Ordine Naz. Giornalisti approva “Carta del carcere e della pena”, ma stralcia diritto oblio Redattore Sociale, 15 marzo 2013 L’annuncio durante il convegno a Regina Coeli. Il documento è stato elaborato in alcune carceri italiane e approvato da otto ordini regionali. Pagano, vice direttore del Dap: “Riapriremo sale stampa in alcuni istituti”. La Carta del carcere e della pena ha ricevuto l’approvazione da parte dell’Ordine nazionale dei giornalisti, ma la parte che riguarda il diritto all’oblio per gli ex detenuti è stata stralciata. A darne notizia è Gerardo Bombonato, presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, durante il convegno di presentazione del codice deontologico per giornalisti che si occupano di persone private della libertà tenutosi in mattinata presso il carcere di Regina Coeli, a Roma. “L’Ordine nazionale ha approvato la carta nell’ultimo Consiglio nazionale - ha spiegato Bombonato, ma la cattiva notizia è che sono state tagliate alcune parti che ritenevamo essenziali, come il riconoscimento del diritto all’oblio, nonostante a livello europeo si stia lavorando a norme in tal senso su cui ci saranno anche multe pesantissime”. Un risultato importante, quello annunciato oggi, che però ha smorzato l’entusiasmo dei promotori. Due, infatti, le colonne portanti della cosiddetta Carta di Milano: al primo posto la regola l’attenzione al trattamento delle informazioni riguardanti i cittadini detenuti, soprattutto nel delicato passaggio del reinserimento nella società e alle misure alternative, spesso confuse con un ritorno alla libertà. Secondo pilastro, invece, proprio il diritto all’oblio per gli ex detenuti, affinché non restino esposti senza limiti di tempo ai danni che la ripetuta pubblicazione di una notizia può arrecare. Tuttavia, quest’ultimo punto non ha passato il vaglio del Consiglio nazionale, ma per Bombonato ci sono ancora i termini per lavorarci. Questione delicata sottolineata anche da Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti. “La mancanza del diritto all’oblio non inchioda semplicemente la persona al reato - ha affermato, ma anche a come è stato raccontato. Dobbiamo avere il coraggio di dire che il passato di una persona non può essere una condanna a vita”. Effetti collaterali della mancanza di tale diritto raccontati durante i lavori da Luigi Pagano, vice direttore del Dap, che ha ricordato il caso Vallanzasca, che dopo aver scontato la propria pena e tornato in libertà ha perso il posto di lavoro per essere stato “scoperto” da un giornalista. Pagano ha ricordato anche come il linguaggio giornalistico a volte sia poco rispettoso anche nei confronti degli operatori che lavorano negli istituti, chiamati spesso “secondini”. “La cattiva stampa non aiuta il processo di reinserimento e gli sforzi non vengo messi in luce come meriterebbero - ha detto Pagano. Nonostante il lavoro che stiamo facendo per rendere trasparenti gli istituti di pena, tali sforzi vengono spesso riportati dai media allo stesso livello delle critiche ingiustificate”. Dal vice direttore del Dap, infine, un’apertura al mondo dei giornalisti e l’annuncio di voler “riaprire le sale stampa in alcuni istituti e ridare parola ai provveditorati per comunicare sia eventi critici che notizie positive”. Apertura confermata anche da Patrizio Gonnella, presidente di Antigone onlus, soprattutto negli ultimi anni. Nel ribadire l’impegno delle associazioni nel “lavoro culturale” di supporto al mondo dell’informazione, Gonnella ha evidenziato però che manca ad oggi una figura specializzata nelle redazioni giornalistiche. “Non c’è chi si occupa di questi temi, un penitenzialista - ha detto Gonnella. Mentre ci sono e sono tanti i vaticanisti”. Ai giornalisti si è rivolta anche Giovanna Di Rosa, membro togato del Consiglio superiore della magistratura e in passato magistrato di sorveglianza a Milano. “I giornalisti hanno una grande responsabilità perché orientano l’opinione pubblica e quella dei politici - ha affermato - e la non completa descrizione dei fatti può diventare fuorviante. Il lavoro dei giudici diventa anche più efficace quando ben descritto dai giornalisti, mentre quando prevale il cattivo giornalismo può capitare si verifichino anche attacchi diretti ai magistrati. Dobbiamo fare un salto di qualità e dobbiamo farlo tutti insieme”. A margine del convegno, infine, Pagano ha annunciato le prossime mosse del Dap, come l’apertura di due nuovi istituti penitenziari in Sardegna, di 3 sezioni in Lombardia, 2 in Calabria e altre sezioni in Campania, Abruzzo, Emilia e Piemonte. Interventi che verranno approfonditi durante la conferenza stampa che si terrà martedì prossimo presso il museo criminologico di Roma. Mentre sul sovraffollamento, Pagano ha avanzato l’ipotesi dei domiciliari ai detenuti che devono scontare l’ultimo anno di pena, riducendo così il numero complessivo di detenuti di 10.200 persone. Dato che salirebbe a 15mila se venissero presi in considerazione tutti quelli che devono scontare gli ultimi 18 mesi di pena. Una Carta per dignità della vita in carcere, diritto all’oblio coniugato col diritto di cronaca di Daniela Giammusso Ansa, 15 marzo 2013 Fin dove ci si può spingere per il diritto di cronaca quando si parla di chi ha commesso un reato? Per quanto una colpa può continuare a segnare la vita pubblica di un ex detenuto? E quanto la superficialità dell’informazione può trasformarsi in una seconda, collettiva, condanna? Da questi interrogativi nasce la “Carta del carcere e della pena”, codice deontologico per i giornalisti che si occupano di persone private della libertà, emanata nel 2007 dagli Ordini di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, adottata negli anni da Basilicata, Sicilia, Liguria, Sardegna e Puglia, e da ieri firmata anche dal Consiglio Nazionale dell’Ordine. “A volte basterebbe il buon senso”, dice Gerardo Bombonato, presidente della sezione dell’Emilia Romagna, in una conferenza stampa eccezionalmente all’interno del carcere di Regina Coeli. “Eppure - spiega - è facile usare stereotipi quando ci si riferisce al carcere come all’immigrazione, al disagio sociale, ai rifugiati politici. La Carta nasce dalla necessità che il giornalismo usi un linguaggio corretto anche in questo ambito. Sono stati volontari e detenuti stessi ad aprirci gli occhi”. Non solo condannati, ma anche agenti di polizia, avvocati, magistrati e poi le famiglie che rimangono fuori: la mala-informazione può fare danni gravissimi. “Tanto più un caso è eclatante - commenta Giovanna Di Rosa, membro togato del Csm - tanto più si può muovere l’opinione pubblica e politica”, sino a “delegittimare e svuotare di significato un intero percorso su cui tutti, cittadini e stato, stanno investendo”. Perché, aggiunge il direttore di Carte Bollate Susanna Ripamonti, “si continua superficialmente a definire libero un detenuto quando invece è in regime di semilibertà? Perché invece non dire che le recidive di reato, che in Italia sono al 70%, calano al 28% quando si applicano misure di pene alternative?”