Giustizia: nessuno ne parla, ma in cella si continua a soffrire… e morire di Valter Vecellio Notizie Radicali, 19 marzo 2013 La questione è stata accuratamente elusa e ignorata pervicacemente durante tutta la campagna elettorale. I partiti non ne hanno voluto parlare; e a maggior ragione ora: la giustizia, la sua cronica, strutturale inefficienza, e quella specifica delle carceri non appartiene a nessuna delle “agende” e dei programmi che vengono squadernati. In questo c’è davvero si è raggiunta un’unità nazionale, che affratella il Pdl al Movimento di Beppe Grillo, il Pd e la Lega… Forse non sanno, certo non vogliono fare nulla, nulla hanno fatto; nulla continueranno a fare. Grazie a un lavoro di documentazione del Centro Studi di “Ristretti Orizzonti” disponiamo di dati che per stampa e mezzi di comunicazione non costituiscono “notizia”: nelle carceri italiane si continua a morire, sei decessi nei primi 15 giorni di marzo. In tre casi si tratta sicuramente di suicidio, mentre per gli altri tre casi le cause non sono ancora state accertate: Opg di Reggio Emilia, 16 marzo 2013. Un detenuto ghanese di 47 anni si toglie la vita. L’uomo si è inferto una ferita allo stomaco ed è stato portato d’urgenza al pronto soccorso dell’Arcispedale Santa Maria Nuova. I medici hanno tentato di operarlo per salvargli la vita, ma la ferita era troppo profonda. Il 47enne si è spento sabato mattina presto nel reparto di Chirurgia. Casa di Reclusione di Massa Carrara, 18 marzo 2013. Un detenuto muore in cella il giorno prima di uscire in permesso premio. Non si hanno ulteriori notizie. Opg di Reggio Emilia, 18 marzo 2013. Daniele D.L., 29 anni, originario di Roma, detenuto per “reati minori” viene ritrovato morto in cella. Il corpo viene trasferito all’obitorio di Coviolo. Casa Circondariale di Milano San Vittore, 15 marzo 2013. Detenuto muore nella notte. Era rinchiuso nel terzo raggio e di nazionalità straniera. Casa Circondariale di Pescara, 8 marzo 2013. Un detenuto tunisino viene ritrovato senza vita nella sua cella. Secondo i primi risultati dell’autopsia la morte è dovuta ad “asfissia acuta”. Casa Circondariale di Crotone, 6 marzo 2013. Pasquale Maccarrone, 27 anni, si impicca al letto a castello della cella (nella quale era rinchiuso da solo!). Era stato arrestato il giorno precedente con l’accusa di aver preso parte ad una rapina. Carcere e condizioni di vita intollerabili per l’intera comunità carceraria, epifenomeno della più generale situazione Giustizia. Con buona pace del ministro dell’(in)giustizia, signora Paola Severino, questioni politiche, altro che temi “molto tecnici”. Ogni giorno nei tribunali si consuma quella che si può ben definire amnistia strisciante, clandestina e di classe: l’amnistia delle prescrizioni, di cui beneficia solo chi si può permettere un buon avvocato e ha “buone amicizie”; sono circa 150mila i processi che ogni anno vengono chiusi per scadenza dei termini. Ogni giorno almeno 410 processi vanno in fumo, ogni mese 12.500 casi finiscono in nulla. I tempi del processo sono surreali: in Cassazione si è passati dai 239 giorni del 2006 ai 266 del 2008; in tribunale da 261 giorni a 288; in procura da 458 a 475 giorni. Spesso ci vogliono nove mesi perché un fascicolo passi dal tribunale alla corte d’appello. Una situazione, a parte gli irrisarcibili costi umani, che grava pesantemente sui conti dello Stato. L’esasperante lentezza dei processi penali e civili italiani costano all’Italia qualcosa come 96 milioni di euro l’anno di mancata ricchezza. La Confindustria stima che smaltire l’enorme mole di arretrato comporterebbe automaticamente per la nostra economia un balzo del 4,9 per cento del PIL, e anche solo l’abbattere del 10 per cento i tempi degli attuali processi, procurerebbe un aumento dello 0,8 per cento del PIL. Grazie al cattivo funzionamento della giustizia le imprese ci rimettono oltre 2 miliardi di euro l’anno, e il costo medio sopportato dalle imprese italiane rappresenta circa il 30 per cento del valore della controversia stessa, a fronte del 19 per cento nella media degli altri paesi europei. Una questione sociale, umana, di diritto e diritti. Marco Pannella, i radicali, offrono un’”agenda”, come si dice ora. E i Bersani, i Vendola, gli Ingroia, i Di Pietro, i Grillo, quanti si preparano alla scalata di Palazzo Chigi e del Quirinale, i compilatori di programmi elettorali e di governo, su questo non dicono e non propongono nulla; latitanti, tecnicamente e in senso letterale, dolo e colpa insieme. Gonnella (Antigone): Parlamento intervenga con urgenza (Ansa) “Sei morti, di cui tre suicidi, dall’inizio di marzo nelle carceri italiane. C’è urgenza di un intervento che affronti la questione carceraria. Appello ai parlamentari, fate presto e fate proprie le nostre proposte di legge”. Lo dichiara Patrizio Gonnella, presidente dell’ associazione Antigone, che si batte per i diritti nelle carceri. “Venti organizzazioni stanno promuovendo una campagna (www.treleggi.it) per tre leggi di iniziativa popolare - dice Gonnella - su: introduzione del crimine di tortura nel codice penale, nuova legge sulle droghe, ritorno alla legalità nelle carceri (tra cui abrogazione della legge ex Cirielli e del reato di clandestinità). Chiediamo ai neo/parlamentari di farle proprie e di farlo presto - aggiunge - Nei discorsi inaugurali di Camera e Senato il tema è stato affrontato. Chiediamo ora al Parlamento di prendere seriamente in considerazione il tema, di non lasciare le carceri nel degrado, di cambiare le leggi penali che hanno prodotto questo disastro e che hanno portato l’Italia nella illegalità”. “L’Italia, va ricordato, ha un anno di tempo per porre rimedio al sovraffollamento che produce condizioni inumane di detenzione. La Corte europea sui diritti umani è stata categorica”, conclude Gonnella. Giustizia: gli Opg verso la “non-chiusura”… aspettando la proroga. Interviste ai Direttori Redattore Sociale, 19 marzo 2013 Il 31 marzo è la data prevista per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Ma mancano le strutture alternative che dovrebbero ospitare gli ex internati. Parlano i direttori: “La scadenza non sarà rispettata su tutto il territorio nazionale”. C’è grande incertezza intorno alla chiusura degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari, fissata al 31 marzo 2013. A pochissimi giorni dalla scadenza il quadro che emerge è che mancano strutture alternative in cui collocare gli internati. Cosa succederà dopo il 31 marzo? Quale sarà il futuro degli internati, quali saranno le modalità della loro presa in carico? Ci sarà una proroga della chiusura come ha annunciato il governo? Redattore Sociale ha intervistato 5 direttori dei 6 Opg italiani. Dalle loro risposte si profila di fatto una “non - chiusura”, visto che non ci sono le strutture sostitutive. “Una cosa è certa: l’Opg di Napoli continuerà a funzionare”, afferma Stefano Martone, direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano (Napoli). “Non abbiamo ancora notizie certe, ma la proroga sarà inevitabile”, dichiara Elisabetta Calmieri, direttrice dell’Opg di Aversa. “La scadenza del 31 marzo non sarà rispettata su tutto il territorio nazionale, e ovviamente noi non faremo eccezione”, spiega Ettore Straticò, direttore dell’Opg di Castiglione delle Stiviere (Mantova). Anche Antonella Tunoni, direttrice di Montelupo Fiorentino, sostiene che la chiusura del 31 marzo è “un’ipotesi molto difficile” e che non c’è “alcuna comunicazione ufficiale sulla disponibilità di strutture alternative”. Tuttavia la regione Toscana si sta muovendo “per individuare la struttura, già esistente, ad alta intensità destinata a farsi carico dei casi più impegnativi, mentre per le situazioni più attenuate il modello sarà quello del tipo casa famiglia”. Anche il direttore dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto conferma di essere “in attesa della proroga della chiusura”. Da parte sua il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria rimanda a domani la sua risposta. In Italia ci sono 6 Opg: Barcellona Pozzo di Gotto (Messina, chiuso dopo essere stato posto sotto sequestro il 19 dicembre del 2012), Aversa (Caserta), Castiglione delle Stiviere (Mantova), Montelupo Fiorentino (Firenze), Reggio Emilia e Napoli. In totale le persone che oggi sono ancora all’interno degli Opg sono 1.215 (dato aggiornato a febbraio 2013). È la legge 9/2012, approvata a febbraio del 2012, a fissare per il 31 marzo la data di chiusura e a stabilire che sia concluso un accordo tra le regioni e l’amministrazione penitenziaria per individuare strutture sostitutive degli Opg. Per il superamento degli Opg, la legge prevede un finanziamento di 273 milioni di euro (93 per il personale e gli altri per le strutture). All’approvazione della legge, nata da un disegno di legge presentato dalla Commissione Sanità presieduta dal senatore Ignazio Marino che nel 2011 ha visitato i 6 Opg, ha contribuito anche una grande mobilitazione della società civile riunita nel Comitato Stop Opg. Mobilitazione che è proseguita anche dopo la sua emanazione, in particolare in relazione al dibattito sorto sulle strutture sostitutive, evidenziando il rischio di un ritorno ai manicomi, nella forma dei cosiddetti mini-Opg. Montelupo Fiorentino: improbabile superamento Opg entro 31 marzo La direttrice Tuoni: “Non ci sono comunicazioni ufficiali sulla disponibilità di strutture alternative”. Ma la regione si sta muovendo: “Struttura ad alta intensità già individuata per i casi più impegnativi”. Entro il 31 marzo gli Opg devono essere dismessi per legge. Ma nel caso di Montelupo Fiorentino, come in molti altri casi in Italia, è un’ipotesi “molto difficile”, almeno secondo la direttrice Antonella Tuoni, visto che “non abbiamo avuto alcuna comunicazione ufficiale sulla disponibilità di strutture alternative”. Probabilmente si arriverà ad una proroga. La regione Toscana si sta comunque muovendo per trovare strutture alternative. “La regione - spiega l’assessore alla salute Luigi Marroni - si sta muovendo per individuare la struttura, già esistente, ad alta intensità destinata a farsi carico dei casi più impegnativi, mentre per le situazioni più attenuate utilizzeremo più di una struttura. Il modello sarà quello del tipo casa famiglia e il riferimento sarà l’Azienda sanitaria locale di appartenenza. Al momento siamo nella fase conclusiva di individuazione delle varie strutture, sia quella ad alta che quelle a più bassa intensità e contiamo di rispettare i tempi previsti dall’ultimo accordo stipulato tra regioni e Governo”. Dalla regione fanno inoltre sapere che la Toscana ha comunque già avviato, a partire dal 2011, il processo di superamento dell’Opg, che ha consentito di dimettere 22 internati e trasferirli presso residenze