Giustizia: il Dap avvia il progetto dei “Circuiti Regionali”... nasce il carcere su misura? di Giorgio Vischetti www.reporter.it, 24 marzo 2013 Si chiama Progetto Circuiti Regionali e vuole rappresentare una soluzione al problema del sovraffollamento delle carceri italiane: una differenziazione degli istituti penitenziari, in base alla tipologia del detenuto, la sua pericolosità e la sua posizione giuridica. Circuiti Regionali è un progetto messo a punto dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) che ha il chiaro intento di far fronte a diverse questioni inerenti le carceri: il sovraffollamento, le drammatiche condizioni di vita dei reclusi, il trattamento rieducativo e le misure alternative da attuare nei loro confronti, le difficoltà lavorative in cui versa il personale penitenziario. Il progetto, presentato qualche giorno fa a Roma dal capo del Dap Giovanni Tamburino, sarà inaugurato ad aprile nell’istituto Carinola, in Campania, che assumerà la forma di una casa di reclusione per detenuti di media sicurezza, con la sperimentazione di una custodia attenuata. Tamburino ci ha tenuto a sottolineare che Circuiti regionali non è una panacea, ma “un passo in avanti”, per far fronte alle “insufficienze talvolta molto gravi del nostro sistema penitenziario che, purtroppo, hanno portato anche a condanne dell’Italia da parte della Corte europea”. Questi nuovi circuiti sono caratterizzati da una sorta di regime aperto, dando la possibilità ai detenuti di media sicurezza di passare molto tempo in spazi comuni per migliorare l’elemento della socializzazione. Altro aspetto su cui si fonda questo progetto è quello di permettere ai reclusi di vivere in un carcere vicino ai propri famigliari. Naturalmente in questo modo si tenta anche di razionalizzare le risorse: in un istituto ad alta sicurezza ci saranno più agenti di polizia penitenziaria, mentre ci si concentrerà su altre figure professionali nel caso d’istituti a custodia attenuata. La metamorfosi degli istituti carcerari riguarderà “in maniera graduale” (come ha specificato il capo della Dap) anche le altre regioni italiane: in Abruzzo, il carcere di Sulmona sarà dedicato interamente ai detenuti di alta sicurezza (criminalità organizzata e terrorismo), l’istituto di Vasto sarà destinato a casa lavoro, con una piccola sezione circondariale per gli arrestati, mentre a Pescara ci sarà un reparto a regime aperto, uno di osservazione psichiatrica e una sezione femminile. In Basilicata saranno operative sezioni a regime aperto sia a Potenza che a Matera. In Calabria, invece, il carcere di Catanzaro ospiterà in un nuovo padiglione per detenuti di media sicurezza, mentre quelli di Crotone e Laureana di Borrello saranno destinati a custodia attenuata. Nel Lazio saranno ridotti i posti per l’alta sicurezza a Rebibbia nuovo complesso, mentre a Velletri, Rieti e Rebibbia reclusione saranno previste custodie attenuate. Analoghe modifiche anche sul resto della penisola. Le prime polemiche sono sorte per quanto riguarda la regione Sardegna. Qui, infatti, il Dap ha previsto, per l’attuazione del progetto, la chiusura dei due centri penitenziari nel Sulcis e nel Marghine e la riorganizzazione del sistema con l’istituzione di un circuito fondato sulla differenziazione degli istituti per tipologie detentive su base regionale. Il presidente del Consiglio regionale, Claudia Lombardo, boccia totalmente il progetto Circuiti regionali, visto che trova del tutto controproducente la chiusura della struttura penitenziaria di Iglesias, “funzionale per gli agenti che vi operano e può vantare un’ottima gestione dei detenuti, soprattutto in un momento di emergenza per le carceri italiane”. Quello che si vuole perseguire è uscire dalla logica custodiale: non si può continuare a parlare di reinserimento sociale se le carceri italiane mantengono un’impostazione di totale chiusura con il mondo esterno. Anche se non si tratta di un progetto universale. Lo stesso Tamburino definisce “irresponsabile” una concretizzazione di questo programma in tal senso, ma che esso potrà essere rivolto soltanto a detenuti selezionati, in base alla probabilità di esito positivo del trattamento. Un progetto, in definitiva, che ha tutte le carte in regola per rappresentare una piccola rivoluzione nel mondo carcerario italiano. Anche se non tutti la pensano nella stessa maniera. “Il progetto del Dap sui Circuiti Regionali è destinato a fallire” ha commentato il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti. Le priorità, secondo il sindacalista, sono l’intervento sulle carenze organiche del personale e l’incremento di quelle attività che occupano il reo nel tempo trascorso fuori dalle celle e che vanno dall’istruzione al lavoro. Soltanto successivamente ci si potrà concentrare sull’attuazione di un progetto del genere. In caso contrario si verranno a creare gravi situazioni di disordine, aggressioni ed evasioni. Giustizia: carceri, le cifre di un disastro e di un’ordinaria emergenza di Valter Vecellio Notizie Radicali, 24 marzo 2013 I detenuti, al 18 marzo 2013, risultano essere 65.995. Oltre 12mila risultano in attesa di primo giudizio; 39.653 sono i condannati in via definitiva. La capienza regolamentare è di quasi 46 mila posti. “Solo” 19.995 in più…Ogni numero corrisponde a una persona, è bene ricordarlo. I dati sono ufficiali, li ha forniti il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, durante la conferenza stampa di presentazione del “Progetto circuiti regionali” presso il Museo criminologico a Roma. Secondo i dati del Dap, i condannati in via definitiva sono il 60 per cento, cioè 39.653. Lombardia, Campania, Lazio e Sicilia le regioni col maggior numero di detenuti: 9.233 per la regione Lombardia, 8.412 in Campania, 7.201 nel Lazio e 7.080 in Sicilia. Ancora: dall’inizio del 2013 sono 221 i tentati suicidi registrati nei penitenziari italiani. Le cifre di un disastro, di un’ordinaria emergenza. A fronte di questa situazione che spazza via la quantità di dichiarazioni e di “buoni propositi” accampati in tutti questi mesi dal ministro dell’(in)giustizia, signora Paola Severino, al DAP si consolano dicendo che quest’anno hanno risparmiato quasi 15 milioni di euro. Il capo del dipartimento Giovanni Tamburino fa sapere che “nell’ultimo anno abbiamo operato con notevole attenzione a tutto quello che potesse essere spreco, con uno sforzo rilevante di riduzione della spesa. Uno sforzo che ha avuto risultati”. Soltanto per le missioni del personale, dice Tamburino, tra il 2011 e il 2012 si sono risparmiati ben 7,7 milioni di euro: “Nel 2011 abbiamo speso 22,9 milioni mentre nel 2012 ne abbiamo spesi 15,3”. Risparmi anche sulla voce vestiario: “Grazie ad una migliore forma di contrattazione abbiamo risparmiato, sempre in un anno, 3,5 milioni”. Spese sotto osservazione anche sugli automezzi, dal carburante alle riparazioni: “In questo caso c’è stato un risparmio di 3,2 milioni”. Risparmi che hanno riguardato anche la festa del corpo di polizia: “Nel 2011 erano stati spesi 397 mila euro, nel 2012 abbiamo speso solo 19 mila euro”. E vai a capire come mai per la stessa annuale festa, nel giro di un anno c’è stata una variazione di 378 mila euro…Complimenti davvero, signora ministro dell’(in)giustizia. Dimenticare la sua gestione del ministero di via Arenula non sarà facile, ma ci si proverà. Giustizia: la barbara abitudine di incarcerare prima di condannare di Luigi Labruna Corriere del Mezzogiorno, 24 marzo 2013 Salvo che in esecuzione di una sentenza passata in giudicato, ovvero nel caso in cui sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, “nessun membro del parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale” senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene. Lo stabilisce l’art. 68, secondo comma, della Costituzione. Questa immunità (parziale dopo la riforma del 1993) è concessa a deputati e senatori in virtù della loro carica. Cessa quando questa viene a scadenza. Con l’insediamento delle nuove Camere non ne fruiscono più i parlamentari della precedente legislatura che non siano stati nuovamente eletti. È per questo motivo che l’ex deputato Cosentino, imputato di gravi reati, tra cui il concorso esterno in associazione mafiosa, che aveva evitato sinora la custodia cautelare in carcere richiesta dalla magistratura che, per due volte, non era stata autorizzata dalla Camera, è entrato in prigione. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha infatti di recente anche respinto con due ordinanze la sua richiesta di revoca dell’arresto ritenendo che la mancata candidatura alle politiche non abbia fatto cessare le condizioni che ne giustificano la detenzione preventiva che, com’è noto, può essere disposta dal giudice quando, a carico dell’imputato, sussistano specifiche esigenze cautelari come quelle derivanti dal pericolo di reiterazione del reato, di fuga o di inquinamento delle prove, e quando ogni altra misura cautelare (arresto domiciliare, divieto di espatrio ecc.) risulti inadeguata. Fra qualche settimana il Tribunale del riesame deciderà sull’appello avverso queste decisioni ma frattanto per l’ex-onorevole si spalancano le porte del carcere. Storia di ordinaria giustizia, sembrerebbe. E purtroppo nel nostro paese è proprio così. Di casi del genere se ne verificano (soprattutto per i non parlamentari) a centinaia. Continuamente. Le carceri italiane sono sovraffollate al di là del tollerabile da imputati in attesa di giudizio per i quali, come del resto per Cosentino, nessuno è in grado di dire se siano innocenti o colpevoli per i reati loro ascritti. Che, anzi, come stabilisce la Costituzione, è da presumere siano innocenti sino a che non intervenga sentenza definitiva di condanna. E ciò nonostante che in materia di custodia cautelare in carcere “valgono, o dovrebbero sempre valere” (lo hanno sottolineato più volte giuristi di ogni scuola e tendenza) elementari principi di civiltà giuridica, ripetutamente affermati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, che vorrebbero che siano sempre accertate in concreto e senza dubbio alcuno l’esistenza delle condizioni che legittimano l’utilizzazione di tale eccezionale strumento nell’esercizio dell’azione penale. Che le misure cautelari adottate siano proporzionate e ristrette al minimo indispensabile per fronteggiare la domanda di sicurezza della comunità con il “minimo sacrificio possibile” della libertà personale, “inviolabile” prima della condanna definitiva (art. 13 Cost.). E che la custodia cautelare non possa essere mai considerata o, peggio, usata quale anticipazione della pena. È sconfortante, ma nella realtà non è così. Lo ha denunciato, responsabilmente e a chiare lettere, seppur inutilmente, il ministro della Giustizia Paola Severino all’Università di Padova: “È viva la percezione del profondo senso di ingiustizia che si vive per la carcerazione preventiva in carcere. Scontare una pena dopo una condanna è una cosa. Iniziare a scontare una pena quando non si è stati condannati è una cosa ben più terribile. Perché il senso di ingiustizia che dà la carcerazione è terribile se la carcerazione preventiva si estende nella durata, perché il sistema giudiziario non è in grado di avere dei tempi ragionevoli. Ciò produce un senso di ribellione del detenuto_ Carcere, giustizia, diritto sono dei temi indissolubilmente legati perché solo in un paese in cui la giustizia funziona bene il carcere potrà avere una piena portata rieducativa”. Parole al vento. Ormai il nostro sistema politico (e purtroppo istituzionale) è talmente degradato che a disfunzioni dolorose, meglio drammatiche e di estrema rilevanza giuridica e sociale come queste, diventano di una qualche attualità solo quando investite dal clamore suscitato dalla notorietà dell’imputato e ancor più quando si prestano a quelle incivili strumentalizzazioni politiche che in casi siffatti non mancano mai. Misera res publica. Povera Italia. Giustizia: Scalfarotto (Pd); pena carceraria deve limitare la libertà, non la dignità Dire, 24 marzo 2013 “Ieri a Ivrea si è suicidato il tredicesimo detenuto dall’inizio dell’anno. Per questo ho deciso di fare della casa circondariale di Ivrea la seconda tappa del mio viaggio nelle carceri italiane. Il carcere è oggettivamente molto brutto, un’orribile costruzione degli anni 80. I detenuti a oggi sono 277. Dovrebbero essere massimo 180, ma mi hanno spiegato che esiste un