. E ancora, casi eclatanti come Pietro Maso, la cui liberazione fa notizia dopo 22 anni, più dei suicidi in cella. O Vallanzasca, che perde il lavoro perché un giornalista lo ha scoperto, quando invece un ex detenuto “occupato” significa più sicurezza per tutti. Proprio per facilitare il rapporto informazione-carcere, aggiunge Luigi Pagano, vicedirettore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, “riapriremo gli uffici stampa negli istituti penitenziari. Ci rendiamo conto che il carcere deve essere più trasparente” per “combattere stereotipi consolidati”. Nata dunque per “informare gli informatori” la Carta, spiega Bombonato, “si ispira a due principi: la non ammissione dell’ignoranza e l’ineluttabilità del diritto all’oblio, non per casi di interesse nazionale come il caso Moro ma per quelle piccole storie, non edificanti, che sono errori di vita già scontati”. Questa seconda parte, però, lamentano gli addetti, nella versione firmata dal Consiglio Nazionale dell’Ordine non c’è. “La Carta si può integrare”, assicura all’Ansa il segretario nazionale Giancarlo Ghirra. “Chi ha steso il testo - dice - ha saltato un passaggio, forse per la fretta di essere pronti oggi. Proporrò io stesso che venga modificata al Consiglio Nazionale del mese prossimo. Ovviamente il diritto all’oblio va coniugato con il diritto di cronaca. Sono due temi che hanno pari dignità e vanno salvaguardati entrambi con intelligenza”. Giustizia: carceri invivibili, prova del nove di uno Stato incivile di Renato Quadraro Gazzetta del Mezzogiorno, 15 marzo 2013 Mi ha colpito, e al tempo stesso sorpreso, la dichiarazione resa da una detenuta al Tgr Puglia dell’8 marzo, festa della donna, in occasione di una manifestazione tenutasi al carcere femminile di Bari, dove le recluse, ventisei in undici celle, “non scontano il sovraffollamento” (fonte la Gazzetta del Mezzogiorno del 9 marzo) che si patisce in altri istituti penitenziari in Italia. “Il carcere è un luogo di sofferenza ma anche di recupero,” ha affermato l’intervistata. È una nota di speranza che però contrasta con l’immagine, sconcertante, che del sistema carcerario italiano emerge dalla cronaca. Una condizione, quella dei detenuti, a dir poco disumana: denunciata dal Presidente della Repubblica nel febbraio di quest’anno, in una sua visita al carcere milanese di San Vittore, al VI raggio (“girone” dantesco?), un luogo (tugurio?) dove 1.600 detenuti “vivono”, per così dire, ammassati come bestie, in uno spazio angusto, destinato ad accoglierne meno della metà. Le parole del Capo dello Stato sono state roventi nel definire la situazione “intollerabile, mortificante davanti all’Europa che ci addebita la violazione dei diritti dell’uomo per il sovraffollamento” e nel denunciare, indignato, “la perdurante incapacità del nostro Stato di rispettare la Costituzione”, che all’art. 27 prevede la “funzione rieducativa” della pena e contempla il “senso di umanità” cui deve rispondere la vita carceraria. È, avverte Napolitano, la violazione di un principio che mette a rischio “il prestigio e l’onore dello Stato”. Pochi giorni dopo il Tribunale di sorveglianza di Padova, con un provvedimento senza precedenti, volto a “ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale l’esecuzione della pena”, ha sollevato dinanzi alla Consulta una questione di incostituzionalità, chiedendo una sentenza che attribuisca ai giudici la facoltà di rinviare l’espiazione della condanna in carcere da parte di un detenuto - facoltà oggi limitata al solo caso di grave malattia - anche nell’ipotesi di una sanzione che verrebbe eseguita in uno stato di sovrappopolamento, e dunque con un “trattamento disumano e degradante” vietato dall’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo. Il problema è annoso. Una cosa indegna di un paese civile, denunciata da sempre, ma inutilmente, da Marco Pannella: una “voce”, la sua, che “grida nel deserto” e che rappresenta l’urlo di tutti coloro che reclamano, inascoltati, la fine di questa vergogna. Eppure, nella nostra Carta costituzionale, in uno dei passaggi più significativi, si dispone, è bene ricordarlo, che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27 comma 2°). C’è, in questa norma, la tutela di un valore fondamentale, assoluto: quello della “dignità” (“sociale”, art. 3 comma 1°; “umana”, art. 41 comma 2°) della “persona” (art. 3 comma 2°; art. 32 comma 2°). Un valore che Giorgio La Pira - studioso di diritto romano, membro dell’Assemblea Costituente e componente, insieme ad altre figure eminenti, fra le quali anche il “nostro” Aldo Moro, della Commissione incaricata di delineare i principi generali della nuova Costituzione, “i muri maestri di una casa” - difende con forza contro la “statolatria” (l’infausta ideologia hegeliana), affermando in una pagina luminosa del 1943: “Non la persona per lo Stato, ma lo Stato per la persona e per tutti gli sviluppi naturali e soprannaturali della persona: ecco la legge base del vero ordine giuridico; già i Romani l’avevano magistralmente precisata: hominum causa omne ius constitutum est (D.1.5.2)”. È il passo del Digesto di Giustiniano che spiega la ratio della sistematica del diritto progettata da una giurista romano, Gaio, a metà del II sec. d.C. - iniziativa audace che ha influenzato i nostri codici - il quale, con una rivoluzione culturale rispetto al passato, mette al primo posto dell’ordinamento giuridico le “persone” e non più le “cose”, stabilendo in un testo famoso della sua opera (Inst.1.8), che “tutto il diritto” (omne ius) “riguarda o le persone o le cose o le azioni” (vel ad personas pertinet vel ad res vel ad actiones) ed esortando ad “occuparsi prima delle persone” (et prius videamus de personis). È una linea che La Pira non manca di riaffermare alcuni anni dopo, nel 1954, nel collegare il precetto giuridico a quello evangelico: “Il diritto è per l’uomo e non l’uomo per il diritto”. Una posizione che quasi anticipa l’impiego che di quell’antica massima ha ritenuto di fare Giovanni Paolo II in un discorso del 24 maggio 1996 (L’osservatore romano del 25): un accorato appello con cui, nel richiamare testualmente il messaggio del giurista (Ermogeniano) custodito in quel brano del Digesto, osserva: “La centralità della persona umana nel Diritto è espressa efficacemente dall’aforisma classico ... Ciò equivale a dire che il Diritto è tale se e