Giustizia: 3 leggi di iniziativa popolare per i diritti; il 9 aprile si firma davanti ai Tribunali Ristretti Orizzonti, 27 marzo 2013 Milano, Torino, Roma, Palermo, Ancona, Bologna, Firenze, Genova, Bari, Chieti, Bolzano, Cagliari e tante altre ancora: il 9 aprile 2013, dalle ore 9 alle ore 13, nelle piazze dei Tribunali di tutta Italia i promotori della Campagna Tre leggi per la giustizia e i diritti. Tortura, carceri, droghe raccoglieranno le firme per le tre proposte di legge di iniziativa popolare depositate lo scorso gennaio in Cassazione. Proposte che costituiscono un vero e proprio programma di governo per ripristinare la legalità nel nostro sistema penale e penitenziario. La prima, Introduzione del reato di tortura nel codice penale, vuole sopperire ad una lacuna normativa grave. In Italia manca il crimine di tortura nonostante vi sia un obbligo internazionale in tal senso. Il testo prescelto è quello codificato nella Convenzione delle Nazioni Unite. La proibizione legale della tortura qualifica un sistema politico come democratico. La seconda, Per la legalità e il rispetto della Costituzione nelle carceri, vuole intervenire in materia di diritti dei detenuti e di riduzione dell’affollamento penitenziario, rafforzando il concetto di misura cautelare intramuraria come extrema ratio, proponendo modifiche alla legge Cirielli sulla recidiva, imponendo l’introduzione di una sorta di “numero chiuso” sugli ingressi in carcere, affinché nessuno vi entri qualora non ci sia posto. Insieme alla richiesta di istituzione di un Garante nazionale per i diritti dei detenuti, viene anche proposta l’abrogazione del reato di clandestinità. Infine la terza proposta, per modifiche alla legge sulle droghe: depenalizzazione del consumo e riduzione dell’impatto, vuole modificare la legge sulle droghe che tanta carcerazione inutile produce nel nostro Paese. Viene superato il paradigma punitivo della legge Fini-Giovanardi, depenalizzando i consumi, diversificando il destino dei consumatori di droghe leggere da quello di sostanze pesanti, diminuendo le pene, restituendo centralità ai servizi pubblici per le tossicodipendenze. Al sito www.3leggi.it la mappa di tutti luoghi dove sarà possibile sottoscrivere le tre proposte, che sono promosse da: A Buon diritto, Acat Italia, A Roma, insieme - Leda Colombini, Antigone, Arci, Associazione Difensori d’Ufficio, Associazione Federico Aldrovandi, Associazione nazionale giuristi democratici, Associazione Saman, Bin Italia, Cgil, Cgil - Fp, Conferenza nazionale volontariato giustizia, Cnca, Coordinamento dei Garanti dei diritti dei detenuti, Fondazione Giovanni Michelucci, Forum droghe, Forum per il diritto alla salute in carcere, Giustizia per i Diritti di Cittadinanzattiva Onlus, Gruppo Abele, Gruppo Calamandrana, Il detenuto ignoto, Il Naga, Itaca, Libertà e Giustizia, Medici contro la tortura, Progetto Diritti, Ristretti Orizzonti, Società della Ragione, Società italiana di Psicologia penitenziaria, Unione Camere penali italiane, Vic - Volontari in carcere. Sdr: da Buoncammino adesioni per leggi giustizia e legalita Parte da Buoncammino, con i volontari dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, la campagna per la raccolta delle firme per le tre proposte di legge di iniziativa popolare contro la tortura, la legge sulle droghe e per la legalità nelle carceri. Promossa a livello nazionale da numerose associazioni culturali ed enti no profit l’iniziativa è stata presentata nel corso di una conferenza stampa. In Sardegna hanno aderito al progetto anche le comunità “La Collina” di Don Ettore Cannavera e “S’Aspru” di Padre Salvatore Morittu. Coinvolti inoltre i Cappellani delle tredici strutture penitenziarie isolane e numerosi Sindaci. “L’impegno a contribuire per la raccolta delle 50 mila firme a sostengo delle proposte di legge tese a restituire dignità al sistema giudiziario - afferma Maria Grazia Caligaris, presidente di SdR - vedrà attivi i volontari dell’associazione in diverse occasioni. Intendiamo innanzitutto coinvolgere i familiari dei detenuti del carcere di Buoncammino contribuendo a diffondere una cultura della legalità e della giustizia giusta. Alcune leggi, come la Bossi-Fini e la ex Cirielli, impediscono anche al sistema detentivo di funzionare secondo i dettami della Costituzione. Riteniamo che la sicurezza dei cittadini possa essere maggiormente garantita quando lo Stato promuove l’equità sociale e rispetta le proprie norme. Ciò non avviene nelle strutture penitenziarie dove i cittadini privati della libertà troppo spesso devono rinunciare alla dignità se non addirittura subire pene aggiuntive rispetto a quelle stabilite dal Tribunale. La raccolta delle firme è quindi - conclude Caligaris - un atto di assunzione di responsabilità a cui non intendiamo sottrarci”. Il primo resoconto della raccolta, insieme alle altre organizzazioni, avverrà pubblicamente davanti al Tribunale di Cagliari il prossimo 9 aprile. Giustizia: Sappe; rinvio chiusura Opg conferma superficialità su questa grave criticità Ansa, 27 marzo 2013 “La notizia del rinvio di un anno per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari conferma quanta grave superficialità contraddistingua questa grave specificità penitenziaria. È grave che, dopo tutto quello che è stato detto sulla precarietà delle strutture, non si è stati in grado di realizzare le alternative per il superamento degli Opg: questo segna il fallimento delle politiche della giustizia in questo Paese sulla detenzione degli internati. È assurdo che si sia perso così tanto tempo e vi siano ancora tante incertezze sul dove e come saranno successivamente custoditi gli oltre 1.050 malati di mente che sono oggi detenuti nelle strutture di Montelupo Fiorentino, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Reggio Emilia, Napoli ed Aversa. E l’Amministrazione Penitenziaria a guida Tamburino e Pagano è colpevolmente silente su questo tema e si guarda bene dall’informare i Sindacati anche sul futuro lavorativo dei poliziotti impegnati negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Ma è grave che non si sia stati in grado entro il termine previsto dalla legge di sapere dove andranno gli oltre mille responsabili di gravi reati oggi detenuti negli Opg. Se il percorso è lo stesso che, dall’oggi al domani, ha trasferito la sanità penitenziaria al servizio sanitario nazionale siamo preoccupati.” È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria. “Lo avevamo previsto: troppo semplice dire chiudiamo gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. E poi?” prosegue. “Quel che serve sono strutture di reclusione con una progettualità tale da garantire l’assistenza ai malati e la sicurezza degli operatori. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari hanno risentito nel tempo dei molti tagli ai loro bilanci. Ma colpevole è anche una diffusa e radicata indifferenza della politica verso questa grave specificità penitenziaria, confermata dall’incapacità di superare davvero gli Opg. Se i politici, a tutti i livelli, invece delle solite passerelle a cui si accompagnavano puntualmente anatemi e demagogie quanto estemporanee soluzioni, si fossero fatti carico del loro ruolo istituzionale, avrebbero per tempo messo le strutture psichiatriche nelle condizioni di poter svolgere al meglio il loro lavoro, poiché le condizioni disumane in cui versano gli Opg sono il frutto di una voluta indifferenza della società civile, dei politici, ma soprattutto dei vertici dell’Amministrazione penitenziaria”. Giustizia: detenzione dei minori in Italia; 468 ragazzi negli Ipm e 2mila nelle Comunità Ansa, 27 marzo 2013 Duemila minori in comunità e 468 ragazzi detenuti negli istituti minorili, oltre la metà per reati contro il patrimonio. Alla vigilia della visita a Casal del Marmo del papa, che domani celebrerà la Messa in coena domini nella cappella dell’istituto penale, ecco la fotografia della giustizia minorile italiana. Le presenze giornaliere. Al 15 marzo 2013 sono 468 i ragazzi detenuti negli istituti penali: erano 508 nel 2012 (200 stranieri), 486 nel 2011 e 474 nel 2010. Il 58,7 per cento è imputato per reati contro il patrimonio, l’11,7 per cento per violazione della legge sulla droghe, un altro 11,7 per cento per reati contro la persona e il 2 per cento per resistenza o oltraggio a pubblico ufficiale. Sono dentro per furto e rapina 247 ragazzi, 56 per resti legati al traffico di stupefacenti e 13 per omicidio volontario. La sede con il più altro numero di presenze medie giornaliere è quella di Catania (con una media di 63), seguono Nisida (Na) con poco meno di 60, Milano (53) e Roma (46). Oltre duemila, invece, i minori collocati in comunità (753 stranieri). Gli ingressi. Gli ingressi negli Ipm sono in diminuzione nell’ultimo decennio, in linea con la “de-carcerizzazione” in atto già dal 1975: se nel 1998 erano entrati nelle carceri 1.888 ragazzi, nel 2012 il dato è sceso a 1.252 di cui l’89 per cento maschi e l’11 per cento femmine, il 53,2 per cento italiani e il 46,7 per cento stranieri. Anche per i Centri di prima accoglienza (Cpa), gli ingressi sono diminuiti di quasi il 50 per cento nel giro di 14 anni, passando dalle 4.222 unità del 1998 alle 2.193 del 2012. Le strutture. Il sistema della giustizia minorile in Italia è sotto la responsabilità del Dipartimento per la giustizia minorile del ministero della Giustizia, costituito nel 2001. I destinatari dei servizi sono i ragazzi e le ragazze che in età compresa tra i 14 e i 18 hanno infranto il codice penale. Le strutture preposte all’esecuzione della pena sono i Centri per la Giustizia Minorile (Cgm), organi del decentramento amministrativo con funzioni di controllo e programmazione tecnico-economica; gli Istituti penali per i minorenni (Ipm) che assicurano l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria (custodia cautelare o espiazione di pena nei confronti