Giustizia: per le carceri tanti buoni propositi, ma nulla cambia… di Valter Vecellio Notizie Radicali, 1 marzo 2013 L’incontinente (verbalmente parlando), ministro dell’(in)giustizia, signora Paola Severino, ci fa sapere che “il sovraffollamento nelle carceri è una delle ombre, in Sicilia come nel resto d’Italia”. Folgorati da una simile rivelazione, ci siamo chiesto come si sarebbe ulteriormente sviluppato il ragionamento della signora ministro dell’(in)giustizia. Ci soccorre la cronaca della “Sicilia”, che riferisce del tour negli istituti penitenziari. Tour definito “in diretta”, e vai a capire che cosa significa. Esisteranno anche “visite in differita”? L’obiettivo sembra sia quello della “deflazione carceraria”. Già chi usa una simile terminologia meriterebbe di finire in cella. Il bello è che la signora ministro dell’(in)giustizia, non paga di un anno di fallimenti detta l’agenda di chi - ci si augura in tempi rapidi - è destinato a sostituirla; e confida “che il nuovo Parlamento, che sarà composto da molti giovani e molte donne, dimostri sensibilità nei confronti del mondo carcerario e dei problemi dei detenuti, affrontando, per esempio, l’argomento delle misure alternative alla detenzione”. Far meglio non dovrebbe essere difficile. E bastano due esempi. Il primo è relativo alla questione dei cosiddetti “braccialetti elettronici”. Uno scandalo: non vengono usati, ma sono profumatamente pagati; fece scandalo a suo tempo l’affermazione di un alto dirigente della polizia, secondo il quale acquistare quei braccialetti in una gioielleria del quadrilatero chic di Roma, alle casse dello Stato e al contribuente sarebbe costato molto meno. Ma lo scandalo vero è che quell’affermazione era fondata, corrispondeva al vero. Ha fatto qualcosa per rimediare a quello sperpero, la signora ministro dell’(in)giustizia? Altra questione su cui si vorrebbe avere qualche informazione, qualche dato: che frutto ha dato la “trovata”, ampiamente pubblicizzata, delle celle transitorie all’interno delle questure e degli uffici di polizia? Su “Notizie Radicali” di ieri abbiamo dato conto di un’inchiesta pubblicata da “L’Espresso” sulle carceri. Giova ritornarci. Il primo servizio, di Lirio Abbate (“Inferno in cella”), racconta che nelle carceri sono stipati “sempre più detenuti, e in condizioni sempre peggiori, ma lo Stato spreca soldi in piani inutili; e l’88 per cento dei fondi finisce in stipendi”. Quella di Abbate è un’inchiesta su quella che giustamente viene definita “una vergogna nazionale”. Seguiva una seconda inchiesta, di Paolo Biondani e Arianna Giunti: “Se questi sono uomini”. Si dà conto di “malati con cancro e AIDS senza cura. Donne con neonati in gabbia. Sporcizia dovunque”, e si pubblicano le testimonianze di persone non a caso definite “prigionieri”. Bene, cioè: male, malissimo. Perché sempre “l’Espresso”, esattamente un anno fa, nel n.6 del 9 febbraio 2012, pubblicava un’inchiesta, pubblicizzata fin dalla copertina: “Esclusivo. Carceri d’oro. Neanche un soldo per nuove prigioni. Mentre ministri e dirigenti della giustizia spendono in auto blu, case di lusso, super consulenze”. L’inchiesta anche un anno fa era firmata da Abbate e cominciava così: “Il livello di civiltà di un Paese? Per Paola Severino si misura dallo stato delle carceri. Il nuovo ministro della Giustizia vuole risolvere il problema del sovraffollamento delle pessime condizioni di detenzione. E ha promesso di ‘dimostrare anche ai criminali della massima pericolosità l’intima diversità tra la legalità della nostra democrazia e ogni forma di intollerabile arbitrio”. Bello eh? Una bella inchiesta, documentata, seria, precisa, che evidentemente ha potuto contare su informazioni di prima mano, fornite da chi, dentro l’istituzione, assiste stomacato a mille e un abuso, a mille e uno sperpero. Ripetiamo, aiutati dal sommario: “In celle vecchie e sporche 70mila detenuti. Mentre dirigenti e ministri della Giustizia spendono. Per case, auto blu e privilegi”. E ora il sommario dell’inchiesta pubblicata una settimana fa: “Sempre più detenuti, e in condizioni sempre peggiori. Ma lo Stato spreca in piani inutili. E l’88 per cento dei fondi finisce in stipendi. Inchiesta su una vergogna nazionale”. Impressionante, vero? A distanza di un anno, nulla è mutato, qualcosa è peggiorato; e per descrivere la situazione si possono tranquillamente usare le stesse parole…Ed è “l’Espresso”, non un lagnoso radicale, a scrivere che “…il carcere in Italia è una discarica sociale. Dopo anni di proclami sul giusto processo e il garantismo, il nostro Paese ha il record assoluto di condanne inflitte dalla Corte europea per condizioni di detenzioni disumane…”. Torniamo all’inchiesta di un anno fa: “Privi di fondi, gli istituti di pena hanno accumulato una morosità record per le forniture di luce acqua, gas, che sfiora i 90 milioni di euro… In compenso, le sedi regionali del Dap, e in particolare l’Ufficio esecuzioni penale esterna sono tutti in affitto per una spesa complessiva di 5 milioni e 800mila euro. Dai documenti ottenuti si paga un canone doppio rispetto al valore di mercato. In alcuni casi è stato moltiplicato anche cinque volte, come a Palermo, dove per 200 metri quadrati al piano ammezzato in via Damiani Almeyda, il Dap paga 5.242 euro al mese, quando nella stessa zona alloggi di lusso vengono affittati a 1.500 euro. A Roma invece, per un grande appartamento