nella misura in cui pone a suo fondamento l’uomo nella sua verità”. Giustizia: Severino; dall’accordo con le Coop nuove opportunità di lavoro per i detenuti Asca, 15 marzo 2013 Nuove prospettive per lo sviluppo di opportunità lavorative e sociali a favore della popolazione detenuta nelle carceri italiane. È questo l’obiettivo del Protocollo d’Intesa che dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Federsolidarietà - Confcooperative, Legacoopsociali e Agci Solidarietà (organizzazioni che riuniscono cooperative sociali e consorzi per il recupero e l’inserimento lavorativo di persone in stato di bisogno e a rischio di emarginazione sociale) hanno siglato oggi al ministero della Giustizia, alla presenza del guardasigilli Paola Severino. Lo comunica una nota del ministero della Giustizia. “Il sovraffollamento carcerario va fronteggiato con soluzioni di carattere strutturale e ciò è dimostrato anche da numerosi studi in base ai quali - ha sottolineato il ministro - il rischio di tornare a delinquere tra coloro che restano chiusi tutto il tempo in una cella è tre volte superiore se paragonato alla recidiva di detenuti che lavorano o di chi sconta la condanna con misure alternative. Per questo motivo mi sono battuta con tenacia per i 16 milioni di euro per le agevolazioni previste dalla legge Smuraglia: non si è trattato di una spesa ma di un investimento, perché finanziare il lavoro dei detenuti significa dare loro una chance e anche investire in sicurezza sociale”. L’intesa siglata oggi punta a promuovere programmi di intervento a favore dei detenuti, informa la nota, al fine di avviare progetti imprenditoriali finalizzati all’inserimento lavorativo intra ed extra-murario e al recupero sociale degli stessi. Tali progetti saranno individuati e promossi da Federsolidarietà - Confcooperative, Legacoopsociali e Agci Solidarietà, attraverso le loro organizzazioni nazionali e regionali, le proprie cooperative sociali e loro consorzi. Dal canto suo, il Dap sensibilizzerà i provveditorati regionali, i direttori di istituto e i direttori degli Uepe ad individuare, nelle singole realtà locali, progetti idonei alla realizzazione di attività di recupero sociale ed inserimento lavorativo e potrà collaborare, attraverso il proprio Nucleo Permanente Progetti Fondo Sociale Europeo, all’elaborazione di progetti condivisi da presentare alla Commissione Europea. Guerini: il lavoro riqualifica il detenuto e abbatte la recidiva (Vita) Così il portavoce dell’Alleanza Cooperative Sociali ha salutato il nuovo Protocollo d’intesa per favorire l’ingresso delle imprese e la creazione di lavoro nelle carceri Italiane “È fondamentale fare della pena un’occasione vera di riscatto, come afferma la Costituzione. Una volta scontata la pena, attraverso i percorsi di reinserimento sociale e lavorativo, gli ex-detenuti non ritornano a delinquere. La recidiva è bassissima e ben 98 ex detenuti su 100 non rientrano nelle carceri. Questo dato dimostra che il lavoro in carcere è non solo uno straordinario investimento sociale, ma anche un notevole risparmio economico per le casse dello Stato. Un detenuto, infatti, costa circa 200 € al giorno al nostro Paese”. Così, Giuseppe Guerini, portavoce dell’Alleanza Cooperative Sociali e presidente di Federsolidarietà Confcooperative commenta la sigla del Protocollo d’intesa, sottoscritta al mistero di Via Arenula, con la Guardasigilli Paola Severino e Giovanni Tamburino, presidente del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria). Uno strumento che rinnova e accresce l’impegno delle Istituzioni nel favorire l’ingresso delle imprese e la creazione di lavoro nelle carceri Italiane. “Avviare un’attività imprenditoriale in carcere è impegnativo e coraggioso, ma nonostante tutto, in tutta Italia - conclude Guerini - sono diffuse numerosissime best practices a dimostrazione che il coraggio dei cooperatori sociali e la visione di dirigenti illuminati delle Istituzioni creano le premesse per fare anche cose che sembrano impossibili”. Le cooperative sociali aderenti a Federsolidarietà - Confcooperative, Legacoopsociali ed Agci Solidarietà (Alleanza Cooperative Sociali), sono presenti in oltre la metà degli istituti di pena, ed hanno creato, dalla fine degli anni novanta ad oggi, migliaia di posti di lavoro permettendo l’abbattimento della recidiva. Giustizia: Dap; al via progetto “Circuiti regionali” e apertura di Uffici stampa nelle carceri Agenparl, 15 marzo 2013 Nel corso della conferenza stampa che si terrà martedì 19 marzo 2013 alle ore 11,30, nella sede di Via del Gonfalone 29 (Via Giulia) a Roma, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria presenta il progetto dei circuiti regionali. Il progetto è stato avviato dal Dap con la circolare del 30 maggio 2012 con cui sono state emanate le linee di indirizzo agli organi regionali dell`Amministrazione penitenziaria per la realizzazione, nel distretto di competenza, di un circuito penitenziario fondato sulla differenziazione degli istituti per tipologie detentive. L’obiettivo che ci si propone - la caratterizzazione degli istituti penitenziari, graduandoli non solo in relazione alla posizione giuridica dei ristretti (imputato-condannato), ma anche al loro livello di pericolosità”, determinato dal tipo di reato, dal fine pena, dai risultati emersi nel corso dell`osservazione condotta in carcere. Con i circuiti regionali si realizza, quindi, una nuova geografia penitenziaria tesa, oltre che ad una più razionale distribuzione delle risorse, a garantire la territorialità della pena, migliorare la qualità di vita dei detenuti e le condizioni di lavoro del personale penitenziario, rafforzare il trattamento rieducativo del condannato, aumentare le misure alternative alla detenzione. Il progetto sarà presentato dal Capo del Dipartimento Giovanni Tamburino. Alla conferenza stampa parteciperanno i vice capi e i direttori generali del Dap. Lo rende noto il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria. Uffici stampa nelle carceri, lo dichiara Luigi Pagano Vice Capo Dap (Adnkronos) Uffici stampa nelle carceri, la nuova proposta del Vice Capo del Dipartimento Luigi Pagano. “Stiamo pensando di riaprire gli uffici stampa all’interno degli istituti di pena”. Lo annuncia il vicecapo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Luigi Pagano, intervenuto alla presentazione della “Carta del carcere e della pena”, nel carcere romano di Regina Coeli. Gli uffici “saranno affidati ai provveditori e ai direttori delle carceri”, prosegue Pagano che mette l’accento sull’importanza “di aprire gli istituti di pena ai giornalisti per combattere stereotipi consolidati e puntare su una informazione corretta”. Con l’occasione, il