La carta del carcere e della pena: una cassetta degli attrezzi per i giornalisti di Elton Kalica Ristretti Orizzonti, 18 marzo 2013 L’approvazione di questo codice per i detenuti è un po’ una “rivincita morale” dopo essere stati massacrati da tanti articoli di cronaca, che poi continuano a vagare in internet, peggio di una condanna a vita. Carcere di Regina Coeli. “I giornalisti possono entrare”, annuncia un Ispettore della polizia penitenziaria. Consegniamo i documenti, riceviamo ognuno un pass da visitatore e attraversiamo il portone. La conferenza si svolge in una sala a pianoterra. Presenti diversi rappresentanti del mondo dell’informazione, operatori penitenziari ed alcuni detenuti in permesso premio. “Ho una buona e una cattiva notizia”. A parlare è Gerardo Bombonato, presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, in apertura della Conferenza stampa organizzata dagli Ordini regionali che già hanno adottato “La carta delle pene e del carcere”. La notizia buona è che anche l’Ordine nazionale dei giornalisti l’ha approvata, la cattiva invece è che sono state tagliate alcune parti che ritenevamo essenziali, come il riconoscimento del “diritto all’oblio”. Sembrerebbe una vittoria a metà, ma per chi ha visto nascere la Carta si tratta comunque di una conquista importante, poiché la strada è stata lunga e piena di ostacoli. Che si doveva fare qualcosa per “rieducare” i giornalisti, era una necessità emersa sin dal 1999, quando con alcune redazioni di giornali abbiamo iniziato una serie di incontri su questi temi. Dopo diversi seminari e convegni siamo arrivati ad una prima bozza, e l’abbiamo presentata il 26 maggio del 2006 dentro la Casa di reclusione di Padova. L’occasione era la Giornata di Studi dal titolo “Dalle notizie da bar alle notizie da galera”. A presentare il progetto erano stati i detenuti di Ristretti Orizzonti. “Lavorando con passione a questo progetto, siamo riusciti a elaborare una bozza di “Carta di Padova” che proponiamo con fiducia all’attenzione dei rappresentanti dell’ufficio del Garante della privacy, dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione nazionale della Stampa italiana che hanno accolto il nostro invito e hanno voluto onorare il nostro convegno della loro presenza”. A parlare era Graziano Scialpi, giornalista finito in carcere per un reato in famiglia. Mi viene in mente anche l’intervento di un altro nostro redattore, Stefano Bentivogli, che aveva ricordato come vengono trattati dai giornali i recidivi, dipinti come professionisti del crimine, mentre molto spesso sono gli sfigati del crimine, ragazzi con problemi di tossicodipendenza, come lo era Stefano. Sin da subito il progetto aveva trovato l’interesse dell’Ufficio del Garante della privacy, rappresentato da Mauro Paissan, di alcuni Ordini regionali, quindi il Veneto diretto da Maurizio Paglialunga, l’Emilia Romagna da Gerardo Bombonato. Tuttavia il percorso non è stato rapido, e tantomeno semplice. Fondamentale è risultato il coordinamento con altre redazioni di giornali in carcere. Carla Chiappini direttore della rivista “Sosta Forzata” di Piacenza e Susanna Ripamonti, direttore della rivista “Carte Bollate” di Milano hanno lavorato molto per fare adottare la Carta ai rispettivi Ordini regionali. Dopo seminari, dibattiti, consultazioni e messe a punto del testo, si è arrivati così al 10 settembre del 2011, quando finalmente la Carta viene presentata ufficialmente a Palazzo Marino a Milano, presente anche il sindaco, Giuliano Pisapia. Ad illustrare la Carta sono gli Ordini della Lombardia, dell’Emilia Romagna e del Veneto che si impegnano ad adottarla. Nasce così ufficialmente la Carta di Milano. Elaborato da detenuti e volontari delle redazioni dei giornali dal carcere, ormai il documento comincia a “camminare con le proprie gambe” su iniziativa dei diretti interessati, i giornalisti. Il 20 novembre 2012 l’Associazione Stampa romana organizza una giornata di dibattito dal titolo “Carcere: parole, pensieri ed omissioni”, coordinata dal senatore Roberto Di GiovanPaolo. Presenti il Sindacato, Ordini dei giornalisti, operatori, giuristi e ovviamente i rappresentanti delle redazioni dalle carceri che hanno promosso la Carta. Al centro di nuovo la necessità di sollecitare l’Ordine nazionale dei giornalisti perché la prenda in seria considerazione. A tal fine, ci si dà appuntamento a Roma per presentare la Carta, e il direttore di Regina Coeli, Mauro Mariani, si offre di ospitare l’evento. Nel frattempo gli Ordini di Basilicata, Sicilia, Liguria, Toscana e Sardegna adottano la Carta, e alla fine, il 13 marzo, il Consiglio nazionale la approva. Si arriva quindi all’appuntamento del 15 Marzo con l’obiettivo raggiunto. Anche se c’è la cattiva notizia che è stata tagliata la parte del riconoscimento del diritto all’oblio, “nonostante a livello europeo si stia lavorando a norme in tal senso per la cui violazione ci saranno anche multe pesantissime”, spiega Gerardo Bombonato. Seguono una serie di interventi tra cui quelli di Giovanna Di Rosa, magistrato del CSM, Luigi Pagano, vice Capo del Dap, Patrizio Gonnella, presidente di Antigone onlus. Tutti evidenziano la necessità di un codice deontologico che ponga dei limiti molto precisi all’invadenza di una informazione spesso imprecisa nei confronti delle persone private della libertà e dei loro familiari. Mi guardo intorno e penso come sarebbe stato bello aver organizzato la conferenza stampa nella Casa di reclusione di Padova. Il pensiero va di nuovo a cercare Graziano, che è stato portato via dal cancro in modo terribile, e Stefano, che ci ha lasciati perché non ce l’ha fatta a vincere la sua guerra contro la droga. Credo che anche per loro sarebbe stato un motivo di orgoglio, così com’è per tutti noi, una rivincita morale dopo essere stati massacrati da tanti articoli di cronaca, che poi continuano a vagare in internet come una condanna a vita. Sicuramente, i nuovi giornalisti, ma anche i “vecchi” che non sempre conoscono a fondo la materia dell’esecuzione della pena, non avranno più scuse. Dopo la Carta di Treviso che riguarda i minori, e la Carta di Roma che riguarda i rifugiati, i richiedenti asilo, le vittime della tratta e i migranti, la Carta di Milano va ad arricchire quella “cassetta degli attrezzi” che il giornalismo ha a disposizione per svolgere il suo lavoro in modo più professionale, o come avevamo detto nel convegno del 2006, per fare un’informazione più sobria e pulita sui temi delle pene e del carcere. Finita la conferenza stampa, usciamo in fretta da Regina Coeli, per raggiungere il seminario presso la sede del Sindacato dei giornalisti. Nel frattempo c’è stato un giro di consultazioni volte a chiarire l’inaspettato stralcio dal documento del tema del diritto all’oblio. Alla fine iniziano i lavori ed è il neo Presidente della Federazione nazionale della Stampa italiana, Giovanni Rossi, a fare chiarezza: “La Carta sarà emendata. Il tema del diritto all’oblio sarà ripreso perché ci crediamo e perché ce lo impone anche l’Europa”. Seguono altri interventi che ribadiscono lo stesso concetto: definire degli indirizzi chiari, riguardanti il modo di trattare gli accusati o i condannati negli articoli, è necessario perché altrimenti il giornalismo italiano non rispetta il dettato costituzionale, che afferma con forza la finalità rieducativa della pena, come non lo fa la società italiana. Quindi, soprattutto chi dirige i mezzi di comunicazione deve pensare anche in questi termini, perché “l’imprenditore nell’ambito dell’informazione”, ricorda Gianluca Amadori, Presidente dell’Ordine veneto, “non deve pensare solo a fare profitti, ma anche a contribuire alla crescita culturale della società”. Il riconoscimento del diritto all’oblio è un passo importante perché dimostra la maturità di una società: se in nome del diritto all’informazione il peggio di una persona può venire raccontato pubblicamente, trovare il coraggio di riconoscere che quel racconto ad un certo punto può essere interrotto per non perseguitare la persona per il resto della sua vita, significa aver fatto un passo da gigante nel cammino della civiltà. La vita in carcere oggi è fatta sempre più spesso di parole e gesti violenti Il Mattino di Padova, 18 marzo 2013 La vita in carcere è caratterizzata oggi più che mai da forme di violenza: perché, in condizioni di sovraffollamento, le persone perdono la loro dignità, sono più sole, e difficilmente possono essere ascoltate. E allora, ogni cosa può diventare fonte di ansia e di paura: il linguaggio delle sentenze e di tutte le forme di comunicazione che la persona detenuta ha con chi rappresenta la Legge, i rapporti con l’amministrazione, che comunque è quella che ti tiene rinchiuso, la convivenza tra detenuti che spesso non hanno niente da perdere, e niente che li possa aiutare a controllare la propria aggressività. In carcere a volte feriscono anche le parole Cosa fanno i genitori con i figli? Sin dalla tenerissima età ti parlano, vogliono trasmetterti con le parole le loro emozioni e con gesti, carezze, abbracci, baci dimostrarti tutto il loro amore. Ma poi nella vita impari che sia i gesti che le parole possono anche farti male. Un’educazione civile dovrebbe essere sempre quella che ti aiuta a comunicare con chiarezza e tranquillità, per farti conoscere, capire, collaborare con gli altri. In carcere invece capita di avere a che fare con comunicazioni per motivi di giustizia, sia orali che scritte, che non sono sempre chiare e trasparenti, e a volte danno adito a molteplici interpretazioni e quindi finiscono per scatenare reazioni aggressive e violente. Io lo sto sperimentando da quando sono diventato responsabile di un reato e nell’accostarmi alla lettura di istanze, atti giudiziari, comunicazioni da e tra Tribunali, valutazioni di psichiatri, psicologi, amministrazione penitenziaria, mi accorgo che mi mettono in difficoltà e mi provocano ansia. Il fatto poi di essere detenuto, e quindi privo di autonomia, di dipendere in tutto dagli altri, di non poter in alcun modo essere padrone della mia vita, ecco che fa aumentare la sensazione di disagio, di impotenza, la frustrazione perché non hai nessuna autorevolezza per controbattere a certe imposizioni e non hai neppure la possibilità di un dialogo, perché solitamente tutto ti viene comunicato per iscritto, e per capire le comunicazioni che ricevi dovresti avere sempre al tuo fianco un avvocato. Ma l’avvocato non è lì a tua disposizione, e non sempre hai i soldi per pagarlo, non sempre hai qualche volontario sensibile e disponibile che ti può aiutare. Ecco che anche certe frasi che leggi negli atti che ti riguardano diventano ferite, fonti di stress