di minorenni autori di reato); gli Uffici di servizio sociale per i minorenni (Ussm) che forniscono assistenza ai minorenni autori di reato in ogni stato e grado del procedimento penale e i Centri di prima accoglienza (Cpa) che ospitano i minorenni in stato di arresto, fermo o accompagnamento fino all’udienza di convalida. Le Comunità ministeriali, insieme al sistema delle comunità private assicurano l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria nei confronti di minorenni autori di reato. Giustizia: Tamburino (Dap); nuove piante organiche Polizia penitenziaria, svolta epocale Agenparl, 27 marzo 2013 “Era dal 1990, anno della Riforma del Corpo, che si aspettavano le piante organiche della Polizia Penitenziaria, un atto atteso da 22 anni e soprattutto uno strumento di trasparenza e di razionalizzazione delle risorse umane, importante per il buon funzionamento degli istituti e dei servizi amministrativi, centrali e territoriali. Con il decreto sulle nuove dotazioni organiche firmato dal Ministro della Giustizia il 22 marzo scorso siamo giunti, dunque, a un passaggio di radicale innovazione”. Con queste parole il Capo del Dap Giovanni Tamburino commenta un risultato che può dirsi “epocale”, frutto di un lavoro complesso sviluppatosi con ritmi serrati nel corso del 2012. “Ringrazio tutti miei collaboratori, in primis il direttore generale del personale e della formazione Riccardo Turrini Vita e la direzione generale a cui va il mio elogio per l’ottimo lavoro svolto. Questo argomento fu uno dei primi indicati dalle Organizzazioni sindacali. Ho preso un impegno. Ecco la risposta”. Il D.M del 22 marzo 2013 stabilisce la nuova dotazione organica in 45.121 unità e, per la prima volta, le stabilisce distinte per istituti penitenziari e servizi amministrativi, centrali e regionali. Luigi Pagano, vice capo del Dap, sottolinea che il decreto costituisce un ulteriore passo sulla strada del decentramento , già iniziato con il progetto dei circuiti regionali ed evidenzia i benefici, in termini di operatività, che ne derivano “soprattutto in riferimento al fatto che ci sono carceri, aperte dopo il 2001, anno in cui fu stabilita la dotazione organica complessiva del Corpo, che, sino a oggi, hanno funzionato con personale di Polizia Penitenziaria distaccato da altre sedi”. Simonetta Matone, vice capo vicario del Dap con delega al personale, non nasconde la propria soddisfazione per essere giunti a un provvedimento “che tutela il personale nel diritto ad avere la stabilizzazione nella propria sede, giunta, in molti casi, dopo anni di distacco, situazioni che influiscono anche sulla tranquillità familiare con ripercussioni positive sulla qualità del lavoro”. Un provvedimento, quindi, rimarca il Capo del Dap, “che snellisce, come richiesto anche dai Sindacati, le assegnazioni presso i servizi amministrativi a favore del personale che opera in prima linea all’interno degli istituti. Le nuove dotazioni organiche - continua Tamburino - non hanno inteso ridimensionare l’importanza del lavoro svolto dalla Polizia Penitenziaria fuori dalle sedi penitenziarie, che per professionalità e qualità è indispensabile alla gestione del sistema, quanto piuttosto ne razionalizzano l’impiego secondo le effettive esigenze e necessità. Tengo a evidenziare - spiega il Capo del Dap - come uno dei punti di maggiore forza sia stato il notevole ridimensionamento delle unità di personale in servizio nella sede centrale del Dipartimento che con le nuove dotazioni organiche siamo riusciti a ridurre dalle 850 unità attuali a circa 500”. Ecco in sintesi le tabelle delle nuove piante organiche decretate: Dotazione organica complessiva: 45.121 unità di Polizia Penitenziaria distribuite tra i 16 Provveditorati da impiegare negli istituti penitenziari: 41.335 Unità di Polizia Penitenziaria destinate a Uffici e Servizi Centrali: 2.786 (una diminuzione di oltre mille unità rispetto ai numeri attuali) così distribuiti: Uffici Prap: 886 Scuole di formazione e aggiornamento: 143 Uffici di esecuzione penale esterna: 334 Amministrazione centrale: 1179 - comprende, oltre a tutti gli Uffici e Servizi centrali del Dap, anche il Gom (Gruppo Operativo Mobile il cui personale è addetto ai servizi di vigilanza e traduzione dei detenuti sottoposti a regime ex 41-bis), l’Ufficio per la sicurezza personale e per la Vigilanza (Uspev), il Nucleo investigativo centrale (Nic), l’Istituto Superiore di Studi penitenziari (Isspe). Specializzazioni (Unità cinofile, Unità ippomontate, Settore navale): 244 1.000 le unità assegnate unità di Polizia Penitenziaria alla Giustizia minorile Il Capo del Dap infine rassicura che il rientro del personale in esubero, distaccato presso le sedi amministrative centrali e regionali, sarà graduale e comunque oggetto di contrattazione con le Organizzazioni sindacali, valutando ogni singola posizione con criteri di trasparenza e oggettività. Giustizia: Sindacati critici sulle nuove piante organiche della Polizia penitenziaria Agenparl, 27 marzo 2013 Fp-Cgil: no a ulteriore calo numero agenti. “Un grave errore quello commesso con l’approvazione delle nuove piante organiche del Dap, che indebolirà ulteriormente il Corpo sottraendo altri agenti ai servizi di istituto e aumentando di ben mille unità quelli destinati ai servizi centrali. L’esatto opposto di quanto vantato oggi dal Capo del Dipartimento Giovanni Tamburino e di quanto chiesto dalle organizzazioni sindacali”. Con queste parole Francesco Quinti, responsabile nazionale comparto sicurezza Fp Cgil, commenta la firma del decreto sulle piante organiche della Polizia Penitenziaria da parte della Ministra della Giustizia Paola Severino. “Il D.M. 22.03.2013 prevede un organico complessivo di 45.121 unità a fronte delle precedenti 44.486. Tra questi, ben 2.786 saranno destinati a uffici e servizi, quasi mille in più rispetto ai precedenti 1.873. Al contrario di quanto trionfalmente annunciato dal capo del Dap, gli uomini e le donne del Corpo direttamente impegnati negli istituti di pena scenderanno da 41.533 a 41.335. Un fatto incomprensibile - aggiunge il sindacalista - visto che da anni affrontiamo un’emergenza umanitaria senza precedenti e che continuano a essere aperte nuove strutture penitenziarie”. “Negli ultimi anni abbiamo denunciato lo scandalo dei distacchi dei poliziotti e ripetuto che una simile revisione degli organici sarebbe stata controproducente. Oggi - conclude Quinti - con questo provvedimento si sana di fatto la situazione di illegittimità amministrativa creata con i distacchi d’ufficio voluti dal Dap e addirittura li si stabilizza, riducendo il numero di uomini e donne direttamente impegnati nelle carceri”. Ugl: trasferire personale non significa incrementare piante organiche. “Trasferire personale dagli uffici e dai servizi centrali negli istituti penitenziari non significa incrementare le piante organiche come si vuole far credere: di fatto oltre a non essere state ascoltate le richieste di salvaguardia di gran parte del personale che da anni svolge compiti connessi a quelli istituzionali negli uffici amministrativi centrali, si determina un’ulteriore riduzione di circa il 5 per cento del personale di Polizia Penitenziaria nelle strutture penitenziarie di ogni regione”. Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, commentando la firma del decreto sulle piante organiche della Polizia Penitenziaria da parte del ministro della Giustizia, Paola Severino, e spiegando che “secondo i dati elaborati dalla Federazione suddivisi per regioni, ruoli e qualifiche, con questo provvedimento andiamo incontro ad una diminuzione delle piante organiche e non il contrario: per quanto riguarda, ad esempio, il provveditorato regionale della Lombardia, se al 31 dicembre 2012 la pianta organica degli agenti - assistenti uomini era di 3990, con la nuova dotazione sarà di 3708, pari ad una flessione del 7,1 per cento. E ancora, in Campania, da 3600 si passerà a 3370 in diminuzione del 6,4 per cento”. “Le unità - aggiunge il sindacalista - dovevano crescere e non diminuire: da una parte si è deciso di individuare gli organici di uffici sino ad ora non ricompresi nella dotazione del 2001, e dall’altra ci si dimentica che da quella data sono state anche aperte numerose strutture e servizi nelle quali il personale è stato recuperato negli anni da sedi già in sofferenza, determinando un enorme sovraccarico di lavoro per le poche unità che, come denuncia l’Ugl, coprono nello stesso turno più posti di servizio”. “Si continua - conclude - a tirare da una parte all’altra una coperta ormai troppo corta: il rischio è quello di un vero collasso del sistema. Ciò che temiamo è che dietro queste false riorganizzazioni, si voglia proprio snaturare i compiti della Polizia Penitenziaria dell’esecuzione penale di cui è da sempre depositaria”. Giustizia: processo per l’omicidio di Meredith Kercher… non è soltanto malagiustizia di Carlo Federico Grosso La Stampa, 27 marzo 2013 La Cassazione ha annullato la sentenza di assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito emessa dalle Assise diAppello di Perugia, che avevano a loro volta ribaltato la (pesante) condanna pronunciata dalle Assise di primo grado. Nulla di strano sul terreno delle regole: siamo nell’ambito della fisiologia giudiziaria italiana, che prevede un giudizio di merito di primo grado, un giudizio di merito di secondo grado che può confermare o modificare le decisioni del primo giudice, ed un giudizio di legittimità, quello, appunto, della Cassazione. La Cassazione non può entrare nel merito delle vicende giudiziarie: può soltanto confermare la sentenza impugnata ovvero annullarla per una ragione “di diritto”: o perché nel corso del processo c’è stata una violazione di legge, o perché la motivazione non era corretta. A quest’ultimo riguardo il codice di procedura penale parla di “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione”, che