concetto di affollamento tollerabile che arriverebbe fino a 350 persone. In pratica nelle celle ci sono 2 persone dove dovrebbe essercene solo una”. Così Ivan Scalfarotto, vicepresidente del Pd, sul suo blog. “Ci sfugge, secondo me - ci tiene a sottolineare il deputato del Partito democratico - che la pena a cui si viene condannati è la perdita della libertà personale, non altro: il codice penale prevede la perdita della libertà, non quella della propria dignità. E molti, in carcere, ci stanno ancora prima di essere condannati”. Scalfarotto racconta poi la vicenda del detenuto suicidatosi concentrandosi sui tagli che hanno riguardato questo settore: “Il detenuto che si è ucciso ieri a Ivrea aveva problemi di tipo psichiatrico, e per questo era in cella da solo. Ha approfittato del cambio del turno tra gli agenti addetti alla vigilanza e si è impiccato alla finestra. Gli eventi di autolesionismo non sono infrequenti. E il sostegno di tipo psicologico non è sufficiente. È chiaro che i tagli stanno colpendo anche qui, in un settore di cui nessuno parla particolarmente, Pannella e i radicali a parte”. Conclude Scalfarotto: “La sensazione è che le carceri siano una specie di discarica umana. Un posto dove mettere dei rifiuti speciali, certi esseri umani, che come tutti gli altri rifiuti vogliamo soprattutto spariscano dalla nostra vista rapidamente. E il cui smaltimento ci illudiamo non essere affare nostro. Sbagliando, nell’uno e nell’altro caso, drammaticamente”. Giustizia: Sappe; nell’Amministrazione Penitenziaria stessi sprechi del passato… Comunicato stampa, 24 marzo 2013 Non si fa attendere la risposta, a stretto giro di posta, del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe alle dichiarazioni rilasciate ieri nel corso di una conferenza stampa dal Capo del Dap Giovanni Tamburino sul presunto contenimento di spese da parte dell’Amministrazione Penitenziaria. “Tamburino si è vantato di aver risparmiato 15 milioni di euro nella gestione 2012 del Dap: in realtà i risparmi sono stati ottenuti tagliando soltanto i fondi della Polizia Penitenziaria per gli automezzi, il vestiario e le spese per i servizi fuori sede, come sanno bene in particolare i poliziotti dei Nuclei Traduzioni spesso alloggiati in caserme inadatte, inadeguate e sporche. Si è guardato bene però dal tagliare il suo stipendio (più di trecento dieci mila euro all’anno), o quello del suo vice capo Pagano, o dal revocare gli accompagnamenti in auto blu dei dirigenti del Dap. Si pensi che , fino alla denuncia del Sappe lo scorso settembre, si acquistavano quotidiani e periodici per i dirigenti del Dipartimento per decine di migliaia di euro all’anno, e il servizio è stato sospeso solo a causa dall’esaurimento dei fondi disponibili sul capitolo di spesa del Centro Amministrativo Giuseppe Altavista di Roma (Centro che ha la sua ragione di esistere principalmente per pagare le “spesucce” dei dirigenti del Dap)”. Lo dichiara il Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, dott. Donato Capece, in relazione alle dichiarazioni del Capo Dap sulle spese del Dipartimento. “Altro che risparmi! Al Dap sono ancora in dotazione numerose Land Rover, dal valore centinaia e centinaia di migliaia di euro e dai costi di gestione stratosferici e altrettante automobili ben oltre la cilindrata massima stabilita dalla spendig review. Ci dica, infine, il dott. Tamburino perché tutti i dirigenti del “suo” dipartimento usufruiscono delle autovetture di servizio con autista anche se non sono sottoposti a tutela e ci spieghi le ragioni per le quali è stata concessa auto blu e autista al cappellano della scuola di Roma a spese dell’amministrazione penitenziaria e, quindi, dei contribuenti. Per onestà intellettuale bisognerebbe riconoscere che nella attuale gestione del Dap sono ravvisabili gli stessi sprechi di risorse delle precedenti gestioni e, pertanto, il dott. Tamburino avrebbe dovuto avere almeno la decenza di tacere”. Sardegna: chiudono due carceri e ne aprono quattro… anche un Icam per detenute-madri di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 24 marzo 2013 Chiudono due carceri - Iglesias e Macomer - ne apriranno quattro (in luogo di altrettanti istituti cittadini), ma forse la notizia migliore è che la Sardegna avrà un micro-carcere dedicato alle detenute con figli. Cioè alle mamme costrette a far crescere bimbi sotto i tre anni - età oltre la quale devono essere affidati ai parenti - dietro le sbarre, negli istituti vecchi e fatiscenti come Buoncammino a Cagliari o San Sebastiano a Sassari. Entro il 2014 saranno ospitate invece in una struttura dedicata a loro, realizzata a Senorbì, nell’attuale casa mandamentale. Il progetto non è ancora ufficiale, tanto da non essere comunicato durante la conferenza stampa tenuta a Roma ieri dal direttore dell’amministrazione penitenziaria, il magistrato Giovanni Tamburino, che ha invece delineato la mappa dei circuiti penitenziari. Si tratta della suddivisione delle carceri in base al tipo di detenuto che ospitano, o meglio al livello di pericolosità loro attribuito. In questa mappa, la Sardegna occupa un ruolo strategico e un po’ sperimentale, visto che ad Alghero si tenterà la strada della regime attenuato, come a Milano Bollate. Quando le ultime due delle quattro carceri previste dal piano di edilizia penitenziaria saranno consegnate - Bancali e Uta - il Dap potrà ristrutturare le 6 celle della mini-prigione di Senorbì, per realizzare un centro che oggi esiste solo a Milano. Si chiamerà Icam, istituto a custodia attenuata per detenute madri. Lo hanno annunciato il provveditore regionale del Dap, Gianfranco Degesu, e il direttore dell’ufficio detenuti e trattamento, Giampaolo Cassitta. L’apertura è rinviata a quando i reclusi di Senorbì saranno trasferiti a Uta, la cui apertura è prevista per la fine del 2013. A Senorbì, in una villa con giardino sarà allestito anche un asilo nido di tutto rispetto, in luogo della stanza spoglia che fa da biblioteca e da sala giochi ai bimbi nella sezione femminile di San Sebastiano. In media, nell’istituto sassarese sono detenute da due a quattro madri con bambini, reclusi già ai primissimi anni di vita. Secondo i circuiti penitenziari delineati dal Dap, in Sardegna saranno chiusi due istituti piccoli e funzionanti come Iglesias (che accoglie solo sex offender) e Macomer (casa circondariale), in nome della razionalizzazione. Una decisione già nota, ma smentita e poi confermata ieri. Contrario il presidente del Consiglio regionale della Sardegna, Claudia Lombardo, che annuncia: “Ci mobiliteremo per difendere le carceri di Iglesias e Macomer. Va bene la razionale ricerca di risparmiare risorse pubbliche, ma non si può chiudere un carcere come quello di Iglesias, che rappresenta una risorsa del territorio, perché è funzionale per gli agenti e può vantare un’ottima gestione dei detenuti, soprattutto in un momento di emergenza per le carceri italiane, in cui è indispensabile migliorare la qualità di vita dei reclusi e le condizioni di lavoro del personale penitenziario”. Ma la decisione è ormai assunta. Come la destinazione delle altre strutture. Sassari-Bancali e Cagliari-Uta ospiteranno una sezione di 41bis e una di media sicurezza, oltre al femminile e ai semiliberi; Tempio-Nuchis e Oristano-Massama l’alta sicurezza (reati da criminalità organizzata); e ad Alghero sarà sperimentato una sorta di carcere aperto, con detenuti che possano circolare, dopo una attenta selezione in base alle loro pericolosità “penitenziaria”. Sei istituti dell’Isola senza un direttore Sei carceri sarde sono senza un direttore stabile: sono quelle di Iglesias, Is Arenas, Lanusei, Macomer, Mamone e Nuoro. Per questo motivo la Direzione centrale dell’Amministrazione penitenziaria ha chiesto la disponibilità ai dirigenti che lavorano nella penisola a svolgere servizio in questi istituti. In Sardegna ci sono solo sei direttori, che a breve diventeranno cinque per un pensionamento. Sull’argomento interviene il segretario regionale della Cisl Sicurezza, Giovanni Villa, che chiede al Ministero di coprire questa grave carenza anche con provvedimenti d’ufficio. “In molte parti del Paese - afferma il sindacalista - ci sono istituti che si possono permettere più di un direttore. Bisognerebbe incentivare chi vuole venire in Sardegna, classificando l’isola zona disagiata. Questa situazione - prosegue Villa - sta creando confusione e mal funzionamento del sistema. Gli istituti penitenziari in Italia sono oltre 200 e i direttori sono più del doppio”. Friuli Venezia Giulia: Fsn-Cisl; manca il 20% del personale di polizia penitenziaria Il Piccolo, 24 marzo 2013 “Suona come una contraddizione in termini, eppure il comparto sicurezza, anche di questa regione, è sempre più a rischio”. È quanto afferma la Fns Cisl regionale riunita a Palmanova per il suo secondo congresso, alla presenza dei delegati, del nazionale Pompeo Mannone e di tutta la segreteria della Cisl Fvg. A dare la misura delle preoccupazioni vissute quotidianamente dagli operatori sono alcuni numeri, che ben descrivono il problema, ormai strutturale, della carenza di organici. Un dato su tutti: a fronte delle 604 unità teoriche previste per la polizia penitenziaria che segue le case circondariali di Tolmezzo, Pordenone, Gorizia, Trieste e Udine, gli effettivi risultano soltanto 495, vale a dire quasi il 20% in meno del fabbisogno stimato come necessario. “Un quadro che diventa allarmante - si legge in una nota - se si considera che tutte le sedi carcerarie del Friuli Venezia Giulia soffrono di sovraffollamento (tra i livelli più alti d’Italia), sforando del 30% i limiti di capienza consentita. Analogo problema del sottodimensionamento degli organici, anche per i vigili del fuoco: mancano, infatti, all’appello (senza contare le figure amministrative) 140 addetti qualificati sui 914 teorici”. “È facile capire - spiega il segretario uscente della Fns Cisl, Ivano Signor in un comunicato - come le condizioni in cui ci troviamo ad operare siano assolutamente stressanti. Sul fronte del personale impegnato nelle carceri scontiamo le gravi decisioni governative assunte riguardo alla mancata coperture delle vacanze organiche, cosa che di fatto rende impossibile una turnazione sana e rende reclusi anche gli operatori”. Sempre per il settore, la Fns va in pressing sulla politica, chiedendo concretezza, al di là dei meri spot elettorali. Trani: agente di Polizia penitenziaria muore per malore, c’è il sospetto di una meningite di Gianpaolo Balsamo Corriere del Mezzogiorno, 24 marzo 2013 L’esatta causa di morte sarà accertata dall’autopsia che è stata disposta dal pm inquirente Raffaella De Lucia sul corpo dello sfortunato 42enne Giovanni Bassi, un assistente capo della della polizia penitenziaria in servizio presso il carcere di Trani. L’uomo, l’altra sera, dopo aver lavorato ed aver avvertito un improvviso malore, si è rivolto al personale sanitario del locale pronto soccorso. Poi è tornato a casa. Ieri mattina è ritornato in ospedale, ricoverato in rianimazione ma, purtroppo, è stato tutto inutile. Il 42enne è morto poco dopo per circostanze ancora poco chiare. Potrebbe essere stato un farmaco somministrato a causare il decesso così improvviso ma non si esclude anche che la guardia carceraria (che prestava servizio a Foggia ma spesso era distaccata nell’istituto penitenziario di Trani) fosse affetta da meningite. Dopo la denuncia dei familiari alla Procura della Repubblica, lo sesso pm ha disposto il sequestro della cartella clinica della guardia penitenziaria che era sposata e viveva Trani. Rimini: detenuto di 25 anni si suicidò nel 2011, richiesto un supplemento di indagine www.nqnews.it, 24 marzo 2013 A due giorni dall’arresto, in una cella d’isolamento, si toglie la vita. Era finita così, la storia di un ragazzo di 25 anni della provincia di Rimini, alla prima detenzione, senza precedenti e senza ancora un processo che lo condannasse, sia pure in primo grado. Arrestato per pedofilia, un reato che di per sé ti lascia addosso un’onta terribile e in carcere ti può rendere vulnerabile in mezzo agli altri detenuti, il giovane dopo 48 ore dall’ingresso ai “Casetti” di Rimini si è tolto la vita nell’isolamento della sua cella. Un caso che è diventato nel 2011 un esposto alla magistratura riminese e che il 13 marzo scorso si è trasformato in un’opposizione all’archiviazione. O meglio in una richiesta di apertura delle