in via Ostiense di proprietà della Finimvest III, società lussemburghese, il canone annuo è di 254 mila euro. A Bologna gli uffici del provveditorato e quelli dell’UEPE costano ogni anno 367 mila euro. La Società Sicily Real estate srl incassa per due uffici a Catania 133mila euro; a Catanzaro si spendono 171 mila euro”. Insomma: in un anno non è cambiato nulla, qualcosa è perfino peggiorato. Per questo, sarebbe opportuno che in un sussulto di pudore, la signora ministro dell’(in)giustizia finalmente tacesse, cercando e sperando di essere così dimenticata. Giustizia: carceri a numero chiuso e proposte legge di iniziativa popolare per umanizzarle di Valentina Ascione Gli Altri, 1 marzo 2013 Grazie alla decisione del Tribunale di Sorveglianza di Venezia di chiedere alla Corte Costituzionale di esprimersi sulla possibilità di sospendere la pena se in cella non c’è abbastanza spazio, per la prima volta si affaccia all’orizzonte penale del nostro paese l’idea delle carceri “a numero chiuso”. Una formula certo non - esplicitata dai giudici che si sono trovati di fronte alla richiesta del detenuto Paolo Negroni, originario di Padova, di ottenere il differimento della pena a causa del sovraffollamento, ma che nella sostanza richiama quanto già accaduto in California e in Germania, dove sono stati posti limiti all’ingresso in carcere se questo non garantisce il rispetto dei diritti umani. In California nel 2009 la Corte federale aveva addirittura intimato il Governatore di mettere fuori un terzo della popolazione reclusa, circa 40mila persone, perché il sovraffollamento non garantiva ai detenuti condizioni di vita dignitose. Il 47enne padovano, arrestato a settembre scorso mentre pedalava per le strade di Tombolo violando gli arresti domiciliari, era stato condannato a ulteriori otto mesi di detenzione. Ma nella sua cella del carcere Due Palazzi, dove al momento risiedono circa 870 detenuti in 369 posti regolamentari, l’uomo si è visto costretto a vivere con meno di tre metri quadri a disposizione. Un “trattamento inumano e degradante”, oltre che una violazione dell’articolo 27 della Costituzione, secondo quanto stabilito poche settimane fa dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza Torreggiani, con la quale ha condannato il nostro Paese. Mentre così la Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza, e in pratica a stabilire se una pena vada scontata in cella anche a rischio di essere incostituzionale, è stata avviata la raccolta firme sui tre progetti di legge di iniziativa popolare, promossi da un ampio “cartello” di associazioni e organizzazioni. E nel pacchetto di proposte legislative “per la giustizia e i diritti” si prevede appunto che “nessuno debba entrare in carcere se non c’è posto”. E che, per risolvere il grave stato di sovraffollamento, sia necessario modificare quelle leggi che cercano nel carcere una risposta al disagio sociale. Leggi il più delle volte ideologiche, come quella sulle droghe, che ha riempito le nostre galere di tossicodipendenti, come dimostra il dato sconvolgente del Consiglio d’Europa secondo cui in Italia il 38,4 dei detenuti ha una condanna definitiva proprio per i reati previsti della Fini-Giovanardi. Sarà forse per difendere questo risultato record che Carlo Giovanardi s’è affrettato a puntare il dito contro quei politici che hanno sottoscritto le leggi di iniziativa popolare, accusandoli di volere la liberalizzazione delle sostanze? Più probabilmente, come hanno replicato le associazioni del cartello promotore, prima di parlare l’ex sottosegretario non si è nemmeno preso la briga di leggere il testo della loro proposta. Perdendo così l’ennesima occasione per star zitto. Giustizia: il reinserimento lavorativo dei detenuti conviene di Cristina Coglitore www.prodottinliberta.it, 1 marzo 2013 Lo dimostrano i dati del Progetto Esodo, iniziato nel 2011 nel vicentino, veronese e bellunese con un finanziamento della Fondazione Cariverona da 1,8 milioni nel 2011 e 1,56 milioni nel 2012. A Vicenza la recidiva, mediamente intorno al 70%, si è abbassata all’8%. Il percorso è vantaggioso anche sotto il profilo economico: se ogni detenuto nel 2012 è costato 3.511 euro al mese (dati Dap, ottobre 2012), il costo mensile per una persona in misura alternativa al carcere seguita dal Progetto Esodo è stato invece di 900 euro al mese. Esodo promuove azioni per il recupero delle persone detenute, maschi e femmine, nelle tre province, muovendosi su quattro assi: inclusione sociale e abitativa per chi sta finendo di scontare la pena, reinserimento nel mondo del lavoro, formazione e sostegno alla persona. Le persone prese in carico nelle tre provincie sono state complessivamente 391 nel 2011 e 372 fino al 30 settembre 201. Il progetto ha avviato 560 azioni specifiche nel 2011 e 573 nel 2012. Nei primi nove mesi del 2012 sono stati attivati 134 inserimenti lavorativi (laboratori occupazionali, tirocini e contratti di lavoro veri e propri), tirocini nel 63% e 50 percorsi occupazionali. La seconda annualità del progetto ha visto un aumento dei posti disponibili in strutture residenziali, da 41 a 59 con una permanenza media di circa 4,8 mesi. Quanto al sostegno della persona, a fine settembre i percorsi erano complessivamente 178, la maggior parte dei quali individuali e condotti in carcere. Giustizia: Berlusconi (Pdl); pm usano carcere come minaccia, situazione