che devi digerire, portare avanti nel tempo sino a che, magari dopo mesi o dopo anni, ti vengono date delle risposte che spesso non sono neppure quelle che speravi. Con queste premesse l’unica parola chiara e che aiuta a continuare a muoverti in questo labirinto è: Pazienza! Ma se uno non ce la fa ad aspettare, se si convince di non avere speranze, quali risposte si dà? Non è un caso che da alcuni anni le cronache delle carceri sono piene dei suicidi o degli atti di autolesionismo di tante persone che qui dentro si sono sentite perse. Ecco che anche i silenzi di chi non dà risposta alle tue richieste, le lungaggini burocratiche, l’illegalità diffusa dovrebbero essere fermati in tutti i modi, perché in un contesto carcerario di tali dimensioni si rischia col tempo di diventare più criminali di quando si è entrati. E allora chi gestisce le politiche della sicurezza con gli slogan “tutti in galera” e “buttiamo le chiavi”, e cerca di convincere tutti che aumentare le pene significa fare positivamente prevenzione, non dice la verità. La verità è che le persone che restano per anni “parcheggiate” in carceri senza essere ascoltate, senza essere seguite, senza essere considerate nella loro umanità, perché sono troppe, perché non c’è personale a sufficienza, da queste galere usciranno solo più pericolose. Ulderico G. Vivere in carcere è spesso violenza pura Nei diversi incontri che si svolgono all’interno del carcere discutiamo spesso dei nostri comportamenti violenti, e di come è possibile mettere sotto controllo la nostra aggressività. Essendo detenuto, mi è molto difficile scrivere e parlare della violenza, perché non c’è solo la violenza dei reati, la violenza dentro al carcere è una cosa reale, a partire dai rumori insopportabili di sezioni dove dovrebbero esserci venticinque persone e ce ne stanno settantacinque. Anche un mazzo di quelle grosse chiavi che ci rinchiudono, se cade a terra dà origine a un frastuono violento, figuriamoci poi il tono della voce di tanti detenuti o dei pochi agenti che dovrebbero tenere sotto controllo un numero così enorme di persone. Sento dire: visto che siete detenuti, e spesso la violenza l’avete usata, dovete essere i primi a convincere gli altri che non si può vivere con la violenza. Sinceramente io credo sia impossibile, in quanto per la maggior parte i detenuti, al di là di quello che può essere il loro passato, cercano quasi sempre di non essere violenti, ma la situazione reale è spesso così insensata, che si trasforma in violenza pura. E capita così tante volte che si deve subire, e si è costretti a difendersi, che anche la pazienza non ti sorregge più, perché la pazienza ha un certo limite, oltre il quale rischi di reagire male. A volte poi anche frasi scritte su carta, ad esempio qualche rigetto di una richiesta, “non si autorizza”, o “non è consentito”, ti distruggono, soprattutto se ti sembra che non abbiano un motivo valido, e che magari ti siano spiegate con parole del tutto incomprensibili. Non può essere anche questa violenza? No, non è violenza, ti senti dire, è la procedura di questo sistema, che tratta tutti come numeri perché siamo troppi, dunque devo rimanere in silenzio e cercare di riflettere senza reagire. L’educazione che mi è stata data da piccolo era di comportarsi bene, di studiare, di andare a messa alla domenica, di non litigare con i compagni di classe, di rispettare gli anziani, di non guardare mai gli altri con invidia. Da giovane ho sempre lavorato e ho imparato diversi mestieri, ma durante il percorso della mia vita ho conosciuto il carcere e vi ho trascorso diversi anni. Ho visto tante cose in questi anni, ed è qui che sorgono i miei dubbi. Si parla tanto di rieducazione, ma è una parola a mio avviso non del tutto giusta, colpevole o innocente che un detenuto possa essere si dovrebbe parlare di reinserimento, e pensare di più a un rientro graduale nella società, in quanto già sappiamo che vivere in carcere è una vita piena di violenza, dunque se si pensa di rieducare le persone tenendole solo dentro, sarebbe una rieducazione con violenza pura. Oggi in carcere si vive in una situazione di sovraffollamento, le celle sono intasate da esseri umani e se non vuoi vivere in quella cella intasata sei punito. Un detenuto, nel corso della sua carcerazione, è sottoposto a cosi tante forme di illegalità, che è più che mai difficile che poi esca dalla galera sapendo controllare la sua aggressività. E quando le istituzioni ti dicono che se vuoi cominciare a uscire devi fare una riflessione critica più profonda sul tuo passato deviante, io mi faccio una domanda: chi te lo dice tiene presente la situazione reale che c’è nel carcere? tengono presente che un detenuto subisce una condizione che è di degrado e illegalità tutti i giorni e sta vivendo nel modo più deviante che esista, ed è in questo sistema che dovrebbe reinserirsi nella società? Angelo M. Giustizia: nelle carceri italiane si continua a morire, 6 decessi nei primi 15 giorni di marzo Ristretti Orizzonti, 18 marzo 2013 Nelle carceri italiane si continua a morire. Sei decessi nei primi 15 giorni di marzo. In tre casi si tratta sicuramente di suicidio, mentre per gli altri 3 casi le cause non sono ancora state accertate. Opg di Reggio Emilia, 16 marzo 2013. Un detenuto ghanese di 47 anni si toglie la vita. L’uomo si è inferto una ferita allo stomaco ed è stato portato d’urgenza al pronto soccorso dell’Arcispedale Santa Maria Nuova. I medici hanno tentato di operarlo per salvargli la vita, ma la ferita era troppo profonda. Il 47enne si è spento sabato mattina presto nel reparto di Chirurgia. Casa di Reclusione di Massa Carrara, 18 marzo 2013. Detenuto muore in cella il giorno prima di uscire in permesso premio. Non si hanno ulteriori notizie. Casa Circondariale di Milano San Vittore, 15 marzo 2013. Detenuto muore nella notte. Era rinchiuso nel terzo raggio e di nazionalità straniera. Opg di Reggio Emilia, 13 marzo 2013. Daniele De Luca, 29 anni, originario di Roma, detenuto per “reati minori” viene ritrovato morto in cella. Il corpo viene trasferito all’obitorio di Coviolo. Casa Circondariale di Pescara, 8 marzo 2013. Un detenuto tunisino viene ritrovato senza vita nella sua cella. Secondo i primi risultati dell’autopsia la morte è dovuta ad “asfissia acuta”. Casa Circondariale di Crotone, 6 marzo 2013. Pasquale Maccarrone, 27 anni, si impicca al letto a castello della cella (nella quale era rinchiuso da solo!). Era stato arrestato il giorno precedente con l’accusa di aver preso parte ad una rapina. Giustizia: Boldrini e Grasso parlano di carcere in Parlamento… di Fabrizio Ferrante www.epressonline.net, 18 marzo 2013 La giornata politica di ieri è stata caratterizzata dall’elezione dei presidenti di Camera e Senato. Del profilo istituzionale e della competenza indiscussa dei due prescelti, Laura Boldrini e Pietro Grasso, ci siamo occupati al termine dell’intensa giornata che ha condotto alla loro nomina. Oggi, alla luce di quanto affermato dai neo presidenti è il caso di trarre un primo bilancio su quali possono essere le aspettative per chi, come i Radicali, auspica una stagione autenticamente nuova e riformatrice. Se non altro, la giornata appena trascorsa ha regalato una certezza: la lotta per l’amnistia e la Giustizia giusta deve continuare, potendo poggiare su basi meno friabili rispetto a due giorni fa. Può sembrare un paradosso, dal momento che i Radicali sono fuori dal Parlamento per questa diciassettesima legislatura. Eppure, nonostante ciò, non è da escludere che possano aprirsi prospettive future per una qualche forma di provvedimento in grado di svuotare le carceri e di rendere non più rilevanti dal punto di vista penale talune condotte. In questo senso, l’ascesa agli scranni più alti delle due Camere di personaggi come Laura Boldrini e Pietro Grasso, potrebbe fungere da volano almeno per un’assunzione di responsabilità del Parlamento dinanzi alla comunità penitenziaria e al paese tutto. Del resto, più volte da queste pagine abbiamo evidenziato come negli ultimi tre anni siano state depositate e mai esaminate, alcune proposte di legge in grado di costituire una piccola ma significativa riforma della Giustizia. La legge Compagna per l’amnistia, quella Papa sulla carcerazione preventiva e quella Bernardini sulle droghe, non solo non sono passate, ma non sono neppure state calendarizzate da Gianfranco Fini e Renato Schifani, restando mestamente a prendere polvere nei cassetti dei palazzi istituzionali. Tutto ciò, in presenza di possibili proposte di legge che vadano in direzione di quelle presentate durante la scorsa Legislatura, non dovrebbe più verificarsi e quindi le Camere dovranno necessariamente pronunciarsi e assumersi la responsabilità politica di un “sì” o un “no” dinanzi a proposte concrete su temi dimenticati. Come le carceri che esplodono, le droghe, l’immigrazione e gli effetti carcerogeni di norme come la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi, che adesso potranno essere abrogate qualora vi siano parlamentari che vogliano farlo, proponendo una legislazione conforme a quelle in vigore in altri stati europei. Significative, in questo senso, le parole della Boldrini sulla situazione carceraria: “dobbiamo farci carico dei detenuti, che vivono in condizione disumana e degradante, come ha denunziato la Cedu di Strasburgo” e i Radicali, aggiungiamo noi. Ci troviamo in presenza, dunque, di due presidenti che non metteranno i bastoni fra le ruote sui temi connessi alla Giustizia, alle carceri - che entrambi hanno richiamato nei loro interventi post elezione - e magari ai diritti civili per la parte cospicua di cittadini che ancora non ne godono pienamente. Un ticket che potrebbe sposarsi appieno con una Chiesa che, con l’avvento di Francesco I si immagina possa essere meno pressante e in grado di “benedire” un percorso di riforme che possa dare respiro a un paese, posto per troppi anni sotto una cappa di proibizionismi e moralismi di Stato. Il riferimento è a temi come il diritto di famiglia e la ricerca scientifica, da anni appaltati alla volontà delle Gerarchie Vaticane. La ricerca, in particolare quella sulle cellule staminali embrionali - vietata dalla Legge 40 - potrebbe rappresentare un’importante occasione di sviluppo economico e della qualità della vita in genere - oltre che delle cure - per tutti i cittadini. Ora non resta che attendere il successore di Napolitano - da questo spazio non possiamo che caldeggiare il nome di Emma Bonino, clicca qui - e capire che tipo di governo riceverà il placet del Quirinale per tentare di intraprendere un percorso di governabilità che, anche a causa della massiccia presenza “grillina” rischia di restare ciò che è da anni: un sogno irrealizzabile. La giornata di ieri, indirettamente, dà comunque una speranza in più per delle lotte di civiltà, che per troppi anni sono state classificate esclusivamente come “radicali” ma che grazie ai due nuovi presidenti delle Camere sono entrate nel dibattito politico dalla porta principale. Un primo, piccolo ma significativo risultato, che lascia ben sperare per un futuro non troppo remoto. La mobilitazione per le carceri, a questo punto, deve riprendere e una nuova marcia per l’Amnistia sulla scorta dell’ultimo 25 aprile (clicca qui) sarebbe un’idea che Marco Pannella farebbe bene a rispolverare e a riproporre con forza. Da Napoli, diverse centinaia di cittadini sarebbero già pronti a rispondere: “presente!”