indagini che la magistratura riminese aveva chiuso perché “la notizia di reato appare infondata”. A presentare la prima denuncia e ora l’opposizione all’archiviazione, un agente penitenziario riminese (ora trasferito) che la sera in cui il 25enne si era tolto la vita era in servizio ai Casetti. A rappresentare l’agente penitenziario, che “da quel giorno si sente un peso sulla coscienza”, l’avvocato Gian Paolo De Mari, ex direttore del carcere di Rimini. Insomma, la morte di questo ragazzo, sul cui suicido non vi sono dubbi, s’inserisce in un contesto di sospetti trasversali, di denunce incrociate. In una parola di “veleni” che negli ultimi anni hanno caratterizzato il carcere di Rimini. Al netto delle accuse incrociate, resta la morte di un giovane sotto la responsabilità dello Stato sulla quale qualcuno dovrebbe chiarire i vari perché. Restano poi dubbi che a fare denuncia sia stato un agente penitenziario e non la famiglia del 25enne che pure ne avrebbe avuto diritto anche se tossicodipendente, come sostenuto dal medico dell’infermeria del carcere ma smentito da un sanitario incaricato. E pure se lo fosse stato? Infatti recenti sentenze vanno nel senso di una responsabilità dell’amministrazione del carcere anche per suicidi di tossicodipendenti. Una sentenza per tutte, quella della corte di appello di Milano (11 maggio del 2012) che condanna il ministero al risarcimento di 150mila euro ai familiari di un suicida in carcere perché “proprio in virtù dei poteri attribuitile sulla persona dei reclusi, è tenuta a prendersi cura della salvaguardia della loro incolumità. Al dovere di custodia del detenuto”. Nella denuncia di De Mari infatti e secondo quanto detto dall’agente penitenziario, si legge che per il 25enne suicida a Rimini, non erano state applicate le regole del cosiddetto regime di grande sorveglianza, teso ad eludere ogni rischio autodistruttivo. Sull’archiviazione da parte della procura - si nota nell’opposizione all’archiviazione - sarebbero pesate le indagini per truffa a carico dell’agente penitenziario che aveva sollevato il caso. Lo avrebbe fatto “per mettere in difficoltà” i propri controllori (superiori che l’avevano indagato). Forse sì, forse no. Resta la morte di un 25enne, impiccato nella sua cella d’isolamento, a 48 ore dal suo ingresso in carcere. Quale la verità giudiziaria? Quale dovere di custodia del detenuto? Napoli: il degrado del carcere di Poggioreale… la denuncia dalla madre di un detenuto di Francesca Saccenti www.lettera43.it, 24 marzo 2013 L’istituto penitenziario ospita 2.800 persone, su una capienza di 1.600. Vivono tra topi e scarafaggi. Lo chiamano carcere, ma chi ci è passato lo descrive come un inferno. L’istituto napoletano di Poggioreale ospita 2.800 detenuti su una capienza massima di 1.600, costretti a vivere ogni giorno in celle sovraffollate, popolate da topi e scarafaggi, con bagni turchi in condizioni di degrado e perdite d’acqua dai soffitti. E, secondo numerosi racconti, costretti a subire gli abusi delle guardie penitenziarie. Il che ha portato all’apertura di un’interrogazione parlamentare su presunte violenze all’interno del carcere. “Era estate e faceva caldo quando andai a trovare mio figlio. Enrico aveva la testa abbassata, non parlava. Pesava 40 chili e quel giorno aveva addosso due maglie, nonostante nella stanza dei colloqui si soffocasse. Le nocche delle mani erano nere, piene di ematomi. Prima di salutarlo riuscii ad alzargli la maglia: le guardie penitenziarie lo avevano massacrato con i manganelli e gli stracci bagnati, mio figlio era distrutto”, racconta Maddalena Artucci, che ha scelto di denunciare il figlio tossicodipendente dopo le continue percosse e i furti in casa. Ma che ora, dopo aver visto il trattamento inumano a cui viene sottoposto, vorrebbe tanto fare un passo indietro. “Dopo aver tentato la strada dei Servizi per le tossicodipendenze(Sert) e delle Case famiglia”, racconta Maddalena con le lacrime agli occhi, “non sapevo cosa fare, avevo bisogno di salvarlo. Ho cercato in tutti i modi di fargli evitare il carcere, ma alla fine sono stata costretta a denunciarlo. Enrico entrava in casa e distruggeva tutto, cercava soldi in continuazione. Mi ha picchiato molte volte e una volta mi ha lesionato la milza. Annarita, la sorella piccola, si nascondeva in un angolo con le mani davanti agli occhi per non vedere”. Ma Maddalena, per suo figlio, sperava in una riabilitazione umana. “Perché non insegnano ai ragazzi un lavoro? Perché non li fanno studiare?”, domanda con gli occhi sgranati. Divisa in 12 reparti, la casa circondariale di Napoli, costruita nel 1908, non ha al suo interno spazi di socialità: i passeggi sono quadrati di cemento senza panche o copertura. In carcere sono 930 i detenuti con sentenze passate in giudicato, 325 sono stranieri, mentre il 30% della popolazione detenuta è tossicodipendente. “La situazione è drammatica. In cella si arriva fino a 10-12 detenuti e con letti a castello fino a tre livelli”, spiega a Lettera43.it Mario Barone presidente di Antigone in Campania, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale che funge da osservatorio sulle condizioni delle carceri italiane, “e con l’arrivo della calura estiva le cose peggiorano. D’estate, il sole entra nelle celle in maniera così prepotente che sono costretti a refrigerare la stanza con magliette bagnate. La contiguità fisica di fornelli e servizi igienici e il fatto che nella maggior parte dei padiglioni non c’è la doccia in cella fanno il resto”. In fila per ore i parenti dei carcerati, per un totale di 102 mila colloqui annui, aspettano, a volte fin dalla sera prima della visita, di incontrare i loro cari: sono preoccupati per la loro salute. Nelle ultime settimane, infatti, ci sono stati tre decessi che ancora devono essere accertati e che sollevano interrogativi sulle prestazioni sanitarie del carcere. “Mentre Roma bruciava, Nerone suonava. E questo è quello che succede oggi nelle nostre strutture”, spiega a Lettera43.it il segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) Donato Capece, “in Italia su 66 mila detenuti ci sono solo 43 mila posti letto detentivi. Le condizioni sono drammatiche, il tasso di suicidi è molto alto. Nel 2012, ce ne sono stati 56”. Fuori e dentro alla struttura si uniscono i destini di madri in pena, alcune costrette per necessità a denunciare i figli, nella speranza che il carcere potesse rieducarli. Ma è solo un’illusione. A Poggioreale non esistono lavori extramurari o interni che facilitino il reinserimento esterno, né è attivo alcun corso di formazione professionale. Una volta usciti dal carcere, è quasi impossibile riuscire a trovare un’occupazione e rifarsi una vita. Pietro Iorio, presidente ex detenuti di Napoli-Poggioreale, ha parlato alcuni mesi fa di una “cella zero”, la stessa di cui ha parlato anche Maddalena: una stanza in cui i carcerati verrebbero picchiati quando fanno qualcosa che non va. Sul pavimento ci sarebbe un materasso per attutirne i colpi. Eppure, dai piani alti qualcuno non crede a queste storie, come Capece. “Sono solo leggende metropolitane. Noi siamo dalla parte dello Stato e della legge”. Affermazioni alle quali il presidente di Antigone risponde così: “Se pendesse nei miei confronti un ordine di esecuzione di una condanna definitiva, l’ultimo posto in cui mi andrei a costituire è la casa circondariale di Napoli-Poggioreale”. Più provocatoria Maddalena: “Capece dovrebbe passare lì le ferie per capire cosa si prova. O vedere dove hanno messo mio figlio, in cella zero. Enrico era nudo, a fare i suoi bisogni nella stessa stanza dove dormiva. Massacrato dalla penitenziaria. Avevo paura che facesse la fine di Stefano Cucchi e di Federico Aldrovandi. Se uno ha sbagliato deve pagare, ma non con la vita. È giusto che gli venga tolta la libertà, ma non la dignità. Non siamo animali”. Torino: Osapp; 30 detenuti dormono per terra, senza materassi e senza servizi igienici www.articolotre.com, 24 marzo 2013 Denuncia dell’Osapp sulle condizioni delle carceri: nelle Vallette ci sono 500 detenuti in più rispetto al numero di capienza massimo e 30 persone dormono per terra senza materassi in locali privi di servizi igienici. Intanto l’ennesimo episodio di suicidio in carcere, 13esimo dall’inizio dell’anno; sarebbero 43 i morti in carcere negli ultimi 2 mesi e mezzo. Incredibile denuncia dell’Osapp, che dovrebbe far riflettere soprattutto alla luce dei recenti discorsi affrontati relativamente ai problemi economici in cui versa oggi il nostro Paese: nel carcere delle Vallette di Torino, ci sarebbero 500 detenuti in più rispetto al numero di capienza massimo previsto per l’istituto. Notizia vecchia, questa, potremmo quasi dire, se non fosse che almeno una trentina di questi carcerati starebbero dormendo per terra, senza materassi in locali che, secondo quanto riferito da Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria, sarebbero addirittura privi di servizi igienici. “Purtroppo a parte l’apparente stabilizzazione numerica del sistema” ha riferito Beneduci, “le emergenze che il personale di polizia penitenziaria affronta quotidianamente in carcere si vanno ad aggravare di giorno in giorno, come nell’istituto di Torino, dove per una capienza di 1050 detenuti ve ne sono invece 1580”. Quasi il 50% in più di persone rinchiuse, quindi, rispetto a quante ne prevede il carcere, le quali inevitabilmente si ritrovano a dover vivere in condizioni a dir poco improponibili, a causa delle inevitabili carenze dei servizi. Il problema del sovraffollamento delle carceri è un aspetto della nostra società che non può passare inosservato o in secondo piano, considerando soprattutto il fatto che i tagli economici che inevitabilmente verranno effettuati per far fronte alla crisi non faranno altro che peggiorare questa situazione se non si interverrà adeguatamente per assicurare la garanzia e il mantenimento di tutta quella serie di diritti basilari di cui nessuno al mondo, nemmeno un criminale, può in alcun modo e per nessuna ragione essere privato in uno stato sociale e democratico come il nostro. Tutto questo, purtroppo, dopo l’ennesimo episodio di suicidio in carcere, avvenuto nel carcere di Ivrea dove un uomo di 53 anni si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella a meno di un anno dalla sua scarcerazione. È il 13esimo suicidio e il 43esimo morto in carcere dall’inizio dell’anno, cioè in meno di 3 mesi. Troppo spesso, forse, si tende a dimenticare l’esistenza dei detenuti, chiudendo gli occhi, voltando lo sguardo dall’altra parte, considerandoli addirittura, in alcuni casi, alla stregua di animali da stipare in una gabbia il più a lungo possibile, mentre bisognerebbe invece ricordarli, e ricordare insieme ad essi quanto espresso dalla nostra Costituzione cioè che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” art. 27 comma 3 della nostra Legge Fondamentale. Iglesias (Ca): privilegi ai detenuti, indagati il direttore e il Capo della Polizia penitenziaria di Gesuela Pullara La Nuova Sardegna, 24 marzo 2013 Alcuni godevano di libertà non dovute, altri erano trattati come ospiti di serie B. Inchiesta della Procura di Cagliari: indagati il direttore Marco Porcu e l’allora capo della polizia penitenziaria Tra i detenuti del carcere di Iglesias c’era chi godeva di libertà non dovute e chi, invece, era considerato un ospite di serie B. Questo lo spaccato che sembra emergere dall’inchiesta della procura di Cagliari in cui sono indagati il direttore dell’istituto di pena, Marco Porcu (difeso dall’avvocato Massimiliano Ravenna) e l’allora capo della polizia penitenziaria Gesuela Pullara (difesa dall’avvocato Guido Manca Bitti) poi trasferita in Sicilia. