Giustizia: a Monza celle sovraffollate e inumane, chiesto il rinvio della detenzione di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 22 marzo 2013 Sono giudici di sorveglianza, e dovrebbero far eseguire nel carcere di Monza la condanna a 15 anni di un pericoloso condannato per associazione mafiosa e sequestro di persona. Ma proprio perché sono giudici, sanno che in quel posto, uno dei 47.000 nei quali sono invece stipati 66.000 detenuti, gli farebbero scontare la pena “con modalità disumane equiparabili a tortura”. Per questo ora anche il più importante Tribunale di sorveglianza italiano, quello di Milano, sulla scia dell’ordinanza-pilota un mese fa di Venezia su un detenuto a Padova, chiede l’intervento della Corte costituzionale. E alla Consulta domanda una pronuncia “additiva” per valutare se, al caso tassativo di “grave infermità fisica” che oggi lascia facoltà al giudice di rinviare l’esecuzione della pena di un detenuto, non sia ormai il momento di aggiungere anche il caso in cui, l’esecuzione della pena si traduca “in trattamenti inumani o degradanti” secondo la misura tarata dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo (almeno 3 metri quadrati a testa) nelle sentenze Sulejmanovic e Torreggiani che nel 2009 e a gennaio 2013 hanno già condannato l’Italia. Nella vicenda di un detenuto siciliano, è stata la giudice milanese Maria Laura Fadda - come racconta l’avvocato Alessandro Maneffa - a voler verificare di persona le condizioni di detenzione con un sopralluogo nella cella dove in teorici 9 metri quadrati tre persone non possono scendere dal letto contemporaneamente perché nello spazio vanno contati anche il letto a castello a due piani, una branda pieghevole per il terzo detenuto, due cassette da 40 e da 70 centimetri come dispensa, tre sgabelli. Vestiti e scarpe per forza sotto il letto. Non sapendo dove appoggiare sapone e spazzolino da denti, i detenuti incollano al muro i pacchetti di sigarette a mo’ di mensoline. Tra letto e water c’è una porta ma non c’è aereazione, manca l’acqua calda, le muffe aggrediscono i muri. Non è “grave infermità fisica”, unica chance di differimento della pena ammessa dall’articolo 147 del codice. Però è tortura secondo gli standard di Strasburgo. E qui nasce il dilemma del Tribunale milanese presieduto da Pasquale Nobile de Santis: se è vero che la pena resta legale anche se non viene raggiunta la rieducazione verso la quale deve obbligatoriamente tendere in base alla Costituzione, è vero anche che la pena è legale soltanto se non consiste in trattamento contrario al senso di umanità. La pena inumana è non-pena, e andrebbe dunque sospesa e differita a quando le sue condizioni tornino praticabili. Ecco perciò la questione che il Tribunale milanese (presidente Fadda, a latere Cossia, esperti Pastorino e Mate) sottopone alla Corte costituzionale lasciando balenare una sorta di “numero chiuso”: una soluzione come nei Paesi del Nord Europa dove si evita la detenzione fino a quando si crea un posto libero, o come negli Stati Uniti dove il 23 maggio 2011 la Corte suprema ha riconosciuto la correttezza della Corte federale che aveva ordinato al governatore di rilasciare 46.000 detenuti per far scendere a un pur sempre elevato 137% il tasso di occupazione delle carceri. Come già i colleghi di Venezia, anche quelli di Milano esprimono tutta la frustrazione di giudici che, quand’anche accertino la violazione di un diritto del detenuto da parte dell’amministrazione penitenziaria e ne ordinino la rimozione, non hanno tuttavia alcun potere di superarne l’inerzia: “È dal 1999 che la Consulta invita il Parlamento a prevedere forme di tutela giurisdizionale”, ma questo richiamo “è rimasto inascoltato”. E anche per questo Strasburgo ha appena dato un anno di tempo all’Italia per dotarsi di un sistema di efficaci rimedi preventivi “interni”, che non si limitino solo a risarcimenti ex-post del danno. Giustizia: intervista a Staderini (Radicali); il Papa? un alleato nella battaglia per le carceri di Daniel Rustici Gli Altri, 22 marzo 2013 Non solo Nanni Moretti. In tempi di profezie miracolosamente avveratesi, anche il segretario dei Radicali Mario Staderini può vantare di avere, se non proprio previsto, almeno ipotizzato la scelta del nome di Papa Bergoglio. Proprio su gli Altri qualche settimana fa il leader radicale lanciava il nome di Francesco come possibile avvio di una rivoluzione all’interno della Curia Romana. La storia gli ha dato ragione, oggi sul soglio pontificio siede proprio Francesco e Staderini vede in lui addirittura un potenziale alleato dei Radicali. Se l’aspettava che il suo auspicio di un Papa di nome Francesco si sarebbe realizzato? No, sinceramente non mi aspettavo che qualcuno avesse il coraggio di prendere una scelta così epocale, ma era un auspicio scritto nei tempi perché la Chiesa aveva davvero bisogno di una svolta. Prendere quel nome ha un significato molto forte: Francesco, dopo Gesù, è la figura cristiana più amata ed è in un certo senso l’antagonista della Chiesa. Così tanto antagonista che qualcuno non credeva che Bergoglio volesse rifarsi davvero a Francesco Saverio e non a Francesco D’Assisi; questo dimostra quanto sia incredibile il discorso sulla povertà, sulla liberazione dal potere temporale che ha corrotto la Chiesa. S. Francesco faceva parte di un filone, quello dei monaci, parallelo a quello istituzionale. I francescani vivono secondo il Vangelo, gli esponenti curiali vivono secondo la Chiesa. Francesco però non metteva in contraddizione queste due scelte e la sfida ideologica del Francesco del terzo millennio è proprio quella di far convivere queste due forme di vita. Non c’è il rischio che il tutto si esaurisca in un’operazione di marketing? L’operazione di marketing c’è e non è necessariamente negativa anche se agli esempi di estrema sobrietà che Francesco sta dando sarebbe importante affiancare una vera e propria riforma strutturale della Chiesa. Come mai da un radicale l’elogio della povertà e della sobrietà? Sembrano discorsi un pò cattocomunismi. Io vengo da una formazione francescana, sono anticlericale per religiosità. La liberazione della Chiesa dalla ricchezza potrebbe servire per creare fondi che garantiscono a tutti gli esseri umani il diritto a vivere senza miseria. Non sono discorsi da cattocomunista, anche Ernesto Rossi - padre nobile dei Radicali e liberista - proponeva cose simili. E poi un conto è la povertà come scelta, un altro la povertà come imposizione. Immagina Bergoglio come promotore di una sorta di capitalismo compassionevole che faccia da contro altare all’avanzata dei socialismi nell’America latina? Non credo che l’elemento squisitamente politico avrà un ruolo centrale in questo pontificato; penso che sarà l’esempio, la cifra politica di Francesco. Bergoglio non mi sembra che abbia una visione geo - politica chiara da perseguire come quella di Wojtyla, penso che il suo modo di fare politica sarà più culturale, legato alla scelta di povertà che sta intraprendo per sé e per la Chiesa. Ma come Giovanni Paolo II molto probabilmente sarà un conservatore sui temi etici anche se... Anche se? Se effettivamente ci sarà la svolta radicale della rinuncia al potere temporale questo lascerà mani più libere ai legislatori italiani di portare avanti disegni di legge progressisti sui temi etici. Il problema non è la dottrina della Chiesa, ma il fatto che la Chiesa eserciti il suo potere per mantenere leggi illiberali. Il problema sono i parlamentari clericali (senza magari essere religiosi) che passivamente queste influenze. In questo senso Papa Francesco, liberandosi del potere mondano, può aiutarci nella battaglia per la laicità dello Stato. Inoltre penso anche su temi come la vergognosa situazione delle carceri potremmo trovare una mano tesa dalle parti del Vaticano. Sembra avere completamente dismesso i panni dell’anticlericale. C’è anticlericalismo e anticlericalismo: il mio non è anticlericalismo antireligioso ma proprio per religiosità. Questo papa potrebbe diventare addirittura un prezioso alleato per i Radicali se darà davvero seguito a quello che comporta la scelta del nome Francesco. Noi su temi come quello dell’8x1000 torneremo alla carica, anche con un referendum se necessario. Se da una parte la religione si sveste dell’abito politico, dall’altra la politica potrebbe ammantarsi di suggestioni religiose non risolvendo comunque il nodo della laicità dello Stato. Casaleggio, ad esempio, parla di Grillo come di un nuovo Gesù. È un rischio che esiste, tutto