. Giustizia: lo scandalo dei manicomi giudiziari di Fulvio Scaparro Corriere della Sera, 18 marzo 2013 “Tra pochi giorni, entro il 31 marzo 2013 gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) dovranno essere definitivamente chiusi. Gli Opg hanno sostituito a metà degli anni Settanta del secolo scorso i manicomi giudiziari. L’internamento in Opg è una misura di sicurezza comminabile ai soggetti non imputabili per vizio totale di mente ed è regolato dall’art. 222 c.p., che ne fissa una durata minima ma non una durata massima: la misura è passibile di proroga. Di ragioni per chiudere gli Opg ce ne sono in abbondanza, visto il gran numero di indagini, inchieste e testimonianze che hanno denunciato le condizioni di degrado, abbandono e umiliazione in cui versa gran parte delle persone ospiti di queste strutture “senza fine pena certa”. Purtroppo, non c’è da gioire per la chiusura degli Opg perché, come spesso accade, non è chiaro cosa accadrà subito dopo e i rischi di proroga in mancanza di alternative chiare e praticabili e di scaricabarile tra governo e Regioni sono molto alti. C’è il rischio di creare mini Opg regionali 0, fuori da ogni eufemismo, mini manicomi, senza prestare attenzione alla necessità di assicurare ogni volta che è possibile assistenza alternativa all’internamento in piccole strutture (non i mini Opg); si rischia inoltre di non rispettare nemmeno l’invito solenne della legge 9/2012 alle dimissioni “senza indugio” delle persone per le quali è cessata la pericolosità sociale. E ancora, dove verranno eseguite le misure di sicurezza dopo il 31 marzo? La collettività ha diritto a essere messa al riparo da comportamenti pericolosi ma questo diritto non deve portare a violare quello costituzionale alla cura, a ricevere trattamenti non discriminatori, alla libertà a fine pena e a un equo processo. Il pericolo che gli internati in Opg o in strutture consimili siano di fatto privati delle loro garanzie istituzionali non cesserà finché non si darà vita alla richiesta di costituire un’autorità Stato-Regioni ad hoc sugli Opg con gli stessi poteri riconosciuti per la chiusura dei manicomi. Qualcosa del genere il presidente della commissione d’inchiesta sul Sistema sanitario nazionale ha chiesto al presidente del Consiglio: si nomini una figura che abbia pieni poteri per applicare la legge votata dal Parlamento e che possa gestire il percorso di chiusura e le risorse economiche messe a disposizione. Gli è stato risposto che la situazione attuale, immagino quella politica, non consentiva di accogliere la proposta. E siamo arrivati a meno di un mese dalla prevista chiusura degli Opg senza un minimo di progetto sul che fare. Il finanziamento legato alla legge 9 è stato approvato e non mancano in Italia e all’estero esperienze positive di alternative ai maxi e mini manicomi giudiziari, iniziative che potrebbero essere attuate assicurando sicurezza ai cittadini nel rispetto dell’articolo 22 della Costituzione che vieta ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. Il disinteresse delle istituzioni per le persone internate e abbandonate a se stesse, talvolta per sempre, nei manicomi giudiziari fa parte delle pagine più impresentabili della nostra storia. Dipende anche da noi cittadini scrivere pagine migliori sollecitando e pressando da vicino i nostri rappresentanti affinché non nascondano la polvere sotto il comodo tappeto delle proroghe. Giustizia: Sappe; anche con Governo dei “tecnici” resta la grave emergenza penitenziaria Comunicato stampa, 18 marzo 2013 “Prendo atto che una Sigla sindacale confederale dell’Amministrazione Penitenziaria dica di vantare un canale preferenziale di comunicazione con la Ministro della Giustizia Paola Severino, tanto da ricevere in anteprima notizie che dovrebbero essere patrimonio di tutti e non solo di alcuni, come la firma degli assegni una tantum che il Personale di Polizia attende da molti mesi. Se così fosse, se cioè la Ministro si premura di chiamare solo i Sindacati che le sono evidentemente simpatici, abdica al ruolo di equilibrio ed imparzialità intrinseco nel ruolo del Guardasigilli e calpesta quelle relazioni sindacali che sono frutto di battaglie decennali. Evidentemente la Fornero ha fatto scuola nell’Esecutivo Monti”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri in relazione ad un comunicato diffuso dalla Uil Penitenziari dove si dichiara di aver ricevuto una telefonata di cortesia da parte della Ministro Severino per fornire informazioni privilegiate. “Le soluzioni della Guardasigilli e del Governo tecnico per contrastare la grave emergenza penitenziaria sono risultate inefficaci” prosegue Capece: “sono ormai più di tre anni - era il 13 gennaio 2010 - da quando il fu Governo Berlusconi decretò ufficialmente lo stato di emergenza nazionale conseguente all’eccessivo affollamento degli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale e la situazione. Anche il cambio di Esecutivo e la guida di Mario Monti non hanno cambiato lo stato delle cose. Anzi, sono peggiorate: dai 64.791 detenuti che c’erano nelle 206 carceri del Paese il 31 dicembre 2009 siamo arrivati a contare 65.906 presenze il 28 febbraio 2013, rispetto ad una capienza regolamentare di poco superiore a 43mila posti letto. Abbiamo più del 39% dei detenuti in attesa di un giudizio, 24mila stranieri in cella, un detenuto su 3 tossicodipendente, il lavoro penitenziario che è un miraggio perché lavorano pochissimi detenuti e 6.000 poliziotti in meno negli organici. E stare chiusi in cella 20/22 ore al giorno, senza far nulla, nell’ozio e nell’apatia, alimenta una tensione detentiva nelle sovraffollate celle italiane fatta di risse, aggressioni, suicidi e tentativi suicidi, rivolte ed evasioni che genera condizioni di lavoro dure, difficili e stressanti per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Che impatto hanno avuto le riforme della Severino? Anche la scelta dei tecnici per la guida dell’Amministrazione Penitenziaria - il Capo ed il vice Capo Giovanni Tamburino e Luigi Pagano - è risultata fallimentare ed incapace di risolvere i problemi.” Dap vuole Uffici Stampa o filtro “bavagli” nelle carceri? “L’impegno del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una “Casa di vetro”, cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci “chiaro”, perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamentale - ma ancora sconosciuto - lavoro svolto quotidianamente dalle donne e dagli uomini della Polizia Penitenziaria. Del carcere e dei Baschi Azzurri viene spesso diffusa un’immagine distorta, che trasmette all’opinione pubblica un’informazione parziale, non oggettiva e condizionata da pregiudizi. E quindi ben venga un ragionamento che porti alla istituzione di Uffici Stampa nelle carceri, come ha annunciato pomposamente il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che pure sul tema della comunicazione istituzionale ha dimostrato e dimostra molte pecche e lacune. Mi chiedo però a chi verrà affidato, negli Uffici Stampa, il compito di veicolare questa comunicazione: a persone esperte e competenti, a giornalisti, oppure alle veline dei provveditori e dei direttori? E che cosa comunicheranno?”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, commentando le dichiarazioni del Vice Capo Dap Luigi Pagano intervenuto alla presentazione della “Carta del carcere e della pena”, nel carcere romano di Regina Coeli. “Pagano, che ha il compito di comunicatore per conto del Dap ed è stato in più occasioni al centro di critiche per come gestisce tale incarico (dimenticandosi, spesso e volentieri, di ricordare il lavoro dei poliziotti penitenziari), sa che il Dipartimento sono attualmente in vigore le linee guida diramate dal Dap per il rilascio di dichiarazioni stampa e di interviste da parte del personale penitenziario finalizzate ad evitare esternazioni, che non siano state comunicate preventivamente al Capo del Dipartimento, su temi che investono scelte strategiche e organizzative? E sa che le risposte ad eventuali interviste devono essere concordate con il Provveditore regionale? E allora vogliamo: Uffici Stampa o filtri bavaglio ai tantissimi eventi critici (aggressioni, tentati suicidi, autolesionismo) che oggi sono gestiti dalla Polizia Penitenziaria e resi noti solo dal Sappe e altre compagini sindacali?”