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, tra i detenuti che godevano di qualche privilegio c’era Mario Sanna, ex agente di polizia penitenziaria accusato di concorso nell’omicidio di Marco Erittu detenuto assassinato nel 2007 nel carcere di San Sebastiano di Sassari, un delitto mascherato da suicidio e scoperto solo dopo la confessione di Giuseppe Bigella oggi super teste d’accusa. A Sanna era permesso di aggirarsi in zone che dovrebbero essere accessibili solo al personale dell’istituto. Tra i privilegiati, c’era anche Massimo Sebastiano Messina che non venne denunciato nonostante - sempre stando alle accuse - avesse pesantemente minacciato alcune educatrici del carcere. Per contro, c’era chi riceveva un trattamento meno favorevole come il detenuto straniero preso a pugni e trascinato dalla sua cella in un’altra, un episodio per cui è indagato un agente di polizia penitenziaria dell’istituto penitenziario. Il direttore dell’istituto penitenziario (che regge anche quelli di Lanusei e Isili) è indagato per abuso d’ufficio: nel settembre 2012 avrebbe disposto una perquisizione alla ricerca di droga, nell’ufficio ragioneria della prigione senza informare gli interessati, né redigere il verbale e senza informare le autorità competenti. Porcu sentito ai primi di marzo dagli inquirenti, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Per lo stesso fatto è indagata anche Pullara, che avrebbe eseguito la perquisizione. Alla comandante delle guardie vengono contestati anche i reati di omessa denuncia e rifiuto d’atti d’ufficio per non aver segnalato alle autorità competenti né preso provvedimenti contro le violazioni compiute da alcuni detenuti, uno dei quali avrebbe minacciato il personale del carcere. Sappe: Polizia penitenziaria è sana “Il corpo di polizia penitenziaria è sano e capace di individuare coloro che, al suo interno, si dimostrano infedeli”. Così Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di categoria Sappe, commenta i favoritismi ai detenuti che stanno emergendo dall’indagine sul carcere di Iglesias aperta dalla procura di Cagliari. “Se le accuse saranno confermate i responsabili dovranno essere puniti severamente”. Siracusa: direttrice del carcere; c’è sovraffollamento… ma i veri problemi sono all’uscita La Sicilia, 24 marzo 2013 Il sovraffollamento è sicuramente uno dei problemi principali degli istituti penitenziari italiani. Più volte il nostro Paese è stato sanzionato dall’Ue per questo motivo. E non fa eccezione, in termini di sovraffollamento, la casa circondariale Cavadonna. La direttrice Angela Gianì ne è ben consapevole, dirigendo una struttura che attualmente ospita 484 detenuti - dei quali 217 definitivi (cioè con sentenza passata in giudicato) e gli altri in attesa di giudizio (nei vari gradi) - a fronte di una capienza tollerabile di 380 carcerati. Detenuti imprigionati soprattutto per reati legati allo spaccio di droga, furti, rapine e violenze sessuali (contro donne e bambini). Ma cosa fare di fronte a questo drammatico problema delle carceri? “La soluzione più giusta - sottolinea la direttrice Gianì - è una depenalizzazione dei reati minori e l’abolizione della Bossi-Fini sull’immigrazione. Abbiamo infatti tanti migranti - rappresentano circa il 30% della popolazione carceraria nel nostro istituto e pochissimi sono dentro per reati di elevato allarme sociale - e ci ritroviamo anche con detenuti italiani arrestati per reati lievi. Basterebbe incidere con un cambiamento della normativa, utilizzando maggiormente le pene alternative sostituendo il carcere per pene definitive blande con sanzioni amministrative o lavori di pubblica utilità. Inutile invece l’indulto: abbiamo già constatato che ogni misura clemenziale, se non supportata da cambiamenti nella normativa, è destinata a durare un tempo limitato”. Anche perché chi nel carcere viene seguito, partecipa a corsi professionalizzanti, studia e lavora, quando esce è meno soggetto alla recidiva: “In questo senso - spiega la dott.ssa Gianì - le carceri e l’amministrazione penitenziaria si sforzano: l’ordinamento penitenziario prevede infatti una serie di offerte trattamentali che i detenuti devono prendere in esame e accettare. È chiaro che le offerte variano geograficamente perché dipendono dal volontariato e dalle possibilità lavorative che, al Sud, sono purtroppo inferiori rispetto al Nord. Ma il problema fondamentale resta il dopo, che confonde i detenuti più che stare in carcere: fuori, infatti, gli ex carcerati non trovano né lavoro né strutture che li possano accogliere”. Questo per chi esce. E per chi è condannato al “fine pena mai”, cioè all’ergastolo? Come si concilia questa pena con la necessità di una rieducazione e di un riscatto? “Mal si concilia - concorda la dott.ssa Gianì: anche noi direttori ci associamo alla lotta per l’abolizione dell’ergastolo. Riteniamo infatti che non debba essere tolta la speranza: la pena va espiata, ma l’ergastolo chiude le porte”. Non solo al perdono, ma alla stessa vita. Siracusa: servono più attività per uscire dalla cella, altrimenti diventa come una tomba La Sicilia, 24 marzo 2013 In una giornata viva di sole, ho davanti lunghi e claustrofobici corridoi intervallati da pesanti inferriate. Man mano, dietro di me si chiudono, uno a uno, pesanti cancelli che ripetono monotoni il loro stridio frapponendosi tra me e il caldo assolato di una giovane primavera. Sono all’interno della Casa circondariale Cavadonna di Siracusa, attirata dal giornale realizzato dai detenuti che partecipano al laboratorio letterario. “Le voci di dentro” hanno denominato la testata: e io sono arrivata per ascoltare proprio queste voci, spesso costrette al silenzio. Voci colpevoli, voci che espiano il loro debito verso la società, voci alle quali da fuori spesso non risponde un’eco di umanità, ma un silenzio che a volte diventa a sua volta quasi altrettanto colpevole. Colpevole quando lo Stato dimentica che il carcere deve essere un luogo di rieducazione e riscatto - e per questo viene condannato dall’Ue, colpevole quando la società “seppellisce” i rei negando loro una seconda opportunità, colpevole quando ci si gira dall’altra parte decretando che un ex detenuto sia marchiato a vita. A farmi da guida nel carcere, l’ispettore Giuseppe Spinello, l’educatrice Angela Barresi, la docente Manuela Caramanna - il mio primo contatto con questa realtà - che insegna nella scuola media del penitenziario e si impegna nel laboratorio letterario dopo avere, negli anni passati, speso le proprie energie per il teatro con i detenuti dell’alta sicurezza. La prima tappa è la cucina (utilizzata per l’istituto di pena, ma anche per catering esterni), gestita dalla coop sociale L’Arcolaio, dove lavorano a turno 9 detenuti retribuiti, con il tutoraggio di due cuochi che si alternano (una la mattina, uno il pomeriggio) e di un nutrizionista. Altri carcerati sono invece occupati nel biscottificio, della stessa coop, mentre ci sono poi i lavoranti impegnati in varie mansioni nel penitenziario: dalla distribuzione dei libri della biblioteca a quella della spesa fatta per conto degli altri detenuti alle pulizie. Sono tutti impegni che servono a occupare il tempo - un tempo che dietro le sbarre comincia a scorrere con una cadenza diversa non appena i cancelli si chiudono alle spalle - ma anche a imparare e a dare la speranza di un riscatto futuro. “Mi sta appassionando questa occupazione - sottolinea infatti Massimo, uno dei detenuti “cuochi” - e spero di utilizzare quello che sto imparando qua per trovare un lavoro quando uscirò, tra 36 mesi”. Più schivo, all’inizio, Giuseppe: “Ringrazio - sottolinea - chi ci permette, con questo impegno, di occupare il tempo. Prima, io ero poco propenso persino a uscire dalla stanza durante l’ora d’aria. La cosa più difficile dentro? La convivenza con gli altri, il capirsi, il trovarsi in sintonia con le altre persone. E poi, uscendo tra due mesi, spero per il meglio - e si commuove: idee ce ne sono tante, ma a questo punto non è questione di preferenze, quanto di trovare un lavoro che mi permetta di mantenermi. Per ora ho un debito da pagare e lo sto pagando”. Al biscottificio è occupato Maxim, ucraino, che deve scontare una lunga pena: “Speranze? Tante. Spero di uscire da qui, spero che questo percorso lavorativo mi serva anche fuori. Io sono fortunato perché sono detenuto in una sezione piccola, lavoro e siamo seguiti se serve qualcosa. Ma nelle altre aree dell’istituto vivono in 10-12 persone per ogni stanza. Sappiamo che dobbiamo pagare una pena per quello che abbiamo fatto, ma tutti dovrebbero avere la possibilità di lavorare come l’abbiamo noi. Prima di arrivare in Italia sono stato in altri Paesi e non ho mai avuto problemi con la giustizia. In carcere a Verona non ho avuto la possibilità di lavorare come qua. Faccio anche volontariato in biblioteca e studio all’alberghiero. Cerco di tenermi il più impegnato possibile e spero un giorno di arrivare anche a laurearmi. Sono convinto che una possibilità c’è per tutti, ma dipende anche da noi. In carcere sto avendo l’occasione di fare un percorso di crescita, di conoscenza: ho cominciato a capirmi fino in fondo, con l’aiuto degli altri”. E se Maxim è pieno di speranza, molto più disincantato è Salvatore, che frequenta da uditore la scuola media (il diploma lui ce l’ha già) “anche per passare il minor tempo possibile dentro la stanza: già questo illumina la persona”. Salvatore vive una situazione più pesante rispetto ad altri detenuti, ma comune alla maggior parte di loro: “In stanza attualmente siamo in 9 rinchiusi in 33 metri quadrati, compresi lo spazio bagno e lo spazio cucina. A volte siamo anche 10-11. La cosa più difficile? Passare 24 ore: per un detenuto rinchiuso per 24 ore, la stanza diventa una specie di tomba, è un ambiente che si comincia ad odiare. Si diventa un animale: un animale chiuso in una gabbia impazzisce, lo stesso accade al detenuto che ha l’aggravante di capire cosa accade. Questi corsi sono quindi fondamentali per non impazzire. Anche se so che quando sarò fuori, lo Stato mi ha messo una sbarra davanti che rimarrà per sempre. Dovrò trovarmi un lavoro, ma in ambito commerciale l’ex detenuto non può ottenere licenze e non può aprire attività: lo Stato mi aiuti a lavorare, quando uscirò, altrimenti sarò costretto a delinquere”. E poi arriviamo al laboratorio letterario, fucina di letture, scritti, pensieri, riflessioni, cineforum e “cucina” del giornale e di un cortometraggio - “Uno, due, tre, cella” - che i detenuti stanno interpretando, imparando l’importanza di fare gruppo, “senza mai dimenticare Itaca, cioè il percorso”, come ricorda loro Pippo Ruiz che, con Manuela Caramanna, coordina le attività. “Una attività - sottolinea Natale - che da un punto di vista psicologico ci aiuta tutti, consentendoci di evadere dal carcere. Fare cose che non abbiamo mai fatto ci dà un nuovo entusiasmo. La cosa più difficile dentro? La convivenza: ma credo che ognuno di noi debba acquisire la capacità di ragionare con persone di mentalità diversa, dandoci forza l’uno con l’altro”. Che è fare gruppo, concetto interpretato ora diversamente, a quanto dice Natale - alla sua terza esperienza di carcere - e che ora, ai giovani che lo additano per la sua multipla esperienza detentiva quasi ad esempio, “dico che quella che abbiamo condotto è una vita che non vale, che qui dentro c’è solo sofferenza e noia e non c’è nulla di meglio che studiare. Lo sto capendo qua. In altri penitenziari non c’era nulla da fare, qui posso parlare con gli educatori e mi sto aprendo con gli altri come non mai. Ce la sto mettendo tutta per dare un futuro a mio figlio 15enne, che non voglio che passi quello che ho passato io. Quando uscirò, dopo tutte le brutte esperienze che ho fatto, credo che sarò capace di portare il minimo indispensabile a casa, magari come ambulante. Certo, sono stato abituato diversamente, ma per la mia famiglia adesso sono pronto a rinunciare a tutto. Voglio applicare alla mia vita il detto “Pane, cipolla e libertà”“. Nella speranza che ciò accada, intanto Natale continua a lavorare con il gruppo, di cui fa parte anche il bulgaro Petko: “Partecipare al laboratorio per me non è solo passare il tempo - quando si entra in cella si entra in un altro mondo - e conoscere nuove cose con lo studio: sto crescendo come persona, come carattere. E sono sicuro che questi cambiamenti faranno effetto anche quando uscirò e tornerò dalla mia famiglia in Bulgaria, dove mi aspetta un lavoro con mio padre. Per ora studio, lavoro e cerco di cogliere tutte le cose positive da questa situazione nella quale mi trovo. La cosa più difficile? La convivenza, che per uno straniero è ancora più difficile: diversa nazionalità, diversa mentalità. Nella nostra stanza oggi siamo in sei, ma ci sono 12 letti. Poi c’è la mancanza della famiglia. Ma anche loro - che temono il peggio - quando sentono quello che facciamo qua sono più tranquilli”. Per Gaetano e Antonino, “fare parte del laboratorio letterario ci insegna a stare con gli altri, a legare tra noi, a conoscere nuove realtà”. Per il primo la cosa più difficile in carcere “è la lontananza