dipende se si vive la religiosità in politica come afflato, ispirazione anche non strettamente legata ad una confessione in particolare oppure se si considera se stessi e la propria formazione alla stregua di una religione. In quest’ultimo caso sì, il problema della laicità rimane irrisolto. Una eventuale nomina a Presidente della Repubblica di Emma Bonino potrebbe essere l’equivalente laico dell’elezione di Francesco? Emma sarebbe la candidata naturale in particolare per restituire valore della Costituzione, tradita da sessanta anni di regime partitocratico. Ma temo non ci siano speranze, salvo che in soccorso dei residuati partitocratici giunga in soccorso uno spirito santo laico. Giustizia: Severino; tema carceri segni legislatura ed al Senato 2 ddl per amnistia e indulto Adnkronos, 22 marzo 2013 “Un gesto estremamente significativo”: così il ministro della Giustizia Paola Severino definisce la decisione di Papa Francesco di visitare giovedì prossimo la struttura penitenziaria di Casal del Marmo, il carcere minorile di Roma. Un tema, quello della condizione dei reclusi, che segnò con un discorso in Parlamento il pontificato di Giovanni Paolo II e che, auspica il guardasigilli, “potrebbe essere senz’altro ricorrente anche in questa legislatura”. Sottolinea Severino: “Ovviamente, io lo auspico e ne ho già parlato con i due presidenti neoeletti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Piero Grasso, compiacendomi con entrambi del fatto che nei loro discorsi inaugurali ci fosse un riferimento esplicito al tema delle carceri, come tema che deve ancora essere risolto e affrontato con la massima urgenza. Per me - aggiunge Severino - è una gioia immensa avere la conferma di questo incontro con Papa Francesco, perché dimostra che l’attenzione al tema delle carceri raggiunge tutti e in primo luogo, non ne dubitavo, un Papa come Bergoglio che nella sua semplicità e nel suo amore per i poveri e per i più deboli ha voluto compiere un gesto estremamente significativo”. Per il ministro della Giustizia, infatti, “iniziare il suo pontificato con uno dei gesti più simbolici e più belli, ovvero dare spazio ad umili e poveri carcerati specie in un carcere minorile dove veramente si raccoglie tutto il dolore e anche la capacità della società di rifiutare alcune categorie di persone, è davvero un segnale straordinario della messa in pratica di quei principi che abbiamo sentito enunciare da Papa Francesco nella messa di inaugurazione del pontificato: il custodire deve essere sempre accompagnato da un atto di bontà e di tenerezza; in questo caso, non può tradursi soltanto nel tenere le persone in prigione”. Al Senato 2 ddl per amnistia e indulto Sono stati presentati al Senato due disegni di legge che prevedono l’introduzione dell’amnistia e dell’indulto. Durante la campagna elettorale il tema del sovraffollamento delle carceri è stato molto dibattuto e diversi esponenti, anche bipartisan, hanno proposto soluzioni come l’amnistia e l’indulto. Non appena aperto il Parlamento sono già due i disegni di legge che chiedono la concessione di amnistia e indulto: una a prima firma Luigi Compagna (Pdl), e l’altra a prima firma Luigi Manconi (Pd). Giustizia: il cancro della custodia cautelare, il 43% dei detenuti è in attesa di giudizio di Maurizio Tortorella Panorama, 22 marzo 2013 Ma che cosa è diventata la custodia cautelare, quella che un tempo si chiamava con minore ipocrisia “carcere preventivo”? Che cos’è: una forma di pena anticipata che ormai arriva a prescindere dalla colpevolezza dell’indagato? Uno strumento di moderna tortura? La gogna del terzo millennio? Basterebbero le statistiche a dimostrare che la materia sta subendo una grave patologia, visto che il 43% dei circa 68 mila detenuti italiani è in attesa di giudizio (la media europea è intorno al 10%). Ma cronache recenti riferiscono alcuni casi eclatanti, vere e proprie anomalie. Il penultimo è quello di Angelo Rizzoli jr, detenuto a 70 anni e affetto da gravi patologie: diabete, sclerosi multipla ed emiparesi spastica da ipertensione arteriosa, insufficienza renale cronica prossima alla dialisi. Rizzoli è indagato per bancarotta fraudolenta, e rischia letteralmente la morte nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini. Un paradosso del destino vuole che la stanza di Rizzoli sia la stessa dove il 22 ottobre 2009 morì Stefano Cucchi. L’ultimo caso è quello di Francesco Bellavista Caltagirone, 74 anni. Imprenditore e costruttore, Caltagirone è stato arrestato il 19 marzo su ordine della Procura di Civitavecchia che lo accusa di frodi sul porto di Fiumicino: ora è in una cella di San Vittore. E anche lui è malato. Nel suo caso, in più, c’è un precedente di non poco conto: arrestato nel 2012, Caltagirone ha appena trascorso 9 mesi in custodia cautelare, tra una cella del carcere di Imperia e gli arresti domiciliari, perché accusato di associazione per delinquere e truffa ai danni dello Stato. In quel caso, l’associazione per delinquere era con Claudio Scajola, l’ex ministro dello Sviluppo economico, che però all’inizio del 2013 è stato prosciolto. Ripeto: nessuno pretende trattamenti speciali per gli imprenditori. La legge deve essere davvero uguale per tutti e l’eccesso di custodia cautelare è uno scandalo che prescinde dalle teste sulle quali si abbatte. Però in questi due casi già l’età dei due indagati pone dubbi sull’opportunità di una detenzione in carcere. È possibile, davvero possibile che non ci siano alternative? Giustizia: proroga di un anno per gli Opg… chiuderanno l’1 aprile 2014 Vita, 22 marzo 2013 Il Consiglio dei Ministri ha prorogato di un anno la chiusura degli Opg. Ignazio Marino chiede immediatamente un commissario ad hoc, Stop Opg spera sia un tempo per riflettere su soluzioni alternative alle mini-strutture. Il Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro della Salute Renato Balduzzi, ha deciso ieri la proroga per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. La chiusura viene rinviata al 1° aprile 2014, “in attesa della realizzazione da parte delle Regioni delle strutture sanitarie sostitutive”. Il comunicato del Cdm precisa che nel decreto del Ministero della Salute “si sollecitano le Regioni a prevedere interventi che comunque supportino l’adozione da parte dei magistrati di misure alternative all’internamento, potenziando i servizi di salute mentale sul territorio. Si prevede, in caso di inadempienza, un unico commissario per tutte le Regioni per le quali si rendono necessari gli interventi sostitutivi”. Ignazio Marino, che aveva presieduto la commissione di inchiesta che poi spinse per la chiusura degli Opg, chiede “la nomina immediata di un Commissario ad hoc che prenda in carico la situazione e agisca dove governo nazionale e regioni hanno fallito”. Per la chiusura degli Opg la legge 9/2012 prevedeva anche 272 milioni di euro per la costruzione di nuove strutture e 55 milioni di euro ogni anno per il personale medico e tecnico: “Ora quei soldi sono lì, fermi, e il governo uscente ci comunica che nulla è stato fatto per le mille persone che a tutt’oggi continuano a essere internate in luoghi che ledono la loro dignità, luoghi definiti “di tortura” dal Consiglio d’Europa”. Nell’intervista che accompagna il servizio sulla chiusura degli Opg sul numero di Vita in edicola, Marino spiegava che “fare una proroga sarebbe come girare la faccia dall’altra parte, una violenza intollerabile su persone che subiscono una violenza da decenni”. Per questo il commissario secondo lui e l’intera commissione, era “l’unica soluzione possibile”. Stop Opg nei giorni scorsi aveva denunciato il pericolo di soluzioni improvvisate, di fronte al ritardo nell’attuazione delle norme sul superamento degli Opg (magari mini Opg affidati a cliniche private) e al tempo stesso dichiarato inaccettabile un rinvio senza vincoli e precisi impegni per chiuder davvero gli Opg. Secondo Stop Opg il problema non è il ritardo nell’apertura dei “mini Opg regionali”, le strutture speciali previsti dalla legge 9/2012 al posto degli attuali sei Opg: Stop Opg infatti quelle strutture chiede di non farle mai, e di usare invece il budget previsto per chiudere gli Opg per potenziare i servizi di salute mentale delle Asl. La notizia della proroga è giunta nel bel mezzo dell’incontro del Forum Salute Mentale, a dieci anni dalla sua fondazione. La proroga decisa dal Governo “permetterà di continuare a riflettere sui percorsi migliori per le persone piuttosto che realizzare i “mini Opg regionali”. Aprire Centri