sanitarie. Una volta dismesso l’Opg, spiega ancora la direttrice Tuoni, “visto che sono stati spesi 5 milioni per ristrutturazioni, sarebbe una scelta miope buttare questi soldi nel cestino” e quindi sarebbe opportuno “trasformare la struttura in un carcere che potrebbe ospitare detenuti a bassa pericolosità sociale”. Barcellona Pozzo di Gotto: pronto il piano di riconversione Il direttore Rosania: “Già individuate quattro strutture protette”. “Per quanto concerne i tempi attendiamo la proroga del ministro sullo slittamento della chiusura”. Pronto il piano di riconversione per l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto. A dirlo è il direttore Nunziante Rosania che conferma l’impegno ed il lavoro che è in corso con i rappresentanti delle quattro regioni di riferimento (Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia) per stabilire i criteri relativi alla dimissione di alcuni soggetti e le modalità organizzative relative all’attivazione delle quattro strutture alternative all’Opg già individuate nell’Isola. “Stiamo lavorando a tutto campo con le regioni che rientrano nel nostro bacino di utenza - afferma il direttore Nunziante Rosania. In particolare, abbiamo firmato con i rispettivi assessorati alla Sanità dei protocolli d’intesa. Tra i detenuti vanno distinti i dimissibili da quelli non dimissibili per i quali ci sarà l’inserimento in strutture alternative che verranno predisposte nei prossimi mesi”. “Per quanto concerne i tempi attendiamo la proroga del ministro sullo slittamento della chiusura - continua. Siamo comunque ormai in una fase di superamento di cui adesso vedremo i tempi tecnici. Naturalmente anche le realtà alternative all’Opg vanno pensate in tutta la loro complessità, presupponendo che si tratti di realtà che auspichiamo siano altamente qualificate a sostenere ed accompagnare queste persone in tutte le loro problematiche. Va ripensata tutta la questione della psichiatria, tenendo conto che la malattia esiste e tutta la rete di assistenza va migliorata sotto tutti gli aspetti”. “Per quanto ci riguarda noi siamo pronti e abbiamo già il nostro piano di riconversione - sottolinea il direttore Rosania. Adesso aspettiamo cosa fare per il prossimo futuro. Con l’assessorato regionale alla sanità di Palermo che coordina anche gli altri bacini di utenza delle altre regioni stiamo stabilendo i criteri di dimissioni delle persone detenute e le relative sedi alternative. Si tratta di strutture protette. In Sicilia ne sono già state individuate quattro: a Catania, Agrigento, Messina e Palermo”. Le strutture alternative rispondono ai criteri organizzativi previsti dal decreto Marino: hanno una capienza massima di 20 persone e prevedono il personale specializzato distinto in uno psichiatra, uno psicologo, un tecnico della riabilitazione, un assistente sociale, 12 infermieri e sei operatori sanitari. “Si tratterà di realtà alternative che assumono una valenza sperimentale forte che ci auguriamo lavorino nel migliore dei modi possibili - aggiunge ancora. Da tempo ho sostenuto che questi istituti, gli Opg, residuati bellici veri e propri venissero chiusi - dice. Adesso grazie al lavoro della commissione Marino tutto ciò si sta portando a termine. Naturalmente il mio auspicio è che si istauri un tavolo tecnico che tenga conto di più voci esclusivamente per il bene ed il futuro di queste persone. Speriamo quindi di chiudere al più presto un capitolo per aprirne un altro positivo e costruttivo per tutti i pazienti e sicuramente migliore da tutti i punti di vista”. Attualmente nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto ci sono 148 internati: tutti soggetti che a vario livello sono stati sottoposti a misure di sicurezza dell’Ospedale psichiatrico giudiziario. Di questi ci sono 42 prosciolti con misure di sicurezza definitiva, 36 sottoposti a misura di sicurezza provvisoria in attesa di giudizio, 40 in casa di cura e custodia definitiva seminfermi di mente con la pena ridotta di un terzo, 29 in casa di cura e custodia provvisoria in attesa di definizione, un soggetto in osservazione psichiatrica. A questi si aggiungono anche 8 detenuti che si sono ammalati mentre erano in altre carceri dove erano entrati sani di mente. “In un anno e mezzo sono usciti dall’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto parecchi detenuti - conclude il direttore. Se pensiamo che nel 2011 erano 400 e adesso ne abbiamo 148, potete immaginare quanto lavoro è stato fatto fino a questo momento”. Aversa: il 31 marzo l’Opg non chiuderà Parla la direttrice Palmieri: “Non abbiamo ancora notizie certe, ma la proroga sarà inevitabile. Il problema più grande resta quello della mancanza delle strutture di accoglienza esterna che dovranno essere approntate dalle Asl e dalle regioni”. “Il 31 marzo l’Opg non chiuderà”. Ne è certa la direttrice dell’Ospedale giudiziario di Aversa Elisabetta Palmieri. “Solo a febbraio è stato pubblicato il bando per la ripartizione dei fondi alle regioni finalizzati alla realizzazione delle strutture esterne che dovranno prendersi carico degli ex internati. E il termine per la presentazione dei progetti è ad aprile, già oltre quindi il termine del 31 marzo fissato per la dismissione. Non abbiamo ancora notizie certe, ma la proroga sarà inevitabile. Credo che maggiore certezza l’avremmo solo dopo l’insediamento del nuovo governo”. Quanti sono attualmente gli internati nell’Opg di Aversa? E quante sono le proroghe? “Variano tra i 155 e i 160. Una ventina quelli reclusi da anni per le proroghe disposte dalla magistratura. Dopo il sequestro dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto ospitiamo oltre agli internati di Campania, Molise e Abruzzo, che afferiscono alla nostra competenza territoriale, anche persone provenienti da Sicilia e Puglia, a centinaia di chilometri di distanza da casa e famiglia”. La Commissione Marino, due anni fa, valutò “pessime le condizioni strutturali ed igienico sanitarie della struttura”, considerandole “unitamente al sovraffollamento, fortemente lesive della dignità personale”. Cosa è cambiato da allora? “All’epoca non ero ancora la responsabile, mi sono insediata da poco più di un anno. Ma posso affermare che quelle ispezioni hanno prodotto una scossa. Sono stati realizzati importanti lavori alla struttura ed è stato definitivamente chiuso il padiglione “La Staccata” che versava in condizioni pessime”. Dall’annuncio della dismissione quali passi sono stati realizzati in vista della chiusura? “Ribadendo che il problema più grande resta quello della mancanza delle strutture di accoglienza esterna che dovranno essere approntate dalle Asl e dalle Regioni, qualche cambiamento c’è stato. Negli ultimi due mesi abbiamo registrato un incremento della disponibilità dei Dipartimenti di Salute Mentale ad avviare percorsi esterni individualizzati del 30 - 40 percento rispetto al passato. Anche perché i magistrati di Sorveglianza sono più perentori nell’intimare l’affidamento a strutture sanitarie esterne all’Opg per chi non è più valutato socialmente pericoloso”. Cosa crede si debba fare per la dismissione definitiva? “Serve sicuramente maggiore impegno e tempestività da parte di regione e Asl nell’adeguarsi alla nuova norma. Ma credo non sia ancora sufficiente. In assenza di una modifica del codice penale che lega la pericolosità sociale all’idea di detenzione e lascia persistere il binomio cura e custodia, la dismissione degli Opg rischia di rimanere solo sulla carta”. In che senso? “Lo sostengono molti addetti ai lavori. Se non c’è una riforma del codice gli operatori sanitari non avranno la competenza per affrontare le questioni giudiziarie delle persone affidate. Chi si occuperà delle incombenze giuridiche e legali degli internati nelle nuove strutture? Se si è deciso di perseguire la linea della chiusura credo occorra riformulare l’intero quadro normativo a riguardo. Altrimenti il rischio è che le nuove strutture replichino su scala ridotta gli attuali Opg”. Come sta vivendo il personale e gli internati l’annunciata dismissione? “È una situazione che con il passare del tempo diventa sempre meno sostenibile. Gli operatori sono in una situazione di limbo: sanno che la situazione attuale sta per finire, ma non vedono realizzarsi le condizioni perché ciò avvenga. Da parte degli internati le reazioni sono agli antipodi: c’è chi vive l’attesa con la speranza di poter finalmente tornare a casa, altri, invece, appaiono spaventati. L’Opg, per tanti è diventata una casa, e hanno paura di dover affrontare il cambiamento. Storie diverse che dovranno essere affrontate con grande sensibilità”. Napoli: l’Opg continuerà a funzionare Martone, direttore dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano: “Finché le Asl non creano strutture alternative, le autorità giudiziarie sono tenute a garantire la sicurezza detentiva” “Anche se di fatto non ci sarà una deroga alla legge 9/2012, una cosa è certa: l’Opg di Napoli continuerà a funzionare per garantire la sicurezza preventiva”. Ad affermarlo è Stefano Martone, direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano, Napoli, che, a pochi giorni dalla data limite fissata per la chiusura degli Opg parla ancora di “incertezza” e di un “vuoto di fatto per la mancanza di strutture alternative in cui collocare gli internati”. Si avvicina il 31 marzo, la data prevista per legge per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Quale è la situazione di Napoli? Siamo in attesa di capire cosa accadrà sul piano normativo. Il fatto che non siano state realizzate le varie strutture crea però un vuoto. Fatto è che dal primo aprile, anche se non dovesse intervenire una deroga, l’Opg deve continuare a funzionare. La legge 9/2012 è una norma a “legislazione invariata”, vale a dire che non modifica l’ordinamento né il codice penale: questa legge non chiude gli Opg e finché le Asl non creano strutture alternative, le autorità giudiziarie sono tenute a garantire la sicurezza detentiva. Come avete accolto la notizia della chiusura e come si è preparato l’Opg di Napoli in vista del 31 marzo? In realtà paradossalmente abbiamo riscontrato negli ultimi mesi un aumento e non, come sarebbe stato normale, una diminuzione del numero dei ricoveri. Oggi sono 115 gli internati nell’opg di Secondigliano, 15 in più rispetto alla capienza regolamentare, che è di 100, e 5 in meno rispetto alla soglia tollerabile, che è di 120. Come si spiega questo aumento? Io me lo spiego in due modi. Da una parte, come conseguenza della chiusura dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, che ha determinato un affollamento negli Opg del Sud Italia, compreso quello di Secondigliano. Ma anche come il frutto di una diversa attenzione alla patologia psichiatrica anche nel giudizio di cognizione. Per