dalla famiglia, ma anche la mancanza di libertà: non puoi andare da nessuna parte se un altro non apre la porta e te lo consente”. Antonino segue anche il corso di digitalizzazione, col quale spera di ottenere un attestato spendibile nel mondo del lavoro fuori. Tutto facile, allora? No, tutt’altro, e dalle parole di Alfio trapela “la rabbia, la solitudine” di una vita in cerca ancora di riscatto. E restano comunque inespresse le parole senza voce degli altri detenuti: quelli refrattari, che non partecipano alle attività. Ai quali non si dà voce. Ma alla fine, al di là della mancanza di libertà, del sovraffollamento, delle difficoltà di interagire, della nostalgia, dei traumi e degli errori che ognuno si porta dentro, al di là anche dei buoni propositi - oggi tanto convinti ma che forse, in alcuni casi, si sgretoleranno alla resa dei conti delle difficoltà della vita fuori - al di là dell’intervista che, a sorpresa, i “detenuti-giornalisti” mi fanno, invertendo i ruoli, l’urlo che si alza da queste mura è quello che chiede un’altra possibilità, dopo avere pagato ciascuno i propri debiti con la giustizia. E, uscita dalle alte mura, mentre l’auto corre sull’autostrada verso l’Etna ancora innevata, è il sole che con la sua luce accecante grida la gioia della libertà. Gorizia: carcere destinato alla chiusura? intanto parte ristrutturazione che costa 1,8 mln € di Francesco Fain Il Piccolo, 24 marzo 2013 È giallo sul futuro del carcere di Gorizia. Da alcuni giorni ormai starebbe circolando un documento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che introduce i “circuiti differenziati in base alla pericolosità dei detenuti”. E il destino della casa circondariale di via Barzellini sarebbe segnato: la struttura sarà chiusa. A evidenziarlo anche l’Agi, l’agenzia giornalistica che recita testualmente: “Nel Triveneto verrà chiuso il carcere di Gorizia mentre Tolmezzo sarà adibito all’alta sicurezza”. Ma tale scenario andrebbe a collidere con gli ormai prossimi, imminenti lavori di riqualificazione del carcere per i quali c’è un finanziamento di 1,8 milioni. Non si andrà mica ad intervenire su una struttura destinata alla chiusura? A sentire il direttore della casa circondariale di via Barzellini Irene Iannucci non c’è alcun pericolo. “Semplicemente, sono notizie destituite di fondamento - spiega. Quello dei circuiti penitenziari è un discorso appena abbozzato. Ciò che è certo è che stanno per iniziare i lavori che, in questo primo lotto, verranno coperti con uno stanziamento di un milione di euro. Il cantiere aprirà alla metà del mese prossimo. Non è stato ancora deciso se l’intervento si svolgerà con i detenuti al loro posto o se si dovrà trasferirli altrove”. Detenuti che oggi sono quarantacinque: “Un numero molto alto - commenta ancora Iannucci - considerate le condizioni contingenti del carcere di Gorizia. Ci sono più persone di quelle che la struttura può realmente ospitare”. Anche il Comune ha fatto la sua parte per venire a capo di questo piccolo “giallo” e ha preso immediatamente preso contatto con il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, gestore del progetto e, per l’esattezza, con il vicecapo dottor Luigi Pagano. “Questi - spiegano dal palazzo municipale - ha subito chiarito che lo studio sulla riorganizzazione della popolazione carceraria è nella fase iniziale e che l’ipotesi della chiusura del carcere di Gorizia è solo tendenziale, alla luce delle precarie condizioni strutturali “ma, ha assicurato, non è stata assunta alcuna decisione in merito”. Non solo, il dottor Pagano ha precisato che le valutazioni definitive saranno effettuate fra circa un anno, alla fine dello studio”. “Certo, non può non sconcertare il fatto che, mentre stanno per partire i lavori di ristrutturazione dell’edificio per quasi 2 milioni, avvallati dai vari livelli amministrativi del settore, si ipotizzino riorganizzazioni che non tengono conto dell’intervento - aggiunge il sindaco Ettore Romoli. In ogni caso, nei prossimi giorni chiederò un incontro con il procuratore della Repubblica che tanto si è dato da fare per ottenere la sistemazione del carcere di via Barzellini”. Anche i sindacati intervengono sul tema. Massimo Bevilacqua della funzione pubblica della Cisl cade dalle nuvole. “Chiusura? Non ne sapevo nulla. Anzi, per quelle che sono le notizie in mio possesso è imminente l’inizio dei lavori. Credo proprio che siano notizie non veritiere”. Nei giorni scorsi anche il responsabile sicurezza Fns Cisl Ivano Signor aveva detto la sua. “Avevamo appreso di una nota dell’amministrazione penitenziaria centrale che includeva anche quella goriziana nell’elenco delle strutture carcerarie da dismettere, il tutto dopo mesi in cui ci erano arrivate rassicurazioni sul fatto che i soldi stanziati sarebbero stati sicuramente disponibili e che non ci sarebbero stati problemi per le gare d’appalto). Allora ci siamo mossi subito e 20 giorni fa abbiamo avuto un incontro con il nuovo provveditore dell’amministrazione carceraria del Triveneto che ha chiarito che le risorse finanziarie sono effettivamente disponibili e che la ristrutturazione si farà”. Antonaz: struttura fatiscente, detenuti vivono in condizioni limite L’ultima visita al carcere di Gorizia fu effettuata dal consigliere regionale Roberto Antonaz che si fece accompagnare da Paolo Sergas del Forum per Gorizia. “Questa struttura va chiusa: non è umano e civile mantenerla aperta in questo modo”, disse. E c’era amarezza negli occhi del consigliere regionale: “Confesso che ogni volta che vengo in visita alla Casa Circondariale di Gorizia ne esco sconvolto: non riesco mai ad abituarmi ad una realtà difficile da spiegare, perché solo vedendo quello che c’è qui dentro si può capire. I detenuti vivono in condizioni davvero al limite: invito la stampa a richiedere il permesso di entrare nella struttura facendo apposita domanda al Ministero. Gli organi di informazione devono entrare in questi luoghi e raccontare alla gente come si vive all’interno di un carcere”. Trieste: la crisi economica colpisce anche i detenuti, più difficile trovare lavoro per l’uscita Il Piccolo, 24 marzo 2013 Il sindaco, l’assessore alle Politiche sociali e il Garante dei detenuti Rosanna Palci hanno visitato la Casa circondariale di Trieste. È stata l’occasione per conoscere il nuovo direttore del “Coroneo”, Alberto Quagliotto, titolare del penitenziario di Pordenone: da febbraio regge pure la struttura triestina (Della Branca è rientrata nella sua sede a Tolmezzo). La visita è stata supportata dal comandante della Polizia penitenziaria Antonio Marrone, dalla responsabile dell’Area educativa Anna Bonuomo e dal cappellano Silvio Alaimo. È stato tracciato un quadro a 360° delle attività svolte nell’istituto. Ogni giorno infatti quasi 100 detenuti sono impegnati in attività scolastiche (contributo dell’Istituto comprensivo Bergamas) con i docenti “pluri collaudati” Spadon, Amoruso, Monteleone e altri. Un’altra quarantina di detenuti sono impegnati in attività di formazione professionale (con l’Enaip). Sono attivati i corsi di tappezzeria, falegnameria, piccoli restauri di mobili, panetteria e pasticceria. Tra le criticità riscontrate dalla direzione e comunicate ai rappresentanti istituzionali vi è il cronico sovraffollamento, unito alla sempre più marcata utenza straniera. La crisi economica sta influenzando anche la possibilità di avvio di programmi in regime di misura alternativa per la riduzione dell’offerta di lavoro da parte del territorio. Il Garante ha ribadito il giudizio positivo sulle condizioni di vita dei detenuti. Pavia: Dap; nel carcere una sezione per “detenuti psichiatrici”, a Voghera l’Alta Sicurezza La Provincia Pavese, 24 marzo 2013 Carceri distinte non più solo in “alta” e “media” sicurezza, ma istituti che prevedano un “regime ordinario” e uno “aperto” con custodia attenuata per i meno pericolosi. Gli istituti di Pavia (con il polo psichiatrico), Monza e Vigevano (dove resta l’alta sicurezza femminile) saranno destinati alla media sicurezza, mentre il carcere di Voghera sarà adibito ad alta sicurezza con una piccola sezione a media sicurezza. Il progetto del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria “Circuiti Regionali” distinguerà le modalità di custodia a seconda della pericolosità dei detenuti, e non solo per la loro posizione giuridica per trovare soluzioni al sovraffollamento, alle drammatiche condizioni di vita dei reclusi, e alle difficoltà lavorative, in tale contesto, del personale penitenziario, con uno sguardo al trattamento rieducativo e alle misure alternative. Il capo del Dap, Giovanni Tamburino, ha spiegato che si andrà a regime il prima possibile: si partirà nella prima decade di aprile dall’istituto di Carinola, in Campania, che da carcere di alta sicurezza diventerà un istituto di media sicurezza, a custodia attenuata. “Sappiamo che non è la panacea, anche perché non riguarderà tutti i 65mila detenuti - ha detto Tamburino - ma è un passo avanti importante, che farà da prologo per ulteriori sviluppi per una maggiore efficienza”. Gli istituti aperti, ha aggiunto, “richiedono maggiore responsabilità: faremo una proposta a certi detenuti, che dovranno dare una prova di maggiore responsabilità”. Una sperimentazione è già stata avviata a Bollate, Civitavecchia, Torino e Porto Azzurro: “I risultati - ha spiegato Tamburino - sono molto interessanti e confermano che rendere meno ingabbiata la vita dei reclusi ha un effetto positivo”. Lamezia: Galati (Pdl); continuerò lavoro per scongiurare dismissione Casa circondariale Agi, 24 marzo 2013 “Il Piano per la differenziazione degli istituti penitenziari varato dal Governo non ha ancora avuto stesura definitiva. Per tale ragione ritengo opportuno continuare a lavorare, come è stato fatto in questi mesi per il caso in oggetto e come è stato fatto in precedenza per la salvaguardia del tribunale, allo scopo di scongiurare la dismissione della casa circondariale di Lamezia Terme”. È quanto afferma il deputato del Pdl, onorevole Giuseppe Galati che aggiunge: “Far valere le ragioni di un territorio significa adoperarsi per lo stesso senza lasciarsi andare a facili proclami, ma lavorando per raggiungere l’obiettivo da perseguire al solo fine tutelare gli interessi della collettività che si rappresenta”. “Sicuramente, - aggiunge l’onorevole Galati - non appena ci sarà un nuovo Governo, questo avrà il compito di proseguire il percorso tacciato dall’esecutivo Monti in riferimento al Piano carceri, ma, nello stesso tempo, dovrà aprirsi alle osservazioni che, per quanto di mia competenza, ho già fatto in precedenza e riproporrò nelle sedi opportune”. “Ci troviamo di fronte, infatti, all’atavico problema del sovraffollamento delle carceri e penso che - sottolinea l’onorevole Galati - la decisione relativa alla chiusura del carcere di Lamezia Terme, auspicata dall’uscente Governo tecnico insieme a quella di altri istituti penitenziari, tenendo in considerazione elementi importanti come il personale che in esso lavora e le esigenze di una città che oltre ad essere la terza della Calabria ed avere una posizione baricentrica nel contesto regionale è l’unica ad avere un sia pur minimo incremento demografico, vada rivista in ragione di valutazioni oggettive che penso sia doveroso riproporre e far valere in virtù della loro ragionevolezza e fondatezza”. Padova: il moldavo Serghei Vitali arrestato in Puglia, era evaso a gennaio da un permesso Ansa, 24 marzo 2013 Era evaso dal carcere di Padova circa due mesi fa e si nascondeva in una zona di campagna nei pressi di Frigole, dove è stato arrestato da agenti della Squadra mobile di Brindisi: si tratta del moldavo Serghei Vitali, di 29 anni, ricercato dal 21 gennaio scorso quando non ha fatto rientro nel penitenziario dopo un permesso premio. Sconta una condanna definitiva a 19 anni di reclusione per concorso nell’omicidio del connazionale Claudiu Puiu Bohancanu, compiuto il 9 marzo 2004 a Padova, nel quartiere Forcellini. L’attività investigativa è stata coordinata dal Servizio centrale operativo. Al momento della cattura era armato con una pistola con colpo in canna. L’evaso è stato scovato in un quadrilatero, nei pressi di Frigole, in cui vi sono fabbricati bassi, aree adibite a garage per auto in disuso, appezzamenti di terreno coltivati, tutto circondato da mura alte circa due metri. È stato accerchiato e una volta vistosi braccato ha tentato inutilmente la fuga sui tetti. A Vitali è stata sequestrata una pistola marca Tokarev. Le indagini proseguono per accertare chi nel Salento gli abbia dato copertura. Bari: se la scuola è nel carcere… di Giancarlo Visitilli La Repubblica, 24 marzo 2013 Mi ha detto lui che il Papa “laverà i piedi a quelli come me, il giovedì Santo. Io, quando l’ho sentito in tv, ho pianto, senza farmi vedere dagli altri”. Andrea l’ho conosciuto qualche mese fa, durante un laboratorio di scrittura, che si svolge fuori dalle aule in cui lui solitamente passa il tempo. “Che poi la scrittura di creativo non ha niente c’ha solo che ti fa vomitare sulla carta le cose che ti fanno crepare dentro”, mi dice. Perché lui “crepa” e sconta gli anni “che devono passare perché mi senta vecchio”. Perché di anni, Andrea e i suoi compagni, che frequentano il corso di scrittura creativa e tutta una serie di “materie della scuola”, ne hanno ancora pochi di anni, troppo pochi per rendersi conto che “si scontano quelli per i quali hai fatto una rapina”. Sono tutti quindici e sedicenni, provenienti da ogni dove. “Mi insegni le parolacce in barese?” mi chiede sempre, al mio arrivo, uno fra questi alunni. Oppure “posso chiamarti con un nome che scelgo io?”