vicecapo dipartimento annuncia l’apertura di due istituti di pena in Sardegna e alcune sezioni di penitenziari disseminati in tutta Italia. Questo consentirà “di ridisegnare la geografia penitenziaria, garantire la territorialità e il trattamento sui detenuti”. Giustizia: su Opg rispettare la legge, no a proroga della chiusura prevista per fine marzo di Luigi Attenasio (Presidente Nazionale Psichiatria Democratica) Gli Altri, 15 marzo 2013 In questi giorni nasceva nel 1924 Franco Basaglia (l’11 Marzo) e sono i giorni che la legge Severino indica come gli ultimi degli Opg, i manicomi criminali “antri dell’orrore”. La Società Italiana di Psichiatria (Sip), di cui “possono” far parte solo psichiatri, e Psichiatria Democratica, cui invece aderisce senza obbligo di titoli chi condivide non solo gli aspetti notarili dello statuto ma soprattutto quelli etico-culturali (“mantenere vivo e promuovere l’impegno contro l’emarginazione, l’esclusione, la segregazione e lo stigma in tutte le sue forme contro qualunque persona siano dirette, per il superamento delle istituzioni totali” pubbliche e private, civili e giudiziarie”), sono in allarme. I due allarmi accostano, uno strano ossimoro, argomentazioni opposte. La Sip, “più realista del re”, chiede una proroga. Non ci vuol molto a immaginare cosa avrebbe detto Franco Basaglia. Per Emilio Lupo e Cesare Bondioli, segretario nazionale e responsabile Carceri e Opg di Psichiatria Democratica, di cui Franco fu fondatore, i motivi di allarme sono altri: la proroga sarebbe “puramente strumentale al mantenimento dello status quo e a un sine die degli Opg. La situazione è insostenibile da tutti i punti di vista, umano, scientifico, sanitario, riabilitativo. No alla proroga dunque ma piuttosto il rispetto della legge. Solo una reale presa in carico da parte dei Dipartimenti di salute mentale può evitare l’abbandono e prevenire il temuto reiterarsi di reati”. Nessun avventurismo (siamo stati più volte con i colleghi psichiatria protestare per la desertificazione di risorse dei servizi per chi sta anche molto male) ma le ispezioni della commissione Marino, le tante dichiarazioni di Napolitano o lo sconvolgente filmato trasmesso più volte, dalla Rai a Youtube, che ha commosso e indignato, “bruciano” troppo. Basaglia, il liberatore, il medico che chiuse le case dei matti” come titolava tempo fa Maurizio Chierici su II Fatto Quotidiano, che “si era sfilato il camice, segno di autorità che ancora oggi intimorisce chi ha una gamba rotta, immaginiamo gli esclusi inchiodati nei letti di contenzione”, sarebbe con noi. Di lui, Sartre, innamoratosene, aveva detto: “un intellettuale concreto”. Anni fa scrivemmo: “Diamo il Nobel a Basaglia”, per la Medicina, la Scienza, la Cultura o la Pace, va bene comunque per chi occupandosi di curare e liberare i matti, si era interessato della condizione generale dell’essere umano. Era una provocazione, perché solo i vivi possono averlo, ma ci rodeva che l’unico psichiatra premiato fosse stato J. Wagner-Jauregg nel 1927 per avere introdotto come “cura” dei malati mentali la Malario-terapia cioè un brusco, incontrollato e selvaggio aumento della temperatura, corporea, inoculando sangue da pazienti con malaria. Egas Moniz, altro neuropsichiatra, avrebbe avuto il Nobel nel 1949 per la Lobotomia frontale, cioè la mutilazione di parte del cervello con punteruoli da ghiaccio (sic!) conficcati in testa che a mò di tergicristallo “spazzolavano” l’encefalo senza misura della estensione e della sede del danno. Questa barbarie, fermata negli anni 80 per un movimento di opinione, promotore Ken Kesey, autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo, è ripresa in sede universitaria (Massachusetts) non più con gli arnesi da macellaio di cui sopra ma in modo raffinato e “scientifico”, usando il laser. Noi psichiatri dovremmo ascoltare di più Basaglia o il suo “fiancheggiatore” Agostino Pirella, quando ricordano che ciò che dice Pierre Bourdieau dei sociologi, può valere anche per noi: “denuncio quella sorta di etnocentrismo che colpisce lo scienziato inconsapevole di tutto ciò che il fatto di essere posto al di fuori dell’oggetto, di osservarlo da lontano e dall’alto, introduce nella sua percezione dell’oggetto... per cui ciò che parla nei suoi discorsi apparentemente scientifici non è l’oggetto ma il suo rapporto con l’oggetto”. Giustizia: gli Opg devono chiudere, ma la proroga della vergogna sembra ormai inevitabile di Valentina Ascione Gli Altri, 15 marzo 2013 Il conto alla rovescia per l’extra omnes segna ormai solo due settimane. Quindici giorni ancora e il sipario dovrebbe calare per sempre sugli Ospedali psichiatrici giudiziari. Un video girato all’interno di queste strutture dalla commissione del Senato sull’efficienza del servizio sanitario due anni fa aveva scoperchiato l’inferno: mostrato uomini e donne tenuti come bestie nella sporcizia, rinchiusi e abbandonati perché considerati matti e pericolosi, anche se in molti casi non sono né l’uno né l’altro. Improvvisamente l’Italia scopriva che, nonostante la legge Basaglia, qualcosa di assai simile ai manicomi criminali era rimasto in piedi. Il presidente delle Repubblica non esiterà a definirli un “orrore medioevale” e c’è chi parlerà apertamente di “lager”. Così l’anno scorso è stata approvata la legge che vorrebbe seppellire questa vergogna di Stato, stabilendo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo prossimo. Ma se il condizionale è d’obbligo, la proroga dei termini pare ormai inevitabile. La legge prevede infatti che gli internati nei sei Opg - attualmente un migliaio di persone, il 30% delle quali dichiarate dimissibili - siano trasferite in apposite strutture residenziali sanitarie che però quasi nessuna regione è ancora riuscita ad allestire. Solo pochi mesi fa si è provveduto alla distribuzione delle risorse per la loro costruzione, ma la burocrazia italiana non dà scampo e dunque passerà del tempo prima che queste strutture entrino effettivamente in funzione. Intanto in diverse carceri si stanno attrezzando reparti ad hoc per disagiati psichici, che con ogni probabilità dovranno assorbire una parte degli internati. La strada per il superamento di questi manicomi criminali è dunque tutta in salita, e gli ostacoli non sono soltanto logistici. Come spiega il Comitato Stop Opg, “in assenza di una modifica del codice penale Rocco - e in particolare degli articoli 88 e 89 che, associando “follia” a incapacità di intendere e di volere e a “pericolosità sociale”, stabiliscono un percorso “parallelo e speciale” per i malati di mente che commettono reati e sono socialmente pericolosi - gli ospedali psichiatrici giudiziari non possono essere aboliti”. Così