cui, noi adesso abbiamo il problema inverso: non quello di chiudere, ma di resistere a questa ondata di nuovi ingressi. Una inversione di tendenza rispetto al passato, se si pensa che tra il 2008 e il 2009 erano 80 i ricoverati e, in caso di dimissioni, di buona parte delle persone, la chiusura sarebbe stata una conseguenza naturale. Quali sono i reati più diffusi anche tra i nuovi entrati? I reati di scarso allarme sociale, anche se abbiamo anche casi di delitti avvenuti tra le mura domestiche. Ben venga quindi la chiusura degli Opg e che ci siano strutture adeguate e più accoglienti per queste persone, ma io credo che non si stia affrontando il vero problema. Qual è secondo lei il vero problema? Il problema di base è che in Italia vengono ancora applicate le misure di sicurezza, nel senso che ancora oggi si è privati della libertà personale per una presunta “pericolosità sociale”, un concetto, una percezione. La sua proposta? La mia è una proposta sicuramente rivoluzionaria ma più umana: quella di eliminare le misure di sicurezza preventive, porre fine agli “ergastoli bianchi” e considerare questi autori di reato cittadini come tutti gli altri, messi in condizioni di potere uscire dal carcere e rifarsi una vita. Castiglione Stiviere: scadenza 31 marzo non realistica Ma senza una proroga ufficiale gli Opg non potranno più far entrare nessuno e non ci sono ancora le strutture sostitutive. Straticò (direttore): “Vuoto dannoso, la politica ha pochi giorni per rimediare”. “Guardi, le dico subito che la scadenza del 31 marzo non sarà rispettata su tutto il territorio nazionale, e ovviamente noi non faremo eccezione”. Esordisce così Ettore Straticò, direttore del’Opg di Castiglione delle Stiviere in provincia di Mantova. Come tutti gli Ospedali psichiatrici giudiziari anche quello guidato da Straticò sta affrontando una fase di transizione che dovrebbe portare alla chiusura del centro e alla distribuzione dei pazienti in strutture più piccoli gestite dalle Ausl del territorio. Come state affrontando questa fase di passaggio? Intanto faccio una premessa: da sempre siamo completamente sanitarizzati. A Castiglione lavorano medici, operatori sociali e infermieri. Non ci sono mai state guardie come succede negli altri Opg. Stiamo lavorando su una serie di percorsi in collaborazione con la Regione Lombardia e abbiamo già individuato le sedi dove spostare i pazienti per rispettare la legge 9/2012 che prevede il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Ovviamente la scadenza del 31 marzo non è realistica, e infatti si parla già di una proroga. Cosa succederà a fine mese? Continueremo a lavorare in serenità. C’è però un problema: se non arriveranno indicazioni in senso contrario dal primo di aprile non potremo più accogliere persone nel nostro Opg. Si verrà quindi a creare un vuoto dannoso per tutti, per la qualità del nostro lavoro così come per gli internati: gli Opg non potranno più fare entrare nessuno, ma non esisteranno ancora sul territorio strutture capaci di accogliere queste persone. La politica ha solo 9 giorni di tempo per rimediare, spero si faccia in fretta. La situazione numerica a Castiglione? Abbiamo 280 ospiti, una situazione di cronico sovraffollamento se pensiamo che i posti previsti sono 193 e la capienza tollerabile arriva solo a 220 posti letto. Detto questo siamo stabili: nel 2012 sono entrate 182 persone e ne sono uscite 182. Quanti sono i cosiddetti prorogati? Sono 70, ma ognuno di loro ha avuto una possibilità e ne avrà altre in futuro. Di solito si tratta di persone che hanno passato un periodo di prova in una comunità esterna e che non hanno saputo rimanere, vuoi per avere trasgredito le regole vuoi per avere dimostrato di non essere ancora pronti. Voglio far notare che dal 2010 a oggi abbiamo rinnovato il 93 per cento della popolazione dell’Opg, questo significa che le persone alla fine escono e solitamente sono affidate a comunità protette sparse sul territorio. I tempi medi di permanenza? Per gli uomini ci aggiriamo attorno ai 18 mesi, per le donne si sale a 2 anni e 3 mesi. La differenza si spiega col fatto che le donne arrivano da tutta Italia, isole comprese. L’Opg di Castiglione delle Stiviere è da molti considerato un centro di eccellenza, chiuderà? La legge 9 del 17 febbraio 2012 parla chiaro. Gli Opg vanno superati, e anche quello di Castiglione strutturalmente e architetturalmente ha bisogno di radicali cambiamenti. L’idea è quella di chiudere con l’attuale assetto organizzativo basato su grandi reparti e andare verso piccole strutture. Quello che mi sento di sottolineare è la necessità di preservare la professionalità del personale dell’Opg, che ha sempre lavorato ottimamente. Giustizia: Comitato StopOpg; no ai mini-Opg, usare le risorse per Servizi salute mentale Redattore Sociale, 19 marzo 2013 Il comitato StopOpg interviene sulla questione della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari fissata al 31 marzo. “I rumors ci dicono che ci sarà una proroga nei prossimi giorni, per questo abbiamo voluto sottolineare quali sono le priorità”. Priorità assoluta ai programmi regionali e alle Asl per ottenere i finanziamenti previsti per chiudere gli Opg, con destinazione vincolata: alle dimissioni per tutte le persone internate in “proroga” con l’obbligo di presa in carico da parte dell’Asl (la regola deve essere la dimissione a fine misura, non la proroga dell’internamento); all’esecuzione di misure di sicurezza alternative all’Opg (e al mini-Opg) per gli internati; ai finanziamenti (almeno i 93 milioni di spesa corrente 2012/2013) da assegnare ai Dipartimenti di salute mentale per i budget di salute individuali. E alla costituzione di un’Authority Stato - Regioni per seguire e promuovere il processo di chiusura degli Opg, con poteri sostitutivi per le regioni inadempienti. Sono queste le condizioni su cui il governo dovrà impegnarsi nell’ormai imminente decreto di proroga sulla chiusura degli Opg (la scadenza è fissata al 31 marzo prossimo dalla legge n. 9/2012). Lo chiede il comitato StopOpg in una nota sottolineando che “il ritardo nel superamento degli Opg è dovuto a una legge sbagliata, aggravata dall’inerzia del governo, e applicata male nelle parti relative alle dimissioni ‘senza indugiò degli attuali internati, per inadempienze delle Regioni e delle Asl/Dipartimenti di salute mentale (Dsm)”. “Fonti ufficiali su una proroga della chiusura ancora non ci sono - afferma Stefano Cecconi, portavoce del Comitato - ma i rumors e le fonti che abbiamo ci dicono che ci sarà nei prossimi giorni, per questo abbiamo voluto sottolineare quali sono le priorità. La nostra preoccupazione più grande è che la legge abbia posto attenzione solo sulla costituzione dei miniOpg e non sulle persone. Tra l’altro si prevede un rinvio senza soldi aggiuntivi, ciò significa che nella sostanza non cambia nulla e potrebbero verificarsi pericolose scorciatoie, come accordi con i privati per strutture di custodia”. Secondo Cecconi la maggior parte degli internati rischia di essere trattata in “forma custodiale”, mentre il Comitato chiede da tempo le dimissioni dei circa 400 internati in proroga e misure alternativa per gli altri. Il comitato ribadisce quindi che il problema non è il ritardo nell’apertura dei “mini-Opg regionali”, (le strutture speciali previsti dalla legge 9/2012 al posto degli attuali sei Opg), che secondo Stop Opg non andrebbero costituiti per niente. Al contrario andrebbero usate le risorse previste per potenziare i servizi di salute mentale delle Asl. “Il vero dramma sono le mancate dimissioni e le mancate misure alternative all’Opg per centinaia di malati (la maggioranza degli internati) costretti a subire internamento e proroga dell’internamento in Opg perché non presi in carico dai servizi di salute mentale delle Asl - aggiungono. E ciò accade quando manca un rapporto organico tra magistratura e Dsm, che permetta l’applicazione di misure alternative all’Opg e di cura. Bisogna non solo “svuotare” gli Opg ma contrastare l’invio di nuovi internati”. Stop Opg, aggiungono “chiede che qualsiasi decreto di rinvio, che oggi sembra imminente, sia vincolato a precisi impegni, rispettosi delle sentenze della Corte Costituzionale (del 2003 e 2004) che hanno “ispirato” le leggi sulla chiusura degli Opg: sappiamo che per abolire definitivamente la logica manicomiale, cioè un trattamento speciale per i ‘folli autori di reato, diverso da quello usato verso i cittadini sani, bisogna cambiare il codice penale. Ma intanto oggi si possono superare gli Opg, scongiurare l’apertura al loro posto dei manicomi regionali (mini Opg), e cosi tornare allo spirito originale della legge 180 che, chiudendo i manicomi, restituì dignità e cittadinanza alle persone malate di mente”. Giustizia: al via domani Forum nazionale sulla salute mentale, si parlerà anche degli Opg Redattore Sociale, 19 marzo 2013 Appuntamento per il 20 e 21 marzo, presso il Centro Frentani. Tra i temi in programma l’uso dei fondi, gli Opg e la mancata presa in carico della persona. “Incontro nato dall’amara riflessione sul decennio trascorso”. Fondi spesi male, Ospedali psichiatrici giudiziari e la mancata presa in carico della persona, della famiglia e del contesto. Sono questi i temi al centro del VII Forum nazionale sulla salute mentale che si terrà a Roma domani e il 21 marzo, presso il Centro Frentani. L’incontro, che celebra il decennale dalla fondazione del Forum, ha come obiettivo quello di “connettere la vasta rete che è cresciuta in questi dieci anni intorno al Forum Salute Mentale, con il crescente protagonismo degli utenti e degli operatori”, spiega il Forum ma non solo. L’intento è anche quello di “cercare interlocutori politici e amministrativi che rendano possibili nuove e incisive politiche e soprattutto investimenti nel campo della salute mentale, da elevare ormai al rango, come in altri Paesi d’Europa, di bene comune”. Un confronto che nasce “dall’amara riflessione sul decennio appena trascorso”, un periodo che secondo il Forum non ha visto evoluzioni tanto che il documento fondativo stilato dieci anni fa “potrebbe essere riproposto con la stessa drammaticità di allora, anzi che su alcune questioni si registra addirittura un arretramento”. Per il Forum, si tratta di “ridisegnare nuove prospettive”: “Tra le situazioni su cui è necessario riflettere, da sottolineare la drammaticità della contenzione, il difficile percorso di chiusura degli Opg, lo stravolgimento nell’uso piatto e banale di strumenti di garanzia come il Trattamento sanitario obbligatorio e l’Amministrazione di sostegno, ma anche la persistenza delle psichiatrie della pericolosità e del farmaco che impediscono il protagonismo e la possibilità di reinserimento nella vita sociale e le politiche