. Giustizia: i domiciliari negati al malato Rizzoli di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 18 marzo 2013 La sorella di Stefano Cucchi denuncia lo stato di gravità del detenuto. È difficile, in un Paese in cui sui social network si sghignazza oscenamente il suicidio di David Rossi del Monte dei Paschi di Siena (“uno in meno”; “un’ammissione di colpevolezza”) avere il coraggio di Ilaria Cucchi. È difficile, in un Paese in cui sui giornali che vanno tanto di moda si gode come il popolaccio bruto davanti alla ghigliottina per le “retate e i “rastrellamenti” dei politici messi in galera, chiedersi se non sia tremendo. l’accanirsi con la carcerazione preventiva per un “potente” malato molto gravemente e che rischia di morire. È tutto molto difficile in un Paese in cui, cinque anni fa, fu prelevato da casa, di notte come il peggiore dei malfattori, il presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco, in cui, il magistrato convocò una conferenza stampa come al Festival di Cannes per parlare di “prove schiaccianti” ma inesistenti, in cui dopo cinque anni si apprende che l’accusa non si era nemmeno premurata di stabilire l’esatta cronologia di “prove” mai provate. È difficile in un Paese che non conosce più l’abc dello Stato di diritto, dimostrare misura, senso dell’umanità, rispetto delle persone e del principio costituzionalmente tutelato della presunzione d’innocenza. Perciò appare un grande gesto quello di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi morto nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini con il corpo tumefatto e ridotto in condizione pietose, che sul Foglio denuncia lo stato di gravità assoluta in cui, in questi giorni, versa nello stesso reparto detentivo Angelo Rizzoli. Non è necessario conoscere i dettagli della vicenda giudiziaria in cui Rizzoli è implicato: sarà un regolare processo, rispettoso dei diritti dell’imputato, a stabilirne l’eventuale colpevolezza nella bancarotta che gli viene contestata. Ma perché negare gli arresti domiciliari a un uomo che, come ha scritto il neodeputato del Pd Luigi Manconi, potrebbe fare “la stessa fine” di Cucchi? Rizzoli, scrive Manconi, è “affetto da sclerosi multipla con emiparesi spastica emisoma destro che lo obbliga a deambulare solo con l’uso del bastone: a ciò si aggiunga un’ipertensione arteriosa, complicata da grave insufficienza renale cronica, prossima alla dialisi; un diabete mellito, una pregressa angina instabile con malattia dei tre vasi coronarici, una pregressa mielopatia compressiva del midollo cervicale che aggrava l’emiparesi del braccio destro”. Ora “la situazione renale si è ulteriormente aggravata”, Rizzoli è costretto a letto perché, “essendo stato privato del bastone, non può camminare e mostra segni di atrofia muscolare e dal momento che non è autonomo, gli è impedito l’uso della doccia a causa del pericolo di cadute”: in queste condizioni “Rizzoli tende a rifiutare il cibo” e il medico parla apertamente di “pericolo di decesso”. Tutto questo perché è stato negato un provvedimento di arresti domiciliari, ben prima del processo. Perché? Giustizia: Del Turco, memorie di un inquisito…. imputato a vita di Stefano Di Michele Il Foglio, 18 marzo 2013 Ora che le prove traballano, Ottaviano Del Turco racconta come è pesante vivere in attesa di giustizia. “Per fortuna che sono abituato a guardare le nature morte…”, mormora Ottaviano Del Turco. Ce ne sono molte, appese alle mura di questa casa a pochi passi da piazzale Flaminio: melograni aperti che sanguinano e luccicano, cedri accesi, grappoli di uva scintillanti, larghe foglie nell’aria, fichi dal colore cupo. E cesti di vimini riprodotti nei minimi dettagli - così che il grande quadro laggiù in fondo immediatamente evoca il canestro colmo di colori e luci del Caravaggio - e tazze anch’esse di frutta stracolme, blu e bianche come certe antiche porcellane cinesi. Tutte opere di un amico di Del Turco, Luciano Ventrone. (“Un giorno andò a trovarlo Federico Zeri, che voleva conoscerlo. Suonò il campanello. Chi è?. Sono Federico Zeri. Sì, e io sono Picasso!, e mise giù”). Sulle pagine dei giornali, c’è una foto che a una natura morta - però confusa, di cattiva luce, di ammasso informe - potrebbe far pensare, anzi: fa pensare. Mele che spuntano da una busta - mele dove poco prima c’erano (dicono, accusano) pacchi di soldi. Tolstojano denaro falso, soldi consegnati, mele date in cambio - a far finto ingombro, a sigillare quasi biblicamente il peccato d’ingordigia commesso - in un giorno preciso: il 2 novembre 2007. Giorno dei morti, emblematicamente, perciò giorno in cui si può pure cominciare a sentirsi morire. “Ma sono abituato a guardare nature morte…”. E allora? E allora - come se fosse la tela laggiù, come se fosse la magia del Caravaggio - Del Turco cominciò a scrutare quella foto (malefica foto, foto che sanzionava insulto e dannazione per colui che aveva azzannato il frutto proibito della corruzione). Qualcosa nell’ombra appariva e si celava dietro le mele. Castagne, noci. Ma noci con il mallo - la parte carnosa, verde, che poi la noce perde. “Feci un salto: a novembre, in Abruzzo, non ci sono noci con il mallo attorno. Lo hanno già perso. Quelle non potevano essere le noci del 2 novembre”. Ora dicono i quotidiani che “la prova regina era una bufala”, che l’accusa contro Del Turco vacilla, e che quelle foto che dovevano inchiodarlo (soldi, mele, l’uomo che paga mentre entra in casa) sarebbero state scattate mesi prima. Del Turco respira - dopo cinque anni riprende a respirare. Ma è un respiro che ha un fondo di affanno, di stanchezza - dentro il fiato un principio comunque di sconfitta. Perché il processo è ancora da concludere, chissà se entro l’estate, chissà se entro l’anno, chissà come finirà - pur se la “valanga di prove schiaccianti che non lasciano spazio a difesa”, vantata dalla procura quando tutto cominciò fatica a venire giù, pur se a volte il telefono ha ripreso a squillare, pur se giornali e televisioni chiedono commenti e interviste. Ha un affanno che forse non andrà mai più via, il respiro di Del Turco. “Un cencio”, risponde di sentirsi a un’amica che telefona. Di respiro che una volta è stato interrotto con spavento, e ora non riesce più a ritrovare il suo ritmo. Perché poi dentro una storia così - tra lui che proclama la sua innocenza e la sua sconsolazione (“sono un apolide, ormai ho perso tutto”), e i magistrati che insistono sulla sua colpevolezza - se ne macinano altre cento, altre mille. Non si esce, comunque se ne esca, come in un giorno di novembre - “cala novembre e le inquietanti nebbie gravi coprono gli orti”, cantava Guccini: gli orti con le mele, le castagne e le noci, lì dietro la casa di Collelongo dove ogni cosa si consumò e l’arresto fu eseguito - successe di precipitarci dentro, e il sospetto infame di sei milioni di tangenti che tirano a fondo, cementificando piedi e pensieri. Anche lo sguardo di Del Turco ha qualcosa di spento, che si accende davanti al racconto di un libro, di una tela, per poi tornare a fissarsi sul computer, su Facebook, “mi è rimasta una sola finestra sul mondo”, e consola magari sapere che “c’è un musicista di Firenze che ha aperto una pagina: “Verità e giustizia per Ottaviano Del Turco”. È sollevato, certo. Ma è un quieto sollevarsi, il suo - ché appunto sa che mai il conto andrà in pareggio. “Ho vissuto sulla mia pelle la tragedia della consumazione”. Fu arrestato il 14 luglio del 2008, il governatore Del Turco. Il giorno che presero la Bastiglia si presero anche lui. Giorno da rivoltosi, da giacobini. Sorride. “Mi ricordo la lettera di una vecchia nobildonna abruzzese…” - e viene in mente, per subito sparire dalla mente, “quella candida vecchia contessa” di De André - ma anzi, “ricordo le parole esatte, mi scrisse: “Caro presidente, lei è stato arrestato il 14 luglio, il giorno dei giacobini, così impara ad amare quella gente”. Ma io i giacobini non li ho mai amati, mi ricordo gli scontri con i più estremisti durante le assemblee sindacali. Le vostre sono seghe senza orgasmo!, gli gridavo”. Appena cinque anni, e magari altri ancora - e cinque anni, comunque, possono contenere e macinare tutti i sessantaquattro precedenti, così che il sindacalista, il segretario socialista, il ministro, il deputato, il presidente dell’Antimafia, l’eurodeputato quasi non esistono più. Né l’adolescente che a sedici anni preparava le pratiche delle pensioni di vecchiaia e di invalidità all’Inps, le assemblee dei metalmeccanici alla Voxson o alla Romanazzi o alla Selenia, il ragazzo che andava al cinema a vedere “Allarmi, siam fascisti!”, e fuori c’erano i fascisti veri e bellicosi in attesa. “Improvvisamente la mia vita sociale si è ridotta al rapporto tra me e sei carcerieri, che mi sorvegliavano ventiquattr’ore su ventiquattro. Perché evitassi, credo, gesti insani… E nel carcere di Sulmona incontravo lo sguardo malizioso di alcuni mafiosi. ‘Visto che succede anche a te?’, diceva quello sguardo”. C’è un pensiero fisso, un tunnel buio, “una valanga” che fatica a farsi prove ma che intanto mediaticamente e politicamente seppellisce e azzittisce. Scriveva, Del Turco. Dipingeva, Del Turco - e la sua casa è percorsa da questa passione, insieme alle opere (rivelatrici, si è visto) di Ventrone, un paio di coloratissimi Schifano, Vespignani, Guccione. Fa correre lo sguardo lungo le pareti. “Sai, adesso credo che dovrò vendere tutto per pagare le spese legali, non c’è altro da fare. Tutto, tranne quello, è di Guccione”, e indica un Cristo crocifisso dietro la testa - più che altro un’ombra di Cristo crocifisso, il corpo sofferente che sfuma nel nulla, la croce appena intuita. E qualcosa appeso a un chiodo vicino alla croce invisibile. “È una frusta… È il crocifisso che Angelica e Tancredi scoprono nel Gattopardo, ricordi?”. I due fuggono, dentro il palazzo di Donnafugata, “e l’Eros sempre con loro, malizioso e tenace”, scoprono stanze disabitate, vite di antenati dimenticati, mentre la governante timorosa li insegue: “Tancrède, Angelica, où êtes-vous?”, e di colpo un enorme dimenticato spaventevole crocifisso si para loro davanti, e “accanto al cadavere divino pendeva giù da un chiodo una frusta col manico corto dal quale si dipartivano sei strisce di cuoio ormai indurito, terminanti in sei palle di piombo grosse come nocciole”. E con quella frusta un antico avo, Giuseppe Corbera duca di Salina, si fustigava, “e doveva sembrargli che le gocce del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle” - e adesso chissà Del Turco cosa in quel crocifisso vede, e soprattutto cosa in quella frusta implacabile riconosce, così da essere pronto a privarsi di tutto, ma non di quell’ombra inchiodata, minacciosa più che consolante. E dunque una vicenda giudiziaria - e la sentenza dirà se di ordinaria giustizia si tratta, impreziosita da centoquattro rogatorie internazionali, o se la “valanga” seppellì solo una reputazione anziché smascherare un furfante - che sempre una vicenda umana senza scampo, e a volte anche senza colpa, muta e fa deragliare. E adesso Del Turco non dipinge, “serve una serenità che non ho”, e non scrive. Fatica a mettere in ordine i colori sulla tela. “E non mi vanno più in ordine le parole. Una volta per me scrivere era facile, adesso… Questa storia ha cambiato il mio rapporto con la sintassi, commetto errori che non avevo mai fatto, perdo la consecutio temporum. Non so più scrivere, mi smarrisco. Questa storia mi ha come inaridito, reso una pianta secca, affaticata”. Le parole vagano, indisciplinate, come a volte la testa, magari. Le parole - quelle dette, quelle scritte, quelle riferite - che in un processo si fanno carne e sangue (a sfiorare il letterario di quella frusta accanto al divino cadavere appeso), e l’ordine salta e il grigio pare divorarle tutte insieme. Persino le parole nei bigliettini che gli inviarono colleghi deputati - come Bersani, come la Turco - e che furono bollati quali “pizzini”, come fossero opera malavitosa, messaggi osceni di osceni briganti, e non saluti di parlamentari della Repubblica. È che dentro queste storie le parole sempre poco consolano - anche quando sono parole che accompagnano sperati e tardivi successi processuali - piuttosto che ferire. “Ricordo che dopo