di Salute Mentale (Csm), luoghi aperti e accoglienti aperti almeno 12 ore, con la sperimentazione di CSM 24ore per ogni Provincia, dove non sono ancora presenti, per rafforzare la rete delle risposte”, dicono ora. Giovanna Del Giudice spiega che “da parte nostra, in attesa del cambiamento del Codice di Procedura Penale, continuiamo a chiedere che i finanziamenti previsti per l’apertura dei “mini Opg regionali” siano invece assegnati ai Dipartimenti di Salute Mentale (Dsm) per i Budget di Salute Individuali, con l’obbligo di presa in carico e la realizzazione di misure alternative. Riteniamo quindi che la proroga appena stabilita possa permettere di continuare a cercare i percorsi più giusti per le persone, piuttosto che realizzare le strutture previste dal Governo”. L’impegno di Stop Opg per la chiusura degli Opg continuerà con una mini maratona che attraverserà l’Italia dal 12 al 18 maggio 2013: il viaggio sarà guidato da Marco Cavallo, il cavallo azzurro frutto di un’opera collettiva realizzata dentro il manicomio di Trieste ai tempi di Franco Basaglia, che divenne il simbolo della volontà di liberare i malati di mente. Severino: su Opg dare tempo a Regioni “Ho lavorato tantissimo, affinché questo provvedimento passasse dalla carta ai fatti”. Il ministro della Giustizia Paola Severino sottolinea il lavoro svolto in vista della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. “Abbiamo i progetti delle Regioni - assicura - ma dobbiamo dare loro il tempo, perché chiudere e basta sarebbe troppo facile: dobbiamo adeguare le strutture affinché le persone custodite siano prima di tutto curate e lo siano senza rischi di ordine sociale”. In particolare, osserva Severino, “ho lavorato con la Regione Sicilia, che ancora non aveva una convenzione sulla sanità. Siamo riusciti, d’intesa con il presidente Crocetta a smuovere una situazione ferma da anni e a risolverla in poche settimane. Siamo riusciti a trovare il finanziamento, che non è certo un aspetto irrilevante della questione”. Balduzzi: commissariamento se non rispettati tempi “Si sapeva che sarebbe stato difficile rispettare la tempistica iniziale della legge, ma il processo ormai è irreversibile, si tratta di dare alle regioni i tempi giusti e incentivarle” lo ha detto il ministro della Salute Renato Balduzzi a Prima di tutto, su Rai radio 1 in merito alla proroga di un anno della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, e ha aggiunto che ora che il settore è stato regolamento e sono stati assegnati i finanziamenti per le strutture, “è tutto a posto, le nuove strutture che sostituiranno gli ospedali psichiatrici giudiziari dovranno anche avere percorsi di riabilitazione e misure alternative a quella che finora è stata la detenzione, dove non si rispettassero i tempi stabiliti scatterà il commissariamento in capo ad un unico commissario, altra novità del decreto legge”. Sui tempi di attuazione il ministro si è dimostrato ottimista: “Possiamo essere ragionevolmente ottimisti in questa lunga e annosa vicenda che i tempi possano essere rispettati. È importante farlo in tutte le regione e ristabilire una dignità della salute”. Comunicato stampa del Comitato “Stop Opg” Alla fine il Governo ha deciso di rinviare la data di chiusura degli Opg: leggeremo il testo definitivo del decreto per esprimere una valutazione compiuta. Stop Opg aveva denunciato il pericolo di soluzioni improvvisate, di fronte al ritardo nell’attuazione delle norme sul superamento degli Opg (magari mini Opg affidati a cliniche private) e dichiarato come inaccettabile un rinvio senza vincoli e precisi impegni per chiuderli davvero: dare priorità alle misure di sicurezza alternative all’Opg, con dimissioni per tutte le persone internate in “proroga” (la regola deve essere la dimissione a fine misura, non la proroga dell’internamento); un’unica authority Stato Regioni per seguire e promuovere il processo di chiusura degli Opg e commissariamento per le regioni inadempienti. Perché il problema non è il ritardo nell’apertura dei “mini Opg regionali”, le strutture speciali previsti dalla legge 9/2012 al posto degli attuali sei Opg, dacché Stop Opg chiede di non farli ma di usare invece il budget previsto per chiudere gli OPG per potenziare i servizi di salute mentale delle Asl. L’alternativa agli Opg non poteva e non può essere quella dei manicomi regionali. Per abolire definitivamente gli Opg, terribili residui della logica manicomiale che prevede un trattamento speciale per i “folli autori di reato”, occorre cambiare il codice penale. Ma intanto oggi si possono superare gli Opg, scongiurare l’apertura al loro posto dei manicomi regionali (mini Opg), e cosi tornare allo “spirito originale” della “Riforma Basaglia”, la legge 180, che, chiudendo i manicomi, restituì dignità e cittadinanza alle persone malate di mente. Mencacci (Sip): rinvio Stop Opg chiave per costruire alternative “Un rinvio atteso e molto richiesto, quello deciso ieri dal Consiglio dei ministri, che deve servire a costruire le basi per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari e mettere a punto in maniera adeguata le alternative per gli oltre 800 malati mentali ricoverati negli Opg e bisognosi di cure”. Lo sottolinea Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria (Sip), che più volte in questi mesi aveva evidenziato i ritardi e il rischio per i pazienti reclusi di restare senza cure. “Vanno potenziati i servizi - dice Mencacci - per far sì che ci siano più risorse sul territorio. È cruciale potenziare l’assistenza nelle carceri e far entrare finalmente il Servizio sanitario nazionale e i servizi di salute mentale in questi centri”. La salute, infatti, deve essere “sempre tutelata. Occorre individuare con la magistratura dei percorsi condivisi. E vigilare sulla questione degli indimissibili: occorrerebbe trovare, come accade negli altri Paesi, degli spazi nelle carceri per la custodia e la cura delle persone gravi. Realizzare una efficace assistenza in carcere per i reclusi con problemi di salute mentale e potenziare il territorio con reali alternative agli Opg. Da parte nostra - promette - vigileremo”. Giustizia: mancano carceri per detenuti transessuali, per loro una “doppia pena” di Claudio Tamburrino www.west-info.eu, 22 marzo 2013 Dell’emergenza carceri fa parte a pieno titolo anche una questione poco nota, ma assai delicata: quella che riguarda le condizioni dei detenuti transessuali. Condannati a una vera e propria doppia pena. Visto che, oltre ai problemi che affronta l’intera popolazione carceraria italiana, pagano le conseguenze del loro orientamento sessuale. Si tratta per lo più di persone che si trovano dietro le sbarre per reati minori, di prostituzione o uso di droga, che in mancanza di strutture o sezioni apposite sono costrette a condividere la cella con gli uomini o con le donne. Pur non appartenendo a nessuna delle due categorie. Il problema è tale che Amnesty International Italia, in occasione della campagna elettorale nazionale, ha presentato ai candidati premier un’agenda in dieci punti per i diritti umani fra cui figura la lotta alla transfobia. Vale la pena di ricordare, infatti, che secondo l’ultima rilevazione del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, negli istituti di detenzione sono solo 104 i transessuali e gli omosessuali dichiarati, reclusi in sezioni protette. In particolare, apposite ali sono presenti nel carcere milanese di San Vittore o in quello romano di Rebibbia, così come presso quello di Terni; a Pozzale ha poi aperto un carcere dedicato esclusivamente a detenuti transessuali. Criticità che però, almeno per una volta, non riguardano soltanto il nostro paese. In Francia, ad esempio, il dibattito è di particolare attualità. In assenza di strutture ad hoc, Oltralpe si decide esclusivamente in base al sesso indicato sulla carta d’identità. Così, anche se nel frattempo la persona avesse iniziato terapie ormonali o effettuato operazioni chirurgiche di cambiamento di sesso, i transgender rischiano di trovarsi ad essere rinchiusi con persone fisicamente o sentimentalmente del sesso opposto. In casi al momento molto rari, i dirigenti - con l’approvazione ministeriale - possono poi decidere di inviare un detenuto transessuale in una prigione per le donne. Alcune carceri, come Fleury-Merogis o Caem, hanno bracci riservati alle persone transgender, isolati dal resto della prigione e con regole su misura: per esempio vi si possono acquistare prodotti specifici come quelli necessari alla rimozione dei