regionali che hanno portato alla devastazione nell’organizzazione dei servizi”. Dieci anni che non hanno raccolto soltanto situazioni critiche, ma anche successi. “Si rileva con gioia l’empowerment, ossia la crescente partecipazione delle persone con l’esperienza del disturbo mentale secondo un protagonismo attivo, autonomo e indipendente - spiega il Forum - . Ma anche il coraggio e la capacità di essere sulla scena di tanti operatori, a conferma del loro ruolo centrale nei servizi di salute mentale”. Tra gli elementi positivi sottolineati dal Forum, anche la nascita della collana editoriale “180. Archivio critico della salute mentale”, ormai giunta al sesto volume. L’ultimo testo della collana, nata dal lavoro del Forum, verrà presentata venerdì 22 marzo, presso il Museo laboratorio della mente nel Dipartimento di Salute Mentale Asl Roma E, col titolo “Guarire si può - Persone e disturbo mentale”. Un testo che conclude il lavoro di una ricerca sui processi di recovery svolta nei servizi di salute mentale di Trieste. All’incontro del 20 e 21 marzo interverranno i parlamentari Nerina Dirindin, Stefania Pezzopane, Margherita Miotto, Roberta Agostini, Ileana Piazzoni, ma anche il consigliere regionale della Lombardia Sara Valmaggi, il consigliere regionale della Campania Peppe Russo e il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza. Il programma definitivo del Forum si può leggere sul sito del Forum. Giustizia: detenuti, senza dimora, rifiutati dai figli… la Festa triste dei papà più fragili Redattore Sociale, 19 marzo 2013 Quasi il 60 per cento degli homeless si trova in questa condizione in seguito a una separazione dal coniuge o dai figli. E sono molti i padri in difficoltà economiche che fanno fatica a mantenere i figli. Legami “ristretti” per i papà detenuti. Quasi il 60 per cento degli homeless si trova in questa condizione in seguito a una separazione dal coniuge o dai figli. E sono molti quelli in difficoltà economiche che fanno fatica a mantenere i figli e a pagare un affitto. Legami “ristretti” per i papà detenuti. Quella di oggi è una festa triste per molti uomini che non riescono a vivere pienamente la propria condizione di genitore. Papà separati, i nuovi poveri. Secondo il primo censimento sui senza dimora di Istat, Caritas, Fiopsd e ministero del Welfare, il 59,5 per cento delle persone senza dimora si trova in questa condizione in seguito a una separazione dal coniuge o dai figli. La maggior parte sono uomini. Tra i nuovi poveri sempre più padri in regime di separazione legale o di fatto che assolvono al dovere/obbligo di mantenimento dei figli, con gravi difficoltà economiche e abitative, per i quali sono state avviate in Italia diverse strutture, come ad esempio il “Residence dei babbi” del comune di Rimini inaugurata a dicembre 2012 con 8 miniappartamenti di 25 metri quadrati ciascuno; la Casa dei papà del comune di Roma, un insieme di 20 appartamenti che accolgono i papà separati o temporaneamente in disagio sociale o quella di Rho, un progetto ospitato presso il Collegio degli Oblati e gestito dalla provincia di Milano che ha allestito al suo interno un appartamento dove alcuni papà, già ospiti della struttura, potranno ritrovare la propria autonomia abitativa e svolgere il ruolo di tutor per i nuovi arrivati. Papà rifiutati dai figli. Molto interessanti i dati contenuti nell’indagine conoscitiva “Prevenire e curare la rottura delle relazioni genitoriali”, condotta dal garante dell’Infanzia e dell’adolescenza della Regione Lazio, Francesco Alvaro, con la collaborazione della professoressa Marisa Malagoli Togliatti e della dottoressa Anna Lubrano Lavadera della Sapienza. La ricerca ha preso in esame le situazioni di rifiuto segnalate ai servizi sociali di 7 municipi romani (IV, VI, IX, XII, XIII, XV) con l’obiettivo di “individuare le caratteristiche socio - demografiche delle famiglie interessate”. Più di 100 famiglie romane (tra quelle reclutate nel campione soggetto alla ricerca), nel triennio 2008/2011, sono state interessate da situazioni di separazioni o divorzi (legali o di fatto) in cui l’alta conflittualità tra coniugi ha determinato il rifiuto del genitore da parte del figlio. A essere rifiutati risultano soprattutto i genitori di nazionalità italiana e, nella maggioranza dei casi, i padri (84,7 per cento). La maggior parte (59,3 per cento) dei padri rifiutati ha un’età compresa tra i 41 e i 60 anni. Quando il papà è un detenuto. Al 31 dicembre 2012 sono oltre 24 mila i detenuti con figli (4.984 stranieri), il 37 per cento dell’intera popolazione carceraria italiana (65.701 persone). Hanno un solo figlio 7.656 detenuti, 8.408 ne hanno due, 5.109 ne hanno tre, 2.061 hanno dichiarato di avere 4 figli, 746 cinque, 298 sei, mentre 286 hanno più di sei figli. Considerando che nello stesso periodo si trovano ristrette 2.804 donne, i detenuti con figli sono per la maggior parte padri. Si stima che ogni anno in Italia siano circa 75 - 100 mila (tenendo conto anche del turn - over) i bambini che entrano negli istituti penitenziari per incontrare i propri genitori, mentre nell’Unione europea, dovrebbero essere circa 800 mila (dati contenuti in una ricerca dall’associazione “Bambini senza sbarre”). Giustizia: le violenze al Global forum di Napoli e una legge mai inserita nel codice penale di Luigi Manconi Il Foglio, 19 marzo 2013 Partiamo da un fatto di cronaca. Il 17 marzo del 2001, nel corso delle manifestazioni violente verificatesi in occasione del Global Forum di Napoli, all’interno della caserma Raniero Virgilio un’ottantina di persone - alcune prelevate dai pronto soccorso cittadini - vennero sottoposte per ore a ogni genere di sopruso e umiliazione. Secondo i giudici di primo grado, si trattò di “un vero e proprio rastrellamento” e numerosi fermati subirono trattamenti “inumani e degradanti” da parte di agenti e graduati di polizia. Una sentenza del 2010 ha condannato dieci poliziotti, alcuni dei quali per sequestro di persona. Quest’ultimo reato era uno dei pochi rimasti in piedi in quanto la violenza privata, le lesioni, l’abuso d’ufficio e il falso erano andati prescritti, e una fattispecie penale adeguata a quei “trattamenti inumani e degradanti” non è prevista dal nostro codice. Infine, il 9 gennaio del 2013 anche quelle condanne per sequestro di persona sono state prescritte: e quella vicenda di “violenza di stato” è stata come cancellata. E ora consideriamo i seguenti paesi europei: Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Islanda, Lettonia, Lussemburgo, Macedonia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria. Negli ordinamenti di queste nazioni la tortura è un delitto specifico. In Italia no. Ma non siamo “la culla del diritto”? Il paese di Cesare Beccaria e di Pietro Verri? Quello dello stato di precarietà in cui versano, e da decenni, i principi del garantismo nel nostro paese, è tema che andrebbe approfondito. Qualcosa di profondo del carattere nazionale, e forse di oscuro, contribuisce a formare un senso comune sempre meno attento verso le questioni legate alla privazione della libertà e sempre meno sensibile verso il tema fondamentale della tutela dell’integrità della persona. È come se un’idea sostanzialista della giustizia e un’interpretazione tutta in chiave autoritaria della sicurezza prevalessero su qualunque preoccupazione di rispetto delle garanzie individuali. Il risultato è che il garantismo è oggi, in Italia, una sorta di grande rimosso collettivo, che induce a ignorare esperienza e memoria. Eppure, la storia della proibizione legale della tortura, pur attenendo al diritto moderno, ha origini antiche nel tempo. Riguarda in modo diretto i concetti e i contenuti che fondano le libertà personali e lo stesso sistema democratico. Le sue radici sono rintracciabili nella Magna Charta e nell’habeas corpus. Le sue origini moderne si trovano negli scritti dell’Illuminismo giuridico italiano e nelle prime codificazioni del diciottesimo secolo. Con la tragedia dell’Olocausto il diritto internazionale dei diritti umani ha travalicato le barriere nazionali e la tortura è stata bandita dal novero delle pratiche considerate accettabili dagli stati democratici. La tortura, quindi, è oggi qualificata un crimine contro l’umanità. Lo è per il diritto internazionale generale. Lo è per il diritto internazionale positivo a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali del 1950. Successivamente una definizione di tortura valida su scala universale è stata formulata dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e i trattamenti e le pene crudeli, disumane o degradanti (1984). In quella convenzione è previsto che gli stati si conformino e puniscano la tortura nei loro ordinamenti giuridici interni. L’Italia, pur avendo ratificato il Trattato oramai venticinque anni fa non ha mai inserito il delitto di tortura nel codice penale, nonostante numerose proposte succedutesi nel tempo. È questa una omissione che ha comportato molte osservazioni critiche da parte degli organismi internazionali. Una omissione che lascia un enorme vuoto giuridico, normativo e culturale. Una omissione che produce impunità, come certificato oramai da più di un giudice. Una omissione, infine, tanto più rilevante in quanto si tratta dell’unico obbligo di punire previsto dalla nostra Carta costituzionale (art. 13, comma 4: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”). D’altra parte, va ricordato che nel luglio del 1998 veniva solennemente firmato a Roma lo statuto istitutivo della Corte penale internazionale, destinato a giudicare tutti coloro che in qualunque area del mondo si fossero resi responsabili di crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio. Tra i crimini contro l’umanità, appunto la tortura. Quella grande, quella degli scenari feroci, delle dittature e delle guerre civili, comunque difficile da punire, risulta riconoscibile e identificabile. Quella più piccola, esercitata sulla scala modesta della sopraffazione di piccoli uomini contro individui inermi, può forse apparire sfuggente. Ma solo se riusciamo a chiudere gli occhi per non vederla. Giustizia: l’ex ministro Bernini: i magistrati concedano arresti domiciliari a Rizzoli Adnkronos, 19 marzo 2013 “La magistratura ha l’occasione di dimostrare in questi giorni di avere a cuore e di saper conciliare giustizia e senso di umanità. Ci auguriamo, anzi ci appelliamo con fiducia all’equanimità ed alla ragionevolezza dei magistrati perché concedano ad Angelo Rizzoli, attualmente ristretto in regime carcerario pur se ospedaliero, gli arresti domiciliari”. Lo dichiara Anna Maria Bernini, senatrice e portavoce vicario del Pdl. “Misura del resto concessa proprio in questi giorni ad altri indagati o imputati che non presentano le caratteristiche