barbara Asca, 1 marzo 2013 “È una situazione barbara quella di pm che utilizzano il carcere come minaccia per far dire quel che vogliono ai vari imputati o tengono in carcere persone come Lavitola, in carcere da un anno senza aver commesso reati così gravi da dover essere tenuto in carcere”. Lo afferma Silvio Berlusconi ai microfoni di Studio Aperto. “Sono forme di pressione sui cittadini affinché, stremati, pur di tornare alla libertà, possono dichiarare tutto quello che i pm vogliono dichiarare. Questo - continua Berlusconi - è un fatto annoso nella storia dei rapporti con la magistratura a cui dobbiamo dire basta”. Berlusconi ribadisce che il Pdl scenderà in piazza il 23 marzo “per protestare contro una parte dei magistrati che utilizza il proprio potere per lotta politica e per eliminare quegli avversari che attraverso i sistemi democratici delle elezioni non si riescono ad eliminare dalla scena politica”. Giustizia: Garante Privacy “condanna” il Dap; no a sindacati nomi lavoro straordinario Asca, 1 marzo 2013 Le pubbliche amministrazioni, in assenza di disposizioni normative o di specifiche clausole contenute in contratti collettivi, non possono comunicare le ore di straordinario svolte da un dipendente indicando anche il nome e il cognome dello stesso. Le comunicazioni vanno fatte in forma anonima o aggregata. A darne notizia è la newsletter del Garante per la protezione dei dati personali che ha imposto al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia di interrompere la trasmissione alle organizzazioni sindacali dei dati relativi alle ore di straordinario effettuate da un commissario di polizia penitenziaria. L’interessato, non iscritto ad alcun sindacato, aveva lamentato la comunicazione in forma nominativa, alle organizzazioni sindacali del comparto sicurezza, del prospetto concernente le prestazioni di lavoro straordinario da lui effettuate e le relative competenze. Ritenendo violate le norme sulla privacy, aveva chiesto che il dipartimento cessasse tale trattamento illecito dei dati. Non avendo ottenuto riscontro, si era è rivolto dunque all’Autorità chiedendo che i suoi dati personali non venissero né trasmessi alle OO.SS., né affissi e quindi diffusi in locali comuni. L’istruttoria condotta dal Garante ha messo in luce come nel caso in questione non esistono né disposizioni normative né disposizioni contenute in accordi sindacali di settore che legittimino la trasmissione in forma nominativa di informazioni relative alle ore di straordinario svolto dai dipendenti dell’amministrazione penitenziaria: l’accordo nazionale quadro per il personale del corpo di polizia penitenziaria, risalente al 2004, prevede infatti solo la comunicazione in forma anonima dei prospetti delle prestazioni di lavoro straordinario. Nella sua decisione l’Autorità ha richiamato inoltre quanto previsto dalle linee guida del Garante del 14 giugno 2007 (doc. web n. 1417809), sul trattamento dei dati personali nel rapporto di lavoro pubblico, le quali stabiliscono che l’amministrazione pubblica può fornire alle organizzazioni sindacali dati numerici e aggregati e non anche quelli riferibili ad uno o più lavoratori individuabili. Nell’accogliere dunque il ricorso dell’interessato e ritendendo pertanto illecito il trattamento effettuato dall’amministrazione penitenziaria, l’Autorità ha disposto il blocco dell’ulteriore comunicazione dei dati del dipendente addebitando le spese del ricorso al ministero. Giustizia: processo Thyssen; per la Corte di Assise di Appello non fu omicidio volontario di Sarah Martinenghi e Meo Ponte La Repubblica, 1 marzo 2013 Non più un omicidio volontario, ma un incidente. Gravissimo, tanto da meritare condanne pesanti, le più alte mai inflitte per un infortunio sul lavoro, ma non più una strage voluta dall’indifferenza e dalla logica del profitto. Alle 11.30 di ieri, dopo due ore e mezzo di camera di consiglio, i giudici della Corte d’assise di Appello leggono la sentenza per il rogo della Thyssen, la fabbrica dove la notte del 6 dicembre 2007 bruciarono sette operai. Le condanne di primo grado sono ridimensionate: l’amministratore delegato della Thyssen, Harald Espenhahn, si vede ridurre la pena da 16 anni e mezzo a 10. Come tutti gli altri imputati, in primo grado condannati a 13 anni e 6 mesi. Gerald Priegnitz e Marco Pucci, consiglieri delegati, se la cavano con 7 anni, Raffaele Salerno, il direttore dello stabilimento di Torino con otto anni e sei mesi, Daniele Moroni, responsabile dell’area tecnica, con 9 (rispetto ai 10 anni e 10 mesi del primo processo) e Cosimo Cafueri, il responsabile della sicurezza, unico che si è presentato ai giudici in lacrime, con otto anni. È però la scomparsa del “dolo eventuale” a suscitare sorpresa e polemiche. I giudici del primo grado avevano fatto propria la tesi dei tre pm Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso secondo i quali Espenhahn aveva accettato il rischio di una strage risparmiando sui sistemi di sicurezza e antincendio nello stabilimento torinese prossimo alla chiusura e al trasferimento dell’intera produzione a Terni. Ora invece la Corte d’assise d’Appello riporta la tragedia di quella notte di sette anni fa nell’ambito dell’omicidio colposo e non più volontario. La reazione alla sentenza non si fa attendere: i familiari delle vittime urlano, occupano l’aula, vogliono spiegazioni, si sentono traditi. Anche i pm