peli, il trucco o di biancheria intima femminile. Nel Regno Unito il problema viene affrontata caso per caso, e per esempio Londra ha autorizzato nel 2009 il trasferimento di un transessuale in un carcere femminile, giustificandolo sulla base dei suoi diritti personali. Prassi che accumuna molti stati del Vecchio Continente. Anche se sul tema non sono disponibili fonti e informazioni certe. Giustizia: Doina e Alessio, due pesi e due misure… cautelari Sette, 22 marzo 2013 Due omicidi (preterintenzionali) che paiono lo specchio uno dell’altro. Vittime due donne. Ma le condanne sembrano parlare due lingue diverse. Doina aveva ventuno anni. Alessio uno di meno. Lei aveva lasciato due figli in Romania e per mantenerli si prostituiva a Roma dove aveva scoperto che non avrebbe fatto - come da promessa negriera - la cameriera, ma la badante notturna degli uomini che ogni sera, fino a sei anni fa, abbassavano il finestrino. Lui invece stava con la compagnia del “che famo? niente” del Lucio Sestio, quartiere di Roma - sì, insomma, Er Bumba, Lello, Er Mawi, ciascuno il suo soprannome lombrosiano che sta a pennello a cuore e cervello: quelli che, un giorno di ottobre di due anni e mezzo fa, lo applaudirono e gli riconobbero la patente di identità, “Alessio, uno di noi”, mentre gridavano “pezzi di merda” a quelli, carabinieri in divisa, che lo portavano via. Doina e Alessio avevano 21 e 20 anni il giorno che la vita - e la morte - li mise di fronte a Vanessa Russo, romana, 23 anni, che sognava di fare l’infermiera, e Maricica Hahaianu, romena, 32 anni, madre di un bimbo di tre, che l’infermiera in ospedale faceva di. mestiere, scegliendo per la tragedia lo stesso scenario: una stazione di metropolitana della Capitale. Fermata Termini, 26 aprile 2007. Una coda, un diverbio, insulti davanti alla porta di un vagone. La tensione che sale, forse anche perché le lingue non si capiscono - ovvero, si capiscono benissimo e non si intendono affatto - e con la tensione il tono delle parole. E pure le mani finiscono per alzarsi. Quella di Doina impugna l’ombrello - maledizione, quel giorno a Roma piove - e la punta trafigge l’occhio di Vanessa. Che morirà il giorno dopo in ospedale. Doina si allontana ma una telecamera l’ha filmata mentre risale le scale. Viene arrestata con l’accusa di omicidio preterintenzionale. Fermata Anagnina, 20 ottobre 2010. Una coda, un diverbio, insulti davanti allo sportello del tabaccaio. La tensione che sale e pure la salivazione se alle parole si aggiungono prima gli sputi e poi gli spintoni. Anche stavolta le due lingue fanno a pugni (“Ma tu la fila non la fai al paese tuo?”) prima che Alessio armi un pugno che mette fine alle parole. Maricica crolla a terra, immobile: morirà, dopo sei giorni di coma, in ospedale. Lui si allontana ma, pure stavolta, una telecamera ha ripreso la scena. Anche per lui, arresto e accusa di omicidio preterintenzionale. Due morti assurde, come si usa dire, non avendo trovato altre parole, quel giorno, neppure Doina e Alessio, figli di situazioni sociali non esattamente ideali, passati direttamente ai fatti. Provocando morte. Prese la parola, allora, qualcun altro. E non fu un bel sentire, in un clima fatto di “dagli alla romena” nei confronti di Doina Matei, presa a (bratto) esempio di un’intera nazione, e (due anni dopo) di “quella se l’è cercata, Alessio ch’a avuto pure pazienza” nei confronti di Maricica Hahaianu. Della vittima, stavolta: bersaglio - pure oggi che riposa in una tomba di Oreavu, dove la piangono un marito e un figlio, così come i suoi genitori piangono Vanessa - di una xenofobia dalla coda di paglia che quelli del Lucio Sestio espressero bene, all’arresto di Alessio, con un cartello di solidarietà all’amico, “hai fini di nessuno scopo politico o razzista”. Sì, pure oggi. Perché il finale di queste due storie, che si specchiano una nell’altra alla luce del Male, lascia sconcertati. Doma Matei è stata condannata a 16 anni di reclusione, sentenza confermata in Cassazione, che sta scontando nel carcere di Perugia. Alessio Burrone, invece, condannato a nove anni, con pena ridotta in Appello a otto, il mese scorso s’è visto concedere gli arresti domiciliari, provvedimento che ha dato voce all’amarezza di Adrian, il marito dell’infermiera Maricica, “rassegnato di fronte a una giustizia che già in primo grado aveva comminato ima pena così bassa”. Anche se più male ancora devono avergli fatto le uscite di chi ha accolto quei domiciliari proprio “ai fini politico e razzista”: quella palude di saluti romani ad Alessio, finiti anche in Rete, dove colpevole è la “provocazione di lei” che avrebbe evitato la morte “solo utilizzando un pizzico di intelligenza”, ma per fortuna “ora è stata ristabilita una certa giustizia”. Vero, una certa giustizia: l’opposto di una giustizia certa. Giustizia: Angelo Rizzoli, Ottaviano Del Turco, Ambrogio Crespi… tre casi di “vendetta” di Dimitri Buffa L’Opinione, 22 marzo 2013 Sospetto, repressione, crudeltà. Questi orrendi concetti nella Costituzione italiana, quella “più bella del mondo”, negli articoli in cui si occupa di giustizia, ovviamente non esistono. Ma in quella “costituzione materiale”, che è costituita dalla prassi quotidiana dei magistrati “indipendenti”, sono gli unici veramente vigenti. Tre casi, ma sono migliaia, per spiegare meglio: Angelo Rizzoli, Ottaviano del Turco, Ambrogio Crespi. Il primo a ottanta anni, malato di sclerosi multipla invalidante, viene sbattuto prima in carcere e poi in quella orrenda cella di sicurezza dell’infermeria giudiziaria dell’ospedale impunemente intitolato a Sandro Pertini in cui trovò la morte il povero Stefano Cucchi. È imputato di bancarotta, ma, vecchio e malato come è, il possibile giudizio rischia di averlo dal Padreterno più che dai tribunali italioti. C’è bisogno di tenerlo in carcere? Non potrebbe stare agli arresti a casa? Misteri delle liturgie un po’ vendicative dei pm e dei gip italiani. Ottaviano Del Turco, il secondo, si è fatto più di un mese in galera e svariati altri agli arresti a casa con accuse infamanti che gli sono costate la fine di un’onorevole carriera politica e la caduta di una giunta regionale, quella dell’Abruzzo, che bene o male era stata votata dalla maggioranza dei cittadini di quella Regione. Oggi il processo sembra, dopo quasi cinque anni di tribolazioni, mettersi bene per lui e male per il grande accusatore, l’industriale farmaceutico Angelini. A Del Turco chi darà indietro l’onore e il tempo perduti? Terzo caso, terzo orrore: Ambrogio Crespi. Alla vigilia di richieste di giudizio immediato anche la procura sembra non credere più nell’ipotesi di aiuto al voto di scambio tra politica e ‘ndrangheta a Milano per favorire l’elezione di Domenico Zambetti. E quantomeno non riuscirebbe mai a dimostrarla visto che nel quartiere in cui si assume che Zambetti sarebbe stato aiutato dalle amicizie di ‘ndrangheta attribuite dall’accusa a Crespi, i voti in più rispetto alla precedente elezione regionale del 2005 sono stati meno di 30! E questo senza contare che Zambetti nel 2005 era con l’Udc e nel 2010 con il Pdl. Restano, per Ambrogio, le presunte “cattive compagnie” del passato, cioè quei compagni di scuola in taluni casi aiutati a trovare un lavoro e a tirarsi fuori da un ambiente di pregiudicati come era diventato Baggio negli anni ‘70. E in taluni alti casi dimostratisi ingrati con lo stesso Crespi. La montagna ha partorito un topolino giudiziario ma intanto Ambrogio Crespi è in carcere, da incensurato in attesa di giudizio, da quasi sei mesi. Questi tre casi, ma ce ne sono migliaia, da tempo hanno portato i radicali a chiedere un’amnistia. Ma per “la repubblica italiana eterna pregiudicata davanti alla giurisdizione europea dei diritti dell’uomo”, non tanto per i detenuti. Il Presidente delle camere penali italiane, il più che illuminato Valerio Spigarelli, non si è dimostrato a sua volta entusiasta dell’elezione di un ex magistrato, sia pure infinitamente più equilibrato di tanti altri prestati alla politica e mai più restituiti all’ordine giudiziario, alla seconda carica dello stato. E tantomeno del possibile incarico esplorativo per formare un governo. Magari non è stato neanche un effetto voluto (eterogenesi dei fini) ma anni, decenni di crudeltà istituzionale e di istigazione del popolo contro la classe politica all’insegna della notte scura in cui tutte le vacche sono o sembrano nere, e d’altra parte anche di inerzia di quella stessa classe, lottizzata partitocraticamente da incapaci e disonesti trasversali