allarmanti del caso Rizzoli, afflitto da una patologia che mette a repentaglio la sua stessa sopravvivenza - dice ancora la Bernini. Angelo Rizzoli ha settant’anni ed è gravemente malato di sclerosi multipla, con emiparesi e angiopatia pregresse, insufficienza renale cronica e diabete. Le regole della carcerazione lo privano perfino del bastone che gli è indispensabile per deambulare”. “Senza entrare nel merito del processo, ed in ossequio alla presunzione costituzionale di innocenza fino a condanna definitiva, ci aspettiamo che ad Angelo Rizzoli sia consentito almeno di potersi curare in casa in attesa di giudizio”, conclude la Bernini. Lettere: giusto riflettere di più sul peso dell’ergastolo per chi si è pentito Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2013 Con la mia testimonianza diretta vorrei portare a conoscenza una tematica sensibile che oggi non ha più quel valore necessario che gli è stato attribuito in passato, definito dal nostro codice penale nell’esecuzione della pena dell’ergastolo. Oggi viviamo in una società sviluppata, che si identifica come democrazia liberale e che appoggia sul welfare state. In questa società la pena dell’ergastolo non ha più una fine di dissuasione, di freno a mano nel commettere certi reati di sangue. Basta osservare il numero dei condannati: circa 1.500 lo scorso anno rispetto ai 663 del 1998 e agli 868 del 2001. La pena è tutt’altro che desueta. Ma una giustizia vendicativa e non rieducativa non riduce la criminalità. Perché come ha detto Umberto Veronesi alla conferenza mondiale Science for peace del 2012 la pena dell’ergastolo è antiscientifica e anticostituzionale. Antiscientifica perché un carcerato dopo 20 anni può essere una persona completamente diversa da quando ha commesso un reato. Anticostituzionale perché va contro il principio sancito dalla Costituzione per cui le pene devono essere alla rieducazione del condannato. L’ergastolo è inoltre una pena anticristiana perché il Vangelo ci insegna a perdonare. Io sono uno dei millecinquecento detenuti - ergastolani condannato a una pena “esemplare” per aver commesso un omicidio. Sono ben cosciente che la morte di Cristian, sebbene da me non voluta, ma definita dal tribunale “premeditata “ ha cagionato sicuramente dolore, rabbia e forse voglia di vendetta per la famiglia della vittima. Ma vi assicuro che anche dentro di me, nella meditazione carceraria, si è aperto un dirupo ripido di senso di colpa che mi ha portato alla demolizione interiore da cui mi sono risollevato credendo nel riscatto e nel perdono della famiglia e di Dio. Trovo giusto scontare una pena per ciò che ho commesso, ma chiedo a tutti voi che siete persone umane come me, che mi venga concessa la possibilità di ricostruire una vita fatta di perdono. Davide Ravarelli Gentile Davide, la sua lunga lettera, che ho dovuto necessariamente ridurre, riporta giustamente d’attualità un tema di civiltà giuridica e insieme di comprensione umana. Ma non bisogna realisticamente dimenticare altri elementi. In primo luogo che l’ergastolo è comminato per delitti particolarmente gravi, e poi, riguardo alla pena, che sono previsti permessi - premio dopo 10 anni di espiazione e la semi-libertà dopo venti anni. L’attuale Codice penale stabilisce che “il condannato a pena detentiva che durante il tempo di esecuzione della pena abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento può essere ammesso alla liberazione condizionale se ha scontato almeno la metà della pena inflittagli qualora la rimanente pena non superi i 5 anni” e il terzo comma specifica che “il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno 26 anni di pena”. Per queste ragioni sono state sempre respinte le richieste di illegittimità costituzionale, ma il dibattito tra i giuristi resta aperto ed è giusto sollecitare una riflessione su questo tema. E sullo stesso fronte è necessario impegnarsi perché sia affrontato drasticamente il problema delle carceri in cui la maggior parte dei detenuti, anche chi è in attesa di giudizio, si trova a vivere “in una condizione disumana e degradante” come ha ricordato sabato il neopresidente della Camera, Laura Boldrini, nel suo discorso d’insediamento. Gianfranco Fabi Sicilia: Sappe; i 27 penitenziari siciliani ospitano oltre 7.100 detenuti, ma posti sono 6.000 Agi, 19 marzo 2013 “Attualmente i 27 penitenziari siciliani ospitano oltre 7.100 detenuti a fronte di una capienza regolamentare delle strutture pari a poco più di 6.000 posti”. Lo afferma Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo della polizia penitenziaria Sappe, in visita in questi giorni nelle carceri di Palermo Favignana, Trapani e Catania. Il sindacalista riporta che “la presenza di stranieri tra i reclusi si attesta tra il 20 ed il 40% dei presenti, con il record di Modica dove sono il 60%”, mentre “in Sicilia si registra anche una significativa percentuale di detenuti tossicodipendenti (circa il 20% dei presenti)”. Record negativo è anche quello dei detenuti che lavorano, che in Sicilia sono solamente il 15% dei presenti. “La carenza di personale di polizia penitenziaria e il pesante sovraffollamento - conclude Capece - determinano conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate e soprattutto di coloro che in quelle sezioni detentive svolgono un duro, difficile e delicato lavorato, come quello svolto dai poliziotti penitenziari”. Liguria: la Regione presenta progetti sul carcere; il Sindacato Sappe: solo approssimazioni La Repubblica, 19 marzo 2013 “Trovo singolare che esponenti della Regione Liguria relazionino delegazioni internazionali sulla situazione penitenziaria regionale: è palese infatti che sul tema delle carceri liguri la Regione dimostri una approssimazione spaventosa”. Lo afferma Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, sottolineando che “la presenza di circa 1.850 detenuti nei sette penitenziari regionali che dispongono di una capienza regolamentare complessiva di 1.130 posti letto, dovrebbe far comprendere con quante difficoltà lavora la Polizia penitenziaria, sotto organico di 400 unità in Liguria”. Martinelli chiede l’impegno della Regione, affinché venga promosso concretamente l’impiego dei detenuti in progetti per il recupero del patrimonio ambientale ligure: “I detenuti possono essere messi a disposizione della collettività imparando un mestiere che potrebbe essere loro utile una volta tornati in libertà. Ma la maggior parte di loro ozia tutto il santo giorno, alimentando tensioni costanti e continue a tutto danno del già duro e difficile lavoro della polizia penitenziaria”, conclude Martinelli. “La Regione Liguria ha presentato a una delegazione latinoamericana le iniziative dell’assessorato alle Politiche sociali a favore dell’inclusione delle persone in carcere, per le quali abbiamo ricevuto anche il riconoscimento dell’amministrazione penitenziaria nazionale. Ci rendiamo conto che il problema delle carceri è ampio e con numerose criticità. Ma abbiamo semplicemente cercato di dare il nostro contributo senza trionfalismi, ma nemmeno sminuendo il lavoro di numerosi operatori impegnati nelle attività sociali”. Così l’assessore regionale al Welfare Lorena Rambaudi risponde alle critiche mosse dal segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria “per il mancato impegno regionale”. Massa Carrara: detenuto di 40 anni muore in cella alla vigilia del permesso premio La Nazione, 19 marzo 2013 Sarà l’autopsia a chiarire le cause dell’improvviso decesso di un quarantenne, avvenuto venerdì pomeriggio nella struttura penitenziaria della città. L’uomo, massese, è stato ritrovato privo di sensi dai compagni di cella al risveglio dal riposo pomeridiano e niente sarebbero valsi i tentativi di rianimarlo. Pare che negli ultimi tempi l’uomo non godesse di buona salute ma nulla di così serio da far presagire un decesso fulmineo, giunto a pochi giorni dal primo permesso premio di cui avrebbe goduto per un comportamento ineccepibile. Agrigento: nel carcere manca l’acqua calda, sciopero della fame per 60 detenuti di As di Gerlando Cardinale Giornale di Sicilia, 19 marzo 2013 Niente acqua calda dai rubinetti: una sessantina di detenuti protestano con lo sciopero della fame. Rifiutano il cibo dell’istituto, qualcuno ha anche buttato nell’immondizia quello portato dall’esterno per dimostrare il proprio disappunto. La situazione, dopo sette giorni, dovrebbe comunque tornare alla normalità. Ieri mattina la direzione del carcere Petrusa è riuscita a reperire i fondi e far partire i lavori all’impianto idrico. La protesta dei detenuti del braccio che in gergo viene chiamato “primo destro” è iniziata l’11 marzo scorso. In questa sezione del carcere, definita di “alta sicurezza”, ci sono circa sessanta detenuti per reati di tipo associativo. Si tratta di condannati o persone detenute nella fase cautelare per associazione mafiosa, traffico di droga e altri reati particolarmente gravi. All’origine del problema c’era un guasto all’impianto di distribuzione dell’acqua all’interno del carcere. Un difetto nel sistema di smistamento che aveva isolato soltanto la sezione “alta sicurezza” del penitenziario di contrada Petrusa. Dai rubinetti usciva solo acqua gelida. Lavarsi e farsi le docce era completamente improponibile viste anche le temperature molto rigide degli ultimi giorni della stagione invernale. I detenuti, anche attraverso familiari e avvocati, hanno informato della questione i responsabili della polizia penitenziaria del carcere. Il direttore Valerio Pappalardo, ieri mattina, ha confermato che il problema è prossimo alla soluzione. “Abbiamo cercato di fare tutto in fretta - ha detto ieri mattina - ma i tempi e le procedure di una pubblica amministrazione sono sempre molto più complicati. I tecnici stanno intervenendo per risolvere il problema, lo abbiamo già comunicato ai detenuti - ha aggiunto Pappalardo - che interromperanno la protesta iniziata una settimana prima”. La protesta, nel frattempo, va avanti. Cesserà solo quando i reclusi vedranno operai al lavoro e la soluzione auspicata più vicina. Sulmona (Aq): in arrivo 300 detenuti di Alta Sicurezza, gli agenti chiedono rinforzi Agi, 19 marzo 2013 Arriveranno da fine mese i 300 nuovi detenuti di alta sicurezza al supercarcere sulmonese. Il tempo stringe, quindi, e i poliziotti penitenziari, in perenne carenza di organico, hanno tenuto stamattina coi sindacati un presidio davanti la struttura. Le richieste dei 270 agenti, che oggi andranno a rappresentare al Provveditorato di Pescara, sono l’innesto di almeno 50 nuovi agenti e il potenziamento delle misure di sicurezza all’interno della struttura. “È un fatto positivo che andranno via i 200 internati in regime di semi libertà oltre ai 100 di media sicurezza - è intervenuto Gino Ciampa della Fp