l’arresto un importantissimo dirigente del Pd mi mandò un biglietto. C’era scritto: Caro Ottaviano, sono sicuro che riuscirai a dimostrare la tua innocenza. Gli risposi che mi lasciava senza parole, lo sapeva che non toccava a me dimostrare la mia innocenza? Ero allibito”. Le cose cambiano, quando improvvisamente le tue mani non sono più libere di muoversi, quando finisci in cella, quando sei confinato agli arresti domiciliari. Anche quando tutto è ancora da dimostrare, anche quando le persone che ti conoscono dovrebbero avere qualche certezza in più su ciò che tu sei - e sei stato, e sai che forse per gli altri non sarai più. “Vivo nel silenzio, dentro questa mia casa. Mi ero sempre svegliato alle sei del mattino, alle sette stavo sempre fuori, e adesso… A volte una passeggiata, una cena. Quando sono tornato dal carcere, ho visto gente cambiare marciapiede per non incrociarmi, girare l’angolo di strada per non salutarmi. Il vuoto intorno… Mi è successo di osservare con attenzione il mutamento dell’opinione pubblica rispetto alla mia storia. All’inizio la sensazione era questa: sì, forse hanno esagerato, ma qualcosa ci deve essere. Ero attento alle reazioni, non solo di chi conoscevo, ma anche di chi mi riconosceva. A volte sorprese positive, a volte negative. D’altra parte, non mi faccio illusioni sul permanere, nei rapporti sociali, di una dose di cinismo e di ipocrisia. Quando incontro certe persone che furono amiche, e si avvicinano sospirando: ‘Sapessi come ci sono rimasto malè - beh, ma non mi hai mai telefonato, non mi hai più invitato a cena; ‘Sapessi come ti ho pensatò - beh, allora potevi pure dirlo. Spesso non resisto, e glielo dico in faccia: non ti facevo così ipocrita. Ci sono state anche occasioni di rottura. Ogni volta mi viene in mente e cito loro l’epigramma che Pasolini scrisse su Gian Luigi Rondi: “Sei così ipocrita che come l’ipocrisia ti avrà ucciso / sarai all’inferno, e ti crederai in paradiso…”. Sul divano, vicino a Del Turco - anzi: su Del Turco, addosso a Del Turco - saltano in coppia i suoi due cani: il cane Due (successivo al cane Uno) e sua figlia, la cagnetta Soutine, come il pittore francese. Dove uno va, l’altra vola. Dove una fugge, l’altro insegue. Al loro accorrere, il sorriso di Del Turco si fa meno appassito, più pieno. Le mani, fino ad allora abbandonate (mani che faticano a scrivere, mani che non s’imbrattano più di colori), sembrano riprendere vita, cominciano a seguire carezzevoli i loro piccoli e sussultanti e pelosi corpi. Bordeggia il divano, scivola intorno alla poltrona, il gatto Miró - in onore del grande pittore catalano, ovvio, “ma anche del centravanti laziale Miroslav, il dio degli stadi”, spiega il biancoceleste ex governatore. “L’abbiamo trovato in una strada di Collelongo, si trascinava con una zampetta rotta, spaventato…”. Si fa sempre fatica, però, dentro certe storie, a mettere in ordine quelle più banali - che banali sembrano, e raccontano invece di piccole felicità smarrite - che ora appaiono perse, e quindi smisurate. A volte, confida Del Turco, piange - e senza vergogna lo confida, e quando racconta lo sguardo si vela, “piango spesso, non so perché, ma piangere è una risorsa, non è un danno”. Come quando ricorda Luciano Lama, di cui fu segretario aggiunto in Cgil - “chiesi un appuntamento a Cossiga, al Quirinale, gli dissi: sono stati fatti senatori a vita molti artisti, scienziati, mai un sindacalista, gente come Pastore o Di Vittorio o Lama. Cossiga mi rispose: e chi glielo dice, a Natta? Tu portami il consenso di Natta, io sono pronto a mettere la firma. Era il Pci che non voleva…”. O la vita da bambino in quell’Abruzzo che doveva segnare poi così tanto, e così per sempre, la sua esistenza, e D’Alema, che pure gli fece la proposta di andare a farsi governatore, e col 60 per cento dei voti lo fu, che mostrava cautela, si fermava sul limite, “se io fossi in te, non andrei”. “So anche persino quando sono stato concepito, perché mio papà stava con i partigiani sulle montagne intorno a Collelongo, e scendeva raramente a casa: fu un otto di febbraio. Venne e giacque e scappò, perché stavano arrivando i tedeschi. E mia madre, a 41 anni, che si disperava per il senso del peccato”. E fu l’ottavo figlio, Ottaviano - e da qui il nome, e non fu neanche il più bizzarro in famiglia, comprensiva di un Quintiliano, di una Pratilina e di un Alfiere. E dentro quella casa fu arrestato, appunto cinque anni fa, appunto nel giorno dei giacobini, quando la sua vita definitivamente sbandò. Vennero dei finanzieri, “pensavo a una perquisizione, io non lo sapevo, ma ricordo che un programma televisivo già lo stava annunciando, e il colonnello mi disse: presidente, dobbiamo tradurla al carcere di Sulmona. Da quel momento tutto cambiò”. Furono ventotto giorni di carcere, “esperienza indimenticabile”, poi gli arresti domiciliari, e serviva l’autorizzazione per spostarsi da Collelongo a Roma e viceversa. “La damnatio memoriae che io ho conosciuto”, ha ripetuto in questi giorni ai giornali. E che pure conosce - e che forse, mentre Soutine ancora scappa e Due ancora la insegue e Mirò infila il muso in un piatto rimasto incustodito - e che forse teme di dover per sempre (pur nella forma sottile della dimenticanza, pur nell’insopportabile ferocia dell’ipocrisia) conoscere. Racconta che in cella leggeva, come molti fanno, ché altro da fare non c’è, e riscoprì “Addio alle armi” di Hemingway, “avevo un pregiudizio, mi ricordavo la stroncatura sull’Espresso di Moravia, invece mi è piaciuto, le ultime quindici righe sono bellissime”, e fu deluso da “Il giovane Holden” di Salinger, “riletto mi pareva una fiction”, molto meglio “Il rosso e il nero” di Stendhal. E Gadda, tutto Gadda, ancora adesso, il geniale e spaventato Gadda, le parole quasi incomprensibili e perfette, “per la terza volta sto rileggendo L’Adalgisa” - così sempre pare restare uno “gnommero” da cui districarsi, e farlo richiede una vita, se una vita basta. “Una vita già deviata, irreversibile”, mormora Del Turco. “Quando sono uscito di galera tornato a Collelongo, c’è stata una gran festa, ma il delitto era ormai consumato”. C’è molto da pensare, quando c’è molto da attendere - e pur sperando, senza grandi speranze restare. “Poco prima di morire mi chiamò Miriam Mafai, mi disse che voleva venire a cena da me. Eravamo amici da una vita. Ne fui felice. Dove abiti adesso? Le diedi l’indirizzo. Ma a che numero? Le diedi il numero. Non è possibile, disse, è il palazzo dove io ho abitato con la mia famiglia. A che piano? Le dissi il piano. Ma è lo stesso! E l’interno? Le dissi l’interno. Ma è esattamente la casa dove abitavamo! Non è strana la vita? Com’è curiosa… Miriam mi raccontò di quei mesi tra queste mura, era il 1944, i nazisti erano appena andati via. Mi disse: mio padre non riusciva a trovare i colori che gli servivano, mia madre non riusciva a trovare la creta, io e le mie sorelle non riuscivamo a trovare il pane per mangiare”. Del Turco si ferma, lo sguardo torna faticoso. “Morì pochi giorni dopo, Miriam, non è più riuscita a rimettere piede in questa casa”. Prima o poi, in qualche modo finirà. “Anche la lotta senza vittoria inaridisce, lo sappiamo noi vecchi sindacalisti. Porta all’inaridimento la sensazione di non poter più vincere una battaglia. A che serve lottare, se non hai la possibilità di vincere? Diventano campi di battaglia che non sono più tuoi”. C’è un quadro alle pareti. L’ultimo che Del Turco ha dipinto. Non ha colori - l’unico altro senza colori, a parte il Cristo con la frusta dell’espiazione (della paura) a fianco. C’è una bicicletta appoggiata a un muro, una piccola Citroën degli anni Quaranta ferma in mezzo alla strada. Nient’altro - né luce né vita né stupore. Un po’ triste, spettrale, dico. “Mi fa pensare all’inizio di una storia, quell’immagine”. Ma ancora non sa come andrà, poi, quella storia. Lettere: se la legge non è uguale per tutti… di Marco Rovelli L’Unità, 18 marzo 2013 Mi sono chiesto, qualche giorno fa (e ho visto in rete che molti altri se lo sono chiesti con me): ma se qualsiasi altro cittadino avesse invaso il tribunale come hanno fatto i berlusconidi, che gli sarebbe accaduto? Forse non è questo il modo migliore per rendere universalmente evidente che la legge non è uguale per tutti? Ma si sa, la giustizia in Italia è forte con i deboli e debole con i forti. Il pensiero torna allora a un libro, uscito qualche mese fa, di Livio Pepino, che si intitola proprio “Forti con i deboli” (Ed. Bur). Berlusconi ha ragione, la giustizia in Italia non è uguale per tutti: ma nel senso esattamente opposto a quello da lui inteso. Pepino, già consigliere della Corte di cassazione, membro del Csm e presidente di Magistratura Democratica, mostra nel suo pamphlet come i poteri forti, nel recente ventennio di deriva antidemocratica (che, come è scritto nei primi capitoli, ha riguardato una radicale trasformazione nella funzione della magistratura), siano progressivamente sfuggiti al controllo della magistratura (come affermò Gherardo Colombo, in questo senso la giustizia italiana è “una macchina per tritare l’acqua”). Nel contempo, invece, i deboli non sfuggono. Il diritto del lavoro viene mortificato, le carceri si riempiono (Pepino parla di un passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale), i migranti vengono criminalizzati, si chiudono gli occhi sulla sicurezza sul lavoro, i conflitti sociali vengono derubricati a questioni di ordine pubblico. La “legalità” è diventata un feticcio universale e acritico per occultare il fattore decisivo “delle politiche e delle opzioni effettuate per attuarla, che possono essere veicoli di inclusione o fattori di discriminazione”. E i giudici, in questo, hanno un ruolo decisivo: “per restituire giustizia ai deboli, occorre, prima di tutto, limitare il potere dei forti”. Liguria: Sappe; minimale l’impegno della Regione sulle criticità penitenziarie www.savonanews.it, 18 marzo 2013 “Trovo singolare che esponenti della Regione Liguria relazionino delegazioni internazionali sulla situazione penitenziaria regionale: è palese infatti che sul tema delle carceri liguri la Regione dimostri una approssimazione spaventosa” - scrive in una nota Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Un anno e mezzo fa, ad esempio, l’Assessore Montaldo incontrò il Sappe con la allora vice Presidente regionale Fusco e ci assicurò che avrebbero presentato a breve una piattaforma complessiva penitenziaria regionale che avrebbe trattato di sanita, formazione, edilizia. Non si è visto nulla. Eppure la presenza di circa 1.850 detenuti nei 7 penitenziari regionali che dispongono di una capienza regolamentare complessiva di 