deve comunque risultare “dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”. Poiché nel caso di specie non vi erano state violazioni di legge rilevanti, la sentenza d’appello è stata sicuramente annullata per un vizio di motivazione. Il Procuratore Generale, nel valutare tale motivazione, aveva d’altronde usato parole d’una durezza inusuale (aveva addirittura parlato di “smarrimento della bussola” da parte del giudice impugnato, cioè di una illogicità evidente, clamorosa, totale, a tutto campo). La lunghezza altrettanto inusuale della camera di consiglio (chiusa il giorno successivo a quello in cui vi era stata la discussione) dimostra a sua volta che fra i consiglieri non vi è stata (o inizialmente non vi era) valutazione unanime o che, comunque, prima di decidere, data la delicatezza del caso, si è voluto soppesare ogni profilo o dettaglio. Ciò che accadrà, quantomeno sul terreno delle regole, è, a sua volta, rigorosamente disciplinato dalla legge. Poiché la sentenza della Corte di Assise di Appello di Perugia è stata annullata per illogicità della motivazione, il giudizio è stato rimesso ad una diversa Corte di Assise di Appello (Firenze), che dovrà procedere ad una rivalutazione delle prove con riferimento ai punti specificamente indicati dalla Cassazione. La Cassazione, nell’illustrare le ragioni dell’annullamento, indicherà i profili che non l’hanno convinta a cagione della incompletezza, o della incoerenza o della contraddittorietà delle argomentazioni poste a fondamento della assoluzione. Il giudice del rinvio giudicherà nuovamente il merito del processo attenendosi rigorosamente ai “paletti” così definiti dalla Cassazione. Soltanto quando sarà possibile leggere tali motivazioni, e sarà di conseguenza chiaro lo spazio lasciato alla discrezionalità dei nuovi giudici di merito (stando alle argomentazioni sviluppate dal Procuratore Generale nella sua requisitoria, dovrebbe saltare pressoché per intero l’impianto motivazionale della sentenza di assoluzione annullata, ed il giudice del rinvio dovrebbe pertanto avere un margine amplissimo di decisione), sarà, forse, possibile fare qualche valutazione prognostica sull’esito del giudizio che verrà emesso a Firenze. Per ora si può soltanto ipotizzare che, qualunque sarà tale esito, vi sarà un nuovo ricorso in Cassazione della parte soccombente, e pertanto, sostanzialmente, un “quinto” grado di giudizio. Di fronte a tale situazione, immagino che la gente si domanderà, ancora una volta: perché tante e tali diversità di valutazione da parte dei giudici, e, conseguentemente, tante e tali lungaggini dei processi? Non è che esse rivelino, una volta di più, le gravissime carenze del nostro sistema di giustizia o, addirittura, le incapacità di molti giudici? Che la nostra giustizia funzioni molte volte male è assodato. Nel caso dell’omicidio di Meredith Kercher, tuttavia, le divergenze di valutazione e le lungaggini non sono, forse, soltanto conseguenza di malagiustizia. Si tratta, sicuramente, di un processo indiziario, nel quale mancano prove inequivoche di reità o di non reità. In esso si sommano indizi di segno diverso, che rendono offuscato il quadro complessivo. Chi ha seguito il processo d’altronde ricorderà che l’inizio delle indagini fu particolarmente controverso, che le prove scientifiche espletate dalla polizia giudiziaria furono capovolte (e forse ingiustamente ridicolizzate) da una perizia disposta nella fase dell’appello, e che furono proprio queste nuove emergenze probatorie ad aprire la strada al ribaltamento della sentenza di primo grado. Sempre chi ha seguito il processo ricorderà come vi sia stata, per l’omicidio, una condanna in giudizio abbreviato (la condanna di Rudy Guede) che per molti versi stride con l’assoluzione di Knox e di Sollecito. La stessa Knox, per altro verso, è risultata ieri definitivamente condannata per la calunnia perpetrata nei confronti di Patrick Lumumba. Tutti elementi che, insieme ad altri, hanno contribuito a rendere complesso il processo ed insidioso il suo procedere, e spiegano, quantomeno in parte, l’accavallarsi di valutazioni divergenti. Qualunque possano essere, specificamente, i nostri sentimenti e le nostre impressioni, un punto deve essere, in ogni caso, ancora una volta ricordato: che nel nostro ordinamento nessuno può essere condannato senza prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio. Un principio che deve valere in ogni processo penale, ma essere applicato con particolare rigore nei processi indiziari, nei quali la mancanza di prove rende particolarmente incerte, e pertanto pericolosamente soggettive, le soluzioni giudiziali. Estradizione di Amanda solo in caso di condanna, di Marina Castellaneta (Il Sole 24 Ore) La Corte di cassazione ha deciso che il processo ad Amanda Knox e a Raffaele Sollecito assolti in appello per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher è da rifare. La Suprema Corte, con sentenza di ieri le cui motivazioni non sono state ancora depositate, ha accolto le richieste del Procuratore generale e ha deciso che spetterà alla Corte di assise di appello di Firenze procedere al nuovo processo. Si apre così un nuovo capitolo in una vicenda giudiziaria in piedi ormai dal 2007 quando, nella notte tra il primo e il due novembre, la studentessa inglese fu uccisa nella sua abitazione di Perugia. Amanda Knox è nel frattempo tornata negli Stati Uniti. Aveva deciso il rientro nella sua città, a Seattle, subito dopo l’assoluzione con formula piena della Corte d’assise di appello di Perugia. Adesso si riapre il processo per l’omicidio di Meredith (per il quale sta scontando la pena Rudy Guede). Non è detto che il nuovo processo, che prenderà il via dinanzi alla Corte di assise di appello di Firenze, si svolga alla presenza di Amanda Knox che potrebbe rinunciare ad essere presente, affidando la difesa a legali di sua fiducia. Un processo in contumacia, quindi, nel rispetto però del diritto alla difesa visto che sarebbe la stessa imputata a rinunciare alla presenza in aula. La questione dell’estradizione è per il momento lontana. È vero che la Corte di cassazione ha confermato ad Amanda Knox la condanna per calunnia a tre anni nei confronti di Patrick Lumumba risultato completamente estraneo ai fatti, ma la pena è assorbita dalla custodia cautelare di 4 anni già scontata. Il capitolo estradizione si aprirà dopo la pronuncia definitiva, nel caso di eventuale condanna. Oltre all’accordo tra Unione europea e Usa (decisione 2009/820/PESC), Italia e Stati Uniti hanno firmato un trattato bilaterale sull’estradizione il 13 ottobre 1983, in vigore dal 1984, modificato con legge n. 25 del 2009. In base all’accordo, le Parti si obbligano a consegnare reciprocamente le persone perseguite o condannate per un reato per il quale è prevista una pena restrittiva della libertà personale superiore ad un anno o con pena più severa. Gli Stati Uniti, stando al Trattato, non potrebbero rifiutare l’estradizione solo in ragione della nazionalità: l’accordo, infatti, stabilisce che la parte richiesta non può rifiutare l’estradizione di una persona solo perché propria cittadina, mentre lo può fare per reati politici o militari. Il procedimento in contumacia non è ostativo all’estradizione in presenza di alcune garanzie. Se sul piano tecnico il Trattato agevola l’estradizione, non è da escludere che, sul piano politico, sorgano intoppi, con un rifiuto degli Stati Uniti alla consegna o anche un rifiuto, improbabile, alla richiesta di estradizione del Governo italiano. Non sarebbe, d’altra parte, la prima volta. Potrebbe però scattare anche un’altra ipotesi. Italia e Stati Uniti, infatti, nel settore della cooperazione giudiziaria penale hanno ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa del 21 marzo 1983 sul trasferimento delle persone condannate. Questo vuol dire che, in caso di condanna definitiva, la pena potrebbe essere scontata su richiesta del condannato o dello Stato di esecuzione negli Stati Uniti e non in Italia ricorrendo le condizioni di applicazione della Convenzione. In questo caso, è ipotizzabile il sì italiano non presentandosi condizioni ostative in base al Trattato, applicato già in passato nel caso Baraldini, condannata negli Stati Uniti e dopo molto tempo consegnata alle autorità italiane per scontare il resto della pena nelle carceri italiane. Lettere: Carmelo…. chiedici tutto, ma non chiederci lo “sciopero della Messa” don Marco Pozza (Cappellano Carcere Padova) Il Mattino di Padova, 27 marzo 2013 Come un grido disperato: perché a volte le parole rimangono l’unico arnese a disposizione per non morire davvero. E dentro le parole la voglia di dire al mondo: “ci siamo anche noi!”