontrare il Ministro della Giustizia, mi preme mettere in evidenza che una non augurabile decisione di chiusura, costringerà i familiari di molti detenuti a recarsi in altre sedi per fare visita ai propri congiunti; provocherà disagi a magistrati ed avvocati che operano nel Tribunale di Lamezia e non contribuirà certamente a risolvere, anzi la aggraverà, la questione del sovraffollamento nella carceri che, come ha commentato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, è una di quelle questioni che rappresenta una mortificante conferma della perdurante incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi”. “Sarebbe un grave errore, pertanto - conclude il Presidente del Consiglio regionale - chiudere il carcere di Lamezia, mentre da più parti si invocano interventi strutturali capaci di far fronte al sovraffollamento e ai disagi che ne derivano. Come è stato dimostrato, nell’occasione della chiusura, poi scongiurata, di alcuni Tribunali in Calabria, le soppressioni non comportano riduzioni della spesa, anzi finiscono con l’appesantirla”. Trani: meningite in carcere, l’autopsia conferma causa morte dell’agente Giovanni Bassi Asca, 28 marzo 2013 Le indagini hanno confermato la morte per meningite. Giovanni Bassi, agente di Polizia Penitenziaria è morto poche ore il suo ricovero in ospedale. Sarebbe morto per una grave e veloce forma di meningite il 42enne tranese Giovanni Bassi, l’agente di Polizia Penitenziaria deceduto sabato mattina nel reparto rianimazione dell’ospedale di Trani poche ore dopo il suo ricovero. È quanto emerge dai primi risultati dell’autopsia eseguita ieri pomeriggio dal medico legale Biagio Solarino nominato dal sostituto procuratore di Trani, Raffaella De Luca, cui è giunta la denuncia dei familiari di Bassi, assistiti dagli avvocati Michele Sodrio e Luigi Puca. L’esame autoptico dovrà anche accertare se Bassi (che ha lasciato moglie e due figli) si sarebbe potuto salvare qualora il medico del pronto soccorso dello stesso nosocomio tranese, dove il 42enne si era recato venerdì sera, non l’avesse congedato, ritenendo, a quanto pare, che i sintomi fossero riconducibili ad un’influenza. Cagliari: Sdr; bimba di 14 mesi finalmente a casa, dopo 20 giorni a Buoncammino Ristretti Orizzonti, 28 marzo 2013 Ha finalmente lasciato il carcere di Buoncammino la bimba di appena 14 mesi finita per due volte dietro le sbarre a Cagliari. La piccola, rimasta in una cella consecutivamente per 20 giorni, è tornata a casa con la mamma Fortunata S. di 27 anni. È stata infatti concessa alla donna la misura alternativa degli arresti domiciliari. “Dopo i primi giorni dentro la struttura penitenziaria, la bambina - afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” - ha evidenziato insofferenza per gli spazi troppo limitati con un’incontenibile irrequietezza. La circostanza non è passata inosservata ai medici e alle Agenti di Polizia Penitenziaria preoccupati per il protrarsi della presenza della piccola”. “La decisione del Giudice del Tribunale di Sassari è stata quindi provvidenziale per ridurre alla piccola il trauma della detenzione. La madre attenderà dunque a casa gli sviluppi dell’inchiesta giudiziaria che la riguarda. Del resto solo per “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza” una madre con un figlio neonato deve stare in carcere. Una bimba in una cella è tuttavia sempre un evidente segnale - conclude la presidente di Sdr - di debolezza dello Stato e delle Istituzioni incapaci di trovare alternative dignitose quando si tratta di bambini in così tenera età”. Fortunata S. di 27 anni, madre di altri due figli, era stata arrestata con l’accusa di furto e truffa. La giovane donna, originaria di Siracusa, è domiciliata a Quartucciu (Cagliari). Cremona: il Gip; Consolato indiano non collabora, un detenuto aspetta rimpatrio da mesi Ansa, 28 marzo 2013 La “scarsa collaborazione” del Consolato indiano non consente da oltre tre mesi che un indiano condannato a due