1130 posti letto dovrebbe far comprendere con quante difficoltà lavorano le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria, sotto organico di 400 unità in Liguria. La presenza di stranieri tra i reclusi della Liguria si attesta tra il 50 ed il 60% dei presenti e nella nostra Regione si registra anche una alta percentuale di detenuti tossicodipendenti (circa il 30% dei presenti). Record negativo è anche quello dei detenuti che lavorano, che in Liguria sono solamente il 20% dei presenti. La situazione è davvero allarmante e ritengo sia l’ora che anche la Regione Liguria faccia qualcosa. Chiedo l’impegno della Regione Liguria (anche attraverso il coinvolgimento delle Province e dei Comuni liguri, d’intesa con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ed il qualificato e fondamentale contributo del Personale di Polizia Penitenziaria) a promuovere concretamente l’impiego dei detenuti in progetti per il recupero del patrimonio ambientale ligure. “I detenuti “occupati” in Liguria sono complessivamente 423 (320 nei servizi interni d’istituto - quasi poche ore al giorno e in attività interne ai penitenziari, come “scopino”, lavandaio, inserviente alla cucina, “spesino” - e solo 103 non alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria). Mi sembrano cifre che non necessitano di alcun commento: se il primo elemento per rieducare un detenuto è il lavoro, e questo non c’è, di cosa parliamo? I detenuti hanno prodotto danni alla società? Bene, li ripaghino mettendosi a disposizione della collettività ed imparando un mestiere che potrebbe essere loro utile una volta tornati in libertà. Ma la maggior parte di loro ozia tutto il santo giorno, alimentando tensioni costante e continue a tutto danno del già duro e difficile lavoro delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria. Perché non impiegare i detenuti in progetti di recupero del patrimonio ambientale e in lavori di pubblica utilità, dando davvero un senso alla pena detentiva? Spero e mi auguro che il Presidente Burlando e l’assessore Montaldo avvertano la necessità di farsi promotori della costituzione di un tavolo in Regione su questa previsione, coinvolgendo tutti gli Enti istituzionali e locali interessati”. Rambaudi a Sappe: critiche non risolvono problemi “Stamani la Regione Liguria ha presentato a una delegazione latinoamericana le iniziative dell’assessorato alle politiche sociali a favore dell’inclusione delle persone in carcere, per le quali abbiamo ricevuto anche il riconoscimento dell’amministrazione penitenziaria nazionale. Ci rendiamo conto che il problema delle carceri è ampio e con numerose criticità. Ma abbiamo semplicemente cercato di dare il nostro contributo senza trionfalismi, ma nemmeno sminuendo il lavoro di numerosi operatori impegnati nelle attività sociali. Così l’assessore regionale al welfare Lorena Rambaudi risponde alle critiche mosse dal segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria per il mancato impegno regionale. “In particolare - ha detto Rambaudi - abbiamo illustrato alla delegazione il testo unico del terzo settore che riserva il 5% degli appalti regionali alle cooperative sociali che fanno inserimento lavorativo, alle quali si affiancano i 250 mila euro che stanziamo tutti gli anni per progetti sociali dentro le carceri, realizzati da 32 enti in rete su tutto il territorio regionale che vanno ad arricchire le risorse regionali con l’attività di volontariato. Infine - ha concluso Rambaudi - i 19 milioni per il bando sull’inclusione sociale, messi a bilancio nel 2011 dalla formazione professionale attraverso il fondo sociale europeo, in collaborazione con l’assessore Rossetti per favorire progetti di inserimento lavorativo che stanno partendo proprio in questi giorni”. Delegazione latinoamericana in visita Visita oggi in Regione Liguria di una delegazione latinoamericana di quattordici paesi per conoscere più da vicino il sistema carcerario ligure e le possibilità che offre ai detenuti di un successivo inserimento lavorativo. La delegazione, composta da rappresentanti del sistema carcerario e dei vari ministeri di Giustizia sudamericani, è stata ricevuta dall’assessore al welfare, Lorena Rambaudi che ha illustrato le principali misure messe in atto in Liguria per l’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro, grazie ai fondi del piano sociale. All’incontro erano presenti, tra gli altri, anche il provveditore dell’amministrazione penitenziaria regionale della Liguria, Giovanni Salamone e il vicecapo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nazionale, Luigi Pagano. Nel pomeriggio la delegazione si recherà al carcere di Marassi e domattina a quello di Pontedecimo. La visita si inserisce nell’ambito del programma Eurosocial II, finanziato dalla commissione europea, che nasce nell’ambito degli accordi stipulati durante il summit dei capi di Stato e di Governo della Ue con quelli dell’America Latina che prevede interventi di interscambio, tra paesi europei e latinoamericani, nell’ambito delle buone prassi e della coesione sociale. Lazio: il Garante dei detenuti scrive ai nuovi presidenti di Camera e Senato ringraziandoli Ansa, 18 marzo 2013 Il Garante dei detenuti Angiolo Marroni ha scritto ai neo presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Pietro Grasso, ringraziandoli per aver voluto riportare “la drammatica situazione del sistema carcerario italiano al centro dell’agenda politica nazionale”. Entrambi i neo eletti presidenti di Camera e Senato nei loro , discorsi di insediamento avevano ricordato la difficile situazione che si vive nelle carceri italiane. “Nel felicitarmi per la Vostra elezione - ha scritto Marroni - sento il dovere di ringraziarVi per le belle e partecipate parole relative ai detenuti, le cui condizioni di vita, in ragione in primo luogo del sovraffollamento, ma non solo, sono intollerabili per un Paese civile, come più volte ribadito anche dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nella mia funzione istituzionale di Garante dei detenuti della Regione Lazio, sono ovviamente a Vostra disposizione con spirito di collaborazione riferito a queste difficili ed annose problematiche”. Vercelli: ex direttore carcere accusato di omicidio colposo, dopo il suicidio di un detenuto www.lasesia.vercelli.it, 18 marzo 2013 Omicidio colposo: da questa accusa devono difendersi, davanti al giudice monocratico del tribunale di Vercelli, Maria Teresa Guaschino, l’ex direttore del carcere Antonino Raineri e un agente della polizia penitenziaria, entrambi difesi dagli avvocati Roberto Rossi e Roberto Scheda. I fatti risalgono al 12 novembre 2009: quel giorno un detenuto del carcere di Billiemme si suicidò con un lenzuolo in un sottoscala. Pare che l’uomo avesse problemi di salute; anche il dottor Germano Giordano, consulente nominato del tribunale, aveva accertato l’opportunità di un trasferimento del detenuto in una struttura più adatta alle sue condizioni, essendo la misura del carcere incompatibile. Pertanto fu deciso il suo ricovero nell’apposito reparto delle Molinette di Torino. Purtroppo, però, l’uomo si tolse la vita prima del trasferimento. A Raineri, è contestato di non aver disposto particolari misure cautelari; al poliziotto di non aver adeguatamente vigilato sul carcerato, perquisendolo. Dalla ricostruzione degli inquirenti è emerso che, durante l’ora d’aria in cortile, in cui era in servizio l’agente ora sotto accusa, il detenuto chiese anzitempo di poter rientrare in cella; la guardia glielo concesse, ma l’uomo, anziché risalire nella sua divisione, raggiunse il sottoscala e si suicidò. Il processo è iniziato martedì 12 marzo. Sono stati sentiti un medico in servizio nel carcere di Billiemme e il dottor Giordano. Si torna in aula il 26 marzo per sentire nuovi testimoni citati dall’accusa, tra cui altri medici. Milano: Ipm Beccaria; dopo ispezione ministeriale trasferiti direttore e comandante agenti Avvenire, 18 marzo 2013 La direttrice del carcere minorile Beccaria di Milano è stata trasferita ad altra struttura, e il comandante delle guardie “allontanato”, dopo un’ispezione del Ministero della Giustizia da cui sarebbero emersi dissidi insanabili tra i due. I controlli sono stati effettuati dopo un anno in cui il Beccaria è stato teatro di importanti episodi. A partire dalla rivolta scoppiata a settembre, guidata da quel 14enne chiamato “la Pulce” ma conosciuto anche come “baby Vallanzasca” che avrebbe incendiato due materassi e trascinato nel suo gesto di ribellione una trentina di detenuti. Pochi giorni prima era evaso un nordafricano: i detenuti si trovavano nel campo di calcio, durante l’ora d’aria, quando il ragazzo era riuscito a scavalcare il muro di cinta, forse aiutato da altri minori. Nel 2012 ci sarebbe stato anche un tentativo di suicidio da parte di un giovane recluso. Alcuni dei protagonisti di questi episodi sono stati trasferiti in altri carceri minorili. Lì, stando a quanto risulta, non avrebbero mostrato segnali di disagio. Quegli stessi segnali che, invece, avevano mostrato a Milano. Il Ministero della Giustizia ha deciso così di effettuare controlli accurati sul Beccaria. Successivamente, è stato deciso il trasferimento ad altra struttura della direttrice, e “l’allontanamento” del comandante delle guardie. Per la prima, stando a fonti ministeriali, si prefigura il rientro. Campobasso: appalto per i lavori al carcere di Larino a ditta sotto inchiesta per camorra di Alessandro Corroppoli www.primonumero.it, 18 marzo 2013 In via provvisoria la gara per costruire intorno al penitenziario frentano una barriera antirumore è stata vinta da una società di Castellamare di Stabia. È la stessa azienda su cui stanno indagando i magistrati dell’antimafia di Firenze che sospettano legami con un clan camorristico. La ditta fa parte del gruppo imprenditoriale della famiglia Vuolo. L’assegnazione dell’appalto si è svolta secondo criteri di regolarità, ma il Provveditorato dopo essere venuto a conoscenza dei presunti legami con la criminalità organizzata ne ha subordinato l’ufficializzazione all’esito di alcune richieste fatte alla Procura di Napoli e Benevento. Ancora una volta il Basso Molise rischia di finire nell’occhio del ciclone per una vicenda che chiama in causa storie di camorra. Non siamo nelle terre di “Gomorra”, dove il sangue continua a scorrere e gli affari buoni son solo quelli sporchi. Viviamo in un piccolo fazzoletto di terra dove gli affari, quelli veri, dovrebbero essere fatti alla luce del sole. In piena regola. O quasi. Eppure non è la prima volta che le terre di Francesco Jovine devono fare i conti con il lezzo della criminalità organizzata, e il percolato