. “Tu che capisci la politica, Grillo è buono o è peggio di Berlusconi? Io comunque sono fedele a Silvio, ma non ho votato l’ultima volta”. “Posso chiamarti per nome, senza lei?”. Perché per loro i nomi sono importantissimi. “Guarda - mi invita Gianluca, indicandomi il suo avambraccio - questo è il nome di mio figlio. Solo di mio figlio, perché la madre l’ho fatta fuori”. Faccio finta di non capire, perché per molte loro storie “non ci sono i perché e non devi chiederti”, mi spiega la psicologa. Andrea, Gianluca, Riccardo, Alessio e un’altra decina di questi ragazzi intendono la scuola per quello che dovrebbe essere. “È come l’ora d’aria: puoi parlare con le persone diverse da quello con cui stai ogni giorno fiato a fiato” dice Riccardo. Oppure “la scuola, quando arriva l’ora d’imparare la mattina, penso sempre che un indomani, se Cristo mi dà l’occasione di cambiare, io, un giorno, potrò spiegare queste cose ai miei bambini”. E sognano, inventano mondi, costruiscono case, famiglie, con figli, “tanti figli”, in ville al mare, “mi va bene anche a una certa distanza dal mare”. La maggior parte di loro “avrò il cane”. I loro compiti, quelli sui fogli protocollo, non sono mai scritti sulla colonna: “Mica stiamo alla scuola qui! Io mi ricordo alla terza media che si scriveva a metà. E ce jé a strusc?”. Giustamente, Antonello mi chiede perché sprecare inutilmente la carta, “quella metà foglio che può servire?”. Infatti, ogni volta che apro i fogli per rileggerli, difficilmente correggerli, perché “io sono nato sbagliato e almeno quando scrivo e leggo, sbagliato me ne voglio andare” mi dice Andrea, sui margini dei fogli, disegni e tracce sono per lo più gli stessi: occhi di donna, occhi con lacrime, profili di donna, il nome della fidanzata come lo graffiterebbero su un murales, oppure anche cuori trafitti da spade”. Non mancano quelli che, qualsiasi traccia o percorso tu indichi, “io voglio scrivere sta cosa per la mia ragazza, mi aiuti a scriverla poetica, come sai fare tu, professore? Io che capisco di poesia?”. E invece non è così. Se si potessero recitare e imparare a memoria alcuni loro pensieri, sarebbero versi degni di quei poeti che poetavano nelle loro segrete stanze. Sebbene, le stanze di chi in pochi metri quadri vive con altri sei o addirittura otto compagni, di segreto non hanno nulla. Eppure i loro versi hanno quella riservatezza poetica, che appartiene a chi di scrittura ci vive: “Sei bella quando ti guardo e ti penso al di là del mare. Perché il mare sta sempre oltre le ringhiere”. Ma anche quelle dedicate ai padri e alle madri che “quando ti penso che prepari e quei duecento grammi li conservi per me, mi viene sempre fame di te, mamma”. Sono fiumi in piena gli studenti in queste ore di scuola, le uniche ore in cui svaghi coi pensieri” ha sostenuto Alessio, che mi dice anche che “la notte è tarda”. La notte tarda è quella in cui “penso ai mio fratello che non ha lavoro e io sto qui dentro, più grande di lui. Che esempio può avere da me, mio fratello?”. Andrea, invece, nel suo ultimo compito ha descritto “questo gesto che mi ha stupito del Papa. Un uomo che lava i piedi ai detenuti come a noi, significa che noi ancora possiamo sperare. Mi commuove assai quest’uomo. Da quando vedo ch’è uno di noi è come se penso che, se ci penso, in fondo in fondo, anche io posso diventare uno come lui. Perché lui è uguale a noi”. Napoli: il Cardinale Sepe in visita a Secondigliano… borse lavoro e pay tv per i detenuti Ansa, 24 marzo 2013 Ha annunciato l’apertura di un laboratorio artigianale di falegnameria per detenuti in affidamento, l’istituzione di alcune borse lavoro per quei reclusi che seguono un percorso di studio e formazione ma l’applauso più forte si è levato quando il cardinale Crescenzio Sepe, al termine della messa, ha annunciato che a fine maggio saranno rinnovati tutti gli abbonamenti alla pay tv per seguire le partite di calcio. L’arcivescovo di Napoli oggi ha voluto celebrare la funzione delle Palme nell’istituto penitenziario di Secondigliano che ospita 1200 detenuti. Ma nella cappella hanno potuto trovare posto poco più di 200 persone alle quali è stato distribuito un rosario: “Non dico di recitare ogni giorno cinquanta Ave Maria - ha detto scherzosamente Sepe rivolgendosi ai reclusi - ma almeno una sola per me”. Al presule un recluso ha voluto regalare un quadro che egli stesso ha dipinto. Il cardinale Sepe è stato accolto dal direttore dell’istituto Liberato Guerriero, dal provveditore regionale, Tommaso Contestabile e dal cappellano del carcere, don Raffaele Grimaldi. Sappe: serve lavoro in cella e non pay tv “Quel che serve ai detenuti in carcere è il lavoro, altro che abbonamenti pay tv”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, commentando le parole dell’arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe, ai detenuti di Napoli Secondigliano in occasione della funzione delle Palme celebrata oggi nell’istituto. Capece sottolinea come “il fatto che i detenuti non siano impiegati in attività lavorative o comunque utili alla società (come i lavori di pubblica utilità) favorisce l’ozio in carcere e l’acuirsi delle tensioni. In Campania lavora solamente 1 detenuto su 5, e per di più per poche ore al giorno. Sul tema del lavoro in carcere c’è profonda ipocrisia”. Palermo: Pasqua tra i detenuti dell’Ucciardone per l’arcivescovo, cardinale Paolo Romeo Adnkronos, 24 marzo 2013 Pasqua tra i detenuti per l’arcivescovo di Palermo. Il cardinale Paolo Romeo, infatti, celebrerà domenica alle 8.30 la messa all’Ucciardone. Alle 11, l’arcivescovo presiederà il solenne Pontificale della Pasqua di Risurrezione e alla fine impartirà a tutti i presenti la benedizione apostolica con annessa l’indulgenza plenaria. Ma i riti della Settimana Santa si apriranno con la Domenica delle Palme, quando alle 10.30 nel piano della Cattedrale di Palermo, il cardinale Paolo Romeo presiederà la benedizione delle Palme e dei ramoscelli di ulivo per continuare con la processione e il solenne Pontificale in Chiesa. Martedì Santo alle 11.30 il precetto Pasquale interforze. Giovedì Santo alle 9.30, presiederà in Cattedrale la concelebrazione eucaristica della Santa Messa Crismale, l’unica messa che può essere celebrata nella mattina del Giovedì Santo, con tutti i sacerdoti dell’Arcidiocesi, quale segno della comunione tra il vescovo e i suoi fratelli nel sacerdozio ministeriale. Durante la solenne liturgia verranno benedetti gli oli santi. Alle 18, in Cattedrale, durante la Santa Messa “Nella Cena del Signore” che ricorda quell’ultima Cena durante la quale Gesù istituì l’Eucaristia e il sacerdozio ministeriale, si svolgerà il rito della lavanda dei piedi. Alle 22 l’arcivescovo, in Cattedrale, presiederà un’ora di adorazione eucaristica presso l’Altare della Reposizione. Alle 7.30 di venerdì, invece, il cardinale Romeo celebrerà la Liturgia delle Ore animata dal Seminario Arcivescovile e con la partecipazione di quanti, sacerdoti, suore, laici, vorranno unirsi. Nel pomeriggio, alle 18, presiederà, sempre in Cattedrale, la Liturgia della Passione con la proclamazione della Passione di Gesù dal Vangelo di Giovanni, la Preghiera universale, lo scoprimento, l’ostensione e l’adorazione della Croce, quindi la Comunione eucaristica. Sabato santo alle 7.30 l’arcivescovo celebrerà in Cattedrale la Liturgia delle Ore animata dal Seminario Arcivescovile e con la partecipazione di quanti, sacerdoti, suore, laici, vorranno unirsi. Alle ore 22.30 l’arcivescovo presiederà la veglia pasquale che ricorda la notte santa in cui Cristo è risorto. Napoli: Ipm di Nisida…. se gli esercizi di grammatica diventano libertà di Roberta Maresci Il Tempo, 24 marzo 2013 Esercizi di grammatica in segno di libertà. Nove scrittori, trentasei mani e una quarantina di errori d’ortografia dei detenuti dell’Istituto Penale Minorile di Nisida (Na) riuniti in un unico volume. Con i refusi volutamente lasciati per non alterare la versione originale dei racconti scritti con fare condiviso, usando la sintassi per evadere. Per varcare le soglie della prigione. Attraverso parole e grammatica, farcite delle vite dei ragazzi che, con la loro parlata sincera e felicemente contaminata, danno vita ad un racconto che prende lingua, bocche e pensieri di tutti quei giovani con cui hanno lavorato a braccetto Viola, Luigi Romolo, Daniela, Maurizio, Alessandro, Antonio, Tjuna, Anna e Patrizia. Gli scrittori coinvolti nella stesura del libro, realizzato grazie dei diritti d’autore de “La giusta parte. Storie e testimoni dell’antimafia” (Caracò, 2 edizione 2012) non è in commercio in forma cartacea ma esclusivamente in versione e-book al prezzo di 5,99 euro in tutti gli store. Anche in questo caso, il ricavato ottenuto dai diritti d’autore sarà devoluto all’Istituto penitenziario Minorile di Nisida per la realizzazione di nuovi progetti culturali dedicati ai ragazzi. Gli stessi ragazzi che hanno affidato a un pronome personale, a un verbo, a un aggettivo, la propria commozione. Rimettendo le loro emozioni in un avverbio che, come diceva Elio Vittorini ne “Il garofano rosso”, può recuperare il segreto che si è sottratto a ogni indagine. Che importa se Pindaro ed Eschilo ignoravano cos’è una preposizione? Ce lo ha spiegato anche Alberto Savinio ne “Nuova enciclopedia” che la grammatica al tempo non era ancora nata. Croce e delizia degli studenti, secondo Daniel Pennac, quando entrano a scuola, entra una cipolla: “svariati strati di magone, paura, preoccupazione, rancore, rabbia, desideri insoddisfatti, rinunce furibonde accumulati su un substrato di passato disonorevole, di presente minaccioso, di futuro precluso”. Per loro la lezione può cominciare solo dopo che hanno posato il fardello e pelato la cipolla. Ma i pensieri sono anarchici e ribelli. Se ne infischiano delle regole. Lo sanno gli autori de “La grammatica di Nisida” (Caracò) che hanno unito due realtà indifferenti l’una all’altra. Forse perché si somigliano troppo. La grammatica non è una specie di gabbia? Che spesso si fa spesso prepotente, si afferma, insiste a chiamare rispetto di forme e funzioni, a cercare ritmi? Pisa: il regista-illustratore Gipi e la cultura in carcere, seimila volumi per ripartire di Laura Montanari La Repubblica, 24 marzo 2013 “Ero così agitato che non ho dormito”. Gipi, illustratore, disegnatore, regista, blogger. Perché agitato? “Non volevo parlare come l’artista stronzo che va in carcere a spiegare il mondo. Lì la realtà è un tir che ti viene in faccia, non puoi sbagliare le parole, così ho cominciato dicendo la verità: ragazzi ho paura”. Pisa, Istituto Don Bosco. “Eh, ma lo sai che un secondino mi ha riconosciuto?”. Bè , succede a uno famoso. “Macché famoso, si ricordava di quando mi hanno portato dentro, da innocente naturalmente. Ero un ragazzino...”