hanno le facce scure. Più tardi però lo stesso Raffaele Guariniello spiegherà: “È una sentenza comunque storica, mai in Italia e nel mondo sono stati dati tanti anni di carcere per un infortunio sul lavoro”. Guariniello ha capito che il presidente della Corte Giangiacomo Sandrelli, per tanti anni in Cassazione, e il giudice a latere Paola Perrone hanno di fatto “blindato” la sentenza di condanna dei vertici della Thyssen, rendendola inattaccabile davanti alla Suprema corte. Il “dolo eventuale” è infatti difficilissimo da provare a differenza della “colpa cosciente”. Guariniello, che aveva deciso di ritirarsi dopo il processo Eternit, annuncia che resterà: “Per il ricorso in Cassazione e sino alla fine di questa vicenda”. Anche le difese ricorreranno alla Suprema corte. “Abbiamo ottenuto il giusto - spiega l’avvocato Ezio Audisio, legale di Espenhahn - è stata accolta la nostra tesi che riteneva insussistente il reato di omicidio. Ho parlato con il mio assistito, è sollevato dal peso di un’accusa infamante come quella di aver voluto la morte dei suoi dipendenti. La sanzione resta comunque pesante e lui ne è cosciente, ma ricorrendo potremo avere un ulteriore chiarimento della vicenda”. Giustizia: processo Thyssen; quanto pesa quella colpa… di Luciano Gallino La Repubblica, 1 marzo 2013 La pena comminata a chi viene riconosciuto colpevole di un reato in base al codice è intesa svolgere funzioni sociali di grande importanza. Punire in misura adeguata l’autore del reato; esercitare una forte misura di dissuasione nei confronti di chiunque fosse tentato di commettere azioni analoghe; mostrare a chi da quel reato ha ricevuto danno che giustizia è stata fatta. Nel caso Thyssen, in che misura tali funzioni paiono essere state assolte dalla sentenza di appello? Da un punto di vista strettamente giuridico, è evidente che per dare una risposta bisogna attendere le motivazioni della sentenza. E soltanto un giurista potrà farlo in forma appropriata. Tuttavia nel caso Thyssen vi sono migliaia di persone che cercano subito una risposta, a cominciare dai parenti delle vittime, e dal modo in cui la formulano dipendono sia il tasso di fiducia che ripongono nella magistratura, sia i comportamenti che terranno nelle materie toccate dalla sentenza. Il pm Raffaele Guariniello sostiene che, seppure con una notevole riduzione di pena rispetto al primo grado di giudizio, la sentenza risulta di una durezza quale di rado si è vista in Italia, ed è difficile non convenire con lui su questo punto. Innumerevoli incidenti sul lavoro, nel passato, hanno dato origine a sentenze sostanzialmente più miti dell’appello di Torino. D’ora innanzi sarà questa sentenza a fare giurisprudenza. Per cui, può dirsi che con la seconda sentenza di Torino rispetto alla prassi vigente un tangibile progresso è comunque stato compiuto nella difesa della salute sui luoghi di lavoro. La questione sembra tuttavia presentarsi in una luce un po’ diversa se si guarda, da un lato, alla percezione della sentenza che possono aver avuto i familiari delle vittime e i loro compagni, che stanno in tutta Italia e non solo a Torino; e, da un altro lato, alla sua efficacia dissuasiva nei confronti di dirigenti d’azienda e imprenditori. È chiaro che non spetta a chi ha subito un danno valutare e men che mai determinare l’entità della pena da infliggere al colpevole. Ma coloro che avevano accolto con soddisfazione la pesante sentenza di primo grado, sorretta da un formidabile impianto delle motivazioni - 508 pagine di inusitata levatura tecnica, oltre che giuridica - non possono non essere negativamente colpiti dalla riduzione delle pene principali di oltre un terzo per tutti i principali imputati, a partire dall’ad Herald Espenhahn. Né possono a meno di chiedersi quali novità siano intervenute nel frattempo per giustificare una simile riduzione. In realtà non sembra esservi stata alcuna dirimente scoperta investigativa. Né la riduzione della pena appare dovuta a circostanze attenuanti o altre causali prima non applicate: la si deve soltanto alla derubricazione del reato da omicidio volontario a omicidio colposo. In primo grado la Corte aveva applicato l’art. 575 del c.p., il quale recita seccamente “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore a tot anni”. La sentenza d’appello si riferisce invece a chi “cagiona per colpa la morte di una persona” e prevede pene che partono da pochi mesi di reclusione. Sotto questo aspetto, c’è quasi da stupirsi che le pene comminate agli imputati siano rimaste così elevate, sia per l’ad che per gli altri dirigenti. Ma qui entra in scena la funzione dissuasiva della pena, che la sentenza d’appello - è giocoforza concludere - appare avere sostanzialmente mitigato. Un conto è temere di venire accusati di aver cagionato la morte di un uomo. È un’accusa terribile. Assai meno pesante è l’accusa di avere concorso a cagionare una morte per colpa, ossia per un atto qualsiasi di omissione o violazione di norme. È la derubricazione della motivazione dell’accusa nell’appello del caso Thyssen, più ancora che l’alleggerimento delle pene, che induce a riflettere sulle conseguenze che essa potrebbe avere nel comportamento quotidiano di chi, a qualunque titolo, è responsabile della sicurezza sui luoghi di lavoro. Viterbo: detenuto di 33 anni tenta suicidio, ha ingoiato delle pile e poi si è tagliato le vene Dire, 1 marzo 2013 