anche nel caso di apertura delle nuove strutture residenziali sanitarie, non si potrà parlare di abolizione dell’Opg. Il problema, infatti, non risiede soltanto nella struttura manicomiale, ma nel dispositivo giudiziario che, peraltro, prevede che la misura di sicurezza possa essere prorogata a tempo indefinito. Cose da regimi totalitari. Giustizia: il caso Cosentino e il “garantismo ad personam” del Pdl di Tiberio Brunetti Roma, 15 marzo 2013 C’è qualcosa che stride se si paragona la manifestazione dei parlamentari pdl, in difesa di Berlusconi e contro la magistratura, al sostanziale silenzio degli stessi che ha accompagnato l’esclusione dalle liste al Parlamento di Nicola Cosentino. Forza Italia prima ed il Pdl poi hanno sempre ostentato la propria vocazione garantista, facendo quadrato, senza se e senza ma, intorno al proprio presidente. Sono arrivati finanche a votare, a maggioranza, in aula un documento in base al quale si sanciva che Berlusconi fosse realmente convinto che Ruby fosse la nipote di Mubarak, e, per questo motivo, telefonando in questura per farla liberare, avrebbe agito nell’esercizio delle sue funzioni di presidente del Consiglio dei ministri. Molti forse hanno dimenticato che nel primo governo Berlusconi, nel 1994, solo l’opposizione di Oscar Luigi Scalfaro impedì a Cesare Previti di essere nominato ministro della Difesa. Ancora accese sono, poi, le polemiche relative ai provvedimenti su rogatone internazionali, legittimo impedimento, intercettazioni telefoniche, processo breve e processo lungo, solo per citarne alcuni. Di questi, giova ricordarlo, i primi due sono stati approvati mentre l’iter degli altri è fermo in Parlamento. L’opposizione di centrosinistra ha utilizzato tutte le proprie forze politiche e mediatiche per far apparire questi interventi come “norme ad personam”. Non appongo nessun commento, positivo o negativo, agli esempi citati. Mi limito ad osservare che, tuttavia, condivisibili o meno, si tratta di norme e di discussioni in linea con il principio garantista portato avanti dalla coalizione di centrodestra a difesa di Berlusconi contro cui - è questo il principale argomento dei pidiellini - sarebbe in ano una vera e propria persecuzione politica ad opera di una parte della magistratura. Per un semplice sillogismo, dunque, la stessa linea sarebbe dovuta essere applicata anche nei confronti di Nicola Cosentino che, al netto dei provvedimenti giudiziari che lo riguardano, è colui che, politicamente, ha strutturato e reso vincente il centrodestra in Campania. Cosentino, al pari di Berlusconi, ha sostanziato la propria azione partitica e politica contrastando a livello regionale una sinistra bulimica di potere. Perché lo stesso quadrato non è stato tempestivamente ed efficacemente messo in campo dal centrodestra a tutela di Cosentino? Sarebbe bastato applicare la logica della persecuzione politica già sperimentata per Berlusconi. Non ci sarebbe stato neppure bisogno di leggi ad personam, ma solo di garantire una candidatura che avrebbe avuto un duplice, essenziale, significato: da un lato tutelare il proprio massimo rappresentante territoriale da un (presunto) accanimento giudiziario; dall’altro non sconfessare l’azione politica fin qui condotta dal Pdl. E arriviamo al nocciolo: consegnando Cosentino (che ha già annunciato che nelle prossime ore, essendo scaduto il proprio mandato parlamentare, si costituirà) al proprio destino, il Pdl ha di fatto rinnegato tutto un percorso politico fatto di sacrifici, vittorie, radicamento sul territorio, solo per provare a rifarsi un veloce maquillage in vista delle elezioni politiche. Viene da chiedersi, a questo punto, con le tardive difese d’ufficio da parte di alcuni esponenti del Pdl e con i cancelli delle patrie galere che stanno per accogliere Nicola Cosentino: ne è valsa la pena? Giustizia: l’ex deputato Pdl Cosentino si costituisce nel carcere di Secondigliano di Dario Del Porto e Conchita Sannino La Repubblica, 15 marzo 2013 Cosentino ha scelto il carcere napoletano di Secondigliano. I carabinieri di Caserta e la Dia, su delega dei pm Antonello Ardituro e Alessandro Milita si stanno occupando dell’esecuzione delle due ordinanze di custodia emesse per i reati di concorso esterno in associazione camorristica, reimpiego di capitali e corruzione aggravati. Entra in cella “da persona innocente”. Attende la fine di “un calvario di cui non riesco a comprendere la necessità”. Condanna “la camorra” come la “forma più nefasta di illegalità”. E chiede ai suoi cari “e al buon Dio la forza per superare questo baratro”. A metà mattina il deputato uscente del Pdl Nicola Cosentino si è costituito a Napoli, nel carcere di Secondigliano. A suo carico c’erano due ordinanze di custodia cautelare in carcere. Poche ore prima, nella sua ultima serata da uomo libero, Nicola Cosentino aveva rotto il silenzio. E, assistito dai suoi avvocati Stefano Montone e Agostino De Caro, aveva scritto quindici righe in cui pesano parole come “angoscia”, “dolore”, “estraneità a gravi fatti”. È stato il suo commiato, il suo messaggio a politica e giustizia. Prima di finire dietro le sbarre: addosso l’accusa di essere “referente”, cioè il volto istituzionale, di Gomorra. L’ora X doveva scattare nel pomeriggio, al termine dei lavori di insediamento del nuovo Parlamento. E invece Cosentino ha anticipato. E fino all’ultimo non si sapeva dove si sarebbe consegnato. “Cosentino non vuole comunicare il luogo: lo deve alla propria dignità e al rispetto per il dolore dei familiari”, sottolineano i legali. Ma la scelta era ristretta a poche opzioni: Secondigliano e Benevento. E a scelto il carcere napoletano. Montone e De Caro confidano ora nel Tribunale del Riesame, che giovedì prossimo esaminerà la richiesta di revoca. Cosentino è ormai imputato in due processi a Santa Maria Capua Vetere. Nel primo, relativo all’emergenza rifiuti così come ricostruita dai pm Milita e Narducci, Cosentino è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, essendo ritenuto il “referente politico” del clan dei casalesi. Uno scenario confermato durante gli interrogatori in aula da parte di diversi pentiti della holding criminale. Nel secondo dibattimento, legato all’inchiesta battezzata “Il principe e la (scheda) ballerina” firmata dai pm Ardituro, Sirignano, Conzo, Curcio e Woodcock, l’ipotesi è di corruzione e reimpiego di capitali illeciti, con l’aggravante di aver favorito lo stesso clan. Imputazioni che Cosentino respinge ancora una volta, nettamente, nel messaggio che segna ieri un passaggio ineludibile della sua immagine pubblica, oltre che della sua vita. Scrive Cosentino: “Quando la Procura della Repubblica ordinerà l’esecuzione delle misure