. Trovato in un campo di marijuana: “Portavo a spasso il cane, avevo un cane che amava gli aromi esotici”. Diretto e ironico, ma vero e quasi nudo nel suo spogliare le parole di ogni cosa che non sia essenziale: “Ho raccontato la mia storia là dentro, quella dei miei amici che non ce l’hanno fatta, di chi è caduto e chi è rimasto in piedi. Ho chiesto anche al direttore del carcere di poter tenere dei corsi di disegno perché disegnare aiuta a passare il tempo e qualche volta anche a volare”. Gipi ha inaugurato una iniziativa che è un incontro e un laboratorio che comincia con una donazione: seimila libri che quattro associazioni (Antigone, Gli asini, la Tavola Valdese e la Fondazione Charlemagne) raccoglieranno per distribuire nelle biblioteche dei diciotto istituti della Toscana. Non sono libri scelti a caso, ma raccolti secondo le indicazioni dei bisogni che emergono da una indagine del provveditorato dell’amministrazione penitenziaria toscana. Libri in regalo per chi è ostaggio di una pena, di un errore, di un pentimento o per chi è soltanto in attesa di giudizio. Perché un libro è un ponte, fra chi sta fuori e chi sta dentro il carcere. Il passo che manca, il trattino che lega due mondi separati da svariati muri, chiavistelli, sbarre, corridoi e telecamere. Certo un libro non fa dimenticare le celle affollate, l’umidità, i bagni che non funzionano, le luci provvisorie, i materassi vecchie pieni di transiti e di tracce. Ma può essere un’ora d’aria, un po’di ricreazione da sfogliare. Oppure formazione, studio, voglia di cambiarsi d’abito quando si esce: “Il provveditorato con cui lavoriamo in stretta collaborazione spiega Susanna Marietti dell’associazione Antigone che da vent’anni si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale e che ha anche un osservatorio permanente - ci ha segnalato alcuni bisogni”. Per esempio i vocabolari, perché negli istituti della Toscana un detenuto su due è straniero, una media ben superiore a quella nazionale (35 per cento). Così arriveranno dizionari in lingua araba, in albanese, romeno, inglese, spagnolo, cinese. Arriveranno entro l’estate anche libri per chi studia nei tre poli universitari: Sollicciano (in collaborazione con l’ateneo di Firenze), San Gimignano (Siena) e la casa circondariale di Pisa (con l’ateneo di quella città) o per quelli che inseguono un esame di Stato. “Servono testi aggiornati del codice civile e penale per chi sta studiando Giurisprudenza - spiega Giuliano Battiston della casa editrice Gli Asini, fra gli artefici della iniziativa - e testi aggiornati di sociologia”. Per esempio di Zygmunt Bauman sulla società liquida o “Le vite che non possiamo permetterci” o molti altri. E poi: dal testo unico della legge sull’immigrazione, ai volumi sulla storia delle relazioni internazionali, a copie (sempre richieste) del Corano. Non mancherà la letteratura italiana e straniera e la poesia per andare a ringiovanire un po’ le fila delle biblioteche delle carceri: “Negli istituti della Toscana ci sono circa 60mila volumi riprende Susanna Marietti che era presente ieri nel carcere Don Bosco di Pisa assieme al provveditore all’amministrazione carceraria toscana Carmelo Cantone - noi potenzieremo queste biblioteche e abbiamo l’obiettivo di arrivare al 10 per cento anche con l’aiuto e le donazioni delle varie case editrici”. “Partiamo da qui, vogliamo trasformare la Toscana in un laboratorio, in un modello esportabile - spiega Giuliano Battiston della casa editrice Gli Asini. Entro l’estate arriveranno a destinazione i volumi distribuiti in base anche a una indispensabile mappatura dei bisogni che ci ha mandato il provveditorato”. Il progetto va sotto il titolo “Libri in carcere: la lettura che libera” ed è promosso dalle quattro associazioni (Gli Asini e Antigone e sostenuto dalla Tavola Valdese e dalla Fondazione Charlemagne) e gode dell’appoggio di diverse case editrici. Mira a promuovere la lettura e la scrittura nelle carceri. Lo farà anche attraverso incontri: Gipi è stato il debutto a Pisa, poi Gad Lerner nel carcere lombardo di Bollate, Stefano Benni e Carlo Verdone a Rebibbia nuova e altri. Ma se questo progetto è una luce, non va dimenticato il buio che sta intorno: nei diciotto carceri della Toscana ci sono 3.261 posti letto regolamentari, ma al 28 febbraio i detenuti presenti erano 4.155. Oltre 1.500 persone rinchiuse devono scontare meno di tre anni, 40 più di venti, 134 hanno l’ergastolo. Mille hanno meno di trent’anni di età, 31 sono ultrasettantenni. Dentro questi numeri c’è il senso di un’emergenza quotidiana che è anche di strutture, di fondi, di personale di custodia. E di sensibilità per noi che stiamo fuori e spesso non sentiamo l’urgenza di questi bisogni che gridano. Trani: il romanzo “Orlandiade”, di Pino Picca, fa tappa nel carcere femminile www.coratolive.it, 24 marzo 2013 “È stata un’esperienza altamente formativa, una presentazione che non dimenticherò per tutta la vita”, ha commentato Pino Picca al termine dell’incontro. Dopo la presentazione in città, nei giorni scorsi il romanzo “Orlandiade” di Pino Picca ha fatto tappa nel carcere femminile di Trani. Oltre che dall’autore, il libro - che racconta la storia di Orlando, un ragazzo che conosce presto il dolore per la morte del padre a cui non è mai riuscito a dire “ti voglio bene”, trasformandosi in un giovane con la sindrome di Peter Pan e nascondendo il rimorso per non aver mai esternato i suoi sentimenti - è stato presentato dalla giornalista Annalisa Tatarella alla presenza di Gianni Ippolito, attore comico pugliese. “È stata un’esperienza altamente formativa, una presentazione che non dimenticherò per tutta la vita”, ha commentato Pino Picca al termine dell’incontro. “Che dire, quando degli amici si stringono e fanno squadra attorno ad un progetto, che pian piano, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, da sogno, quale pensi debba restare per sempre, improvvisamente diventa tangibile realtà. La mia più grande riconoscenza va agli artisti, tutti professionisti, quelli con la “A” maiuscola che si sono offerti per far vivere il mio romanzo: la generosa ed eclettica attrice, regista e docente di canto Marilia Papaleo, la bravissima e dolcissima Giuliana Fabiano e la straordinaria attrice professionista e volto noto cinematografico Claudia Lerro. Che cosa aggiungere alla serata del mio onomastico? Che ho festeggiato nel migliore dei modi ricordando il mio papà, a cui ho dedicato “Orlandiade” Il tocco di classe di un uomo di spettacolo e incontenibile matador dell’evento e insieme uomo buono e genuino come Gianni Ippolito. Lui ha arricchito un incontro che fra il serio e il faceto ha toccato le corde del nostro animo con aneddoti a volte dolorosi di vita e comicità insieme. Un cocktail abilmente miscelato dalla chitarra di Luigi Sforza Picca, che ha saputo dosare armonie e ritmi rock con dolci melodie e con una ciliegina sulla torta della Papaleo che ci ha deliziati con improvvisazioni canore da pelle d’oca. Le ospiti della casa circondariale erano letteralmente rapite da tale situazione, a detta della Direttrice Piarulli, mai così coinvolgente, in un ambiente, che presto è divenuto quasi familiare. Il giovane illustratore Oscar Mario Oscar Gabriele, mia scoperta e sono fiero di dirlo, ha regalato con le sue qualità artistiche quel fine tocco di classe che solo un genio può dare. Ma consentitemi di ringraziare la fantastica giornalista Annalisa Tatarella, la Tata, come le piace essere chiamata, che pur indossando un cognome così impegnativo, ha come in altre occasioni mostrato, la parte migliore di sé: l’umiltà, la semplicità e la complicità che non è dei classici cronisti freddi e distaccati chiamati a svolgere il proprio compito, come un dovere, ma con il sorriso e il piacere di vivere questa esperienza con gli occhi innocenti e curiosi di un bambino. E una frecciatina velenosa, vorrei lanciare al mondo dell’arte, anzi degli artisti, quelli che abitualmente affollano i rotocalchi, i vip. I nomi blasonati non sono quasi mai in trincea, nelle periferie, nelle parrocchie, nei centri sociali, nelle carceri. Quelli che fanno e danno qualcosa per il sociale sono sempre volti sconosciuti o alle prime armi, ma con la voglia di donare se stessi, condividere un attimo di felicità, strappare un sorriso, come in questo caso, all’altra metà del mondo: quella che vive nella sofferenza per la privazione della libertà. Questa è autentica vocazione e propensione verso gli altri, che non guasterebbe al popolo dei famosi, come anche ai politici. Concludo con una comunicazione personale a Francesco Picca, vorrei dedicare un semplice e mai banale, anche se un po’ tardivo T.V.B.” Firenze: Bach entra a Sollicciano? ma qui piove nei corridoi… di Beatrice Taccini La Repubblica, 24 marzo 2013 “L’Arte della fuga”: è questa l’opera che risuonerà nella basilica di Santa Croce domani giorno della Domenica delle palme, alle 21. L’ultima composizione di Johann Sebastian Bach, nella nuova versione diretta da Mario Ruffini, già ideatore del World Bach-Fest, che lo scorso anno portò a Firenze grandi nomi della musica classica internazionale. L’evento sarà ad ingresso libero fino ad esaurimento posti e in diretta streaming su intoscana.it. Per l’occasione suonerà l’Orchestra da camera Jsb Collegium Musicum Italiae, composta da 14 archi, accompagnata dal coro Ensemble San Felice. A fare da congiunzione tra la musica e l’elemento corale sarà l’esibizione di Domenico Pierini, primo violino del Maggio Musicale Fiorentino. Ruffini tiene a precisare quanto questo evento voglia discostarsi dall’idea tradizionale di concerto: il direttore non indosserà il frac, non saranno previsti applausi alla fine dell’esecuzione musicale, l’intento sarà quello di poter guardare oltre il tradizionale punto di vista estetico musicale per giungere al messaggio spirituale che l’opera vuole di trasmettere, come ha sottolineato il cardinale Giuseppe Betori. Per concretizzare questo obiettivo il capolavoro di Bach è stato inserito per la prima volta anche dentro gli istituti di pena: il giorno dopo, lunedì, verrà infatti riproposta ai detenuti del carcere di Sollicciano, dove intanto il problema del sovraffollamento è sempre più grave. Lo ha detto sempre ieri il direttore del penitenziario, Oreste Cacurri: “I detenuti presenti nel carcere sono, a stamani, 988, più del doppio della capienza regolamentare, le condizioni delle strutture precarie, piove nei corridoi e non possiamo fare riparazioni per mancanza di fondi”. Nonostante l’emergenza, quella di Sollicciano sarà la prima tappa di un progetto che porterà la musica anche in altre carceri italiane. Il titolo dell’opera d’altronde, rimanda senza esitazioni al desiderio di ogni prigioniero, al primario istinto di libertà che si agita nella detenzione, ma che propone come soluzione un diverso tipo fuga: quella spirituale, alla quale si può giungere attraverso l’esposizione alla bellezza e all’arte. Fu lo stesso Bach a trovare nella sua “Prigionia” uno stimolo culturale durante i venticinque anni trascorsi a Lipsia, lontano dai grandi flussi della vita mondana che gli permisero di entrare in contatto con un isolamento spirituale, che si rivelò basilare per la produzione della sua ultima opera. Televisione: domani a “I fatti vostri” (Rai 2) storia di 2 italiani detenuti in India per 3 anni Ansa, 24 marzo 2013 La storia di due amici, arrestati e detenuti in India per circa tre anni, sarà al centro della puntata de “I fatti vostri” in onda lunedì alle 11.00, su Rai 2. Giancarlo Magalli ospita Angelo Falcone, giovane di Rotondella arrestato nel 2007 in India, per presunto possesso di droga, insieme all’amico piacentino Simone Nobili, condannato a 10 anni di reclusione e poi assolto, insieme a Nobili, nel dicembre 2009. Nel periodo di detenzione il padre di Angelo Falcone, anche attraverso un blog, ha ingaggiato una strenua battaglia per la difesa dei diritti del figlio e anche degli altri carcerati italiani all’estero. Nel corso del programma si torna a parlare anche dei problemi che vivono i padri separati. La trasmissione ospita la testimonianza di Sergio Lombardo, che ha avuto difficoltà a vedere la figlia. Gli accordi della separazione prevedevano incontri programmati e visite concordate. Lombardo è stato costretto a ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo sostenendo il rifiuto della ex moglie. Televisione: “Jail”, reality show che si svolgerà all’interno di un vero carcere… all’estero di Alessandra Magliaro Ansa, 24 marzo 2013 Vip: dalla bella vita alla galera. L’idea è precedente alla condanna di Fabrizio Corona, ma certo quello sembra un esempio tra i tanti possibili per parlare di “Jail, in attesa di giudizio”, il primo reality show che si svolge all’interno di un vero carcere. L’idea è di due autori