Ennesimo tentativo di suicidio al carcere di Mammagialla, a Viterbo. Un maghrebino di 33 anni, detenuto per vari reati, avrebbe provato a togliersi la vita ingerendo lamette e tagliandosi le vene. Immediato l’intervento della Polizia penitenziaria, racconta viterbonews24, che ha allertato i soccorsi. Ora è ricoverato in gravi condizioni all’ospedale di Belcolle. È un tunisino l’uomo che la notte scorsa, intorno alle 23, ha cercato di togliersi la vita nel carcere di Mammagialla, a Viterbo. Ha prima ingerito delle pile (e non delle lamette), poi si è tagliato le vene dei polsi e infine ha provato anche ad impiccarsi. L’immediato intervento della Polizia penitenziaria ha impedito che il detenuto portasse a compimento il suicidio. Adesso è ricoverato in prognosi riservata all’ospedale Belcolle e le sue condizioni restano gravi. Salerno: detenuti a rischio, solo quattro medici per 550 persone di Barbara Cangiano La Città di Salerno, 1 marzo 2013 La storia di Carmine Tedesco, il detenuto 58enne deceduto al “Ruggi” il 14 novembre in circostanze ancora da chiarire, “non è purtroppo la prima, né allo stato sembra essere l’ultima che registriamo in un Paese in cui non esiste la pena di morte, ma è stata illegalmente introdotta la morte per pena. Sono tanti i casi che gridano giustizia”. Donato Salzano, esponente salernitano dei Radicali, da anni si batte per migliorare le condizioni di vita nella casa circondariale di Fuorni e nella sezione detenuti del “Ruggi”. La situazione è drammatica. “La direzione sanitaria del carcere si fa in quattro, ma l’assistenza è assolutamente carente - spiega Salzano - Il numero degli immatricolati è salito a 550, il personale è tarato per una capienza massima di 280 unità. In servizio sono rimasti quattro medici ed altrettanti infermieri che non hanno né farmaci a sufficienza, né adeguate attrezzature diagnostiche. Basti pensare che in tutta la casa circondariale ci sono soltanto due defibrillatori”. Un mese fa i Radicali incontrarono il manager dell’Asl Antonio Squillante per chiedere il raddoppio dei defibrillatori e l’istituzione di corsi di primo soccorso per gli agenti della polizia penitenziaria, “ma ad oggi non si è mossa una foglia”, sottolinea. Le patologie principali con cui gli operatori sanitari del carcere si scontrano sono le cardiopatie, le malattie infettive “e recentemente il diabete, di cui era affetto Tedesco, che rappresenta una emergenza che la casa circondariale non è in grado di fronteggiare come dovrebbe”. Non è migliore la situazione della sezione detenuti dell’Azienda ospedaliera di via San Leonardo: “Sono aperte solo quattro celle su sei. Nessuna ha il proprio bagno né un televisore. Vivono in condizioni più dignitose le persone sottoposte al 41 bis - incalza l’esponente dei Radicali - Le guardie notturne, poi, vengono espletate da un medico della Medicina generale, reparto situato in tutt’altro plesso rispetto alla sezione detenuti”. I familiari di Tedesco hanno sporto denuncia affinché la Procura faccia luce sulle cause del decesso dell’uomo: dopo oltre tre mesi, non hanno avuto alcuna risposta. Cagliari: cantiere del nuovo carcere di Uta, accordo per pagare gli stipendi ai lavoratori www.sardegnaoggi.it, 1 marzo 2013 Carcere di Uta, si va verso la svolta per i lavoratori: raggiunto l’accordo tra l’appaltatore del nuovo istituto penitenziario e i sindacati per procedere al pagamento delle spettanze dovute ai lavoratori e alla cassa Edile, con l’impegno di rispettare anche le scadenze successive. È l’esito dell’incontro che si è tenuto ieri, a Roma, nella sede del Governo per le infrastrutture carcerarie, su richiesta dell’assessore provinciale alle Politiche del lavoro, Lorena Cordeddu che, venerdì scorso, d’intesa con Cgil, Cisl e Uil, ha inviato al Commissario Straordinario per l’Edilizia Penitenziaria, Angelo Sinesio, la richiesta di un incontro urgente per esaminare le problematiche dei lavoratori dell’appalto Istituto Penitenziario di Uta. In particolare viene garantito il pagamento dei salari dei mesi di gennaio 2013 e del 50% del mese di febbraio 2013 e della cassa edile entro il 4 marzo 2013 ai lavoratori di opere pubbliche e opere idriche e opere stradali da parte dell’appaltatore. Esprime soddisfazione l’assessore Cordeddu “La Provincia, già dallo scorso anno - dichiara - ha attivato un tavolo di mediazione relativamente alle problematiche dei lavoratori dell’Azienda Opere Pubbliche, titolare dell’appalto per la costruzione dell’Istituto Penitenziario. Continueremo a vigilare - conclude - perché gli accordi presi siano rispettati”. Cagliari: all’Ipm di Quartucciu personale ridotto all’osso, i sindacati annunciano proteste www.sardegnaoggi.it, 1 marzo 2013 Carcere minorile di Quartucciu, monta la protesta. Organici ridotti e inerzia da parte della dirigenza. Sono questi i motivi che domani porteranno il personale dell’istituto di pena a indire un’assemblea dalle 11 alle 13. I sindacati: “fallimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. “L’inerzia dimostrata dalla Dirigente nell’affrontare i gravi problemi denunciati relativi all’istituto di Quartucciu, emblematici della criticità della giustizia penale minorile in Sardegna, nonostante le ripetute richieste di intervento nel tentativo di trovare soluzioni condivise, ha precluso qualunque confronto utile determinando un peggioramento della situazione”. Sindacati sul piede