cautelari sarò, ancora una volta, responsabilmente pronto a rispettare la decisione, mettendomi fisicamente a disposizione dall’autorità. Rimane forte in me la fiducia nella magistratura, che alla fine di questo lungo percorso, un calvario del quale non riesco a comprendere la necessità, sono certo riuscirà a riconoscere la mia estraneità ai gravi fatti che mi vengono addebitati”. Aggiunge: “Una fiducia testimoniata da tutte le mie scelte processuali, per una celere definizione dei dibattimenti, che riposa sulla consapevolezza d’aver sempre rifiutato patti o compromessi con le forze più oscure che hanno infettato vita e società nei nostri territori, anche evitando ogni consapevole relazione con soggetti che hanno deciso di prendere la strada dell’illegalità nella sua forma più aggressiva e nefasta, quella della camorra”. “Il dolore e l’angoscia che comprensibilmente mi accompagnano in queste ore sono amplificati dal pensiero che non posso non rivolgere e mantenere costante a mia moglie ed ai miei figli, colpiti oltre ogni immaginazione dagli eventi. Chiedo a loro e al buon Dio la forza per superare questo baratro con dignità ed uscirne poi con restituita integrità. Chiedo, a tutti gli altri, un pò di rispetto”. E sul suo caso si accende ancora la battaglia politica. Piovono anche attacchi. Al sindaco de Magistris (che aveva detto: “Non brindo, ma giusto che vada in carcere”), risponde frontalmente Amedeo Laboccetta (altro inquisito eccellente). “A de Magistris, affetto da paranoia investigativa - dice - consiglio di portare rispetto per un uomo che con dignità sta affrontando un momento assai difficile; mentre lui, dopo i disastri prodotti in magistratura e quelli fatti da sindaco di Napoli, ha ancora la faccia tosta di parlare”. Anche Gianni Lettieri, capo dell’opposizione in Comune, auspica che “Cosentino affronti i suoi processi da uomo libero”. Lettere: Cucchi e Rizzoli… i diritti di detenuti indifesi e malati devono valere il doppio di Ilaria Cucchi Il Foglio, 15 marzo 2013 Leggo l’articolo di Luigi Manconi sul caso di Angelo Rizzoli, sul Foglio di martedì scorso. E rabbrividisco. Torno con la mente a tre anni e cinque mesi fa. Un detenuto in attesa di giudizio, mio fratello Stefano. Domiciliari negati su presupposti inesistenti: scambiato per un “albanese senza fissa dimora”. Un giovane uomo infermo, rinchiuso in un posto dove non poteva e non doveva stare. Il reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini, a Roma. Stessa stanza per mio fratello e per Rizzoli. Una protesta per rivendicare i propri diritti. Smettere di mangiare, per far sentire la propria voce quando nessuno sembra capire la gravità di quello che sta accadendo. Quando i diritti fondamentali dell’essere umano vengono calpestati, per il solo fatto di essere un detenuto, in nome di una burocrazia, quella cieca della realtà carceraria e della nostra giustizia, che può anche uccidere... Se tre anni e cinque mesi fa avessi saputo quello che so ora, avrei usato tutta me stessa per interrompere quel calvario, perché nulla purtroppo è scontato. Nemmeno la tutela dei diritti. Ma allora non potevo immaginare le conseguenze drammatiche del nostro sistema carcerario. E della giustizia mi fidavo ciecamente. Oggi so che ciò che sembra normale a un comune cittadino non lo è quando si è privati di ogni diritto. Se lo avessi saputo forse avrei potuto cambiare il corso degli eventi. Ma così non è stato. Oggi lancio un appello, che spero non cada nel vuoto. Fermiamo questo scempio! I diritti dell’essere umano devono necessariamente venire prima di tutto. Anche quando l’essere umano in questione è un detenuto. Se vogliamo poter affermare di essere un paese civile. E se oggi la storia si ripete devo arrendermi al fatto che il sacrificio di mio fratello e la mia personale battaglia non sono serviti a nulla. Ed effettivamente il processo per la morte di Stefano lo dimostra. Ipocrisie su ipocrisie. Si perde di vista la natura del problema e ci si affanna per difendere le ragioni di uno Stato che diventa sempre più indifendibile. E nel frattempo tutto resta invariato. In nessun altro paese succederebbe questo nell’indifferenza generale. Ma evidentemente nel nostro paese interessano di più le vicende giudiziarie di Berlusconi, per esempio. È tutto molto triste. Piemonte: Sappe; 5mila detenuti, resta emergenza e la “vigilanza dinamica” è una chimera Il Velino, 15 marzo 2013 Un tasso di affollamento costante della popolazione detenuta a fronte di un organico di Polizia Penitenziaria in calo e soluzioni al grave problema del sovraffollamento penitenziario: sono i temi al centro del Consiglio regionale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che è in corso a Torino. A presiederlo è Donato Capece, segretario generale Sappe, con il segretario nazionale Nicola Sette. “In Lombardia la situazione penitenziaria è particolarmente critica - commenta Capece. Attualmente i 13 penitenziari piemontesi ospitano oltre 5.000 detenuti a fronte di una capienza regolamentare delle strutture pari a poco più di 3.500 posti. Quasi il 60 per cento dei detenuti presenti sono stranieri. Nelle carceri lavorano, complessivamente, circa 2.850 poliziotti rispetto ai 3.700 previsti. La carenza di personale di Polizia Penitenziaria e il pesante sovraffollamento determinano conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate e soprattutto di coloro che in quelle sezioni detentive svolgono un duro, difficile e delicato lavorato, come quello svolto dai poliziotti penitenziari”. Oggi a Torino il Consiglio regionale Secondo Capece “le carceri restano invivibili, per chi è detenuto e per chi ci lavora. E la vigilanza dinamica dei penitenziari voluta da Giovanni Tamburino, capo dell’Amministrazione Penitenziaria, e dal vice Luigi Pagano, per alleggerire l’emergenza carceraria è una chimera. Pensare a un regime penitenziario aperto, a sezioni detentive sostanzialmente autogestite da detenuti previa sottoscrizione di un patto di responsabilità favorendo un depotenziamento del ruolo di vigilanza della Polizia Penitenziaria, relegata a un servizio di vigilanza dinamica che vuol dire porre in capo ad un solo poliziotto quello che oggi lo fanno quattro o più Agenti, a tutto discapito della sicurezza e mantenendo il reato penale della “colpa del custode”; ebbene, tutto questo è fumo negli occhi. Ribadiamo di non credere che l’amnistia, da sola, possa essere il provvedimento in grado di porre soluzione alle criticità del settore. Quel che serve - conclude il segretario generale del Sappe - sono vere riforme strutturali sull’esecuzione della pena: riforme che non vennero fatte con l’indulto del 2006, che si rilevò un provvedimento tampone inefficace a