anni, sia espulso nel suo Paese d’origine, così come previsto dalla legge come alternativa alla detenzione. Il Gip di Cremona Guido Salvini lo ha quindi scarcerato disponendo che sia trattenuto in un Cie (Centro di identificazione ed espulsione) in attesa del 16 aprile, data per la quale la Questura di Cremona ha prenotato un volo per New Delhi. La condanna a due anni era diventata definitiva il 12 dicembre scorso e l’uomo avrebbe potuto essere espulso allora ma il Consolato indiano, nonostante le ripetute richieste del giudice, non ha mai inviato un proprio rappresentante per prendere accordi con la Questura e il carcere per eseguire l’espulsione. Il Consolato indiano a Milano aveva solo trasmesso “istruzioni propedeutiche” al rilascio del documento di viaggio “comunicando contestualmente per telefono al cancelliere che non intendeva far presenziare alle udienze un proprio addetto”. Così si è creata una situazione d’impasse e davanti alla richiesta del suo legale, il gip ha disposto la scarcerazione dell’immigrato e la sua permanenza in un Cie in attesa dell’espulsione. Il giudice, nel provvedimento, sottolinea che “la scarsa collaborazione del consolato” e spiega che “se l’espulsione resta concretamente ineseguibile per impedimenti sopravvenuti, non possa farsi luogo de plano alla cessazione della detenzione, perché sarebbe in pieno contrasto con le esigenze di controllo di uno straniero che non ha titolo per risiedere in Italia”. Da qui la soluzione del Cie per lo straniero “che non dovrebbe essere più detenuto ma che non può essere ancora espulso” Salerno: studenti e detenuti in un lungo percorso comune sul tema della legalità La Città di Salerno, 28 marzo 2013 È stato il primo appuntamento di un lungo percorso comune che gli studenti della Consulta provinciale e i detenuti del carcere circondariale di Fuorni hanno deciso di intraprendere assieme. Perché le iniziative in programma sono ancora tante e, oltre ad ulteriori dibattiti, sono state pianificate anche giornate sportive, con un torneo di calcetto tra studenti e detenuti, e una gara culinaria, che metterà in competizione amichevole le ospiti del carcere e le studentesse. Insomma si apre un nuovo modo di dialogare tra la scuola e la realtà penitenziaria, fino a qualche anno fa inimmaginabile. Il via al cammino di legalità è stato dato ieri mattina nella sala teatro della casa di detenzione, con la visione del film (purtroppo senza la possibilità di vedere il finale, a causa di un inconveniente tecnico) “Certi bambini”, tratto dall’omonimo libro di Diego De Silva, che non ha voluto far mancare la sua presenza. Con lo scrittore, hanno preso parte all’iniziativa, che rientra nel progetto “I dialoghi di legalità”, patrocinato dal Comune, il procuratore Franco Roberti, i giornalisti Angelo Di Marino e Gabriele Bojano, rispettivamente direttore de “la Città” e responsabile delle pagine di Salerno del “Corriere Del Mezzogiorno”, e Simone Buonomo, presidente consulta provinciale. Il provveditore Renato Pagliara ha portato i saluti del ministro è stato mentre il direttore del carcere, Alfredo Stendardo, ha fatto gli onori di casa. A coordinare l’iniziativa e a condurre il dibattito è stata Ketty Volpe, esperta Miur e referente della Consulta. “Il nostro rammarico - ha evidenziato un detenuto rivolgendosi agli studenti nel dibattito seguito alla visione - è quello di non aver mai studiato”. Perché la cultura, assieme ai sogni, può essere il grimaldello per scardinare quel gap cha ancora esiste nella nostra regione. Di questo è convinto il direttore Di Marino, che ha sottolineato come “il maggior timore sia quello che i giovani d’oggi abbiano smesso di sognare”. E proprio la mancanza di obiettivi fa sì, come ha rimarcato Bojano, che i “giovani invece di vivere preferiscano sopravvivere” Pavia: violenza nel carcere di Voghera, detenuto picchia tre agenti (con una stampella) di Manuela Marziani Il Giorno, 28 marzo 2013 Ora ci si interroga sulle