Cgil - ma arriveranno detenuti legati ad organizzazioni mafiose, criminalità organizzata e terroristi internazionali. Servono, quindi, nuovi innesti di personale, almeno 50”. Senza contare, poi, le carenze del comparto sanitario, con i circa 10 infermieri per più di 400 detenuti quasi tutti precari e i medici in attesa degli stipendi da 4 mesi, come denunciato da Antony Pasqualone della Cgil. A sottolineare la stretta connessione fra tribunale e carcere ci ha pensato Ivana Giardino (segretaria Fp Cgil): “chiudere il tribunale e aumentare la portata dei detenuti al carcere è una cosa assurda, senza contare che siamo solo con un procuratore”. Alle 16, presso gli uffici del provveditorato regionale a Pescara, un incontro con il provveditore regionale per la discussione dei punti oggetto del contendere. “È necessario far sentire forte la nostra voce - afferma Mauro Nardella, segretario provinciale di Uil penitenziari - a testimonianza della gravità della situazione che si prospetta non solo per gli operatori del carcere, ma per l’intero territorio”. Rieti: Radicali visitano carcere; è “sorveglianza dinamica”, detenuti circolano nei corridoi Agenparl, 19 marzo 2013 “Con una delegazione radicale composta da Marco Giordani, Alessio Torelli e Valeria Centorame di Sabina radicale, con il sindaco di Rieti Simone Petrangeli e il presidente delle Camere Penali di Rieti Marco Arcangeli abbiamo visitato il carcere di Rieti. La struttura si presenta molto diversa da quelle classiche all’italiana. I detenuti sono in una cosiddetta sorveglianza dinamica quindi hanno la possibilità di accedere liberamente nei corridoi della sezione. I detenuti attualmente presenti sono 312 di cui 161 stranieri. 220 di questi sono definitivi. Il carcere di Rieti attualmente può ospitare 369 detenuti. Nove sezioni sono state aperte sulle 11 disponibili. L’amministrazione penitenziaria non ha ancora previsto una pianta organica per questo carcere tuttavia lo standard che dovrebbe prevedere un agente per ogni due detenuti - e quindi dovrebbero essere 155 circa gli agenti di polizia penitenziaria - è ricoperto solo in parte: sono infatti 114 gli agenti presenti attualmente. Il problema principale della struttura tuttavia è rappresentato da quello sanitario che faremo presente al presidente della Regione Zingaretti: attualmente i medici che coprono il servizio sanitario sono solo presenti di giorno, infatti dalle 20 fino alle 8 non vi è presenza medica all’interno della struttura penitenziaria mentre sono tre gli infermieri per ogni turno, dalle 7 alle 21. Il reparto di radiologia c’è ma non è funzionante: manca controllo e collaudo sulle macchine, più il personale tecnico. Lo spostamento in ospedale per una semplice lastra risulta logisticamente difficile e economicamente oneroso. Sono 44 i detenuti lavoranti mentre sono quattro quelli che hanno fatto richiesta per accedere ai corsi universitari mentre non è ancora attivata la scuola elementare e media provocando grande disagio per i tanti detenuti che vorrebbero iscriversi. I 10 computer disponibili nell’area informatica vengono utilizzati raramente anche perché non sono stati ancora avviati i corsi di formazione”. È quanto dichiara in una nota il Consigliere Regionale uscente Rocco Berardo dei Radicali. Cagliari: Sdr; ancora a Buoncammino bimba 14 mesi con mamma 27 anni Ristretti Orizzonti, 19 marzo 2013 “È ancora dietro le sbarre la bimba di 14 mesi finita a Buoncammino il 7 marzo scorso insieme alla mamma 27enne, madre anche di altri due bambini. Dopo dodici giorni, dunque, ancora non è stata individuata una struttura alternativa nonostante la disponibilità manifestata da alcune associazioni. Una situazione insostenibile per una bimba particolarmente attiva e vivace”. A richiamare l’attenzione sulla vicenda della neonata in carcere è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” ricordando inoltre che una legge del 2011 prevede l’istituzione di case famiglie protette. “Solo per “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza” - osserva Caligaris - una madre con un figlio neonato deve stare in carcere mentre le case protette possono essere utilizzate anche quando risulti impossibile disporre di un’abitazione privata. Una bimba in una cella è un evidente segnale di debolezza dello Stato e delle Istituzioni incapaci di trovare alternative dignitose quando si tratta di bambini in così tenera età. La donna, peraltro, era ai domiciliari dai primi di febbraio e non è mai venuta meno alle prescrizioni di legge”. “È urgente quindi individuare una dimora, a custodia attenuata, per evitare che bimbi innocenti varchino il portone dei Penitenziari. È tuttavia indispensabile un immediato intervento del Magistrato di Sorveglianza per restituire la bambina a un ambiente più idoneo alla sua crescita”. Fermo (Ap): emergenza carceri, se ne è parlato al Rotary Club Alto Fermano Sibillini Corriere Adriatico, 19 marzo 2013 Ospite del convegno Eleonora Consoli, direttrice della casa di reclusione di Fermo. Con una capacità di 47mila posti e una popolazione effettiva di oltre 65mila reclusi, il sistema carcerario italiano è davvero al collasso. Né la struttura di Fermo gode migliore salute, visto che a fronte di una capienza di 36 posti regolamentari e una soglia di tolleranza di 64, ben 87 sono i detenuti che ospita. “La situazione è intollerabile - ha spiegato la Consoli - ed è assolutamente necessario trovarvi rimedio. Non solo perché una sentenza della Corte Europea ce lo obbliga, non solo per un principio di civiltà, ma anche perché garantire condizioni di vita umane in carcere significa restituire al carcere stesso la sua funzione rieducativa”. “Un tema - ha detto Alessandro Luciani, presidente del Rotary Club - che da anni si pone all’evidenza in tutta la sua gravità, e che però solo di recente ha attirato su larga scala l’interesse dei mass media. Specie a seguito della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che nel gennaio scorso a causa del sovraffollamento delle sue prigioni ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti”. Della stessa opinione l’avvocato Vando Scheggia, presidente della Camera Penale di Macerata, ospite anche lui del Club, il quale ha parlato del “quasi fallimento del Decreto svuota carceri” e “dell’importanza delle misure alternative al carcere che hanno la funzione di agevolare la socializzazione del detenuto e che alcune recenti leggi hanno reso assai meno accessibili. Un dato su tutti: la percentuale di recidiva di chi può avvantaggiarsene è del 10%, chi invece ne è escluso torna a delinquere nel 65% dei casi”. Palermo: dal carcere minorile al surf… il progetto “Mana Project” per ex detenuti Giornale di Sicilia, 19 marzo 2013 Ha preso il via il progetto sperimentale “Mana Project”, un programma di inclusione sociale incentrato sulla “Surf therapy” per cinque giovani ex detenuti del carcere Malaspina a Palermo tra i 14 e i 21 anni in situazioni di disagio sociale quindi a rischio devianza. L’iniziativa è promossa dall’associazione sportiva “Isola Surf” di Danilo La Mantia, istruttore e presidente dell’associazione, dall’architetto Paolo Pavone che ha redatto il progetto e con il coordinamento dello psicologo Martino Lo Cascio. Il percorso durerà due mesi e coinvolgerà i ragazzi, in attività due volte a settimana. Il progetto è stato varato senza l’ausilio di finanziamenti pubblici ma grazie all’impegno dei volontari che compongono lo staff di “Isola Surf” e delle attrezzature (tavole, mute da surf) che la scuola metterà a disposizione. Il programma prevede attività propedeutiche, presso la struttura carceraria, che introducono alla disciplina surf, ne spiegano i benefici psico-fisici e l’importanza del corretto atteggiamento e cura che bisogna manifestare nei confronti del mare e dell’ambiente circostante. Il corso di surf verrà svolto in otto incontri nel litorale di Isola delle Femmine al lido “Miramare”. Inoltre si svolgeranno attività di sensibilizzazione al rispetto dell’ambiente come la pulizia della spiaggia. Il materiale, raccolto durante le operazioni di pulizia, verrà utilizzato successivamente nell’attività di eco - laboratorio nelle quale gli operatori dello staff aiuteranno i ragazzi ad assemblarlo e a trasformarlo in altri oggetti, attraverso una attenta rielaborazione progettuale. Roma: agente a processo, accusato di favori a detenuto in cambio di lavoro per il fratello La Repubblica, 19 marzo 2013 Gli venne concessa una cella migliore nel carcere di Regina Coeli in cambio di un posto di lavoro per il fratello di un agente della penitenziaria. Per questo motivo sia il detenuto G.P. che il poliziotto F.T. dovranno comparire davanti al giudice dell’udienza preliminare per rispondere del reato di corruzione. I fatti si riferiscono all’agosto del 2010. F.T. era in servizio nel carcere di Regina Coeli dove G. P. era detenuto. Tra i due nasce un accordo. Secondo la procura, infatti, G.P. desiderava una collocazione più gradevole all’interno della struttura penitenziaria, mentre l’agente era in cerca di un lavoro per il fratello disoccupato. Da queste due “esigenze” nacque l’accordo tra i due: G.P. venne trasferito nella seconda sezione del carcere, considerata meno dura, con l’incarico di idraulico. Mentre per l’agente penitenziario ci fu la promessa dell’assunzione del fratello senza lavoro nell’azienda a conduzione familiare del detenuto. Livorno: si è svolto convegno dal titolo “La condizione delle donne in carcere” di Maurizio Piccirillo www.lettera43.it, 19 marzo 2013 Sabato scorso presso la Villa Celestina a Castiglioncello (Li), si è svolto il convegno dal titolo “La condizione delle donne in carcere”. L’evento, organizzato dalla Commissione Pari Opportunità del Comune di Rosignano Marittimo, in collaborazione con il Comune omonimo, ha avuto come relatore Marco Solimano, Garante per i diritti dei detenuti della Provincia di Livorno. Lucia Croce, Presidente del Consiglio Comunale, ha introdotto la giornata, precisando che la situazione dei detenuti è divenuta una questione drammatica che è il risultato di un paese incivile, e che ha pochi distinguo tra popolazione carceraria maschile e femminile. Ha stigmatizzato poi il problema del sovraffollamento nelle celle, le problematiche familiari dei detenuti, l’impossibilità di correzione degli errori commessi e relativo reinserimento nella società una volta scontata la pena e la mancanza di dignità presente negli istituti di reclusione. Infine, ha puntato il dito sulla situazione delle detenute, che è diventata col tempo difficile e pesante, basti pensare che le madri possono tenere con sé in carcere, i loro bambini fino a 6 anni, oltre alle modalità restrittive nelle visite alle detenute da parte dei parenti. Secondo Croce, occorre