di guerra e assemblea del personale domani a Quartucciu di fronte all’ingresso del carcere minorile. “La carenza di personale all’istituito ha raggiunto limiti non sostenibili - scrivono in una nota sette sigle sindacali - , che mettono a rischio non solo la salute e la sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori che quotidianamente si assumono la responsabilità della erogazione del servizio ma è oramai una situazione a rischio anche per la tutela della salute e della sicurezza degli utenti. È sufficiente evidenziare che a fronte di un organico previsto di 47 unità, attualmente vi sono assegnati 19 agenti di cui solo 11 effettivi. È evidente che tale situazione determina un sostanziale fallimento del progetto educativo attribuito all’Istituto”. I rappresentanti dei lavoratori si spingono oltre: “In autotutela si chiede la chiusura, seppur temporanea, dell’istituto di Quartucciu fino alla copertura dell’organico atto a garantire l’esigibilità dei diritti degli utenti e del personale che vi opera”. Genova: “Loro dentro”, incontro e video con l’Associazione Culturale “L’Ochin” www.levantenews.it, 1 marzo 2013 A Camogli, domenica 3 marzo alle 17 presso il Cenobio dei Dogi, l’Associazione “L’Ochin” propone un incontro con Salvatore Mazzeo (direttore della Casa Circondariale di Genova Marassi), Enzo Paradiso (criminologo), Milò Bertolotto (già Assessora alle carceri della Provincia di Genova), Cristina Oddone e Luisa Stagi (Università di Genova). Verrà proiettato il video “Loro Dentro” da un laboratorio con un gruppo di giovani detenuti. Ingresso libero. Il documentario “Loro Dentro”, è il frutto di un progetto realizzato nel 2011 dal Laboratorio di Sociologia Visuale dell’Università di Genova con un gruppo di giovani detenuti del carcere di Genova Marassi grazie alla Direzione della Casa Circondariale e il sostegno dell’Assessorato alle Carceri della Provincia di Genova. La regia del laboratorio video è di Cristina Oddone. L’attività è stata animata da M. Cannarella, F. Lagomarsino, C. Oddone, L. Queirolo Palmas, F. Seimandi e S. Spensieri. Il dvd è stato prodotto nel 2012 da: Università di Genova - Laboratorio di Sociologia Visuale, Associazione Frantz Fanon, Ser.T. Asl 4 Chiavari. Una decina di ragazzi tra i 20 e i 30 anni, italiani e stranieri, detenuti comuni, ci raccontano dalla loro prospettiva la vita dentro il carcere. Scopriremo insieme i luoghi dell’istituto di pena più grande della Liguria: le celle, la sala colloqui, gli spazi per l’aria, le cucine, i corridoi e i cancelli che si aprono e si chiudono ad ogni passaggio. Dalle immagini e dai loro racconti cercheremo di capire cosa significa trascorrere gli anni della propria gioventù in un carcere, i rapporti che si instaurano tra compagni di pena e con il personale che opera all’interno. Scopriremo le rabbie che accompagnano queste esistenze, le cause che determinano tali realtà, le speranze e le delusioni che sono loro riservate al momento di riprendersi la vita da persone libere. Con il Direttore del Carcere di Marassi dr. Salvatore Mazzeo, il criminologo dr. Enzo Paradiso e Milò Bertolotto, già assessora alle carceri della Provincia di Genova, potremo riflettere sulla situazione del carcere in Italia, sul complesso rapporto tra le istituzioni e le persone detenute e il difficile lavoro di chi svolge, nei diversi ambiti e responsabilità, le mansioni di custodia e trattamento. Le narrazioni personali dei detenuti coinvolti nel documentario “Loro dentro” ci aiuteranno forse a comprendere che il carcere non è un mondo a parte ma ci riguarda, tutti. Una lunga esperienza dal 1999 al 2003 all’interno del Carcere di Marassi e in particolare al Centro clinico, è stata sviluppata da Buby Senarega, cantautore camoglino, con “incontri musicali riflessivi”. Al termine, con la collaborazione e la sintesi artistica di Bruno Costa, è stato realizzato un cd di particolare valore e interesse, contenente racconti, poesie e canzoni dei carcerati che hanno vissuto i cinque anni di incontri. Il Gruppo di Solidarietà “Time for Peace” di Camogli, nello stesso periodo, ha organizzato una raccolta di libri per la biblioteca del carcere e donazioni di solidarietà in occasione delle principali festività di Natale e Pasqua. Piacenza: la voce dei detenuti delle Novate; i volontari presentano “Senza sosta” Libertà, 1 marzo 2013 Hanno raccolto oltre venti storie, tutte voci del carcere di Piacenza: alcuni sono scritti autobiografici, altri sono inventati, l’importante è che servano a regalare uno spazio virtuale a chi è obbligato a vivere quotidianamente nelle ristrettezze di una cella. Il volume “Senza sosta”, presentato oggi pomeriggio nella sala delle Colonne del tribunale, è stato curato dall’associazione Tessere Trame, guidata dalla nota scrittrice Barbara Garlaschelli in collaborazione con il carcere di Piacenza e l’associazione di volontariato Oltre il muro che agisce per abbattere il pregiudizio e sviluppare solidarietà nei confronti dei detenuti. “La proposta del concorso letterario è sempre accolta con grande entusiasmo dai carcerati” ci ha raccontato la volontaria Valeria Parietti “ogni iniziativa li aiuta a riacquistare una dignità”. La bellezza e l’intensità dei racconti hanno colpito profondamente Barbara Garlaschelli: “La letteratura è un’espressione di profonda libertà; poteva sembrare un paradosso, vista la condizione dei detenuti, invece