a ogni schieramento politico, ci hanno portato al compimento della profezia di Mauro Mellini: siamo alla repubblica dei procuratori. Non più paghi di dirigere una procura della repubblica. Sembra il solito gioco di parole radicale, ma la crisi italiana, la peste che sta portando via investimenti e posti di lavoro alla fine è questa. E, oggi come oggi, chi si fida a investire in un paese dove la giustizia non esiste più? E che viene però, per paradosso, amministrato da un ex magistrato? Giustizia: Bernardini (Radicali); per Gaetano Fidanzati trattamenti inumani degradanti www.clandestinoweb.com, 22 marzo 2013 Trattamenti inumani e degradanti sono all’ordine del giorno nelle carceri e nelle strutture penitenziarie italiane e non solo. È la radicale Rita Bernardini a dare conto di una situazione assurda che interessa Gaetano Fidanzati, agli arresti ospedalieri da sette mesi in condizioni inumane. Bernardini ha pubblicato alcune immagini inviatele da Grazia Manfredi, la figlia di Fidanzati che spiega: “On. Bernardini, le invio tre foto scattate da me dove lei stessa può vedere in che stato è mio padre dopo sette mesi di arresti ospedalieri. Non mi risulta che mio padre abbia come pena “condannato a morte”. Ma questi giudici come fanno a dormire la notte”. È poi la stessa Bernardini a spiegare: “Il regime del 41-bis è stato sospeso sei mesi fa. Ora Gaetano Fidanzati può essere visitato solo dalla moglie e dalle due figlie. La moglie lo assiste giorno e notte perché non è in grado di mangiare e bere da solo. Da ciò che afferma la figlia, il Magistrato di sorveglianza vorrebbe mandarlo a casa, ma il tribunale di Palermo, dopo una perizia effettuata il 14 febbraio, non ha ancora deciso. Ho già presentato un’interrogazione a risposta scritta il 9 novembre 2011 poi trasformata in risposta in Commissione l’11 luglio 2012 nel tentativo di avere risposta da parte del Governo. La risposta non è mai arrivata, anche se come riferito dalla figlia, 6 mesi fa a Gaetano Fidanzati è stato revocato il 41-bis. Cosa aspetta il Tribunale di Palermo a dare una risposta, positiva o negativa che sia? Assumersi responsabilità non rientra fra i suoi compiti istituzionali?”. Giustizia: caso Rizzoli; Bondi (Pdl) scrive a Vietti e Severino Il Velino, 22 marzo 2012 Il senatore del Pdl Sandro Bondi sulla vicenda di Angelo Rizzoli ha quest’oggi inviato due lettere, una al vicepresidente del Csm Michele Vietti ed un’altra al ministro della Giustizia Paola Severino. Il parlamentare del Pdl ha evidenziato come “l’opinione pubblica appare profondamente colpita dal trattamento inflitto al dottor Angelo Rizzoli, detenuto in carcere in attesa di giudizio. Una giustizia giusta è prima di tutto una giustizia che agisce secondo una retta interpretazione delle leggi, non divenendo mai disumana nel trattamento delle persone sottoposte ad una indagine giudiziaria”. Da qui la richiesta di “intervenire al fine di verificare che la decisione presa dal magistrato sia legittima, considerando la grave malattia di cui soffre da anni il dottor Angelo Rizzoli, bisognoso di cure costanti”. Infine, rivolgendosi al ministro, il senatore Bondi ha chiesto “di conoscere se e quali iniziative intenda assumere per tutelare la salute del dottor Angelo Rizzoli e i suoi diritti di cittadino, già duramente messi alla prova nel corso della sua vita”. Lettere: il reparto di Medicina Protetta dell’Ospedale “Sandro Pertini” non è un carcere di Giulio Starnini (Direttore Unità Operativa Medicina Protetta Ospedale Belcolle di Viterbo) Ristretti Orizzonti, 22 marzo 2013 Il Dott. Angelo Rizzoli, ricoverato presso il reparto di Medicina Protetta dell’Ospedale “Sandro Pertini” di Roma. Ancora una volta il reparto di Medicina Protetta dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma viene identificato come carcere. Questa volta sono il giornalista Stefano Zurlo del “Il Giornale” e l’On. Ivan Scalfarotto (Parlamentare Pd). Inoltre siamo costretti a leggere perle del genere (il Dott. Rizzoli è) “nel carcere romano di Rebibbia, all’interno della struttura protetta Sandro Pertini”. Premetto che non conosco le condizioni di salute e se le stesse sono tali da essere incompatibili con il regime penitenziario. Non ho elementi sufficienti per esprimermi in merito. Sono peraltro personalmente contrario alla carcerazione preventiva. L’oggetto del mio intervento è altro. È cercare di spiegare che in questo momento il paziente è assistito in un reparto ospedaliero come verrebbe assistito qualsiasi altro cittadino italiano e che il denigrare il “Pertini” non fa onore alla verità e all’onestà intellettuale di chi lo fa. L’argomentazione che al proprio domicilio il dott. Rizzoli riceverebbe maggiori cure appare molto fragile. Viene lavato e aiutato dagli infermieri, viene sottoposto a tutti gli accertamenti diagnostici necessari e gli sono offerte le terapie del caso. Curiosa poi la storia che gli sarebbe stato sottratto il bastone per deambulare a norma dell’ordinamento penitenziario. Consentitimi di esprimere dubbi a tal proposito; in ospedale vige il regolamento ospedaliero e limitazioni alle prescrizioni costituiscono un abuso, da qualsiasi parte provengano. Ugualmente non sarebbe sottoposto alla necessaria Fkt. Cosa significa che presso l’Ospedale Pertini non è presente un servizio di riabilitazione neuro-motoria? Se così sarebbe necessario invitare il Direttore Generale della Asl Rmb a provvedere immediatamente; per il dott. Rizzoli come per tutti gli altri degenti. Le limitazioni della libertà personale imposte dall’essere detenuto - chiuso in uno stanza , sbarre alle finestre, limitazione delle visite ecc. - sono estranee al pensare e all’agire dei medici e degli infermieri che svolgono con professionalità e umanità la loro mission come per altro riconosciuto dallo stesso dott. Rizzoli. L’On. Scalfarotto a proposito del reparto in effetti afferma “ È un ospedale. Un ospedale con i cancelli alle porte delle stanze, ma pur sempre un ospedale” ed ancora “L’ho trovato sereno, dice che lo trattano bene. Non me ne sono stupito, davvero la struttura e il personale mi sono sembrati efficienti e professionali”. La visita in Ospedale a una persona per lo più in stato di detenzione è cosa altamente meritevole, al di là e al di sopra, del censo di quella persona. Quindi grazie all’On. Scalfarotto ma per cortesia corregga affermazioni come “un’apposita fisioterapia, che in una struttura penitenziaria non può essere fatta. E anche le condizioni dei reni stanno peggiorando. Ma mi ha fatto impressione vedere un uomo di quell’età e in quelle condizioni di salute essere rinchiuso in una struttura carceraria”. Che contraddicono quanto affermato in precedenza: il dott. Rizzoli non è in una struttura carceraria ma in un Ospedale, anche se con le sbarre. Ripeto: spiegazioni in merito alla mancanza di Fkt, se indicata, vanno chieste al Presidente Zingaretti e non del Direttore del carcere. Il Dott Stefano Zurlo afferma poi che il Reparto di Medicina protetta è “una costola di Rebibbia”. Vorrei sottolineare alcune differenze: 1) il paziente ricoverato presso l’Ospedale Pertini lo è in virtù dell’art. 11 del Ordinamento penitenziario che prevede il ricovero in luogo “esterno di cura”. Lascio all’intelligenza del dott. Zurlo spiegare “esterno” a cosa. Forse al carcere? 