urgentemente una riforma della giustizia facendo scelte forti e civili che comprendano la ristrutturazione della edilizia carceraria e una programmatica professionalità riguardante gli operatori all’interno delle carceri. Dopo la sua disamina introduttiva, Lucia Croce ha dato la parola al relatore. Marco Solimano ha ribadito la gravità della situazione in cui verte l’apparato carcerario italiano, iniziando ad analizzare la questione della chiusura degli istituti di detenzione dei detenuti psichiatrici. Ogni Regione, prosegue Solimano, avrà il compito di creare degli spazi per accogliere i pazienti di questi istituti, creando ulteriori problemi. Ha definito il carcere “un luogo di illegalità”, e per lui è contro la stessa Costituzione Italiana. Le riforme dei penitenziari del 1975 e successivamente la Legge Gozzini del 1986, fino ad arrivare alla Legge Bossi-Fini, non hanno fatto che peggiorare le cose. Secondo le disposizioni di legge, ha continuato Solimano, ogni detenuto dovrebbe avere uno a disposizione uno spazio vitale di 7 mq, invece ci sono ben 4 persone in uno spazio di 10, 4 mq. Questa condizione di sovraffollamento nelle celle, oltre che limitare lo spazio vitale, non consente la relazione tra gli operatori sociali e i detenuti e porta ad episodi tra gli stessi di violenza ineaudita. Altro risultato negativo è il progressivo abbandono da parte dello Stato della manutenzione degli istituti di pena. Solimano ha ricordato che la pena deve avere un senso e deve essere riabilitativa, e invece non esiste una struttura di detenzione che favorisca il reinserimento nella società. Nella sua analisi Solimano ha denunciato che le carceri sono diventate delle discariche sociali dove esistono una serie di contraddizioni. Per lui, la legge sulla tossicodipendenza è ingiusta ed abnorme che crea altrettante vittime. I tossicodipendenti non dovrebbero essere reclusi in un carcere ma in altre strutture adatte alla cura e alla riabilitazione. Sia chiaro, ha ribadito Solimano, che in carcere va chi ha commesso degli errori, ma se visitiamo le carceri, possiamo vedere che la maggior parte dei detenuti, sono tossicodipendenti, gli immigrati, questi ultimi, vittime di leggi astrusi e che pagano oltre modo i loro errori con il risultato di sovraffollamento degli spazi. “Il carcere va necessariamente ripensato concentrandosi su una dimensione di civiltà e democrazia delle istituzione”, spiega il Garante. Se si migliora il trattamento all’interno di questi luoghi, migliorano anche i detenuti. La detenzione dei più giovani spesso frutto di pene minime, porta a dei rischi importanti per gli stessi, col risultato di atti di autolesionismo e il suicidio, sottolinea. Il carcere ridimensiona lo spazio ed il tempo e l’affettività. È il luogo dell’assenza della prospettiva, della cultura e dei diritti, conclude. Solimano, poi, parla della funzione di Garante che ricopre definendola una posizione che lotta per i detenuti e che è atta a far conoscere le situazioni in cui vivono. Il Garante ha definito le cose che si dovrebbero fare per migliorare sensibilmente la situazione. Ristrutturazione delle strutture carcerarie esistenti, lo studio di nuovi percorsi di reinserimento, la dotazione da parte di ogni comune di Garanti e lavorare al miglioramento dei rapporti con la forza di polizia. Dopo l’ampia analisi, Solimano ha focalizzato l’attenzione sulla questione femminile, spiegando che la presenza delle donne in carcere è una esigua minoranza delle popolazione carceraria italiana, siamo intorno al 5%. Anche se la donna è una parte marginale, la sua condizione non è molto distante dalle problematiche dei detenuti maschi, perché intanto vivono in strutture create per gli uomini e quindi si possono immaginarne le difficoltà. Per quanto riguarda le donne, sottolinea il Garante, la gravità della loro situazione è legata al rapporto con la maternità: far convivere la madre col figlio piccolo in carcere è veramente inqualificabile. Il carcere non è una struttura concepita per il trattamento dei bambini. Solimano afferma che in questo caso, manca la cura verso le situazione di gestione della detenuta con figli molto piccoli. Anche se, fortunatamente, porta a conoscenza il relatore, la legge sta cambiando per quanto riguarda questo aspetto, in quanto è prevista la detenzione domiciliare con i bambini fino a 10 anni. Inoltre, prevede la creazione, da ultimare entro il 2014, di strutture denominate ICAB, concepite per queste situazioni e con presenza di personale qualificato di sostegno e che sono logisticamente costruite fuori dalla struttura carceraria. Solimano ha concluso il suo esauriente intervento esortando le forze di governo ad abolire la Legge Bossi/Fini e la revisione della legge contro le tossicodipendenze, mentre per quanto riguarda le azioni che possono intreprendere i cittadini, la promozione di una raccolta di firme per l’introduzione del reato di tortura all’interno delle carceri, l’umanizzazione degli ambienti carcerari, e l’abolizione di alcuni articoli della legge Bossi/Fini. Eboli (Sa): all’Icatt quadrangolare di calcio detenuti-polizia penitenziaria-politici-avvocati di Massimo Balsamo Ristretti Orizzonti, 19 marzo 2013 Sabato 16 marzo presso l’Istituto a Custodia attenuata per il trattamento delle Tossicodipendenze di Eboli si è svolta una manifestazione sportiva che ha visto i detenuti dell’istituto confrontarsi sul tappeto verde del campo del castello con le due compagini della Polizia Penitenziaria dello stesso istituto e del Nucleo Operativo Traduzioni e Piantonamenti di Salerno, nonché col la squadra formata dagli avvocati del foro di Salerno e politici della stessa Provincia. Il messaggio che si è voluto trasmettere si incentra sul senso di accettazione sociale attraverso il mezzo dello sport nel quale è insita la disciplina della cura del corpo e della salute stessa da custodire come bene prezioso. L’iniziativa, fortemente voluta dal dinamico direttore dell’istituto Rita Romano si inserisce nel progetto di recupero e reinserimento che i detenuti dell’Icatt hanno intrapreso. La manifestazione fa parte delle innumerevoli iniziative che in piena coesione con il territorio si organizzano all’Icatt con l’intento di affermare un unico messaggio: far sì che le persone recluse (e non solo) capiscano l’immenso bene che deriva dal sentirsi parte di una collettività che si impegna per il bene comune e tirare fuori le qualità positive che esistono in ogni individuo. Ed ecco che il campo da gioco non viene più inteso come territorio di sfida ma diventa terreno di uguaglianza dove i ruoli per due ore circa sono stati sostituiti da un sano agonismo che diventa pretesto di integrazione. Per i ragazzi dell’Istituto è stata un’esperienza costruttiva e strutturalmente importante, avere rispetto del proprio corpo significa creare un ulteriore profilassi contro il rischio della ricaduta nelle sostanze. Ciò che fa l’Icatt non è altro che una continua azione che proietta i detenuti verso modelli di vita sana che ogni individuo dovrebbe seguire. I detenuti che accedono al programma Icatt vengono dai più disparati contenitori di disagio sociale della nostra Regione e con loro nel proprio bagaglio esistenziale non hanno che esperienze negative. Arrivando da noi incominciano attraverso tutte le attività che realizziamo un percorso basato sull’auto responsabilizzazione, che culmina nella capacità di operare delle scelte fornite a tutti. Questo fa sì che il tempo della pena non trascorra invano, ma, al contrario, diventi momento di riflessione e di maturazione per quanti di noi hanno la fortuna di incontrare questa realtà. Questa iniziativa contiene un importante messaggio che vola oltre i muri di questo carcere per erudire chi sta fuori dai circuiti penitenziari sull’importante ruolo che gli addetti ai lavori, dal direttore, agli educatori agli agenti penitenziari svolgono all’interno di questi istituti. In particolare questi ultimi spazzata via la scomoda ed ingrata etichetta di secondini solo “chiave e custodia” sono riusciti a riscoprire e a ricoprire un ruolo ben diverso che li ha visti evolversi in vere e fondamentali figure nel cammino che i detenuti effettuano. Gli stessi nel pieno dello svolgimento delle loro funzioni diventano per i reclusi un modello di legalità da imitare e non nemici da combattere come si pensa nell’immaginario delle persone che sentono solo parlare di carcere attraverso l’informazione “deviata” fatta da chi in questo settore non opera. Ergo questa sana giornata di sport come tutte le nostre iniziative si trasforma in un piccolo me ulteriore messaggio alla società: il Ministero della Giustizia non giace nell’oblio del lassismo, al contrario è presente con una forte componente che si chiama “voglia di fare”. Ritornando al tema della giornata, dopo il calcio d’inizio dello stesso direttore si sono affrontati sul campo sul campo (realizzato grazie ai proventi degli spettacoli teatrali della compagnia “Le canne Pensanti” altro segno di propositiva e fattiva integrazione) gli avvocati - politici e i detenuti che hanno fatto della lealtà sportiva il baluardo della competizione. Per la cronaca sul taccuino dell’arbitro (L’ass. Capo Lettieri Senatro) il risultato è stato di 9 a 2 per i detenuti che sono apparsi subito più in forma degli “appesantiti” avvocati e dei politici che tra un’udienza e l’altra (i primi) e le fatiche della recente campagna elettorale (i secondi) evidentemente hanno perso un po’ di smalto e di energia. La seconda gara ha visto fronteggiarsi le due compagini degli agenti penitenziari del carcere dei Eboli e del Nucleo Provinciale Operativo delle Traduzioni e dei Piantonamenti di Salerno. La vittoria alla squadra di casa. La super finale che ha chiuso il torneo è stata disputata dalle due squadre vincenti entrambe targate Eboli e si è conclusa con il risultato di 4 a 0 per i detenuti con fiammate e sprazzi di bel gioco da entrambe le parti (per la cronaca nessun ammonito, nessun espulso segnale questo di grande correttezza e di grande lealtà agonistica). Il tutto si è concluso tra una miriade di applausi e congratulazioni per tutti i vincitori perché nella manifestazione di sabato 16 marzo hanno vinto tutti e a trionfare è stato il senso di accomunamento, la disciplina e naturalmente la soddisfazione per un’altra pietra che è stata posta nel tempio della legalità che cresce attraverso l’opera del direttore e della sua equipe. Pisa: venerdì sarà presentato alla stampa Progetto “Libri in carcere: la lettura che libera” Il Tirreno, 19 marzo 2013 Venerdì 22 marzo alle ore 12.00 nella Casa Circondariale Don Bosco di Pisa verrà presentato alla stampa il progetto “Libri in carcere: la lettura che libera”, promosso dalle associazioni Gli Asini e Antigone e sostenuto