sono stati capaci di scrivere storie toccanti”. Larino (Cb): arrivano le prime pagelle per gli studenti-detenuti del carcere www.termolionline.it, 1 marzo 2013 Si è svolta mercoledì scorso la cerimonia di consegna delle pagelle relative al primo anno di corso. Per agevolare il percorso di studi dei detenuti infatti è' stata data agli stessi la possibilità di frequentare un monoennio, vale a dire due anni in uno. Le schede sono state consegnate dalla dirigente Maria Concetta Chimisso che ha espresso soddisfazione per gli esiti per ora raggiunti ed ha consegnato alla Direttrice della casa circondariale Rosa La Ginestra una donazione raccolta dall'Alberghiero che verrà gestita dall'associazione Iktus di don Benito Giorgetta nata per sostenere i detenuti e favorirne il reintegro sociale. Al termine del rito istituzionale gli allievi della sezione alta sicurezza hanno dato prova del lavoro svolto negli scorsi mesi allestendo un ricco e curato banchetto, il tutto grazie alla direzione del professore di cucina Francesco Granchelli e del professore di sala-bar Tarcisio Dalo' che hanno operato con assiduità e grande professionalità per ottenere risultati ottimi in soli quattro mesi di esercitazioni. All'allestimento del buffet hanno collaborato i docenti Giovanni Valente, Fabiana Di Rosso e l'assistente tecnico Michele Ciarlariello. Contenta anche la direttrice Rosa La Ginestra che ha ecomiato gli studenti più meritevoli dei corsi A, B e C, alcuni dei quali si sono distinti con medie dell'Otto e alti voti in condotta. Trento: mille e una notte senza fiaba… storie di vita in penitenziario Il Trentino, 1 marzo 2013 La Rassegna “Social Film”, promossa dal Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento e riservata al genere cinematografico del documentario, proseguirà oggi con la proiezione del film di Marco Santarelli “mille e una notte”. L’appuntamento è fissato per le ore 21,30 al Teatro “Cuminetti”. Ingresso libero. Il titolo potrebbe forse ingannare, ma la storia raccontata da questo documentario realizzato dal regista romano è tutt’altro che una fiaba. Siamo, infatti, a Bologna nel penitenziario “Dozza” dove, nella sezione giudiziaria del carcere, la vita scorre tra speranza e rassegnazione. Una vita appesa a un tempo che non passa mai e a una “domandina” da scrivere. Nel linguaggio carcerario, “domandina” è il termine tecnico che indica la richiesta che il detenuto deve compilare per ottenere un’autorizzazione: per incontrare il proprio avvocato, fare una telefonata, fare richiesta per lavorare, avere un colloquio con un familiare, chiedere di vedere il proprio educatore o uno dei tanti volontari che quotidianamente operano nel penitenziario. È seguendo il percorso delle “domandine” che “Milleunanotte” entra nelle storie personali dei detenuti e nei labirinti burocratici che regolano la vita in carcere. Il documentario non esplora soltanto quello che succede “dentro”, ma segue anche il percorso di chi torna, anche se solo per qualche giorno, nel mondo, al di fuori dalle mura carcerarie. Nella sezione femminile, dopo quattro anni di reclusione per droga, una detenuta ha ottenuto dal giudice di sorveglianza un permesso di cinque giorni per tornare a casa. Comincia così il viaggio di Agnes, un viaggio di andata e ritorno, per ritrovare luoghi e affetti e tentare di riprendere il filo di una vita normale. Agnes è stata “dentro” per quattro anni, per droga. Oggi ha finalmente scontato la sua pena ed è tornata una donna libera. E con fatica tenta di riallacciare il rapporto con la realtà. Miriam, giovane madre italiana, è dentro anche lei per droga e ha fatto una scelta d’amore: ha preferito tornare in carcere piuttosto che disintossicarsi in una comunità terapeutica. Bologna: a processo 4 poliziotti “rapinatori”, 3 pusher si sono costituiti come parte civile Dire, 1 marzo 2013 È cominciata oggi davanti al gip Andrea Santucci l’udienza preliminare per i quattro poliziotti arrestati quasi un anno fa, il 5 marzo 2012, a Bologna con l’accusa di aver rapinato tre spacciatori clandestini (uno di questi sarebbe anche stato picchiato nelle campagne di Castenaso). I quattro, Francesco Pace, Alessandro Pellicciotta, Valentino Andreani e Alberto Neretti, erano tutti presenti in aula per l’udienza preliminare che è stata aggiornata al 7 maggio. In aula anche i tre magrebini secondo l’accusa (le indagini sono state coordinate dal pm Manuela Cavallo e dal procuratore aggiunto Valter Giovannini) vittime delle rapine e delle violenze dei quattro agenti (che furono immediatamente sospesi dal questore Vincenzo Stingone e che da mesi sono liberi, dopo un periodo passato in carcere e poi agli arresti domiciliari). Tutti e tre i pusher si sono costituiti parte civile e hanno chiesto la citazione del ministero dell’Interno come obbligato in solido. Ora il giudice notificherà il provvedimento al ministero che poi deciderà se costituirsi o meno. Da qui la decisione di rinviare al 7 maggio. Non è escluso che i poliziotti in futuro possano chiedere di essere giudicati con il rito abbreviato. Immigrazione: Cassazione; no ai ricongiungimenti familiari se i migranti sono poligami Avvenire, 1 marzo 2013 No al ricongiungimento familiare per gli extracomunitari poligami. Lo sottolinea la Cassazione, accogliendo il ricorso del ministero degli Esteri contro il rilascio del visto di ingresso in Italia rilasciato a una