2) normativamente e dal punto di vista amministrativo ogni singolo mattone della struttura del Pertini è di proprietà della Regione Lazio. Vuol dire che se una tegola cade sulla testa di una qualsiasi persona nel perimetro del reparto di Medicina Protetta non sarà l’Amministrazione Penitenziaria a pagare ma la Direzione Generale della Asl Rmb. 3) dalle carceri non è possibile uscire - fatte salve le evasioni - se non con l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Ogni paziente del reparto del Pertini, seppur in stato di detenzione, può firmare la cartella di auto dimissione. Certamente, è necessario fare ancora tanta strada per questi reparti attenuando, quando possibile, al minimo le misure di sicurezza imposte dall’Amministrazione Penitenziaria ma attenzione a denigrare strutture ospedaliere che già oggi sono all’avanguardia non solo in Italia ma anche in Europa, all’interno delle quali è stato possibile assicurare a migliaia di persone in stato di detenzione il massimo grado di cure che l’Ospedale nel suo complesso è in grado di offrire. Si rischia di tornare indietro alle famigerate “stanze blindate” purtroppo ancora diffuse in tantissimi nosocomi nel nostro Paese, quelle sì fortemente limitative del diritto alla salute, dove tutti medici infermieri, agenti di polizia fanno a gara per rendere la permanenza del detenuto il più breve possibile. Perché e dov’è la differenza con i reparti di Medicina Protetta? È semplice, in tali reparti vi è personale sanitario dedicato e preparato all’assistenza dei soli pazienti in stato di detenzione e al coordinamento degli altri servizi specialistici come ben colto dall’On. Scalfarotto. Nelle stanze blindate medici e infermieri appartengono a tutte le U.U.O.O. dell’Ospedale e vivono l’assistenza al detenuto come un lavoro aggiuntivo e molto disagevole. Inoltre presso i Reparti di Medicina protetta è distaccato personale di polizia penitenziaria fisso; per la sorveglianza delle camere blindate il personale di polizia viene invece sottratto agli altri servizi svolti presso l’Istituto Penitenziario. Si comprendono bene quindi in quest’ultimo caso le continue richieste di abbreviare il più possibile la permanenza in Ospedale. Quanto sopra non per contrastare le legittime aspettative del Dott. Rizzoli o per indifferenza nei confronti del dolore della famiglia , ma per rispetto dei medici e degli infermieri che lavorano presso il reparto di Medicina Protetta dell’Ospedale Pertini di Roma e soprattutto per le migliaia di detenuti che in tale struttura sono stati e saranno in futuro accolti e curati come ogni altro cittadino. Sardegna: Sdr; chiusura carceri di Macomer e Iglesias prevista in circolare Dap gennaio… Ristretti Orizzonti, 22 marzo 2013 “Niente di nuovo ma la conferma che, qualche settimana fa, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha mentito sapendo di mentire quando ha affermato non essere stata prevista la chiusura di Macomer e di Iglesias. Peccato che la circolare del 29 gennaio scorso, inviata ai Provveditori regionali e ai Direttori fosse identica a quanto proposto come novità. Le bugie però hanno le gambe corte”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con riferimento alle linee programmatiche dei circuiti regionali e alla chiusura di Macomer e Iglesias. “Tenere un atteggiamento così poco rispettoso nei confronti delle Istituzioni locali richiede una levata di scudi - aggiunge - innanzitutto per le modalità con cui è stato progettato il piano. È sorprendente che il DAP non si ponga il problema per esempio del carcere San Daniele di Lanusei, ubicato in un antico convento, le cui strutture murarie e abitative richiedono interventi di ristrutturazione. Risulta vergognoso poi che non si voglia ammettere che le nuove strutture penitenziarie sono state costruite con l’unico scopo di disumanizzare il rapporto con i cittadini privati della libertà laddove vengono raddoppiati i posti per i detenuti e restano invariati, se non addirittura ridotti per anzianità di servizio gli Agenti di Polizia Penitenziaria e gli Educatori”. “Il sistema ideato dal DAP - conclude la presidente di SdR - non serve neppure a risparmiare perché i costi di gestione di Istituto come Massama, Bancali e Nuchis sono il triplo di quelli dei piccoli Istituti sicuramente meno invasivi e più vicini alle esigenze di tutti, magistrati e avvocati compresi”. Umbria: a Terni nuovo padiglione per detenuti comuni, in Regione 274 carcerati di troppo www.umbria24.it, 22 marzo 2013 Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria vara la riforma: strutture differenziate sulla base di pericolosità, tipologia e posizione giuridica del recluso. Cambia la geografia delle carceri italiane. Giovedì a Roma infatti il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, ha presentato il progetto “Circuiti regionali” che differenzia gli istituti penitenziari sulla base della tipologia del detenuto, della sua pericolosità e della posizione giuridica. Stando a quanto emerso nel corso della conferenza stampa di giovedì, il nuovo padiglione di Terni, oggetto di molte polemiche, sarà adibito a struttura di media sicurezza (ovvero per detenuti comuni) mentre Orvieto avrà la custodia attenuata. Il penitenziario orvietano offrirà ai reclusi maggiori opportunità di riabilitarsi, acquisire nuove conoscenze ed accrescere la propria cultura. Insomma, un carcere dove la riabilitazione e la rieducazione non sono solo parole vuote. Il piano Delle altre due realtà di Perugia e Spoleto nulla è detto, mentre a quanto noto in Abruzzo il carcere di Sulmona sarà dedicato ai detenuti sottoposti al carcere duro basato sul 41 bis (criminalità organizzata e terrorismo), figure recluse anche a Spoleto e Terni. Il progetto del Dipartimento ha lo scopo di trovare soluzioni al sovraffollamento, alle drammatiche condizioni di vita dei reclusi, alle difficoltà lavorative del personale, sottolineate tante volte in Umbria da una polizia penitenziaria sottorganico e spesso vittima di aggressioni; il tutto con uno sguardo al trattamento rieducativo e alle misure alternative. “Sarà un avvio graduale - ha spiegato il vice capo del Dap, Luigi Pagano - perché serve tempo e un forte apporto dalla società esterna. Tutto questo porterà anche ad un aumento nella sicurezza”. Passo in avanti Un “passo in avanti” secondo Tamburino che cerca di rimediare a “insufficienze - ha detto - talvolta molto gravi del nostro sistema penitenziario che, purtroppo, hanno portato anche a condanne dell’Italia da parte della Corte europea. Abbiamo dei punti di arretratezza, con una insufficiente differenziazione dei detenuti e un’idea “carcerocentrica”. Per i detenuti di media sicurezza ci saranno più possibilità di passare tempo in spazi comuni e di scontare il proprio debito con la giustizia vicino alla famiglia. Ma qual è lo stato attuale delle carceri umbre? Secondo i dati del Dipartimento (aggiornati alla fine di febbraio), nella regione sono recluse 1.606 persone, qualche decina in meno rispetto all’anno precedente. Tutto ciò a fronte di una capienza regolamentare di 1.332 posti, dove sono già conteggiati i 200 posti in più del padiglione ternano. I numeri Gli stranieri sono in minoranza (692) mentre le donne sono 68 e tutte nella struttura perugina dove c’è l’apposito reparto femminile. I condannati definitivi sono 1.229 e gli imputati 377: di questi quelli in attesa di primo giudizio sono 208, gli “appellanti” 73 mentre quelli accusati di più reati ma che non hanno ancora sul groppone nessuna condanna sono 23. Grazie alla legge “svuota carceri” invece sono uscite 187 persone delle quali 53 straniere. Secondo le statistiche poi l’unica struttura a salvarsi dal sovraffollamento è quella di Terni (456 posti e 356 detenuti grazie al nuovo padiglione); Perugia ospita 513 persone a fronte di 352 posti, Spoleto ben 635 su 456 letti e Orvieto 126 su una capienza regolamentare pari a 111. Calabria: soppresso carcere Lamezia; Laureana, Crotone e Paola saranno custodie attenuate www.lametino.it, 22 marzo 2013 Niente da fare per il carcere di Lamezia. Dopo tanto discutere è stato presentato ieri il Piano Carceri che prevede, in Calabria, la sola soppressione del carcere lametino con una differenziazione, tra i rimanenti, in base a criteri quali la tipologia del detenuto, la singola pericolosità e la singola posizione giuridica. In Calabria è la sola città di Catanzaro ad avere un potenziamento della struttura carceraria con la costruzione di un nuovo padiglione da trecento posti in cui saranno presenti i cosiddetti “detenuti di media sicurezza”, ossia carcerati per reati comuni. Altri tre istituti di pena calabresi (Laureana di Borrello, Crotone e Paola) invece, saranno riconvertiti a luoghi di custodia attenuata. Si tratterà di una riconversione graduale che avverrà da qui a qualche mese. Salvo ripensamenti o emendamenti dell’ultima ora, in Calabria dovrebbe dunque chiudere il solo carcere di Lamezia. Una struttura che nell’ultimo rapporto dell’associazione Antigone è stato definito come “una struttura molto piccola ma anche molto curata tanto da non assumere le caratteristiche tipiche di un carcere”. Lo stesso Rapporto descrive il carcere, una struttura del 1400 che solo nel 1800 è divenuto Istituto di Pena, “curato” dove l’ultima ristrutturazione risale al 2004. Presenti al momento di stilare il Rapporto, trenta detenutii su 58 agenti di polizia penitenziaria in servizio. Le celle “poche ma abbastanza spaziose” con “docce all’interno di ogni singola cella”. Presente una sala colloqui che l’associazione Antigone descrive nel suo rapporto come “a norma e con una bellissima volta affrescata”. All’interno si trovano anche una chiesa e aule per le attività sociali “piccole, ma tenute