dalla Tavola Valdese e dalla Fondazione Charlemagne. Il progetto, che mira a promuovere la lettura e la scrittura nelle carceri, prevede la donazione di diverse migliaia di libri alle biblioteche carcerarie, in particolare quelle toscane; la realizzazione di laboratori di giornalismo radiofonico; la presentazione di libri. Oltre ai responsabili delle associazioni promotrici, alla conferenza stampa saranno presenti Carmelo Cantone, provveditore all’amministrazione penitenziaria toscana - tra i principali partner del progetto, i responsabili dei Poli universitari penitenziari toscani, i magistrati di sorveglianza e i garanti dei diritti dei detenuti competenti sul territorio, i referenti delle associazioni di volontariato che a vario titolo collaborano con l’istituto di pena. Dopo la conferenza stampa, si terrà il primo degli appuntamenti con gli autori, con il disegnatore e regista Gipi che incontrerà i detenuti. Immigrazione: Pannella visita il Cie di Ponte Galeria; è prodotto caos italiano di Paola Lo Mele Ansa, 19 marzo 2013 Una delegazione di Radicali guidata da Marco Pannella visita il Cie di Ponte Galeria. Durante il giro nel centro che appena un mese fa, il 18 febbraio, fu teatro di una rivolta con materassi in fiamme, sono ancora ben visibili i segni della protesta. Il direttore dell’ufficio immigrazione della Questura di Roma Maurizio Improta afferma che “la calma è tornata”, che gli immigrati sono diminuiti, ma si è ancora in attesa dei lavori per riparare i danni subiti dalla struttura. Secondo Marco Pannella - acclamato al suo arrivo dagli immigrati al grido di “Grande Marco” e “aiutaci” - il Cie è “un prodotto del caos legislativo e amministrativo italiano”, per l’avvocato radicale Giuseppe Rossodivita “è un posto sbagliato dovuto a una legge sbagliata”. La delegazione visita la sezione femminile, la mensa, la “parruccheria”, poi quella maschile. Raccoglie le testimonianze sofferte di alcuni trattenuti e parla con gli operatori. Una donna piange mentre chiede: “Perché sto qua io? Non ho fatto niente”. Un’altra spiega: “Stiamo da mesi qui e non sappiamo perché. Abbiamo figli minorenni. Io sto qui da quasi due mesi. Siamo venuti a vedere questo centro che è recentemente stato teatro di proteste per l’insopportabilità della situazione - commenta Rossodivita - sarebbe insopportabile per ciascuno di noi essere ristretti, reclusi, e privati della libertà senza aver fatto nulla, solo per essere italiani in un altro Stato”. Il direttore della Cooperativa Auxilium che gestisce il centro, Giuseppe Di Sangiuliano, spiega che al momento “ci sono 51 donne e 68 uomini ospiti, a fronte di 360 posti disponibili. La maggior parte degli uomini sono magrebini, la maggior parte delle donne nigeriane. Per loro ci sono 90 operatori”. Interpellato sui tempi di permanenza Di Sangiuliano risponde: “Difficile fare una media, dipende dalle etnie: i romeni massimo 15 giorni, i nigeriani fino a sei mesi”. Un trattenuto afferma che nel giorno della sommossa, “i poliziotti hanno picchiato uno di colore e quelli di colore si sono alzati hanno preso tutti i materassi e li hanno bruciati e poi ci siamo alzati tutti quanti e tutti quanti abbiamo fatto questa protesta. E poi i poliziotti hanno picchiato quelli di colore, chi prendevano in mezzo picchiavano, davano mazzate”. Improta smentisce, riferendo di “14 dipendenti della polizia di Stato e della Guardia di Finanza feriti, tra cui anche un funzionario. Gli arrestati sono stati portati a Regina Coeli, su ordine del magistrato, cinque sono tutt’ora in carcere - spiega. Non mi risultano danni fisici agli stranieri”. Nella sezione maschile c’è un grosso buco in un muro. E il direttore dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma spiega: “Non c’è solo quello, ci sono pannelli affumicati, pannelli in plexiglass che si sono sciolti. È stata una rivolta, probabilmente finalizzata anche ad un tentativo di evasione che è stata sedata in maniera abbastanza serena, dagli operatori che stanno qui, e neanche loro, insomma, fanno una vita facile”. L’ex consigliere regionale Rocco Berardo commenta: “Le persone che stanno qui ci stanno non perché hanno rubato, non perché hanno commesso un reato ma perché non dispongono di un documento. Questo è il paradosso umano più drammatico”. Poi la delegazione se ne va, dentro restano operatori e “ospiti”, i segni della “rivolta” e una scritta sul muro nella sezione femminile: “Da un certo punto in avanti non vi è più modo di tornare indietro e quello è il punto al quale si deve arrivare. Kafka”. Corea del Nord: se questo è un uomo, nato in catene di Lara Ricci Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2013 “Quando hanno impiccato mia madre e fucilato mio fratello ho pensato che se lo meritavano: avevano infranto le regole del campo meditando di fuggire”. Shin Dong Hyuk all’epoca aveva 14 anni, tutti passati dentro un recinto di filo spinato. È l’unica persona nata nei campi di prigionia della Corea del Nord che sia mai riuscita a scappare. Internate da generazioni in questo inferno a cielo aperto da dove nessuno esce vivo ci sono almeno 200mila bambini, donne e uomini ridotti a degli automi, tenuti in bilico sulla soglia della morte per fame e sfinimento, fucilati per un nonnulla, torturati fino alla fine, violentati per il sollazzo delle guardie, privati persino del più elementare conforto della nostra comune umanità. È sconvolgente la testimonianza di Shin, al centro del documentario “Camp 14. Total control zone”, vincitore del “Festival du film et forum international sur les droits humains” di Ginevra che si svolge in concomitanza con l’annuale Consiglio per i diritti umani dell’Onu, che sta infine pensando di aprire un’inchiesta per crimini contro l’umanità in Corea del Nord. Sono settimane, queste, in cui la composta città svizzera risuona del racconto in prima persona degli abusi più atroci, per esempio lo stupro usato come arma dalle milizie stanziate nel l’Est della Repubblica democratica del Congo, dove il 23 per cento degli uomini e 30 per cento delle donne - bambine di due anni o ottuagenarie - sono stati violentati. Ma il racconto di Shin toglie il sonno anche a chi pensava di avere già sentito tutto. “Il nostro unico scopo era seguire le regole del campo e morire. Non sapevamo nulla di ciò che c’era fuori. Sapevamo solo che i nostri genitori e i nostri nonni erano colpevoli, e che noi dovevamo lavorare duro per questo. Nessuno di noi aveva mai pensato che avremmo potuto lasciare il campo. Ogni tanto qualcuno fuggiva, spinto dalla paura di morire di fame o di essere picchiato, ma veniva subito catturato e giustiziato, divenendo oggetto dell’odio di chi aveva lasciato indietro”. Perché anche i parenti di chi cerca di scappare sono spesso torturati e uccisi, così come chi non avvisa subito le autorità se sospetta che qualcuno abbia intenzione di evadere o di infrangere il regolamento del campo. Quando Shin vede che suo fratello ha lasciato la fabbrica di cemento prima del tempo sa bene che assentarsi dal lavoro è un errore punito con la morte. Osserva sua madre consegnargli del riso tenuto da parte: non gli resta che la fuga. Shin non perde tempo, va subito a denunciarli al suo insegnante. “Non ho pensato di fare finta di non avere visto - confessa in un primo momento - . Forse ero arrabbiato perché avevo così fame e mia madre non mi dava mai una razione in più. Ero solo un bambino”. Un bambino il cui primo ricordo, a quattro anni, è un’esecuzione, un bambino che ha visto picchiare a morte una sua compagna di classe perché aveva in tasca cinque chicchi di granturco forse rubati, che lavora da quando ha sei anni e mangia anche le ossa dei topi perché la sua razione di cibo è 300 grammi di mais al giorno e un cucchiaio di zuppa di cavolo. Non conosce altro: si è nutrito di questo per tutta la sua vita, a colazione, pranzo e cena. Poi quello che è ormai un bel ragazzo di trent’anni dalle braccia deformate dal lavoro infantile e dalla tortura ci ripensa e aggiunge “Se non avessi denunciato mia madre e mio fratello probabilmente mio padre e io non saremmo sopravvissuti. Lo traduca questo”. Ma fare la spia non basta: il mattino dopo lo arrestano, lo torturano per otto mesi fino a quando per caso dice: “perché mi fate questo se ho denunciato i miei parenti?”. Si scopre così che l’insegnante non aveva riportato la delazione. Shin viene trascinato in una cella dove c’è un vecchio carcerato che gli cura le ferite infettate e lo aiuta a non morire. “Era la prima volta che provavo un supporto emotivo. Non sapevo che gli uomini potessero aiutarsi a vicenda, che fossero degli animali sociali” racconta, con questa insolita espressione scientifica che avrà letto chissà dove cercando di capire la nuova emozione che era entrata nella sua vita. Poi lui e il padre, che a sua insaputa era nella stessa prigione, vengono rilasciati, per essere portati ad assistere all’esecuzione della madre e del fratello. “Non ho provato nulla, il concetto di famiglia mi era estraneo. Non sapevo che si doveva piangere, tutto quello che avevo imparato è che si doveva obbedire alle regole del campo”, racconta Shin, la cui madre era stata data “in premio” al padre dalle guardie. Nel 2004 arriva un nuovo detenuto, nelle interminabili giornate di lavoro gli racconta che fuori dal campo c’è un mondo diverso. Non è il desiderio di libertà che spinge Shin a fuggire, ma descrizioni della carne di pollo che lui non ha mai provato, e la brama di mangiare per una volta nella vita riso fino a sazietà. Un giorno i due vedono che non ci sono guardie e si lanciano verso la recinzione elettrificata. Il nuovo prigioniero muore fulminato, il suo corpo, riverso sul filo spinato, apre un varco. Passando sopra il cadavere, pur prendendo la scossa, Shin riesce a scappare. È il 2006. “Fuori ho visto la gente ridere e girare liberamente. Non potevo credere che quel mondo esistesse”. “Quando sono arrivato in Corea del Sud i servizi segreti mi hanno interrogato, ma sapevano già tutto quel che avveniva nei campi”. Racconta ancora Shin, che dorme tuttora per terra in un disadorno appartamento di Seul. “Si finisce in questi campi per crimini politici, per esempio per non aver anteposto la parola “compagno” al nome del comandante militare supremo Kim Jong - un o per essersi arrotolati una sigaretta con il giornale del popolo senza rendersi conto che vi era contenuta una foto del presidente eterno” spiega uno degli altri due intervistati. Sono un ex - agente segreto Nord coreano e una ex guardia del Campo 22 che ora vivono a Seul e che confermano l’inaudita realtà dei campi, spiegando con volto impassibile di avere ucciso, torturato, stuprato “per il bene della nazione”. “Dovevo solo sorvegliare i prigionieri, se mi stufavo gli sparavo”, racconta.