. Nonostante tutto. Gli “uomini-ombra” - così vengono definiti in gergo i detenuti sulle cui spalle pesa la condanna di un ergastolo ostativo - sono una porzione della mia parrocchia del carcere: i loro volti stanchi e le loro voci silenziose, i loro passi affaticati e il loro ansimare quotidiano, sono per me fonte di inquietudine e di passione ogni qual volta celebro l’eucaristia per imparare a comprendere il male senza mai giustificarlo. La protesta che propongono stavolta - tramite le parole di Carmelo Musumeci - è una protesta che ha più i colori della vendetta che della ricostruzione, di quella rivalsa che tante volte loro stessi condannano quando l’avvertono calarsi dentro le loro vite. Se è vero che per fare il bene non occorre essere cristiani - come ha voluto sottolineare la Caritas di Padova nel suo convegno di quest’anno - è altrettanto vero che c’è una porzione di popolo cristiano che spende la sua vita dentro le trame confuse di un carcere: non solo preti e suore, ma anche uomini e donne di buona volontà che, dopo essere stati guariti da Cristo, avvertono il sogno di poter condividere la bellezza sanante e risanante di un incontro (...) Accettano la sfida non per loro stessi o per farsi belli di fronte al mondo ma perché inviati da un Dio che chiede loro di leggere nell’abisso del cuore umano una briciola di luce. Tanti di noi ci entrano dopo aver pregato: è nella preghiera che trovano la forza di continuare a credere nell’uomo. Chiedere a costoro - a me prete - di scioperare il giorno di Pasqua è non aver forse compreso dove stia la forza per abitare con voi: una forza che abita nello sguardo di un Uomo Innocente crocifisso per amore che a noi ha dato appuntamento per incontrarci nel silenzio delle vostre vite. Carmelo, chiedici tutto e saremo disposti a metterci in gioco. Non chiederci, però, l’assurdo, quell’assurdo del quale anche voi provate ribrezzo e vergogna quando s’attacca alla vostra pelle. Perché per noi l’Amore ha un volto e un nome: il Cristo Risorto. Che il mattino di Pasqua ha firmato lo sciopero più bello: lo sciopero della disperazione. Brescia: “Officina Canton Mombello”… 16 detenuti al lavoro, assembleranno box doccia di Marco Toresini Corriere della Sera, 27 marzo 2013 Lo hanno definito un lager. In Italia è conosciuto come il carcere più sovraffollato della penisola, ma la rassegnazione non abita fra le mura spesse del carcere di Canton Mombello (cinquecento detenuti, il doppio della capienza, tanti problemi cui far fronte). Sarà pure il carcere più infernale d’Italia, tanto da approdare a Porta a Porta, ma è anche il carcere dove, talvolta, si fanno dei piccoli-grandi miracoli. L’ultimo si chiama lavoro. Un lavoro vero per un’azienda esterna a prezzi di mercato (sia pur quello protetto delle cooperative sociali). Un’opportunità che mancava da decenni, al netto di una breve esperienza di elaborazione dati fatta da alcuni detenuti per conto di Provincia e Coop La Fraternità e cessata tempo fa, di un paio di reclusi assunti dalla cooperativa Cauto per curare la raccolta differenziata in carcere e di una quarantina di compagni “dipendenti” dell’amministrazione penitenziaria per lavori di manutenzione, pulizie, logistica. Dai primi di aprile, invece, una quindicina di detenuti inizieranno a lavorare, assunti da una cooperativa, per assemblare box doccia e sanificare impianti di distribuzione d’acqua in boccioni. “È stato uno sforzo corale - racconta al Corriere la direttrice di Canton Mombello, Francesca Gioieni. Attraverso la cooperativa Camille abbiamo avuto questa opportunità e abbiamo lavorato affinché questa occasione potesse diventare realtà”. Così dove un tempo era ospitata la mensa del personale è stata allestita l’officina dove, a pieno regime, lavoreranno per sei ore al giorno, 16 detenuti. In queste settimane sono stati allestiti i piani di lavoro, le scaffalature per gli assemblaggi, gli impianti di sanificazione. I detenuti che si occupano delle manutenzioni hanno pure aperto una finestra e realizzato una pedana di carico e scarico per rendere più agevoli le manovre dei furgoni nell’angusto vialetto tra la struttura e il muro di cinta. “Per noi è una grossa opportunità. Essere stati scelti per questo progetto è come intravedere una prospettiva nuova al termine della nostra carcerazione” spiegano i futuri operai (scelti all’interno di un percorso educativo fra detenuti con una pena definitiva sufficientemente lunga da porter lavorare per almeno un anno), che ora sono alle prese con la formazioni e i corsi per la sicurezza. Un passo indispensabile per poter diventare operativi. “Dopo la formazione - conferma Gabriele Manna, presidente della cooperativa Camille - verranno gradualmente inseriti nelle lavorazioni, che saranno di due tipi: da una parte si procederà all’assemblaggio delle guide metalliche per i box doccia per conto della Tda di S. Gervasio (in sei mesi pensiamo di impiegare dai 4 ai 10 detenuti), dall’altra alla sanificazioni, attraverso lavaggi con appositi detersivi, dei distributori d’acqua in boccioni della società Acquaviva di Lograto. Qui prevediamo di passare in sei mesi da 2 a 6 addetti estendendo poi il lavoro alla revisione completa delle macchine con la sostituzione dei pezzi usurati. Tutti i detenuti saranno assunti dalla cooperativa e una volta scarcerati potranno continuare a lavorare per noi negli impianti che allestiremo fuori per dar continuità all’esperienza”. L’intento di Camille è chiaro: “Vogliamo far capire agli imprenditori che utilizzare questo tipo di lavoro non solo è eticamente gratificante, ma anche conveniente. Se uno delocalizza per abbattere il costo del lavoro, noi possiamo rappresentare la risposta chilometro zero alla delocalizzazione. Un esempio? I distributori di Acquaviva vengono assemblati all’estero, a noi piacerebbe assemblarli qui attraverso il lavoro dei detenuti”. Un sogno che dà prospettiva alle fatiche che ogni giorno si consumano all’interno del muro di cinta di Canton Mombello. Una lama di luce che indica una via verso una pena finalmente rieducativa. Brescia: detenuti al lavoro, una notizia da salutare già come un successo di Carlo Alberto Romano (Associazione Carcere e Territorio) Corriere della Sera, 27 marzo 2013 A metà febbraio il Ministro della Giustizia, Paola Severino, ebbe modo di affermare: “I nostri studi dimostrano che la recidiva si abbatte a circa il 2% per i detenuti che lavorano e allora se vogliamo trovare un sistema di deflazione carceraria che sia definitivo, stabile e che consenta alla società di avvicinarsi al detenuto e al detenuto di avvicinarsi alla società, questo è il lavoro carcerario”. Difficile trovare argomentazioni a contrario. Il lavoro è elemento di assoluta centralità nell’impianto normativo del nostro Paese. Basti pensare all’art. 1 della Costituzione. Ma anche all’interno della normativa penitenziaria costituisce un tratto portante, essendo uno degli elementi del “trattamento” previsti dall’art. 15 dell’Ordinamento penitenziario. Anzi, volendo provare a ipotizzare una gerarchia di tali elementi il lavoro certamente disputerebbe il primato alla istruzione e ai rapporti con la famiglia. L’attività lavorativa fornisce prerogative determinanti al percorso di reinserimento del condannato, consentendo lo sviluppo o l’acquisizione di capacità di autogestione e di rispetto delle regole talvolta assenti fino a quel momento. Purtroppo, il lavoro sconta una imprescindibilità: la disponibilità del mondo imprenditoriale. Inutile indulgere nell’iterazione mantrica del momento di crisi: di fatto anche in tempi meno cupi, la sensibilità verso il tema non aveva mai garantito una dimensione adeguata dell’offerta di lavoro per i detenuti, di fatto attivi (dal punto di vista lavorativo) in valori di poco superiori al 20% sul totale dei reclusi e soprattutto, fra questi, occupati dalla stessa amministrazione penitenziaria per oltre l’80%. Ciò significa che, nel tempo, non più del 2/3% dei detenuti è riuscito ad essere assunto da datori di lavoro “esterni”. Quel ritornello, così spesso utilizzato nelle argomentazioni descrittive sul carcere, di stampo populista: i detenuti dovrebbero farli lavorare di fatto si scontra con una realtà, quella del carcere, che guarderebbe a questa ipotesi senza timore, anzi con ampio e convinto favore, e anche da parte dei detenuti. Magari così fosse...! Solo che il lavoro scarseggia, se non manca proprio. Anche per questo, ultimamente, i progetti di attività non remunerata a favore della collettività stanno prendendo piede, perché rispondono all’esigenza di impiegare il condannato in un percorso ripartivo nei confronti della comunità e consentono di sperimentarne la tenuta di impegno e correttezza in un percorso lavorativo. Ma ciò non può e non deve sostituire il lavoro generato e remunerato dalle regole del mercato, il cui ingresso in carcere va sempre salutato come un successo per la comunità carceraria ma anche (e direi soprattutto) di quella esterna. Como: lavori socialmente utili ai carcerati, risorsa per il territorio. L’esempio di Blevio Corriere di Como, 27 marzo 2013 L’esempio di Blevio: costi abbattuti per lavori di manutenzione grazie a un accordo con la casa circondariale di Como. Che intanto scoppia Il recupero dei detenuti può essere anche un’opportunità per i piccoli comuni alle prese con la crisi Il carcere come strumento per recuperare una persona, ridandole una dignità che non può considerarsi persa per sempre, e come risorsa per la società. Perché in una casa circondariale esistono professionalità importanti, utili in particolare ai comuni più piccoli. Serata dedicata a temi troppo spesso dimenticati o ignorati, lunedì all’Hotel Palace di Como, in un incontro organizzato dal Kiwanis. Di politiche e progetti per recuperare i detenuti e reinserirli nella società hanno parlato Giovanni Perricone, educatore al carcere comasco del Bassone, ed Emanuela Colombo, che nella casa circondariale alle porte della città coordina una serie di progetti e iniziative. “Ciò che è, e ciò che potrebbe essere”: su questa semplice frase Perricone ha costruito il suo intervento, partito da immagini delle diverse realtà del sistema carcerario italiano. Da quelle obsolete, dove il detenuto può solo passare il tempo nei pochi metri quadri della cella in cui è rinchiuso, con sporadiche e brevi uscite per l’ora d’aria, a quelle più moderne, dove vengono messi a disposizione programmi e possibilità per recuperare la dignità persa e ritrovare un posto utile nella società. “In questo senso la Lombardia rappresenta l’eccellenza in Italia, con un carcere come Bollate che funge da modello. Como vuole seguire questa strada, e proporsi come strumento di rieducazione”. Un carcere, il nostro, per diversi motivi difficile. Il sovraffollamento è il problema principale. “Pensato per 200 carcerati, con una capacità massima di 400, ospita in realtà oltre 500 persone - dice Perricone. Il dramma più grave è quello dei 96 detenuti semplicemente imputati di un reato”. Persone che in carcere non ci dovrebbero proprio stare. Uno su cinque del totale della popolazione del