di discarica sversato nel depuratore consortile di Termoli da società vicine ai clan è solo un esempio. Stavolta vittima dei presunti affari della criminalità organizzata sarebbe la Casa Circondariale di Larino. Tutto comincia lo scorso 15 settembre, quando il Provveditorato Interregionale per le Opere Pubbliche di Campania e Molise (che dipende direttamente dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) indice un bando di gara a evidenza pubblica per affidare i lavori di recinzione del penitenziario di contrada Monte Arcano, a Larino. Si tratta di innalzare delle paratie intorno al penitenziario in modo da eliminare i cosiddetti “fenomeni di inquinamento acustico”. Alla gara, i cui termini per la presentazione delle offerte scadevano lo scorso 17 ottobre, partecipano 27 ditte. L’ importo complessivo dell’intervento è di 937.630,66 euro, la base d’asta di 907mila euro e rotti. Una volta ricevute le 27 proposte, la mattina del 30 ottobre nella sede di Campobasso del Provveditorato per le Opere Pubbliche il presidente della commissione che deve valutare le offerte i gara, Gaetano Antonio Pellegrino, con l’assistenza di Rossana Caruso (Sostituto Ufficiale Rogante) e alla presenza di testimoni richiesti a norma di legge, dichiara che ad aggiudicarsi i lavori per la progettazione e l’esecuzione dei alla Casa Circondariale di Larino è, seppur in via provvisoria, l’ ATI P.T.A.M. Costruzioni s.r.l. di Castellamare di Stabia, provincia di Napoli. La ditta in questione, viene specificato, è riuscita a spuntarla sulla concorrenza proponendo il prezzo più basso: in pratica si è detta disposta a prendere in appalto i lavori per un costo inferiore del 28 per cento rispetto alla base d’asta, e quindi per un prezzo complessivo netto di 682.151,09 euro. Non c’è che dire: un bel risparmio per il Ministero che recupera trecentomila euro circa rispetto a quelli messi in conto. Non ci sarebbe nulla di anomalo se non fosse per le ombre che si nascondono dietro la proprietà della P.T.A.M. Costruzioni Srl e il suo attuale amministratore unico. P.T.A.M. sta per Pasquale, Taddeo, Antonio e Mario. Che di cognome si chiamano tutti Vuolo. Un cognome, e una famiglia già nota alle cronache giudiziarie, poiché le società dei Vuolo sono sotto indagine a nell’ambito di un’inchiesta per i crolli di pensiline e ponti ciclopedonali lungo le autostrade italiane. La Procura fiorentina sta facendo luce su insoliti mutamenti di progetto in corso d’opera e su presunti tentativi di corruzione. Nove persone sono indagate: quattro appartengono ai Vuolo e al loro entourage, altri due sarebbero semplici prestanome, mentre i rimanenti tre sono tecnici e dirigenti della società Autostrade, Pavimental e Sat, queste ultime due appartenenti al gruppo Autostrade. Il 6 dicembre gli uomini della Dia fiorentina, in seguito all’ennesimo crollo - avvenuto il 19 novembre - di alcuni pannelli al casello di Rosignano sulla A12, fa perquisire gli uffici dell’impresa in quanto si sospetta che nella vicenda sia coinvolto anche il clan camorristico D’Alessandro di Castellamare di Stabia, sospettato di fare affari con e attraverso i Vuolo. Ma torniamo alla P.T.A.M. s.r.l. e ai suoi soci e dirigenti. Pasquale Vuolo, soprannominato “capa storta”, fu arrestato nel 2003 per associazione mafiosa con l’aggravante dell’ articolo 7 del codice penale, traffico di armi e estorsione. Venne condannato a 13 anni, fu scarcerato dopo 7 anni ed ora è sottoposto a sorveglianza speciale. Sua moglie, Lucia Coppola, è figlia di Gaetano Coppola detto a “cassa mutua” considerato dagli investigatori campani un punto di riferimento all’interno del clan dei D’Alessandro. Inoltre, l’amministratore unico della P.T.A.M. è la mamma di Pasquale, Giuseppina Cardone, moglie di Mario Vuolo. Secondo la Dia di Firenze il legame tra i Vuolo e i D’Alessandro passa attraverso il denaro sporco del clan: “Ingenti capitali di dubbia provenienza e tentativi sistematici di corrompere i rappresentanti degli enti committenti”. I sospetti della divisione antimafia sono avallati da una sentenza del Consiglio di Stato (la n. 756 del 29 febbraio 2008) con la quale i giudici amministrativi della VI sezione di palazzo Spada hanno respinto il ricorso con cui i Vuolo avevano chiesto l’annullamento di una sentenza del Tar della Campania aveva decretato che una società della galassia dei Vuolo, la Carpenteria Metallica s.a.s di Davide Cardone (fratello dell’amministratrice unica della P.T.A.M.) non era in possesso dei requisiti per ottenere la certificazione antimafia. Le toghe del Consiglio di Stato respingendo il ricorso dei Vuolo avevano addirittura rafforzato la tesi dei colleghi campani del Tar evidenziando un legame di parentela tra Lucia Coppola, socia accomandante di Carpenteria Metallica s.a.s, con persone ritenute affiliate a un potente sodalizio criminale operante nell’area di Castellamare; Lucia è figlia di Gaetano Coppola, pregiudicato ritenuto affiliato al clan D’Alessandro ed è sposata al Pasquale Vuolo di cui si è detto prima. Inoltre, nel verdetto il Consiglio di Stato sottolinea anche che Davide Cardone - segnalato per detenzione e porto illegale d’armi, minaccia e ingiuria, oltre che per violazione di sigilli - è fratello di Giuseppina Cardone, socio accomandante della società “Taddeo e Vuolo”, dichiarata fallita. La Dia, nel suo ultimo rapporto semestrale del 2012, ha sottolineato “l’influenza del clan D’Alessandro, le cui capacità di infiltrazione nel tessuto economico-amministrativo riverberano in tutta l’area stabiese, fino ai Comuni della penisola sorrentina e anche in altre zone d’Italia”. Zone d’Italia in cui si teme che siano entrati a far parte il Molise e il Comune di Larino proprio in conseguenza dell’appalto per i lavori di sistemazione del carcere larinese. La P.T.A.M. Costruzioni dei Vuolo allo stato attuale è aggiudicataria in via provvisoria dell’appalto e diventa quindi doveroso chiedersi come ciò sia stato possibile. La dottoressa Caruso, del Provveditorato alle Opere Pubbliche di Campobasso, ci spiega che in realtà, al memento della gara il loro ufficio non era al corrente dei “pregressi” della società dei Vuolo: “Ma subito dopo aver ottenuto informazioni in merito il nostro dirigente (Gaetano Pellegrino) si è recato in Procura e ha segnalato questa situazione anomala”. E in effetti esistono specifiche richieste inoltrate nei primi mesi dell’anno in corso dal Provveditorato alle Procure di Napoli, Benevento e Caserta per il rilascio dell’informativa antimafia. Tuttavia, rimane ugualmente da capire come sia stato possibile che alla gara abbia partecipato una società priva del certificato antimafia. La dottoressa Caruso risponde: “Nel caso dei lavori al carcere di Larino la soglia comunitaria (importo della base d’asta dell’appalto) non veniva minimamente sfiorata. Infatti le ditte che partecipano a bandi di gara ad evidenza pubblica per lavori fino a 150mila euro possono sostituire l’informativa antimafia con un’autocertificazione. Se invece, come nel caso del carcere di Larino, l’appalto è poco sopra i 600mila euro, basta dichiarare le proprie credenziali morali. L’informativa antimafia diventa obbligatoria nel momento in cui la cifra arriva a toccare e a superare i 5 milioni di euro”. E infatti, nelle richieste fatte dal Provveditorato alle Procure si legge che “La presente richiesta è in deroga per l’entità dell’importo, all’art. 10 del D.P.R. n. 252/1998, al fine dell’accertamento sulla base della denuncia paventata”. Un regolamento che ha dell’assurdo e che permette a chiunque di dichiarare il falso e magari aggiudicarsi anche i lavori. Dal giorno in cui il Provveditorato ha chiesto alle varie Procure i certificati antimafia per la società dei Vuolo sono passati più di 45 giorni. Nonostante ciò nessuna risposta è arrivata. Solo la Procura di Benevento ha inviato una comunicazione di servizio senza entrare nel merito della richiesta pervenuta, annunciando che “a breve saranno fatte tutte le dovute verifiche” e invitando il Provveditorato ad assegnare comunque in maniera definitiva i lavori indipendentemente dalle loro verifiche perché la legge lo consente e perché qualora vi fosse qualcosa di talmente rilevante da invalidare l’assegnazione si può sempre annullare tutto e bloccare i lavori. “Se volessimo” aggiunge la Caruso “noi oggi potremmo assegnare in via definitiva l’appalto, ma non lo faremo perché vogliamo avere garanzie sui soggetti ai quali consegneremo i lavori”. Un’affermazione confortante, visto che affidare i lavori di recinzione presso un carcere ad una ditta sospettata di collusioni con la camorra non sarebbe il massimo dell’immagine del nostro territorio. Resta una curiosità: chi ha fatto le autodichiarazioni di moralità per la P.T.A.M.? La signora Giuseppina Cardone oppure l’architetto Pino Celotto? “La signora Giuseppina Cardone” risponde Caruso, aggiungendo che “nulla di compromettente è stato dichiarato”. Ovviamente Giuseppina Cardone non dichiara di essere madre di Pasquale Vuolo, né sorella di Davide Cardone. Ancona: protesta Sappe contro situazione Montacuto e trasferimento detenuti Barcaglione Ansa, 18 marzo 2013 Il sindacato di polizia penitenziaria Sappe darà vita nei prossimi giorni ad una protesta davanti alla sede del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria delle Marche contro la situazione di degrado strutturale del carcere di Montacuto di Ancona (dove una sezione dovrà essere chiusa a causa di infiltrazioni d’acqua), e il trasferimento nel carcere di Barcaglione di 54 dei 140 detenuti che dovranno essere spostati in altri istituti di reclusione. Secondo Aldo Di Giacomo, segretario regionale del Sappe, “Barcaglione è progettato per accogliere soltanto detenuti a basso indice di pericolosità”. Quanto alle condizioni della casa di reclusione di Montacuto, “sono mancati interventi di manutenzione ordinaria”. 