in buono stato”. Il rapporto stilato da Antigone parla di una struttura in cui, oltre ai 58 agenti, sono presenti un assistente sociale, un educatore, tre medici “per sei ore al giorno”, un medico incaricato, 1 infermiere di ruolo e altri “due a parcella”. All’interno è presente anche il Sert mentre, sempre il rapporto spiega come negli ultimi tre anni ci siano stati pochi casi “di autolesionismo” e nessun altro episodio quale suicidio o morti “per altre cause”. Diverse le attività come quelle di “Educazione alla legalità”, “Educazione alla lettura”, Cineforum, corsi di chitarra e decoupage. Un istituto piccolo e antico, quello di Lamezia. Una realtà rodata diretta da donne in un ambiente non sempre facile. Una realtà del territorio che il nuovo Piano Carceri, a meno di modifiche dell’ultima ora, è quindi destinato a venire soppressa chiudendo definitivamente dopo quasi due secoli. Ivrea (To): Osapp; suicida detenuto italiano di 53 anni con solo un anno di pena residua Ansa, 22 marzo 2013 “A Ivrea si è impiccato un detenuto italiano di 53 anni con solo un anno di pena residua ed è il 13° suicidio ed il 43° morto in carcere dall’inizio dell’anno ma, nonostante gli appelli accorati e le dichiarazioni di intento della politica e delle massime cariche istituzionali, la situazione non cambia”. A comunicarlo in una nota è Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria). “Purtroppo - prosegue il leader dell’Osapp - a parte l’apparente stabilizzazione numerica del sistema 66mila detenuti a fronte di poco meno di 43mila posti letto reali, per 23mila detenuti in più del consentito, le emergenze che il personale di polizia penitenziaria affronta quotidianamente in carcere si vanno ad aggravare di giorno in giorno, come nell’istituto di Torino dove per una capienza di 1.050 ve ne sono 1.550 e 30 detenuti dormono per terra senza materassi in locali privi di servizi igienici”. “Come sindacato ci siamo già espressi stigmatizzando gli scarsissimi risultati raggiunti dal governo Monti e dalla Guardasigilli Severino riguardo alla soluzione dei problemi penitenziari del Paese, tenendo anche conto degli innumerevoli appuntamenti mancati sulle indispensabili riforme del sistema e della polizia penitenziaria - conclude Beneduci - e in assenza di programmi concreti nella precarietà di condizioni in cui un eventuale nuovo governo si troverà ad operare ci fanno ritenere probabili peggioramenti definitivi già nel corso dell’attuale legislatura. Treviso: Contarina digitalizza l’archivio in carcere, sei detenuti impiegati per tre anni La Tribuna di Treviso, 22 marzo 2013 Sono 415 mila le pratiche cartacee dei Consorzi Priula e Treviso Tre che diventeranno documenti elettronici grazie al lavoro dei detenuti di Santa Bona. Sei le persone impiegate a scansionare le pratiche storiche, relative alla tariffa di gestione dei rifiuti presenti negli archivi dei consorzi in 4.600 faldoni. Si tratta di documenti che vanno dal 2000 al 2010 e che, un volta conservati in formato elettronico, potranno essere reperibili velocemente e a anche a distanza. L’iniziativa è di Contarina, che ha affidato la parte operativa del progetto alla cooperativa sociale Alternativa ambiente di Carbonera, realtà impegnata nel reinserimento lavorativo e sociale di persone svantaggiate o con precedenti penali. Il lavoro avviene proprio all’interno dell’istituto penitenziario. I sei detenuti lavoreranno in due gruppi: in questo modo la scansione di tutte le pratiche dei due consorzi è prevista in un tempo di circa tre anni. Non è esclusa l’eventualità di incrementare il numero delle persone coinvolte nell’ambito di questo progetto. Ai lavoratori verrà applicato un salario d’ingresso che potrebbe aggirarsi intorno ai 400 euro circa. Il lavoro diventa quindi uno strumento utile alla rieducazione dei detenuti, in grado di dar loro dignità in un momento di particolare difficoltà dovuto ai problemi di sovraffollamento delle carceri. Il progetto permette di valorizzare la forza lavorativa potenziale dell’istituto penitenziario. Generalmente il 70% degli ex detenuti torna a commettere reati dopo il periodo di detenzione, mentre la percentuale crolla sotto il 20% se nel frattempo essi hanno svolto un’occupazione. “Fuori non si trova lavoro e, invece, dentro il carcere succede il miracolo perché riusciamo a dare occupazione agli ultimi”, dice Antonio Zamberlan di Contarina. “È importante dare lavoro ai detenuti”, dice Francesco Massimo, direttore del carcere. “Il lavoro è fondamentale per la loro risocializzazione. Esperienze come queste possono essere utili anche per altre amministrazioni pubbliche, garantendo lavoro per molti anni”. Ma la digitalizzazione non è l’unico lavoro che i detenuti possono fare in carcere. Fra i progetti avviati c’è quello dell’assemblaggio dei bidoni della spazzatura per conto di Contarina, il laboratorio di incisione artistica del vetro, la riparazione dell’hardware e i laboratori di falegnameria per la realizzazione di arnie per l’apicoltura e di nidi artificiali. Tutti laboratori gestiti dalla cooperativa Alternativa ambiente. Sono una trentina i detenuti impiegati su un totale della popolazione carceraria di 283 persone. Sulmona (Aq): ruba i soldi spediti ai detenuti, agente rinviato a giudizio e licenziato Il Centro, 22 marzo 2013 Ritirava la posta del carcere incassando anche i vaglia postali destinati ai detenuti Con il particolare che una parte di questi soldi sarebbe finita nelle sue tasche Ieri, Marcello Centofanti, agente di polizia penitenziaria in servizio a Sulmona, è stato rinviato a giudizio con l’accusa di peculato. La prima udienza del processo in seduta collegiale è stata fissata per il prossimo 24 settembre. I fatti fanno riferimento al marzo del 2011 quando alcuni detenuti si lamentarono con la direzione perché non avevano ricevuto alcuni vaglia che gli erano stati spediti per posta dai parenti. Poco più di 2mila euro che non erano mai arrivati a destinazione. Fu aperta un’inchiesta interna e le attenzioni si spostarono subito su Centofanti, che nel procedimento giudiziario è difeso dagli avvocati Stefania Cantelmi e Carla Trafficante, in quanto era l’unico agente penitenziario autorizzato a ritirare la posta dei detenuti. Secondo la ricostruzione fatta dal sostituto procuratore Aura Scarsella, l’agente dopo aver ritirato la posta tratteneva i vaglia senza farli recapitare ai carcerati. Dopo averli firmati, Centofanti, tornava alle poste e li cambiava intascando il denaro in modo che i detenuti destinatari della somma non ne sapessero nulla. Una ricostruzione contestata dai suoi legali che si dicono pronti a sottoporre Centofanti a una perizia grafica per dimostrare la totale estraneità del loro assistito. Richiesta che sarà reiterata, a questo punto, ai giudici collegiali, nel corso del dibattimento. In seguito a questa vicenda Marcello Centofanti ha perso il posto di lavoro. Un licenziamento che sarà revocato solo nel caso di una piena assoluzione. India: il ministro Severino sul caso marò; ciò che conta è la garanzia di un giusto processo Agi, 22 marzo 2013 “Contano i risultati e gli esiti delle vicende, e il fatto che ai militari sia assicurata la garanzia di un giusto processo”. Così il Guardasigilli uscente, Paola Severino, risponde ai cronisti, a margine del Forum Italia - Russia, sul caso dei due marò. “Il mio solo compito - ha aggiunto il ministro - era ed è quello di ottenere che ai nostri due militari venisse riconosciuto un livello di garanzie in modo tale da assicurare loro un giusto processo”. Dunque, la garanzia di “essere processati - ha spiegato Severino - da un tribunale che si ispiri ai principi della normativa internazionale” è quella che “neppure da un punto di vista ipotetico, potessero essere assoggettati alla pena di morte. Queste sono state due condizioni fisse dall’inizio della vicenda”. Il problema della giurisdizione italiana o indiana, ha osservato Severino, “deve essere comunque risolto secondo la normativa internazionale. Il livello di garanzia del tribunale è anche il livello delle garanzie che devono portare ad assicurare il rispetto dei principi internazionali. Questo il quadro in cui, dal punto di vista del ministro della Giustizia e dunque dal punto di vista del diritto, si è sempre svolta ed evoluta la vicenda”. Certo, “il modo con cui ottenere questo risultato - ha rilevato il Guardasigilli - non è certo nelle funzioni del ministro della Giustizia, ma era importante assicurare tali garanzie”. A chi le ha chiesto, dunque, se è ottimista