Bassone. A questo si aggiunge la difficoltà di gestire un carcere pensato per le condanne brevi (fino a 3 anni) ma che si trova costretto ad ospitare anche detenuti a pene lunghe, per l’impossibilità di mandarli altrove. “Portare il lavoro in carcere, stringendo accordi con imprese che si stabiliscano entro le mura del Bassone, quando possibile, oppure affidino commesse per prodotti di vario genere ai laboratori presenti nella struttura” è l’idea posta alla base della strategia per il recupero dei detenuti presentata dalla coordinatrice dei progetti. Un ruolo importante lo possono svolgere le amministrazioni pubbliche, soprattutto quelle più piccole. L’esempio è Blevio, che nel 2011 ha fatto un accordo con l’amministrazione carceraria per impegnare un piccolo gruppo di detenuti in lavori socialmente utili. “Una decina di detenuti in tutto ha svolto lavori per i quali non avevamo nessuno all’interno del Comune”, ricorda Raffaello Caccia, sindaco del piccolo paese rivierasco alle porte di Como. Pulizia delle strade, manutenzione del verde, sgombero di magazzini e locali comunali: compiti e mansioni di basso livello, ma che per i detenuti hanno rappresentato un passo importante, forse decisivo, sulla strada verso il recupero. “Ne hanno beneficiato anche le casse del Comune - ammette il sindaco Caccia - Affidarli ad una cooperativa o ad una società normale - continua - avrebbe significato un esborso di almeno 12mila euro. L’accordo con il carcere ci ha permesso di contenere la spesa a 3.200 euro”. Una strategia che ha portato benefici a tutti gli attori coinvolti, insomma: Comune, amministrazione carceraria, detenuti. E che si spera possa espandersi ad altri centri nel prossimo futuro. Oristano: Pili (Pdl); avviare indagine su mancata attivazione Centro clinico penitenziario di Giampaolo Meloni La Nuova Sardegna, 27 marzo 2013 Il parlamentare del Pdl Mauro Pili torna all’attacco sul fronte dei detenuti. Anche se stavolta parla del carcere ma in realtà attacca l’azienda sanitaria locale e perciò soprattutto la Regione. Lo ha fatto con un’interrogazione presentata al ministro della Giustizia, denunciando la mancanza del “centro clinico penitenziario” per la struttura che da due mesi ospita la Casa circondariale nella frazione di Massama. Per verificare se effettivamente il sistema dell’assistenza sanitaria nell’impianto non rispetti le modalità previste, Pili chiede un’indagine ministeriale. Il parlamentare solleva il problema partendo dal presunto ricovero di quattro detenuti del carcere di Massama nell’ospedale San Martino. Negli ultimi due giorni non risulta con certezza nessun provvedimento di ricovero. Pili fa riferimento “all’ultima settimana” e nell’interrogazione dice che “l’accaduto viene tenuto riservato”. Nell’interrogazione parla di ricoveri d’urgenza e spiega: “Non si conoscono le ragioni ma si parla di una possibile intossicazione, si dice farmaci, ma non ci sono conferme. Uno di loro sarebbe ancora piantonato in ospedale. Un fatto grave che rischia tra l’altro di mettere sotto pressione il sistema di sicurezza, considerato che ogni traduzione in ospedale comporta l’utilizzo di almeno 4 agenti per detenuto”. L’episodio è per Pili il pretesto per puntare l’attenzione sulle dinamiche dell’assistenza sanitaria nel sistema carcerario sardo, riformata di recente con l’attribuzione gestionale del servizio dall’amministrazione carceraria a quella sanitaria regionale che agisce attraverso le aziende sanitarie locali. Il deputato non cita espressamente un sospetto di responsabilità nella Regione ma è quanto mai chiaro: “Occorre chiarire l’accaduto - ha chiesto Pili al ministro - per capire se gli episodi siano la diretta conseguenza di un mancato presidio clinico nella struttura, considerato che si tratta di un obbligo di legge per strutture di questa dimensione. Ad oggi non risulta un centro clinico di primo intervento in grado di monitorare la salute dei detenuti e nel contempo evitare fatti come quelli verificatesi negli ultimi giorni al carcere di Massama”. Dunque la responsabilità dell’eventuale carenza organizzativa sarebbe della Asl”. Il servizio medico è operativo (la norma prevede che l’eventuale ricovero di un detenuto in un ospedale venga disposto dalla direzione della struttura su richiesta-parere del medico che opera all’interno e se il detenuto non è in pericolo di vita gli viene assegnato il “codice verde” e rientra nel carcere), semmai potrebbe essere non adeguato alla dimensione della Casa circondariale. Proprio a questo sembra puntare Pili: “Appare fin troppo evidente - segnala ancora nell’interrogazione - che fatti di questa portata se contestuali possono mettere in crisi il sistema di sicurezza considerate le ristrettezze di personale con le quali sono costrette ad operare le strutture carcerarie come Oristano”. Dopo avere delineato questo quadro Pili attacca con la richiesta di un accertamento da parte ministeriale. “Venga immediatamente disposta - ha chiesto Pili - un’indagine per comprendere se il livello di presidio sanitario nel carcere di Massama sia in grado di soddisfare i requisiti di legge e soprattutto le patologie cliniche presenti nel carcere circondariale. Una verifica che deve essere estesa a tutti gli istituti penitenziari della Sardegna”. Ecco, più chiaro, l’obiettivo della sanità regionale. Venezia: domani assessori e consiglieri provinciali incontrano direttore carcere Agenparl, 27 marzo 2013 Domani giovedì 28 marzo alle ore 10.00 le commissioni provinciali seconda e sesta con gli assessori provinciali ai Servizi sociali Giacomo Grandolfo, al Lavoro Paolino D’Anna, alle Attività produttive Lucio Gianni e la Presidente del Consiglio provinciale Marina Balleello incontreranno il direttore del carcere veneziano di Santa Maria Maggiore, dottoressa Immacolata Mannarella. L’incontro segue l’approvazione all’unanimità in Consiglio provinciale martedì scorso 26 marzo, della mozione presentata dalla presidente della seconda Commissione, la consigliera Mariagrazia Madricardo, su “Violazione dei diritti umani nelle carceri italiane” che tra l’altro chiede a Giunta e Presidente di “adoperarsi perché il Parlamento e il Governo considerino una priorità il confronto sulle carceri per restituire alla pena la funzione costituzionale di rieducazione del condannato, favorendo le modalità di reinserimento sociale a fine pena”. Lo rende noto la Provincia di Venezia. Parma: i cittadini cosa sanno del carcere? di Chiara Gianferrari (Consigliera comunale M5S) La Repubblica, 27 marzo 2013 Poco forse. Per questo ci tengo a scrivere questo comunicato, per condividere coi cittadini ciò che ho compreso. Venerdì ho avuto l’occasione per la prima volta di entrare in carcere, portando un pezzettino di rappresentanza dell’amministrazione anche in questo luogo così dimenticato dalla città. “I parmigiani passano di qui per andare a far compere all’Ikea, ma non si fanno domande sulla struttura grigia alla loro destra…” riflette una volontaria. Pensiamoci invece, quando passiamo di lì. La visita mi ha toccato tantissimo, anche se non ho potuto vedere quasi nulla. Ho visto solo “la parte bella”, perché anche se sembra impossibile, una parte bella c’è. Sono quelle persone che, giorno dopo giorno, si spendono in silenzio per dare un po’ di sollievo a chi vive lì dentro. Alcune, come Emilia Zaccomer, lo fanno in Associazioni come “Per Ricominciare” (attiva sulla questione carceraria come anche l’Ass. “San Cristoforo”). Altre persone lo fanno individualmente, come Luciana Gardoni che cura le pratiche burocratiche per i detenuti, o padre Celso, uno dei Cappellani del carcere. Altri sono animatori, come Antonino Ganci e Samantha Pendino, che con ad altri ragazzi volontari hanno reso la mattinata di venerdì 22 marzo una festa per le famiglie che hanno potuto riabbracciarsi, poiché la collaborazione tra l’Ass. Per Ricominciare, il Comune e il Carcere ha permesso ad alcuni detenuti di festeggiare la Festa del papà. Oltre a queste persone, che ho avuto l’Onore di conoscere, ce ne sono sicuramente molte altre che vanno ringraziate e che fanno un lavoro preziosissimo umanamente. Ad esse si sommano poi importanti servizi, messi in atto dal Comune o da altri soggetti che collaborano col carcere. Ma al di fuori dei cancelli, la città fa il suo corso indifferente, interrotta solo dai telegionali che ci ricordano la disumanità di ciò che si vive lì dentro: “Situazione carceri: Italia condannata dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo” - Napolitano: “il sovraffollamento, le condizioni di vita degradanti, i numerosi episodi di violenza e di autolesionismo, dimostrano come lo Stato non riesca ad attuare l’art. 27 della Costituzione” - Pannella: “siamo di fronte ad un’opera, tecnicamente criminale, di violazione dei diritti umani” - Rita Bernardini uscita da Regina Coeli. “Non ci sono i riscaldamenti e molte finestre non hanno i vetri, le mura sono fatiscenti e piene di umidità. I water ed i lavandini perdono copiosamente acqua e nelle docce non c’è acqua calda. In celle da 7 mq ci sono 3 detenuti” - Roberto Giachetti: “nemmeno le bestie vivono come i detenuti di Regina Coeli” - e ricorda anche le pessime condizioni per gli agenti di polizia penitenziaria (è giusto ricordare anche loro, sotto organico di 7.000 unità!) - Annalisa Chirico, giornalista: “Alcuni detenuti chiedono visite mediche invano. I direttori lamentano di non avere le risorse necessarie per garantire un pasto adeguato”. Ricordo alcune cifre ai cittadini, per comprendere la situazione: in Italia, ogni 100 posti letto sono stipati in media 146 detenuti (163 in Emilia Romagna!). Peggio di noi, in Europa, c’è solo la Serbia. Nel 2011 ci sono stati 6.628 scioperi della fame e 1.179 rifiuti di vitto e terapie. Si registra 1 suicidio ogni 5 giorni (1 ogni 1.000 detenuti) circa 1.000 “tentativi” e oltre 5.400 atti di autolesionismo grave (e non sono solo