tv, Nando Moscariello e Fabrizio Ormanni che con la società “Vivi la vita” hanno realizzato una puntata pilota del format atteso al Mip-formats di Cannes ad aprile nell’ambito del mercato internazionale della tv. Venti sono i concorrenti, 10 i vip da reclutare per partecipare all’esperimento mediatico: trascorrere 60 giorni dietro le sbarre condividendo giorno e notte con altrettante persone ai margini della società. In palio 200 mila euro. Obiettivo degli ideatori è “far convivere due mondi opposti in un contesto ostile come quello del carcere. Da un lato l’universo patinato dei personaggi famosi, persone sotto la luce dei riflettori e dall’altro quello degli emarginati. Il carcere diventerà così, per tutti, un’occasione per imparare a non essere più prigionieri di se stessi”. Il programma presenterà novità nel meccanismo di gioco: non ci saranno eliminazioni e ogni settimana ci sarà un migliore e un peggiore. I concorrenti saranno osservati e spiati 24 ore su 24 da un’entità invisibile rappresentata dal Direttore. Il reality metterà i concorrenti a dura prova e darà l’opportunità di trarre insegnamenti dalla vita del carcere attraverso ruoli impartiti e attività di laboratorio assegnate. I concorrenti impareranno mestieri come il sarto e il cuoco. Anche la vittoria finale sarà caratterizzata da un meccanismo originale e significativo dal punto di vista simbolico. Il premio finale sarà assegnato non a uno, ma a due vincitori: uno tra i vip e uno tra gli emarginati. Attenzione però: il personaggio famoso potrà fare tesoro soltanto dell’esperienza vissuta e devolverà la somma vinta ad una struttura carceraria. L’emarginato invece guadagnerà, oltre ad una nuova vita, il montepremi in palio. Il format sarà mostrato ai compratori internazionali. E in Italia? “Per ora puntiamo all’estero dove i reality estremi sono una realtà televisiva consolidata, ma certo non ci precludiamo la nostra tv”, spiegano gli autori. Francia: morte Franceschi; Corte d’appello di Aix en Provence dispone nuove indagini Ansa, 24 marzo 2013 La Corte di appello di Aix en Provence ha disposto nuove indagini sulla morte di Daniele Franceschi avvenuta nel carcere francese di Grasse il 25 agosto 2010 quando il viareggino aveva 36 anni. Lo ha appreso uno dei legali italiani, Aldo Lasagna, dai colleghi francesi che seguono il caso da tempo. La procura di Grasse lo scorso mese di febbraio aveva chiesto il prolungamento delle indagini perché, ad avviso dei magistrati, non è da escludere che possano essere ipotizzate responsabilità da parte dei vertici dell’ospedale civile di Grasse per non aver ravvisato la necessità di un ricovero per il giovane, sottovalutando così la condizione fisica di Daniele Franceschi. Tra gli indagati figurano un medico e due infermieri del carcere di Grasse. La mamma di Daniele Franceschi, Cira Antignano, intende recarsi nuovamente in Francia per protestare per la morte del figlio. Brasile: la madre di Tosoni “in quella prigione disumana la vita di mio figlio è a rischio…” Brescia Oggi, 24 marzo 2013 L’ex assicuratore 29enne è accusato di duplice omicidio. Trovare un avvocato difensore è stata un’odissea. Parla la mamma di Max Tosoni detenuto in un carcere brasiliano “Ho compreso la sua innocenza dallo sguardo più che dalle parole” Lo sguardo di un figlio può ingannare tutti ma non una madre. Quando Michelina ha guardato fisso negli occhi Massimiliano sapeva già la risposta alla domanda che le stava uscendo dalle labbra, dopo averle tormentato il cuore per due mesi. “No, mamma - le ha sussurrato, non ho ucciso io quelle persone”. E per Michelina è stato come se entrasse un filo di luce in un tunnel e come se quell’inquietante parlatorio di un carcere che non esita a definire “lager” diventasse per un attimo più umano. Il doppio incontro con Massimiliano, insieme al primo “abbraccio” al nipotino Davi, è il ricordo più confortante che Michelina Tosoni porta dal Brasile. Un viaggio della speranza compiuto per cercare, con la forza della disperazione di una madre, di riannodare i fili di una vicenda che vede suo figlio stritolato nella spirale di verità contrastanti, in bilico fra il ruolo di carnefice e quello di capro espiatorio. Dal 18 febbraio Massimiliano Tosoni, ex assicuratore 29enne di Montichiari, è detenuto nel carcere di Itaitinga perché ritenuto la mente e l’esecutore degli omicidi di Andrea Macchelli, imprenditore emiliano di 48 anni, e di Hedley Lincoln Dos Santos, funzionario di un istituto di cambio brasiliano di 25 anni. Il 31 gennaio le vittime sono state immobilizzate, derubate e infine sgozzate nel residence di Fortaleza occupato da Tosoni, che dopo una fuga di 18 giorni si è costituito. A puntare il dito contro l’ex assicuratore di Montichiari sono due adolescenti arrestati poco dopo la rapina sfociata in un bagno di sangue. Ma il 29enne si professa innocente, affermando di essere stato usato come esca dalla baby gang per attirare in trappola Macchelli. “Dopo quindici giorni trascorsi in Brasile mi sono resa conto che in quel Paese può capitare tutto e il contrario di tutto - racconta Michelina Tosoni -: questo fa aumentare la mia angoscia sulla sorte di “Massi” prima ancora che sull’esito della vicenda giudiziaria”. Le condizioni di detenzione sono dure. “È dimagrito di venti chili, e anche se davanti a me ha ostentato serenità, è chiaramente provato anche dal punto di vista psicologico. Non potrebbe essere altrimenti, visto che deve condividere una cella di pochi metri quadri con altri otto detenuti. Ci sono solo sette giacigli simili a loculi e in due persone dormono su materassi appoggiati sul pavimento. Turca e doccia sono praticamente nello stesso vano, con tutti i problemi di igiene connessi”. Ma non sarebbe tutto. “C’è un detenuto con una profonda ferita all’addome, che non è neppure chiaro come se la sia procurata, e non viene curato adeguatamente - racconta Michelina. L’alimentazione è povera e nei giorni di festa lasciata al buon cuore dei parenti dei detenuti. Ho buone ragioni insomma per temere per l’incolumità di mio figlio”. Itaitinga è sulla carta un carcere di massima sicurezza ma, rimarca con ansia Michelina Tosoni, “proprio mentre ero in Brasile è scoppiata una sommossa innescata pare da un regolamento di conti fra detenuti. Qualcuno ha dato alle fiamme dei materassi e nel rogo sono morte dieci persone e altrettante sono rimaste gravemente ustionate. Non so in queste condizioni fino a quando Massimiliano potrà resistere”. Tanto più che garantirgli una difesa dignitosa è stata un’odissea e il sostegno delle autorità consolari in Brasile “ridotto al minimo indispensabile. Il consiglio di fuggire del primo avvocato ha peggiorato la posizione giudiziaria di mio figlio. Così abbiamo contattato altri legali che avanzavano richieste economiche spropositate per chiunque, figuriamoci per una famiglia come la nostra che non dispone di grandi risorse - spiega Michelina Tosoni. Alla fine ci siamo rivolti al legale che aveva assistito Massimiliano nel 2009, in occasione della prima disavventura giudiziaria in Brasile”. All’epoca l’accusa era di truffa per l’ex assicuratore fuggito dai domiciliari tre anni fa mentre scontava una pena per una serie di rapine compiute nel bresciano. In Brasile Tosoni si è rifatto una vita con una compagna brasiliana che lo ha reso padre. “Anche stavolta Massimiliano può aver commesso qualche errore, ma non è stato lui ad uccidere”. Afghanistan: accordo tra Washington e Kabul su prigione Bagram e supercarcere Parwan Tm News, 24 marzo 2013 Washington e Kabul sono giunte a un accordo per il trasferimento alle autorità afgane del controllo totale della prigione di Bagram. Lo ha reso noto il Pentagono al termine di un colloquio tra il segretario americano alla Difesa, Chuck Hagel, e il presidente afgano, Hamid Karzai. Previsto inizialmente per il 9 marzo, il trasferimento completo della prigione di Bagram sotto l’autorità afgana è stato rinviato all’ultimo momento dopo le dichiarazioni di Hamid Karzai secondo le quali vi erano degli “innocenti” tra i prigionieri sotto controllo americano e che questi sarebbero stati rilasciati una volta che Kabul avesse ripreso il controllo della prigione. Nel comunicato del Pentagono si precisa che “il presidente Karzai si è impegnato affinché il trasferimento di autorità venga effettuato in modo da assicurare la sicurezza della popolazione afgana e delle forze di coalizione e mantenendo in carcere gli individui pericolosi”. Washington ha rinviato a lungo questo passaggio proprio per il timore che i detenuti rilasciati non rientrassero nei ranghi degli insorti. Passa a Kabul supercarcere Parwan Le autorità di Stati Uniti e Afghanistan hanno raggiunto un accordo per il passaggio del penitenziario di massima sicurezza di Parwan, situato nell’omonima provincia centro-orientale afghana, sotto il controllo del governo di Kabul: lo ha annunciato il Pentagono, secondo cui del passaggio delle consegne, che avverrà dopodomani, hanno discusso direttamente per telefono il neo-ministro della Difesa americano, Chuck Hagel, e il presidente afghano, Hamid Karzai. Hagel ha elogiato l’impegno di Karzai a “garantire la sicurezza del popolo dell’Afghanistan e delle forze della coalizione, mantenendo reclusi individui pericolosi”. Stati Uniti: Dipartimento Immigrazione; isolamento eccessivo per detenuti stranieri Adnkronos, 24 marzo 2013 Ogni giorno negli Stati Uniti circa 300 immigrati sono tenuti in isolamento in 50 strutture detentive. Circa la metà di loro sono tenuti in isolamento per 15 o più giorni, rischiando gravi traumi mentali secondo quanto sostengono gli esperti di psichiatria. Circa 35 detenuti sono invece tenuti in isolamento per oltre 75 giorni. E' quanto rivelano i dati dello US Immigration and Customs Enforcement, l'agenzia del Dipartimento della Sicurezza Interna degli Stati Uniti responsabile per l'immigrazione. Come scrive il New York Times, i dati non indicano i motivi che spingono le autorità a decidere l'isolamento per questi detenuti, ma secondo un consulente che ha assistito l'agenzia per l'immigrazione nel mettere a punto i dati, per circa due terzi si tratta motivi dovuti a infrazioni di carattere disciplinare, a discussioni con le guardie o a risse. Gli immigrati vengono anche regolarmente messi in isolamento perché ritenuti una minaccia per gli altri detenuti o per il personale carcerario o a scopo protettivo, nei casi in cui l'immigrato sia omosessuale o affetto da problemi mentali. Il Nyt rileva che gli Stati Uniti sono oggetto di aspre critiche sia interne che all'estero per il ricorso all'isolamento carcerario con una frequenza superiore a quella di qualsiasi altro Paese democratico. Sebbene l'agenzia per l'immigrazione ponga in isolamento solamente l'1 per cento del totale degli immigrati detenuti, la pratica, scrive il quotidiano, è comunque inquietante poiché si tratta di individui accusati di reati civili e non penali e la loro detenzione e' decisa solamente per assicurare la loro presenza nelle udienze amministrative a loro carico. Stati Uniti: innocente, esce da carcere dopo 23 anni, ha infarto al secondo giorno di libertà Tm News, 24 marzo 2013 David Ranta ha rischiato di morire per troppa libertà. Il 58enne americano era stato scarcerato tre giorni fa dopo aver trascorso 23 anni in prigione, per un omicidio che non aveva commesso. Nel suo secondo giorno da uomo libero è sstato colpito da infarto e ricoverato immediatamente in un ospedale di New York, dove i dottori gli hanno riscontrato un’occlusione quasi totale di un’arteria e gli hanno applicato uno stent. Ranta era alloggiato in un albergo della città assieme alla sua famiglia, proprio per dargli tempo di abituarsi alla nuova situazione, dopo un quarto di secolo vissuto all’interno delle mura di un carcere. Poche ore prima di sentirsi male, Ranta aveva confessato in un’intervista televisiva :”Sono sopraffatto. Adesso, mi sento come se stessi nuotando sott’acqua”. La notte di venerdì Ranta ha accusato dolori alle spalle e alla schiena, poi ha sentito molto caldo, ha riferito il suo avvocato, Pierre Sussman, citato dal New York Times. David Ranta aveva 25 anni quando venne condannato a 37 anni di carcere per l’omicidio di un rabbino, avvenuto l’anno precedente. Ha sempre proclamato la sua innocenza, che gli è stata riconosciuta solo grazie a nuove prove a suo favore, che non erano state esaminate al momento del processo.