riguardo a questa vicenda, Severino ha risposto: “Direi di sì, le ultime notizie mi sembrano di apertura e di dialogo diplomatico forte che apre a prospettive di una soluzione garantita del caso”. Stati Uniti: ultimo appello di Anthony Farina contro la sua esecuzione in Florida Notizie Radicali, 22 marzo 2013 Anthony Farina, il cittadino americano di origini italiane, per il quale le associazioni “Reprieve”, “Nessuno tocchi Caino” e Comunità di Sant’Egidio hanno promosso una campagna per il riconoscimento della cittadinanza italiana (ottenuta lo scorso 2 novembre) e contro la sua condanna a morte, ha presentato il 13 marzo il suo ultimo ricorso alla Corte d’Appello degli Stati Uniti, per chiedere la revoca della sentenza capitale. All’udienza ha partecipato in rappresentanza del Governo italiano anche il Console Generale Adolfo Barattolo, che ha presentato un “amicus curiae” volto a sostenere la contrarietà al diritto internazione di una condanna a morte nei confronti di una persona che non ha né ucciso né avuto l’intenzione di uccidere. Anthony Farina, la cui famiglia è originaria di Santo Stefano di Camastra (Messina) aveva 18 anni nel 1992 quando, insieme al fratello sedicenne Jeffrey, rapinò un fast food a Daytona Beach, in Florida. Il fratello sparò e uccise una dipendente, ma essendo minorenne all’epoca dei fatti la sua pena è stata tramutata in ergastolo, con la possibilità di ottenere la libertà condizionata dopo 25 anni. Anthony, invece, pur non avendo materialmente commesso l’omicidio, si è ritrovato condannato alla pena capitale dopo un processo in cui il pubblico ministero, invocando la Bibbia, si era proclamato “agente di Dio”. Il caso ha visto la mobilitazione anche dell’organizzazione “Americani Uniti per la Separazione tra Stato e Chiesa” e di una coalizione di gruppi religiosi americani contrari alle affermazioni del Pubblico Ministero di essere “servo di Dio” e “strumento di punizione divina”. Sulla vicenda è intervenuto anche Francesco Re, il sindaco di Santo Stefano di Camastra che si è rivolto al Presidente della Repubblica e al Papa. Nell’ipotesi di rigetto di quest’ultimo appello presentato da Anthony Farina, resterà il ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti che però non ha l’obbligo di esaminare il caso. Non resterà poi che la richiesta di grazia al governatore della Florida che la concesse, l’ultima volta, nel 1983. Stati Uniti: Guantánamo; modello americano di detenzione speciale dura da ormai 11 anni di Mario Lombardo www.altrenotizie.org, 22 marzo 2013 La drammatica situazione dei detenuti accusati di terrorismo nel lager di Guantánamo è tornata ad occupare le pagine dei giornali americani in questi giorni in seguito al dilagare di un nuovo sciopero della fame tra gli ospiti della struttura americana sull’isola di Cuba aperta dall’amministrazione Bush ormai più di 11 anni fa. A riportare l’attenzione dell’opinione pubblica sul dramma silenzioso dei 166 prigionieri trattati nel completo disprezzo delle più normali norme del diritto internazionale era stata una lettera scritta una settimana scorsa da oltre 50 avvocati difensori e indirizzata al neo - segretario alla Difesa americano, Chuck Hagel. Nella lettera, i legali dei detenuti sollecitavano un intervento del numero uno del Pentagono per risolvere le cause che hanno provocato fin dal 6 febbraio lo sciopero della fame, in seguito al quale molti prigionieri hanno già perso tra i 10 e i 14 chili, mentre altri sono stati ricoverati in grave stato di disidratazione. Il motivo scatenante l’ennesima protesta a Guantánamo sarebbe il ricorso da parte delle guardie del carcere, negli ultimi mesi, a bruschi metodi nel trattamento dei detenuti, simili a quelli ampiamente adottati nel corso dei primi anni dopo l’apertura della struttura detentiva extra - territoriale. In particolare, le guardie avrebbero confiscato svariati effetti personali nelle celle dei prigionieri e controllato senza il dovuto rispetto tra le pagine delle copie del Corano a loro disposizione l’eventuale presenza di messaggi da scambiare e proibiti dal regolamento del carcere. Sempre secondo gli avvocati difensori, nel carcere sarebbero avvenuti anche episodi di aperta rivolta, debitamente occultati dalle autorità, le quali avrebbero tra l’altro utilizzato proiettili di gomma per reprimere una protesta dei detenuti andata in scena in un’area comune della struttura. Negli ultimi giorni, lo stesso Dipartimento della Difesa è stato costretto ad ammettere che è effettivamente in corso uno sciopero della fame tra i detenuti di Guantánamo. Il numero dei partecipanti alla protesta, secondo le autorità militari, sarebbe già passato dai 15 di venerdì scorso ai 25 di due giorni fa. Nonostante sia impossibile conoscere la reale situazione nel carcere a causa della rigida censura che impone il governo Usa, è praticamente certo che questi numeri siano abbondantemente sottostimati, anche perché il Pentagono considera un detenuto in sciopero della fame solo dopo che ha rifiutato nove pasti consecutivi. Secondo le testimonianze dei legali dei detenuti, riportate in questi giorni dai media d’oltreoceano, lo sciopero della fame si starebbe addirittura allargando a virtualmente tutta la popolazione del carcere. Alcuni dei detenuti in sciopero, poi, sono già stati sottoposti ad alimentazione forzata, con i medici militari che stanno utilizzando un metodo che prevede l’inserimento di un apposito tubo nel naso del detenuto per far passare elementi nutritivi direttamente nello stomaco. Tale procedura è quasi universalmente considerata come una forma di tortura. La rivolta in corso a Guantánamo ha spinto anche i vertici dell’esercito a rispondere alle accuse sollevate dai legali dei detenuti. Il portavoce della prigione, capitano Robert Durand, ha affermato ad esempio che le procedure di perquisizione delle celle e per l’esame delle copie del Corano non sono cambiate negli ultimi mesi. A suo dire, perciò, i detenuti hanno interamente fabbricato l’accusa della profanazione del libro sacro ai musulmani per ottenere una qualche attenzione mediatica. Il comandante del Comando Meridionale, generale John Kelly, ha poi anch’esso sostenuto che il Corano nelle celle dei sospettati di terrorismo viene maneggiato secondo le regole previste e solo dagli interpreti del carcere, tutti di fede musulmana. Al di là del vero o presunto abuso delle pagine del Corano, ad innescare la disperata protesta è stato in realtà il limbo legale senza via d’uscita nel quale si ritrovano le persone rinchiuse a Guantánamo. Lo stesso generale Kelly, nel corso di un’audizione alla commissione Forze Armate della Camera dei Rappresentanti di Washington, ha riconosciuto questa situazione, ammettendo che i detenuti “nutrivano un grande ottimismo circa la chiusura di Guantánamo… ma sono poi rimasti sconvolti quando il presidente [Obama] ha rinunciato” a mantenere la promessa di smantellare il carcere. Subito dopo il suo insediamento nel gennaio del 2009, infatti, Obama aveva emesso una direttiva per disporre la chiusura della struttura detentiva entro un anno. Questo impegno è però svanito ben presto in seguito alle resistenze del Congresso - dove sono state approvate disposizioni per impedire il trasferimento dei detenuti accusati di terrorismo in territorio americano per affrontare un processo in un tribunale civile - e, più in generale, al continuo ricorso da parte dell’amministrazione democratica agli stessi metodi illegali inaugurati dal presidente Bush nell’ambito della cosiddetta “guerra al terrore”. Così, solo una manciata di detenuti ha finora potuto lasciare l’isola, mentre circa la metà di quelli ancora rinchiusi si trova nell’incredibile situazione di non potere ottenere l’autorizzazione al rilascio pur essendo stati praticamente scagionati da ogni accusa da parte dello stesso governo americano. La motivazione ufficiale, per questi casi, è che la situazione interna dei paesi in cui i detenuti dovrebbero essere trasferiti rimane troppo instabile, come ad esempio in Yemen. Quasi tutti gli ospiti di Guantánamo, comunque, sono detenuti da 11 anni o poco meno senza essere mai stati accusati formalmente di nessun reato né, tantomeno, senza essere stati sottoposti nemmeno ad un processo - farsa come quello previsto nell’ambito degli speciali tribunali militari, appositamente creati dall’amministrazione Bush e riproposti da Obama dopo una serie di cambiamenti puramente cosmetici per dare una parvenza di legalità al vergognoso sistema delle detenzioni indefinite.