i detenuti a ricorrere al suicidio ma, è doveroso ricordarlo, anche gli agenti, per le condizioni in cui si trovano a lavorare). Sofferenza ancora più inaccettabile pensando che la maggior parte dei reclusi è in attesa di giudizio, soltanto il 10% circa ha una condanna definitiva. Con la “carcerazione preventiva”, si va in prigione prima del processo, salvo poi essere dichiarati innocenti nel 50% dei casi. Per conoscere invece la situazione specifica del nostro carcere, basta cercare sul web “rapporto Antigone, Parma”. Cercate anche il documentario “inside carceri”, o “Antigone. it”, o il dossier “Morire di carceri”, perché conoscere come stanno le cose e raccontarlo ad altri, può aiutare a sconfiggere tanti falsi pregiudizi. Cosa può fare invece il Comune? Nonostante la questione sia nazionale, nel nostro piccolo si intende istituire anche a Parma il Garante dei diritti dei detenuti, figura che i Radicali, sensibili al tema da anni, hanno proposto all’attenzione del Movimento, e che sto ora portando avanti personalmente insieme all’Assessore Rossi. Chi può invece risolvere l’emergenza? Chi rappresenta lo Stato e fa le leggi. Mi sono qui servita delle dichiarazioni di altri esponenti politici in attesa che anche i nostri affrontino il tema, ora che, entrati in Parlamento, dobbiamo occuparci di tutto, non solo dei nostri temi forti. Ai parlamentari (soprattutto ai nostri) faccio veramente appello, perché si possa al più presto prendere misure affinché la pena non oltrepassi mai i livelli di civiltà e umanità. Bologna: detenuti stranieri a “scuola di Costituzione” con Valerio Onida Agi, 27 marzo 2013 Detenuti per lo più stranieri a scuola di Costituzione con una “lezione”, in carcere, tenuta dal presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida. È successo questa mattina nel reparto maschile del carcere della Dozza di Bologna dove oltre un centinaio di reclusi, molti di origine nord africana, si è riunito per confrontare i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano con quelli emersi nei paesi d’origine durante la recente primavera araba. Mentre ascoltavano gli interventi dal palco i detenuti sfogliavano la Costituzione italiana, un testo da mesi discusso ed approfondito. Ha partecipato anche il presidente della lega degli Iman italiani, Wagih Saad Abu al-Rahman, a testimonianza del ponte da costruire tra culture diverse. L’iniziativa è stata voluta dalla direzione del carcere ed organizzata dai volontari dell’A.vo.c. (Associazione volontari del carcere), un’associazione sostenuta da Confartigianato Emilia Romagna. La pena intesa non come vendetta della società verso chi ha commesso un delitto ma come rieducazione è stato uno dei concetti sottolineati da Onida che ha, in tal senso, condannato il problema del sovraffollamento nelle prigioni. Un fenomeno da contrastare il prima possibile perché è contro la dignità umana. “La pena - ha spiegato Onida - non è una risposta di vendetta ma deve tendere alla rieducazione del condannato in modo che ritorni ad essere un membro della società a tutti gli effetti. Il carcere - ha continuato il giurista - non deve mai violare la dignità ed i diritti fondamentali della persona. In Italia, il sovraffollamento è un problema che si deve risolvere il più presto possibile”. Tra gli alunni detenuti non mancano i musulmani. E soprattutto ai fedeli islamici si è rivolto il presidente emerito della Corte Costituzionale definendo “la libertà di religione” uno dei diritti fondamentali contenuti nella Costituzione italiana. All’iniziativa è intervenuto anche Sandro Baldini, per anni medico personale di Giuseppe Dossetti ed ora presidente del Comitato Dossetti per la Costituzione. Genova: detenuti incontrano gli studenti della Scuola Diaz “basta torture nei penitenziari” di Giulia Destefanis La Repubblica, 27 marzo 2013 Che si parli di legalità, tortura e storia della detenzione agli studenti, e lo si faccia con uomini in divisa nella palestra della Diaz, dodici anni dopo il sanguinoso blitz del G8, è già un successo. Tanto più visto l’impegno dei ragazzi del “Liceo Pertini” nel preparare l’assemblea d’istituto di ieri dedicata al mondo delle carceri, con ospiti il Direttore di Marassi Salvatore Mazzeo, il comandante della Polizia penitenziaria Massimo Di Bisceglie e alcuni detenuti: “Per la nostra scuola è stato un momento storico - spiega Chiara Roccatagliata, 18 anni, rappresentante degli studenti - La polizia non era più entrata qui dal 2001, c’è stata una rappacificazione con il passato”. Al centro dell’incontro le storie di vita dal carcere, i progetti di rieducazione come il laboratorio teatrale di Marassi, “la cultura della legalità che i ragazzi devono imparare il prima possibile”, sottolinea Mazzeo. I primi a prendere la parola sono gli studenti stessi: presentano emozionati il lavoro svolto sulla storia della pena, dalla legge del taglione, alle torture e i supplizi del 700, all’umanizzazione della punizione, fino alla Costituzione che sancisce la necessità di una pena rieducativa. “Ora vogliamo trasformare questo lavoro in un progetto multidisciplinare che coinvolga la danza, il teatro e non solo - spiega Elisabetta Battista, docente di Scienze Umane - I ragazzi, se stimolati, tirano fuori grandi potenzialità”. Il silenzio è surreale quando il microfono passa a Massimo Di Bisceglie, che riporta la divisa della polizia alla Diaz per dimostrare che, al di là degli errori del passato, “il nostro lavoro non è solo quello della repressione. La polizia in carcere ha il compito di comprendere i detenuti e guidarli verso la rieducazione e le pene alternative come la semilibertà”. La casa circondariale la descrive come una piccola città isolata tra le montagne: “La sfida è l’integrazione con il mondo esterno, che troppo spesso ci dimentica, e non aiuta a reinserirsi chi termina la pena”. Non c’è modo migliore per coinvolgere il “mondo fuori” che far conoscere quello “dentro”. E allora ai ragazzi, oltre al racconto dei detenuti presenti, viene proposto un video sulla loro giornata tipo: il risveglio, le pulizie, i colloqui con le famiglie, il dramma di chi non ha mai più visto i parenti perché lontani, la difficoltà del rapporto con le fidanzate. E poi gli orari ferrei, le regole da rispettare. “Perché bisogna imparare a convivere con le regole - spiega il Direttore di Marassi Salvatore Mazzeo. Così da uscire dal carcere e non entrarci più”. Mazzeo plaude all’excursus storico degli studenti, e sulla funzione della pena non usa mezzi termini: “Il concetto di tortura deve poter essere consegnato al passato. La pena deve essere socialmente utile, oltre che dignitosa. Purtroppo oggi non possiamo dire che lo sia: si pensi al sovraffollamento, che costringe fino a 8 persone a vivere in una sola stanza. Manca lo spazio vitale essenziale, e per questo l’Italia è anche stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. “Parole che per gli studenti valgono più di 5 anni di studi”, commenta la professionista. Dalle sbarre al palcoscenico una speranza di nome teatro Durante l’assemblea stanno seduti di fronte ai ragazzi, guardandoli negli occhi. Poi, quando prendono la parola, i detenuti di Marassi mandano un messaggio semplice ma forte: “Studiate, non fate come noi, perché in carcere si vive male, malissimo”. Stefano, jeans sbiaditi e capelli lunghi fino a metà schiena, lo ripete come un mantra: “È dura. Io ora sto meglio, ma ho molti compagni che vivono in 8 in una cella. Abbiamo sbagliato, ma è ingiusto il modo in cui ci fanno vivere”. A dare speranza c’è il teatro: “Abbiamo realizzato diversi spettacoli con gli studenti, l’ultimo Romeo e Giulietta”, continua. “Il teatro è uno strumento di rieducazione”, dice il regista Sandro Bal-dacci. Stefano, però, sottolinea l’aspetto amaro: “L’iniziativa è magnifica. Ma gli spazi sono quel che sono e a recitare siamo in 18. Il resto degli 800 detenuti non ne ha la possibilità”. Tra gli attori c’è anche Antonio, che racconta la sua esperienza: “Non è che uno si svegli una mattina e decida di commettere un reato. Ma succede. Io ho famiglia, ho figli, e sto cercando di uscire. Spero che la società di cui fate parte mi darà aiuto”. E il reinserimento comincia da qui, dall’applauso e dagli abbracci degli studenti. Roma: il Papa a Casal del Marmo, giovani carcerati gli doneranno una croce fatta da loro Il Tempo, 27 marzo 2013 “Maronna mia, o Papa accà!”. E ancora: “Avrò un papa!”