54 detenuti Montacuto trasferiti in Umbria “Non saranno più portati nel carcere di Barcaglione ad Ancona, ma andranno nel carcere di Terni e in altre strutture carcerarie dell’Umbria i 54 detenuti che verranno spostati dalla casa di reclusione di Montacuto”. Lo ha reso noto il segretario regionale del Sappe Aldo Di Giacomo, che ne ha avuta comunicazione, così afferma, dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Cagliari: Sdr; disagi nel carcere di Buoncammino per blocco fogna braccio destro Ristretti Orizzonti, 18 marzo 2013 “Un improvviso guasto al sistema fognario ha comportato disagi per una trentina di detenuti della Casa Circondariale di Buoncammino. È la conferma che la struttura ha necessità di urgenti interventi di ristrutturazione”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, sottolineando “le difficoltà quotidiane di chi deve assicurare servizi efficienti e la sicurezza dei detenuti”. “L’intervento della Direzione del carcere - ha sottolineato - è stato provvidenziale. È stata infatti disposta l’immediata chiusura di 6 celle e chiesto l’intervento di una ditta specializzata che, attraverso delle telecamere, dovrà individuare il punto esatto del problema. I primi sondaggi non hanno purtroppo dato esito positivo rivelando però la presenza di calcinacci e pietre”. “L’episodio critico si è verificato con 486 presenze di cittadini privati della libertà, sarà quindi necessario - conclude la presidente di SdR - alleggerire il numero dei detenuti con trasferimenti in modo da evitare un aggravio di sovraffollamento nelle altre celle”. Torino: linea moda disegnata da detenute, accessori di design Collezione “Fumne” Ansa, 18 marzo 2013 Bracciali in stoffa con piccoli volti di donne serigrafati, borsoni militari, borse ricamate a mezzo punto di colori accesi, chiuse e aperte, pochette ed espadrillas cucite artigianalmente: sono alcuni degli accessori moda della nuova collezione Fumne 2013-2014 creata, per il terzo anno dalla donne detenute del carcere Le Vallette di Torino. Una collezione accurata dai toni sorprendenti, con stoffe raffinate recuperate dalla detenute con mesi di lavoro e realizzata grazie al progetto “La casa di Pinocchio” che dal 2008 organizza laboratori creativi per detenute di età tra i 25 e 55 anni. Alcuni pezzi sono stati presentati al Macef di Milano e a Parigi e sono stati venduti in Giappone, oltre che in alcuni dei negozi più in di Torino e altre città. Si tratta di progetti di design esclusivi ai quali hanno collaborato stilisti noti come il più grande naso italiano Laura Tonatto. “Un progetto che va bene e che dà molta soddisfazione alle donne coinvolte - hanno spiegato le organizzatrici - ma che ha bisogno d’aiuto per andare avanti e per avere una diffusione che ne permetta il mantenimento. Tra i lavori fatti, anche uno, molto partecipato, sull’immagine della Madonna, analizzata come figura religiosa e come donna. “Un progetto, quest’ultimo - è stato ancora spiegato - che ha dato molta serenità e occasione di approfondimento alle detenute coinvolte”. Messina: “Festa del papà”, la Crivop onlus nel carcere di Mistretta con i figli dei detenuti Ristretti Orizzonti, 18 marzo 2013 Martedì 19 marzo 2013, in occasione della “festa del papà”, la Crivop Onlus sede Nazionale di Messina, con un gruppo competente in intrattenimenti per bambini, realizzerà nella struttura penitenziaria di Mistretta un incontro intitolato “Un’ora di arcobaleno”. Durante l’incontro i figli dei ristretti, (stando sulle gambe dei loro papà), saranno coinvolti in giochi di gruppo, puppet, canti, realizzando momenti di gioia ed offrendo dolci e patatine offerti dalla Crivop. Lo scopo dello spettacolo è quello di attuare l’art. 28 dell’Ordinamento Penitenziario che recita “Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. Immigrati: Radicali in visita al Cie di Ponte Galeria di Roma “con o senza autorizzazione” Agi, 18 marzo 2013 Lo scorso 8 febbraio il Capogruppo uscente dei Radicali al Consiglio Regionale del Lazio, Giuseppe Rossodivita ha fatto una formale richiesta alla Prefettura di Roma per poter accedere al Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria a Roma per una visita sulle condizioni dei detenuti e della struttura. Non avendo ricevuto alcuna risposta - informa una nota dell’ufficio stampa - il 18 febbraio è stata risollecitata la richiesta alla quale è stato risposto che a causa di gravi incidenti (“atti vandalici”) avvenuti all’interno del Cie avrebbero fatto pervenire una risposta in tempi brevi. A tutt’oggi non è pervenuta alcuna comunicazione che autorizzi l’accesso. Sulla vicenda è stata presentata nei giorni scorsi una interrogazione parlamentare urgente al Ministero degli Interni, prima firmataria la deputata Radicale Rita Bernardini. Oggi lunedì 18 marzo alle ore 11,30 una delegazione di Radicali, guidata da Marco Pannella, con Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo, Consiglieri Regionali uscenti, Marco Beltrandi, già parlamentare Radicale e Sergio Rovasio, Consigliere Generale del Partito Radicale, si recherà comunque al CIE di Ponte Galeria. Di questa decisione è stata data comunicazione al Ministro degli Interni e alla Prefettura di Roma (Area IV Quater) tramite comunicazione ufficiale via telegramma e via e-mail. Stati Uniti: condannato a morte chiede di anticipare l’esecuzione per protesta Ansa, 18 marzo 2013 Condannato a morte ansioso di scontare la pena. La storia è di Gary Haugen, 51 anni, che deve scontare una pena di morte per omicidio. Il detenuto sarebbe dovuto essere giustiziato nel 2011 ma il governatore dell’Oregon, John Kitzhaber, ha infatti sospeso tutte le esecuzioni fino alla fine del suo mandato, ossia fino a gennaio 2015. Haugen ha fatto persino ricorso alla corte suprema dell’Oregon e accusato il governatore di codardia. “Lo Stato applichi la legge in nome del popolo”, ha querelato il politico definendolo un “cowboy di carta che non ha avuto il coraggio di premere il grilletto”. Ora sarà la corte suprema dello Stato a dover decidere come affrontare lo spinoso caso. Il suo, a quanto ha dichiarato, è infatti un atto di protesta contro la giustizia americana. Un dubbio viene però dalle perizie neuropsichiatriche del detenuto, spesso contrastanti, che non garantiscono la piena lucidità di Haugen. Israele: deportato a Gaza detenuto palestinese in sciopero fame, viene accolto come eroe Adnkronos, 18 marzo 2013 Le autorità israeliane hanno rilasciato e deportato a Gaza la scorsa notte un detenuto palestinese impegnato da otto mesi in ripetuti scioperi della fame. Lo ha reso noto la radio israeliana. Ayman Sharawna, residente in Cisgiordania, faceva parte del gruppo di detenuti palestinesi scarcerati nell’ottobre 2010 in cambio della liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, ma era stato riarrestato l’anno scorso con l’accusa di aver violato i termini del rilascio. Per protesta contro il suo riarresto, Sharawna aveva dato inizio il primo luglio 2012 ad una serie di scioperi della fame. Ieri il detenuto palestinese ha firmato un accordo con le autorità israeliane, accettando di mettere fine allo sciopero della fame e ad essere deportato a Gaza. Il 36enne Sharawna era stato condannato a 38 anni di carcere per aver partecipato a diverse azioni anti anti israeliane: il piazzamento di una bomba che ha ferito 18 civili a Beersheba, il tentato rapimento di un soldato e un attacco armato. L’uomo ha scontato dieci anni della sua pena e potrà tornare nel villaggio natio in Cisgiordania soltanto fra altri dieci anni, a patto che non riprenda le attività militanti contro Israele. Accoglienza trionfale per ex detenuto Dopo essere stato impegnato per otto mesi in uno sciopero della fame ad intermittenza in una prigione israeliana, il militante di Hamas Ayman Sharawneh, 36 anni, è stato ieri liberato e poi accolto da una folla in tripudio al suo ingresso nella striscia di Gaza. L’uomo, 36 anni, appariva debolissimo e dal valico di Erez è stato condotto in ambulanza all’ospedale al-Shifa di Gaza City, dove è adesso ricoverato. Sharawneh era stato incluso nello scambio di prigionieri che oltre un anno fa aveva consentito la liberazione del caporale israeliano Ghilad Shalit, tenuto a lungo prigioniero a Gaza da Hamas. Ma in seguito Sharawneh è stato nuovamente arrestato da Israele, per ragioni che non sono state rese pubbliche. Per questo attivista - che è originario di Hebron (Cisgiordania) - la riacquisita libertà ha un sapore amaro perché è stato costretto da Israele ad accettare un confino a Gaza di dieci anni. In particolare ancora non è noto se e quando potrà ricongiungersi con la moglie e con i nove figli che risiedono in Cisgiordania e che ancora non sanno se otterranno i permessi necessari per trasferirsi a Gaza. Da parte sua Hamas ha già fatto sapere che Sharawneh riceverà una abitazione degna del suo rango ed uno stipendio mensile che gli consentirà di condurre a Gaza una esistenza onorevole. Fonti palestinesi aggiungono che Israele sta cercando di convincere un altro militante palestinese - Samer Issawi, originario di Gerusalemme est - a cessare un lungo sciopero della fame ed accettare come Sharawneh di essere espulso a Gaza per un periodo prolungato. Spagna: ministero Difesa indaga su pestaggio detenuti in Iraq da parte soldati spagnoli Tm News, 18 marzo 2013 Il Ministero della Difesa spagnolo ha aperto un’inchiesta sul video pubblicato dal quotidiano spagnolo “El Pais”, nel quale si mostrano cinque militari che prendono a calci e pugni due detenuti: immagini che sarebbero state girate nei primi mesi del 2004 nella base di Diwaniyah, in Iraq. Il Ministero ha reso noto di aver avviato gli accertamenti per verificare l’autenticità delle immagini e in caso affermativo si cercherà di identificare gli aggressori. Il contingente spagnolo in Iraq venne ritirato nell’estate del 2004, dopo la vittoria elettorale del socialista José Luis Rodriguez Zapatero. Il video dura circa quaranta secondi: le immagini mostrano cinque militari che entrano in una cella dove si trovano due detenuti; tre dei soldati si accaniscono contro i detenuti, e dopo il pestaggio un militare torna due volte nella cella per prendere a calci i prigionieri. Canada: due detenuti evadono su elicottero da carcere in Quebec, uno è già stato catturato Ansa, 18 marzo 2013 Due detenuti sono evasi ieri in elicottero da una prigione del Quebec, in Canada; uno dei due è stato arrestato insieme ad altri due complici poche ore dopo, mentre sarebbe vicino l’arresto del secondo. L’evasione, la prima del genere nella provincia canadese, era stata ben pianificata. I media locali hanno ricostruito uno scenario secondo il quale i due complici armati hanno preso in ostaggio il pilota dell’elicottero per obbligarlo a sorvolare la prigione di Saint-Jerome, circa 50 km a nord di Montreal, e hanno lanciato una scala di corda ai due detenuti che erano sul tetto del penitenziario. L’elicottero è stato ritrovato poco dopo nella regione montuosa di Mont-Tremblant, sui Monti laurenziani, da dove era partito. Il pilota, che non è stato ferito ma era in stato di shock, è stato ricoverato in ospedale, mentre la polizia ha continuato a dare la caccia ai fuggitivi, che erano invece scesi dal velivolo non lontano da Saint-Jerome per continuare la fuga in macchina. La polizia ha già arrestato Benjamin Hudon-Barbeau, 36 anni, vicino ai motociclisti Hell’s Angels, insieme ai due complici ed è sulle tracce di Danny Provencal, 33 anni.