risolvere i problemi”. Milano: detenuto straniero muore a San Vittore, la Garante esprime preoccupazione Redattore Sociale, 15 marzo 2013 Di nazionalità straniera, è morto nel sonno nella notte tra mercoledì e giovedì scorsi. Garante: “Sono preoccupata”. Nel carcere di San Vittore a Milano è morto nel sonno un detenuto, nella notte tra mercoledì e giovedì scorsi. Era rinchiuso nel terzo raggio e di nazionalità straniera. “Sono preoccupata - afferma Alessandra Naldi, Garante dei detenuti del Comune di Milano. Il terzo raggio fra l’altro è stato ristrutturato e quindi le condizioni di detenzione sono meno difficili rispetto agli altri reparti. Mi auguro si possa accertare le cause del decesso”. Belluno: cinque detenuti vivono in celle di 20 metri quadri, pochi i poliziotti penitenziari di Alessia Forzin Corriere delle Alpi, 15 marzo 2013 Vecchio e piccolo, il carcere di Belluno è troppo affollato. Progettato per ospitare cento detenuti, ad oggi ce ne sono centoventi. Vivono anche in cinque in celle di venti metri quadrati, con un bagno minuscolo e senza la doccia. “Per legge ogni detenuto dovrebbe avere uno spazio di otto o nove metri quadrati”, spiega Marco Perduca, senatore del partito Radicale nella passata legislatura. Ieri Perduca ha visitato la casa circondariale di Belluno insieme alle colleghe di partito Maria Grazia Lucchiari (padovana) e a Elisa Corrà (feltrina). “Da trent’anni monitoriamo lo stato delle carceri per verificare le condizioni di vita dei detenuti, e anche se a Belluno non c’è un eccessivo sovraffollamento, ci sono molte criticità”, spiegano. Innanzitutto le celle: “La maggior parte sono vecchie, hanno il pavimento e le pareti che si scrostano e sono senza doccia”, spiega Perduca. “Il bagno è minuscolo: ci sono solo un lavandino e una turca. La doccia si trova al piano, e delle sei presenti ne funzionano tre, tutti i giorni tranne il giovedì e la domenica. Ci hanno assicurato che è garantita per tutti, per 15 minuti al giorno”. Il carcere di Belluno ha tre sezioni: la maschile, la femminile e quella per i transessuali (ce ne sono 24). I detenuti sono per la maggior parte stranieri (91, gli italiani sono 29), un dato che fa dire a Perduca: “A cosa serve un carcere a Belluno se bisogna trasferire i detenuti, per i processi e gli interrogatori, in altre città? Con tutti i costi che questo comporta”. La maggior parte dei detenuti è in carcere per reati connessi allo spaccio di droga, ma i definitivi (cioè quelli che hanno ottenuto una sentenza di colpevolezza) sono solo 75. Gli altri 45 attendono il secondo o terzo grado di giudizio, e fra loro ci sono nove persone che attendono addirittura il primo. Quasi tutti sono giovani: gli stranieri hanno tra i 18 e i 39 anni, gli italiani qualcuno in più, ma pochi superano i 50 anni. Dall’ispezione, poi, i radicali hanno rilevato una cronica mancanza di agenti di polizia penitenziaria: “La legge stabilisce che dovrebbe essercene uno per ogni detenuto. A Belluno ce ne sono 85, impiegati su quattro turni, il che significa 21 agenti per 120 detenuti”. Il rapporto diventa di uno a cinque. “Il medico inoltre è presente solo per 15 ore al giorno”, aggiunge Perduca. “Servirebbero più infermieri anche per far fronte a una problematica molto diffusa in questo carcere: quella della tossicodipendenza”. Dei 120 detenuti, infatti, la metà ha dichiarato di essere dipendente dalla droga. Un altro problema presente a Baldenich è la mancanza di un’occupazione lavorativa per i carcerati. Una quindicina fa lavori interni (cucina e pulizie per esempio), due realizzano cerniere per i mobili con un progetto esterno, cinque piegano le salviette che si usano per pulire gli occhiali per una ditta del settore e uno lavora in lavanderia. Troppo poco, secondo i radicali, per aiutare i detenuti a scontare la loro pena attraverso un percorso di recupero. La speranza dei radicali è che il settore del carcere che verrà ristrutturato a partire dal mese prossimo serva per sviluppare attività lavorative. Al termine dell’ispezione i rappresentanti del partito radicale auspicano che la situazione delle carceri italiane cambi e che venga attuata una riforma della giustizia per accorciare i tempi dei processi. Tra le richieste c’è anche l’amnistia per tutti quei reati che comportano pene fino a sette anni di carcere: “Così uscirebbero 40 mila persone sulle 66 mila che ci sono nelle carceri italiane, faremmo piazza pulita sulle scrivanie dei magistrati, che oggi sono ricoperte di lavoro, e si consentirebbe ai detenuti un migliore trattamento”. Bologna: drammatica situazione alla Dozza, il commento di Luna Cinti (Italia Dei Diritti) www.politicamentecorretto.com, 15 marzo 2013 La vice responsabile dell’Italia Dei Diritti per l’Emilia Romagna: “Risulta inconcepibile che non si vada a fondo di una realtà che chiama direttamente in causa il diritto inalienabile ad una vita decorosa e dignitosa da parte dei carcerati, al di là di ciò di cui essi son chiamati a rispondere nei confronti della Giustizia. Stiamo parlando del riconoscimento dei più elementari diritti individuali, dei quali ancora oggi si discute e polemizza, senza arrivare ad una soluzione che nel concreto rappresenti perlomeno un punto di partenza, il principio di un percorso nuovo, condiviso, a lungo termine” È stato il portavoce del circolo “Chico Mendez”, Vito Totire, a farsi portavoce della segnalazione partita dalla Procura di Bologna in merito alle disastrose condizioni in cui versa il carcere della Dozza di Bologna. Dalle sue parole emerge che: “Quel posto va pesantemente ristrutturato e portato fuori dall’ illegalità”, e poi aggiunge: “La struttura è inagibile e igienicamente fuori legge, mancano i refettori dove mangiare, non ci sono le sale fumatori, ci sono scarafaggi ovunque, le docce sono fatiscenti e i detenuti sono costretti a cucinare nel bagno della loro cella. Senza parlare del cronico sovraffollamento”. La Procura, inoltre, ipotizza il reato di abuso di mezzi di correzione all’ interno della struttura. L’associazione Papillon, dal canto suo, propone che ai detenuti sia riconosciuto il diritto di nominare un proprio garante, e a tal proposito si resta in attesa che il Comune indica un nuovo bando, poiché “sarà importante dare spazio a chi nel carcere è rinchiuso”. Luana Cinti, esponente dell’ Italia Dei Diritti e vice responsabile per l’ Emilia Romagna dichiara in merito: “ Fondamentale che la voce di denuncia e la tenacia con la quale si è in più occasioni sollevata non venga meno, ma anzi sia costruttivamente indirizzata allo scopo di incentivare una decisiva presa in carico della delicata questione della tristemente famosa struttura penitenziaria della Dozza e di tutte le altre