. Dopo lo stupore, la felicità che viene dalla consapevolezza che “il Papa” domani “viene a Casal Del Marmo per incontrarci e conoscerci”. Con questo stato d’animo i 46 giovani detenuti tra i 14 e i 21, 35 ragazzi e solo 11 ragazze, di cui 8 italiani (6 maschi e due femmine), aspettano la storico incontro con Papa Francesco che ha scelto di andarli a trovare nel Giovedì Santo. L’entusiasmo è “incontenibile” dice padre Gaetano Greco, cappellano da 30 anni a Casal del Marmo. Anche fra i giovani musulmani e di altre religioni che “hanno appreso la notizia con molta gioia poiché vedono nel Papa, un rappresentante super partes” spiega Stefania Di Francesco, coordinatrice dei volontari Caritas, che si dice convinta che la “messa sarà celebrata nella piccola chiesa, anziché in palestra come quando venne Benedetto XVI”. I ragazzi, spiega padre Greco “gli doneranno una Croce in legno, e un inginocchiatoio, entrambi in stile francescano, fatto con le loro mani nella falegnameria del carcere”. Il Papa porterà colombe e uova di cioccolato, in dono per ciascuno di loro, nell’incontro che avverrà nella palestra dell’istituto, di 12 metri quadrati suddiviso in tre edifici, uno per le donne e due per gli uomini. Alle 17.30 la messa in Coena Domini. “Sarà una cerimonia molto semplice”, “per espressa volontà del Santo Padre”, che il Pontefice presiederà, durante la quale laverà i piedi a 12 ragazzi di nazionalità e confessione religiosa diverse, rinnovando il gesto d’amore, simbolo di servizio al prossimo, come fece Gesù con i discepoli. È la Radio Vaticana a riferire, sul suo sito, che insieme al Pontefice, concelebreranno il cardinale Agostino Vallini e padre Greco. Attorno all’altare anche due diaconi, il primo del Seminario San Carlo, Fra Roi Jenkins Albuen (terziario cappuccino dell’Addolorata, confratello di Padre Gaetano), due giovani del Pontificio Seminario romano maggiore, Francesco e Alessandro, che fanno servizio stabilmente ogni mercoledì e domenica, per tutto l’anno, nel carcere minorile, un vice cappellano, Padre Pedro Acosta, colombiano. I giovani dell’istituto di pena, cureranno anche le letture e la preghiera dei fedeli. Alla Messa saranno presenti tra gli altri il ministro della Giustizia, Paola Severino, il capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile, Caterina Chinnici, il comandante della Polizia Penitenziaria Ipm. Casal del Marmo, Saulo Patrizi e Liana Giambartolomei, la direttrice di Casal del Marmo. “C’è un clima di aspettativa e di speranza veramente straordinario” ha detto il ministro della Giustizia Paola Severino, ieri in visita a Casal del Marmo. Molte aspettative anche da parte dei poliziotti penitenziari “C’è molta aspettativa anche nei poliziotti penitenziari per la visita di domani del Santo Padre nel carcere minorile di Roma. La naturalezza e l’autorevolezza di Papa Francesco ha colpito tutti noi e siamo certi nella sua visita avrà parole di attenzione anche per noi, poliziotti penitenziari, che svolgiamo nel silenzio un lavoro prezioso ed importante per il Paese. Sappiamo che in queste ore c’è una corsa di dirigenti, non solo della Giustizia Minorile, per accaparrarsi i pochi posti messi a disposizione per la cerimonia religiosa. Mi auguro che questo non determinerà che qualche poliziotto non possa presenziare all’incontro: sarebbe una beffa per chi ogni giorno dell’anno, 24 ore al giorno, vive il carcere minorile nella prima linea delle sezioni detentive”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria. Capece sottolinea “che oggi abbiamo circa 500 minorenni detenuti negli Istituti di Pena per minori italiani. Quella della detenzione minorile è una specificità della giustizia di cui si parla, a torto, sempre troppo poco. Eppure è sempre più frequente l’utilizzo dei minori coinvolti in attività criminose. Le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, personale specializzato nel trattamento dei detenuti minorenni, fanno davvero un encomiabile lavoro con una utenza particolarmente difficile e con molte criticità. Si pensi che nel 2012 ci sono stati complessivamente 2.193 ingressi nei Centri di Prima Accoglienza (1.859 ragazzi e 334 ragazze); 1.252 sono stati gli ingressi nei carceri minorili ed oltre ventimila minorenni (18.200 uomini e 2.224 donne) sono in carico agli Uffici di servizio sociale per minorenni”. Il SAPPE sottolinea infine che “dei circa 480 minori oggi detenuti, 56 hanno commesso reati contro la persona (tra i quali 13 omicidi volontari), 280 reati contro il patrimonio (tra i quali 132 furti e 115 rapine), 56 sono detenuti per violazioni alle leggi sulle stupefacenti e 47 per violazioni alle legge sulle armi”. Libri: “Lettere dal carcere di Vigevano”, a cura di Carmen Germano Montanari La Provincia Pavese, 27 marzo 2013 Anni di volontariato nel carcere di Vigevano raccolti in un libro di ottanta pagine che sarà venduto per beneficenza. L’ha scritto Carmen Germano Montanari, 68 anni, volontaria nel carcere dei Piccolini dal 1999 al 2009. In questo volume l’autrice ha raccolto le lettere che le venivano spedite dai detenuti. Anni di corrispondenza epistolare, storie di vita nel carcere, racconti di persone uscite dalla galera e che hanno mantenuto rapporti con lei. “Nel carcere parlavo con i detenuti durante lezioni su argomenti difficili come la droga e il gioco d’azzardo”. Al libro di Carmen Germano, in cui le lettere dei detenuti non sono state corrette lasciando refusi ed errori di ortografia, hanno collaborato anche il mortarese Claudio Viola che realizzato alcune vignette e la robbiese Carla Rastellino che ha scritto la prefazione. “Presenterò il libro dopo Pasqua - aggiunge Germano - poi darò il ricavato in beneficenza come ho già fatto per l’altro libro sulla storia della mia malattia”. Il libro, stampato in proprio, sarà disponibile con un’offerta minima di 10 euro. Bosnia: progetto “Una valle rinasce”, per reinserimento dei detenuti del carcere di Bihac www.ipsia-acli.it, 27 marzo 2013 Nell’ambito del progetto “Una valle rinasce”, finanziato dal Mae e con Icei come capofila, prosegue la ormai consolidata collaborazione con l’istituto penitenziario di Bihac. Già nel 2012 IPSIA aveva contribuito alla creazione di una parcella di 0,2 ettari coltivati a mele nonché allo sviluppo di un laboratorio di funghicoltura. I detenuti sono stati anche coinvolti direttamente nella costruzione dei sostegni in cemento per il frutteto scolastico della scuola elementare/media di Sanica (una delle scuole incluse nel progetto “Una valle rinasce”). Lo scorso mese sono state acquistate due serre 8x25m, le quali sono già installate e pronte ad entrare in funzione. Le serre sono comprensive di sistema di irrigazione e di tutta la componentistica necessaria per una produzione ottimale, la quale sarà orientata a colture orticole classiche che contribuiranno all’autosufficienza alimentare interna. L’obiettivo principale è quello di fornire ai carcerati una formazione teorico-pratica di qualità nel settore della produzione agro-alimentare ed in tal modo offrire loro una concreta chance di reinserimento nella società attraverso il lavoro e l’acquisizione di nuove e specifiche professionalità. Queste attività sono ancora considerate “nuove” per gli istituti penitenziari bosniaci, i quali stanno faticosamente iniziando un lento cammino verso gli standard dell’Unione Europea, da sempre molto attenta sul tema delle carceri. In questo, anche grazie alla collaborazione con Ipsia, l’istituto di Bihac (un carcere di tipo “semi-aperto”, ovvero di minima sicurezza, con detenuti per crimini minori o in fase di estinzione della pena) si potrà mettere in luce come modello per altri enti analoghi. Stati Uniti: carcere di Guantánamo, nessuna via d’uscita di Patrizio Cairoli www.america24.com, 27 marzo 2013 Tre detenuti ricoverati dopo quasi due mesi di sciopero della fame, che ormai coinvolge quasi tutti i prigionieri, secondo i loro avvocati. I detenuti sono ormai senza speranze, dopo la promessa mancata di Obama di chiudere il centro di detenzione. L’amministrazione Obama, invece di chiudere il centro di detenzione di Guantánamo - come promesso - è intenzionata a espanderlo e rinnovarlo. Nel frattempo, i detenuti portano avanti la protesta contro un sistema che non sembra dar loro una via d’uscita. In tre sono stati ricoverati nell’ospedale del carcere per disidratazione, dopo quasi due mesi di sciopero della fame, secondo i funzionari interpellati da Democracy Now, sito internet d’informazione indipendente. Al momento - riferiscono i militari del centro - ci sono 28 prigionieri che possono ufficialmente essere dichiarati in sciopero della fame; in dieci sono stati nutriti a forza. Ma gli avvocati difensori contestano i dati forniti dalle autorità: secondo loro, lo sciopero coinvolge ormai la maggior parte dei 166 prigionieri, che contestano le condizioni del centro e la detenzione senza accuse a carico; diversi prigionieri avrebbero perso circa 15 chili. “Sembra che non nutra più speranze di lasciare Guantánamo Bay” ha detto Jason Wright, capitano dell’esercito, all’Associated Press, parlando di un prigioniero afgano che porta avanti la protesta. I vertici militari hanno ammesso, nei giorni scorsi, che la frustrazione e la rabbia tra i detenuti è aumentata negli ultimi tempi, dopo la promessa mancata del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di chiudere Guantanámo. Sono “devastati” per questo motivo, ha ammesso un generale, perché Obama “non ha detto nulla nel suo discorso inaugurale, non ha detto nulla nel discorso sullo stato dell’Unione, non ha detto proprio nulla sulla chiusura del carcere” ha sottolineato John Kelly, comandante dell’U.S. Southern Command, responsabile delle attività militari statunitensi in Centro e Sud America. Inoltre, “non ha riassegnato l’incarico di inviato speciale per la chiusura del campo di detenzione (Daniel Fried ha ricevuto un altro incarico, lasciando scoperto il posto, ndr)”. Questo, agli occhi dei prigionieri - e non solo - dimostra che Obama ha ormai accantonato l’idea di chiudere la prigione, come invece promesso dopo il suo ingresso alla Casa Bianca. Nonostante i tagli alla spesa, Washington non sembra intenzionata a risparmiare su Guantánamo, già considerata la prigione più cara (pro capite), con un budget operativo di circa 177 milioni di dollari; questo significa che i contribuenti statunitensi pagano più di un milione di dollari per ognuno dei 166 detenuti. Il progetto al vaglio del Pentagono prevede una spesa di quasi 200 milioni di dollari: 150 per la ristrutturazione, 50 per costruire un nuovo carcere per i detenuti più importanti, come Khalid Sheikh Mohammed, la mente degli attentati dell’11 settembre 2001. Obama, creando il ruolo di inviato speciale per Guantánamo, nel 2009, si era posto l’obiettivo di chiudere la prigione, come sancito dall’ordine esecutivo 13492, il quarto firmato dal suo insediamento alla Casa Bianca. Ma il rimpatrio o il trasferimento in altri Paesi dei detenuti, dopo le restrizioni imposte dal Congresso - firmate da Obama - è stato reso quasi impossibile, annullando di fatto le possibilità di chiudere la prigione: oltre a impedire il trasferimento dei detenuti negli Stati Uniti per i rischi alla sicurezza - nonostante il parere opposto di un’agenzia del Congresso - il Parlamento statunitense ha posto il veto anche su quello verso diversi Paesi “instabili”. Turchia: Amnesty; è tempo di togliere le catene alla libertà Aki, 27 marzo 2013 In un nuovo rapporto sulla Turchia, Amnesty International ha espresso il timore che il pacchetto di riforme legislative all’esame del parlamento di Ankara finisca per essere un’opportunità persa per allineare le leggi nazionali agli standard internazionali sui diritti umani e lascerà le persone a rischio di subire violazioni, tra cui il carcere, solo per aver espresso un’opinione. “In Turchia la libertà d’espressione è sotto attacco, con centinaia di procedimenti giudiziari a carico di attivisti, giornalisti, scrittori e avvocati”, ha dichiarato John Dalhuisen, direttore del Programma Europa e Asia centrale di Amnesty. “Le riforme succedutesi nel tempo non hanno affrontato il problema principale: la definizione di alcune fattispecie di reato nel codice penale e nella legge antiterrorismo”, ha aggiunto Dalhuisen. Il rapporto analizza il contenuto e le modalità di attuazione dei 10 più problematici articoli di legge che minacciano la libertà d’espressione in Turchia. Rimane in vigore, ad esempio, il famigerato articolo 301 del codice penale sulla “denigrazione della Nazione turca”, usato per processare e condannare il giornalista e difensore dei diritti umani Hrant Dink, poi assassinato. Secondo Amnesty, negli ultimi anni si è assistito all’aumento dell’uso arbitrario delle leggi antiterrorismo per criminalizzare attività del tutto legittime, come discorsi politici, scritti di contenuto critico, partecipazione a manifestazioni e militanza in organizzazioni e gruppi politici riconosciuti. Dibattiti pacifici sui diritti dei curdi e su altre questioni politiche a loro legate, così come i temi e gli slogan al centro delle manifestazioni in loro favore, danno luogo a procedimenti giudiziari per “propaganda terrorista”. Arabia Saudita: chiesta condanna a morte per imam sciita che contestò monarchia Aki, 27 marzo 2013 La procura generale saudita ha chiesto la condanna a morte per l’imam sciita Nimr al-Nimr, arrestato la scorsa estate ad Awamiya, nella regione orientale e ricca di petrolio di Qatif, per attività contro la monarchia di Riad. Al-Nimr, secondo quanto riporta il quotidiano ‘Saudi Gazettè, è stato accusato di “istigazione alla rivolta”, “sostegno ai terroristi” e di “crimini contro Allah”, un reato per il quale la sharia in vigore in Arabia Saudita prevede la pena di morte. La notizia della richiesta di condanna a morte per l’imam arriva in un momento di forti tensioni settarie nel Paese. Ieri, infatti, Riad ha annunciato l’arresto di almeno 16 sciiti sospettati di far parte di un network di spie per conto dell’Iran. Teheran ha smentito le accuse e lo stesso hanno fatto i leader della comunità sciita nel regno del Golfo. L’eventuale condanna a morte di al-Nimr potrebbe gettare ulteriore benzina sul fuoco della rivalità sunniti-sciiti. Già infatti dopo l’arresto del religioso si erano registrate violente proteste degli sciiti nella provincia di Qatif. Negli scontri con le forze di sicurezza, alcuni manifestanti avevano perso la vita. In passato Nimr ha più volte chiesto la fine della repressione contro gli sciiti e il rilascio di tutte le persone arrestate durante le proteste e di tutti i prigionieri di coscienza, sunniti e sciiti detenuti nel regno. Lo scorso anno nell’est dell’Arabia Saudita si sono registrate proteste quasi ogni giorno. Alle manifestazioni le autorità hanno risposto, secondo le denunce degli attivisti, con una dura repressione. Stando ad Amnesty International, dal marzo 2011 in Arabia Saudita sono stati arrestati centinaia di sciiti accusati di aver preso parte a proteste contro la monarchia. Comunità sciita chiede rilascio presunte spie legate a Iran La comunità sciita in Arabia Saudita ha chiesto la liberazione delle 18 persone - 16 sauditi sciiti, un libanese e un iraniano - arrestate con l’accusa di far parte di una rete di spie legata all’intelligence iraniana. In un documento firmato da dignitari e religiosi della provincia orientale di Al-Ihsaa e riportato dai media locali, si respingono “con fermezza le accuse offensive rivolte nei loro confronti. I detenuti - si legge - sono bravi e rispettabili cittadini con alte competenze scientifiche”. Gli sciiti fanno quindi appello affinché “si acceleri il rilascio dei detenuti” e criticano le autorità di Riad per “l’uso del settarismo per risolvere dispute politiche con Paesi stranieri e distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle richieste interne di diritti e riforme”. Ieri il ministero dell’Interno di Riad ha reso noto che le 18 persone arrestate la scorsa settimana in Arabia Saudita con l’accusa di spionaggio farebbero parte di una rete legata all’intelligence iraniana. “Dalle indagini preliminari, dalle prove raccolte e dalle confessioni degli accusati è emerso che i membri della cellula erano in contatto diretto con i servizi segreti iraniani”, ha affermato un portavoce. Le presunte spie, ha aggiunto, “hanno ripetutamente ricevuto somme di denaro in cambio di informazioni e documenti su luoghi sensibili raccolte in operazioni condotte per conto di queste agenzie”. Iraq: nuovo appello Ue, Baghdad fermi esecuzioni pena di morte Nova, 27 marzo 2013 L’Iraq deve fermare le esecuzioni della pena di morte che, dopo una breve pausa dall’inizio dell’anno, sono riprese. È il nuovo appello lanciato oggi alle autorità irachene dall’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Catherine Ashton. “Sono preoccupata per le recenti notizie di esecuzioni in Iraq”, ha detto la Ashton, sottolineando che nel 2012 ci sono state 123 esecuzioni. L’Alto rappresentante condanna la scelta di Baghdad di riprendere le esecuzioni, mentre dal governo era arrivato l’impegno di riesaminare le sentenze dei detenuti. L’Ue ribadisce la richiesta di abolire la pena di morte al più presto in Iraq. Stati Uniti: prevedere chi commetterà nuovi reati… con la risonanza magnetica Ansa, 27 marzo 2013 Predire la condotta futura di un detenuto spiandone il cervello con la risonanza magnetica: è la prospettiva che, per quanto fantascientifica, si profila all’orizzonte. Uno studio pubblicato sulla rivista Pnas mostra infatti che la risonanza può predire con una certa accuratezza quali criminali reitereranno il reato una volta rilasciati. Lo studio, su 96 detenuti prossimi al rilascio, è stato condotto da Kent Kiehl, neuroscienziato presso l’istituto no-profit Mind Research Network ad Albuquerque, (Nuovo Messico - Usa). È emerso che leggendo i risultati della risonanza è possibile prevedere se, una volta rilasciato, il detenuto trasgredirà nuovamente la legge oppure no. Gli esperti hanno registrato con la risonanza l’attività neurale dei detenuti in particolare in un’area del cervello chiave per prendere decisioni e reprimere i gesti impulsivi, la corteccia cingolata anteriore (sulla fronte). E hanno esaminato l’attività di questo circuito neurale mentre i detenuti eseguivano dei semplici compiti decisionali e reprimevano reazioni impulsive. Il comportamento dei detenuti è stati poi seguito per i quattro anni successivi al rilascio. I ricercatori hanno trovato delle nette differenze nei profili di attivazione della corteccia che corrispondono alla condotta che i detenuti tengono una volta liberi. Quelli che commetteranno un nuovo reato presentano una attività ridotta nella corteccia cingolata. Anche se la tecnica è lungi dal divenire applicabile in ambito giudiziario, non può non richiamare alla mente la trama del film Minority Report dove i crimini erano puniti ancora prima di essere commessi perché predetti da un gruppo di sensitivi. Norvegia: negato a Breivik permesso per partecipare al funerale della madre Adnkronos, 27 marzo 2013 Le autorità norvegesi hanno negato a Anders Behring Breivik, detenuto in isolamento in un carcere vicino a Oslo, di assistere al funerale della madre. Lo ha reso noto il legale dell’uomo, condannato a 21 anni, il massimo della pena in Norvegia, per aver ucciso 77 persone nelle stragi di Oslo e di Utoya. La madre di Breivik, morta a 66 anni dopo un periodo di malattia, non aveva testimoniato al processo a carico del figlio. L’uomo, che secondo quanto riferito dalle autorità della prigione di Ila al suo avvocato dovrà continuare a rimanere sotto stretta sorveglianza, aveva avuto la possibilità di rivedere la madre in una visita penitenziaria poche settimane prima che morisse. Per le autorità carcerarie Breivik deve rimanere sotto stretta sorveglianza a causa del rischio di evasione e per la sua pericolosità. Svizzera: feste e concerti con i detenuti, direttrice del carcere di Ginevra nella bufera Tm News, 27 marzo 2013 Concerti rock, tavolate, grigliate. Più che a una prigione, quella di Favra, vicino Ginevra, “assomiglia a una colonia di vacanze estive”, con la partecipazione attiva della direttrice del carcere, ripresa assieme ai detenuti in circostanze particolarmente conviviali. Una situazione talmente insolita da indurre il consigliere di stato Pierre Maudet a chiedere un rapporto dettagliato e il sindacato di polizia ad indagare sui fatti. Ieri il quotidiano Le Matin ha denunciato il caso, sulla base delle immagini della videosorveglianza girate tra il 2011 e il 2012: la direttrice si fa baciare le mani dai detenuti e quasi abbracciare, è seduta con loro a tavola per la cena di Natale dove viene servito vino rosso, sono presenti altre donne non meglio identificate. Altre immagini mostrano un concerto di un gruppo punk-rock all’interno del cortile, altre ancora un pic-nic con birra e posate di metallo, forchette e coltelli. Il penitenziario ospitava, fino a dicembre 2012, circa una trentina di detenuti, alcuni recidivi, condannati a pene fino ai tre anni; l’alcol è proibito, così come la coabitazione tra personale e prigionieri. Oggi è stato trasformato in un centro di detenzione amministrativo, con la direttrice sempre al suo posto.