politiche di “apertura” che l’intera Amministrazione penitenziaria sta seguendo. Preoccupante la scarsissima presenza di ispettori e sovrintendenti, figure fondamentali di raccordo tra vertici dell’istituto e personale Una stampella usata come arma contro quattro agenti di polizia penitenziaria, tre dei quali hanno dovuto ricorrere alle cure del pronto soccorso. È accaduto l’altro pomeriggio all’interno della casa circondariale di Voghera e ora ci si interroga sulle politiche di “apertura” che l’intera Amministrazione penitenziaria sta seguendo. “Quello che si è verificato a Voghera è senza dubbio un episodio isolato - dice Gian Luigi Madonia, segretario regionale della Uil di categoria - deve comunque far riflettere e, se occorre, far compiere qualche passo indietro. L’istituto sta vivendo un momento storico di sostanziale serenità, anche dal punto di vista lavorativo, con molti obiettivi raggiunti ed altrettante conquiste sindacali, ma non deve rimetterci il personale. Il responsabile dell’aggressione deve essere immediatamente trasferito e sottoposto a idonee misure di vigilanza, più restrittive”. L’episodio al quale il sindacalista si riferisce è quello che ha avuto per protagonista un detenuto comune di nazionalità italiana al rientro dall’infermeria. Dopo un’incomprensione con un medico specialista, si è scagliato contro alcuni agenti di polizia penitenziaria. Tre agenti sono stati trasportati al pronto soccorso con prognosi fino a 20 giorni. “È stato un fulmine al ciel sereno quello che si è abbattuto sull’istituto di Voghera - aggiunge Madonia - che, già da qualche tempo, aveva raggiunto equilibrio e serenità, soprattutto per la gestione detenuti. La direzione ha rivalorizzato i rapporti con il territorio e sono state potenziate le opportunità di trattamento per i detenuti. Una clima reso tangibile anche grazie all’apporto di tutti: polizia penitenziaria, personale civile, volontari”. Nonostante gli organici limitati, perché mancano 40 persone all’organico. “E con questi numeri l’istituto è prossimo all’ampliamento per l’apertura di un nuovo padiglione. Ma è anche preoccupante la scarsissima presenza di ispettori e sovrintendenti, figure fondamentali di raccordo tra vertici dell’istituto e personale - conclude il sindacalista della Uil - La carenza dei sottufficiali è di circa 25 unità. Come si può pensare di fare trattamento e garantire sicurezza senza almeno un adeguamento del personale? È utile che l’amministrazione penitenziaria avvii uno studio sulla destinazione d’uso del penitenziario di via Prati Nuovi che senza uomini sarebbe una struttura fuori legge e ad alto rischio”. Libri: il penitenziario di S., dove anche i libri scontano l’ergastolo di Ascanio Celestini Venerdì di Repubblica, 28 marzo 2013 Arrivo nel penitenziario di S. alle due del pomeriggio. Devo parlare del mio libro sul carcere. All’entrata trovo una trentina di persone. “Abbiamo letto sul giornale che fai l’incontro”, dicono. Gli spiego che per entrare ci vuole l’autorizzazione, ma loro mi mostrano il giornale sul quale è scritto che l’entrata è gratuita. Sì, effettivamente in galera si entra gratis. La permanenza in essa è il costo da pagare. Passiamo dal primo portone e ci dirigiamo verso il secondo. Accediamo a uno spazio dove c’è una guardia che ci fa mettere in fila. Consegniamo il documento e riceviamo la chiave dell’armadietto per depositare la borsa. La guardia scrive nomi e ora di entrata, poi andiamo al varco del metal detector. Quando siamo pronti per attraversarlo, la guardia legge i nomi degli autorizzati: il mio e quello del critico che mi accompagna. E tutti gli altri? La guardia dice che non sono autorizzati, li fa rimettere in fila, riconsegna i documenti e scrive l’orario di uscita. Si avvicina una seconda guardia. Si mette a dibattere se avesse senso scrivere che sono entrati e poi usciti. Non sono andati proprio dentro, ma nemmeno sono restati fuori. Insomma: quello spazio è sufficientemente