donna marocchina per ricongiungersi al figlio. L’immigrata, però, risultava sposata con un uomo, già soggiornante nel nostro Paese, il quale aveva chiesto il riconoscimento del diritto al ricongiungimento familiare in favore di un’altra moglie. La Corte d’appello di Venezia aveva respinto le doglianze della Farnesina, rilevando che la domanda di ricongiungimento era stata avanzata dal figlio della donna e non dal coniuge, ed era precedente all’entrata in vigore della legge che vieta il ricongiungimento in casi di poligamia. La sesta sezione civile della Suprema Corte, decidendo nel merito, ha accolto il ricorso del ministero e rigettato la domanda di ricongiungimento familiare. Cina: mostrati in televisione quattro condannati a morte prima dell’esecuzione Tm News, 1 marzo 2013 Le autorità di Pechino hanno mostrato in tv, questa mattina, quattro prigionieri condannati a morte, subito prima della loro esecuzione: i detenuti erano accusati di avere ucciso 13 cinesi in un agguato compiuto nel 2011 a un battello in navigazione sul fiume Mekong. Il primo ad essere mostrato in televisione è stato il birmano Naw Kham, presentato come il capo della banda: con le mani legate dietro la schiena, l’uomo è stato filmato mentre saliva a bordo di un pulmino per essere condotto sul luogo dell’esecuzione con iniezione letale. Le immagini hanno poi mostrato gli altri tre condannati, trasferiti per essere sottoposti alla stessa procedura mortale. Il gruppo, secondo l’accusa, aveva la sua base nello Stato di Shan, in Birmania. Israele: morte detenuto palestinese; anche dopo esami restano incerte cause decesso Tm News, 1 marzo 2013 Le cause della morte di un palestinese detenuto da Israele restano incerte. Lo ha annunciato il ministero della Sanità israeliano oggi, riferendo dei risultati delle analisi effettuate su dei prelievi biologici. Arafat Jaradat, 30 anni, è morto in carcere il 23 febbraio, un decesso che ha provocato scontri per più giorni in Cisgiordania fra manifestanti palestinesi, decine dei quali sono stati feriti, e militari israeliani. Dopo l’esame dei campioni “è stato stabilito che le emorragie e le costole rotte scoperte durante l’autopsia sono caratteristiche dei tentativi di rianimazione effettuati sul defunto dall’amministrazione penitenziaria e dai servizi di soccorso per 50 minuti”, ha precisato il ministero israeliano in un comunicato. “Gli esami tossicologici sono risultati negativi”, ha aggiunto il ministero, precisando che non è emersa alcuna patologia in grado di spiegare il decesso e che saranno effettuati degli esami complementari. Il ministro dei Prigionieri palestinese, Issa Qaraqa, aveva affermato il 24 febbraio che i risultati preliminari dell’autopsia effettuata dall’istituto medico - legale israeliano in presenza di un medico legale palestinese avevano “provato” che Israele lo aveva “assassinato”. Libia: legale ex premier denuncia; al Mahmoudi vittima di torture in carcere Nova, 1 marzo 2013 L’ex premier libico Baghdadi al Mahmoudi sarebbe in fin di vita. In una dichiarazione rilasciata al giornale algerino “el Khabar”, l’avvocato tunisino Mabouk Korchid ha denunciato che il suo assistito, l’ultimo capo del governo all’epoca del deposto regime del colonnello Muhammar Gheddafi, “ormai in punto di morte a causa delle tremende torture subite nel carcere di Tripoli” in cui rinchiuso. L’avvocato tunisino ha denunciato anche il fatto che “al detenuto non sono state date le medicine di cui ha bisogno per curarsi da diverse malattie come il diabete, alcune disfunzioni cardiache e un tumore”. Il legale ha quindi chiesto alle organizzazioni internazionali per i diritti umani di intervenire per salvare al Mahmoudi da una “morte certa”. Le dichiarazioni di Korchid sono state, per, smentite dalle Nazioni Unite. Una delegazione dell’ufficio dell’Onu a Tripoli ha visitato ieri al Mahmoudi, che si trova in cella dal giugno scorso. Nel corso della visita il detenuto ha negato di aver subito maltrattamenti durante la detenzione. Governo: Al-Mahmoudi detenuto in buone condizioni e trattato con umanità Il governo di Tripoli ha negato oggi le informazioni secondo le quali Al Baghdadi al - Mahmoudi, già primo ministro della Libia sotto il regime di Muammar Gheddafi, sarebbe in gravi condizioni dopo essere stato torturato in prigione. L’accusa era stata lanciata ieri dall’avvocato difensore di al-Mahmoudi, in attesa di giudizio in patria con l’accusa di corruzione e istigazione allo stupro di massa dopo essere stato estradato dalla Tunisia nel giugno scorso. Ma l’attuale premier libico, Ali Zeidan, ha oggi smentito qualunque maltrattamento. “Al - Mahmoudi - ha sostenuto Zeidan - è detenuto in buone condizioni ed è trattato con umanità”. Rwanda: corte Aja condanna moglie ex premier per incitamento a genocidio Asca, 1 marzo 2013 La Corte distrettuale dlel'Aja ha condannato a 6 anni di carcere Yvonne Basebya, moglie dell'ex premier del Rwanda Augustin Basebya, per incitamento al genocidio durante il conflitto avvenuto nel paese africano nel 1994. Circa un milione di persone persero la vita nel massacro compiuto dagli estremisti di etnia Hutu contro i Tutsi. La donna, che è di origini olandesi e che ha assistito impassibile alla sentenza alla presenza del marito e di due delle figlie, è stata incriminata per aver cantato una canzone intitolata "Tuba Tsembe Tsembe", che significa "sterminiamoli tutti".