dentro da non essere fuori, o sta abbastanza fuori per non essere proprio dentro? Mi portano all’incontro e, più che parlare, li ascolto. “Ho scritto una lettera a un amico di Monza”, mi dice uno. “c’ho messo il francobollo e l’indirizzo, ma non mi ricordavo il mittente. Solo quando mia moglie è venuta a trovarmi ho potuto spedirla. Si può impazzire a restare chiusi in cella per 22 ore su 24, per due settimane con una lettera sigillata”. E un altro: “Ho chiesto un orologio a mia moglie. È il quinto che porta e li rimandano indietro”. Un immigrato sta dentro perché non ha il domicilio e non possono dargli i domiciliari. Un altro perché ha rubato un salame, “ma un pezzo di pane l’avevo comprato”, dice. Una dopo l’altra, ascolto tutte le loro storie, poi finisce l’incontro e mi chiedono: “A chi lo lasci il tuo libro?”. “Alla vostra biblioteca”, dico. “Qui ci sono quattro sezioni e ognuna ha una biblioteca a parte”, mi spiegano. Sarà mai possibile cambiare un’istituzione così ottusa? E ho volutamente raccontato solo la banalità del carcere evitando tutte le sue violenze criminali. Lì dentro anche i libri sono detenuti e non possono circolare liberamente. Chiusi sugli scaffali, condannati all’ergastolo. Radio: “Radio 3 Mondo” dedica una trasmissione agli italiani detenuti all’estero Adnkronos, 28 marzo 2013 Degli italiani detenuti all’estero si parlerà nella puntata di “Radio 3 Mondo” in onda domani alle 11.00. Sono circa 3.000 e questa cifra risale a fine 2011, perché la Farnesina ancora non ha fornito i dati per il 2012. Chi è rinchiuso nelle prigioni fuori dai propri confini viene spesso sottoposto a condizioni di vita lesive dei più elementari diritti dell’uomo. Cure mediche quasi inesistenti e una difesa legale inappropriata rappresentano la norma. Oltre ai due marò, che volto hanno e che storie si portano dietro le altre migliaia di persone che scontano pene fuori dall’Italia? Anna Mazzone lo chiederà a Katia Anedda, presidente della Onlus “I prigionieri del silenzio”. Egitto: profughi eritrei liberati dalle carceri grazie ad un progetto dell’Ong “Ghandi” 9Colonne, 28 marzo 2013 Grazie ad un progetto dell’Ong “Ghandi”, attuato in collaborazione con il Centro Missionario di Trento e con la Provincia autonoma di Trento, sono stati liberati dalle carceri egiziane 278 cittadini eritrei rapiti in precedenza da bande di beduini, che sono stati trasferiti in un campo profughi in Etiopia all’interno del quale il Centro Missionario ha realizzato un centro di accoglienza. L’intervento della solidarietà trentina in Egitto è stato reso possibile grazie al sacerdote trentino don Sandro Depretis, il quale già in precedenza - ma in Libia - s’era impegnato ad accompagnare molti lavoratori stranieri al di lì del confine della Tunisia, salvandoli così dalla denuncia di collaborazionismo con Gheddafi e, quindi, dall’arresto. La medesima situazione don Sandro l’ha ritrovata anche in Egitto, dove le denunce, gli arresti, ma anche la detenzione abusiva, le violenze e i ricatti erano invece rivolti ai lavoratori eritrei scappati dalla violenta dittatura che affligge il loro Paese ed espatriati in Egitto per trovarvi fortuna e forse lavoro, per incappare invece nelle bande di beduini del deserto. Per ciascuno dei 278 eritrei liberati è stato pagato il prezzo del biglietto aereo per farli tornare patria e oggi sono ospitati in un campo profughi in Etiopia. Alganesc Fessaha, attivista dell’Ong “Ghandi”, ha presentato a Trento i risultati del progetto in un incontro con l’assessore alla solidarietà internazionale della Provincia di Trento Lia Beltrami Giovanazzi nel quale ha descritto la gravità della situazione, che vede oltre 600 eritrei ancora prigionieri delle bande e altri 400 rinchiusi nelle carceri egiziane. L’impegno quindi continua, così come la missione umanitaria dell’associazione “Gandhi”, impegnata in 12 Paesi africani in cui organizza adozioni a distanza, accoglienza familiare e assistenza ai profughi.