dislocate a livello nazionale. La Procura bolognese, portando avanti la dolorosa ipotesi di abusi per ciò che concerne i metodi correttivi nei confronti dei detenuti, certamente tocca un ulteriore tasto dai contorni ancora poco chiari, che necessita di approfondimento in tempi rapidi anche perché si inserisce in una cornice più complessa. Risulta inconcepibile che non si vada a fondo di una realtà che chiama direttamente in causa il diritto inalienabile ad una vita decorosa e dignitosa da parte dei carcerati, al di là di ciò di cui essi son chiamati a rispondere nei confronti della Giustizia. Stiamo parlando del riconoscimento dei più elementari diritti individuali, dei quali ancora oggi si discute e polemizza, senza arrivare ad una soluzione che nel concreto rappresenti perlomeno un punto di partenza, il principio di un percorso nuovo, condiviso, a lungo termine. Da quanto sempre più spesso viene riportato attraverso le cronache e il diretto interessamento di circoli, associazioni e non solo, gli spazi vitali all’ interno delle strutture carcerarie sono mancanti o profondamente deficitari, privi di semplici attrezzature e strumenti per soddisfare i bisogni primari, così come sono carenti o assenti i luoghi adibiti ad un minimo di socializzazione tra i detenuti. Come facciamo a far passare il messaggio che il vivere nella legalità è un bene prezioso per la collettività tutta, la quale si estrinseca nel quotidiano attraverso il contributo di ciascuno ed una seria educazione alla convivenza civile, se le stesse carceri mostrano tutto il proprio lato contraddittorio non rispettando le norme più semplici di vivibilità e cura della persona per mezzo delle quali un luogo, e le condizioni di chi vi abita, possono definirsi legali? Gorizia: il carcere di via Barzellini non verrà dismesso, partono i lavori di ristrutturazione di Piero Tallandini Messaggero Veneto, 15 marzo 2013 Dopo mesi di attese e incertezze si è finalmente sbloccato l’iter procedurale che consentirà l’avvio dei lavori di ristrutturazione per il disastrato carcere di via Barzellini. L’intervento comincerà entro la fine di marzo e consentirà finalmente di ridare dignità a un luogo che versa da anni in gravi condizioni di degrado tanto da essere considerata una delle peggiori strutture carcerarie del Nord est. Un edificio obsoleto - risale al periodo asburgico - che oltre al deterioramento causato dal passare degli anni è letteralmente ostaggio delle infiltrazioni con il sottotetto che perde, secchi sul pavimento per raccogliere l’acqua, intonaci cadenti, umidità ovunque, per non parlare poi delle condizioni degli impianti e delle celle. Una situazione di degrado che si traduce in un disagio crescente non solo, ovviamente, per i detenuti, ma anche per il personale della polizia carceraria. Lo scorso anno l’amministrazione comunale era riuscita a procedere con alcuni piccoli lavori per sanificare seppure parzialmente le pareti ed erano scattati i primi lavori urgenti di manutenzione in attesa dell’auspicato intervento di ristrutturazione vero e proprio. Un intervento che era parso imminente nel febbraio dello scorso anno quando era giunto l’impegno formale da parte dell’amministrazione penitenziaria nazionale a garantire uno stanziamento di 1,8 milioni per “salvare” la casa circondariale goriziana anche grazie a un lungo pressing che aveva visto impegnati i rappresentanti sindacali (in primis la Federazione della sicurezza Cisl) ed esponenti istituzionali locali come il sindaco Ettore Romoli. Poi erano passati i mesi e sulla tempistica dei lavori era cresciuta l’incertezza ed aveva cominciato a rinfocolarsi anche la preoccupazione che la sopravvivenza del carcere fosse di nuovo in discussione. Del resto sono anni che sulla struttura di via Barzellini, come una spada di Damocle, pende il rischio chiusura e nelle scorse settimena si era temuto il peggio come conferma il responsabile sicurezza Fns Cisl Ivano Signor: “Avevamo appreso di una nota dell’amministrazione penitenziaria centrale che includeva anche quella goriziana nell’elenco delle strutture carcerarie da dismettere, il tutto dopo mesi in cui ci erano arrivate rassicurazioni sul fatto che i soldi stanziati sarebbero stati sicuramente disponibili e che non ci sarebbero stati problemi per le gare d’appalto). Allora ci siamo mossi subito e 20 giorni fa abbiamo avuto un incontro con il nuovo provveditore dell’amministrazione carceraria del Triveneto che ha chiarito che le risorse finanziarie sono effettivamente disponibili e che la ristrutturazione si farà”. Le preoccupazioni sono state archiviate definitivamente due giorni fa quando la direttrice del carcere goriziano Irene Iannucci ha incontrato proprio i rappresentanti sindacali per comunicare che l’iter è stato completato e i lavori di ristrutturazione cominceranno entro la fine del mese. “Un’ottima notizia per il personale della polizia penitenziaria e per i detenuti - commenta Signor - che dovevano lavorare e vivere in una struttura in condizioni pessime ma anche per Gorizia che già ha subito un pesante depauperamento e rischiava ora di perdere anche il carcere. Una situazione che avrebbe messo a rischio a quel punto la sopravvivenza del Tribunale e infatti a livello sindacale abbiamo posto l’accento anche su questo aspetto”. Confort migliorato, più spazi e celle rimesse a nuovo I lavori di ristrutturazione del carcere consentiranno non soltanto di salvare l’edificio da un processo di degrado, diventato ormai inaccettabile, ma permetteranno di migliorare anche le dotazioni impiantistiche e, per quanto possibile, il “comfort” di chi lavora nella struttura e degli stessi detenuti. Da questo punto di vista, la ristrutturazione interesserà anche l’impiantistica e l’interno delle celle. “I lavori avranno un impatto significativo nel migliorare la struttura di via Barzellini - conferma il responsabile sicurezza Fns Cisl Ivano Signor. Anzitutto l’intervento riguarderà il tetto in modo da risolvere il grave problema delle infiltrazioni d’acqua che è andato peggiorando negli ultimi anni. Si parla poi di un adeguamento dell’impianto di riscaldamento oltre che della ristrutturazione delle celle che saranno rimesse a nuovo e poi saranno introdotte soluzioni moderne e tecnologiche che permetteranno anche un controllo migliore dei detenuti. Nella struttura ci saranno spazi più ampi ma anche una maggiore riservatezza. Il progetto prevede inoltre un adeguamento alle nuove normative in materia edilizia carceraria. Insomma, la casa circondariale di Gorizia sarà un posto più vivibile tanto per il personale della polizia penitenziaria quanto per i detenuti”. Naturalmente eseguire un vasto intervento di ristrutturazione in un carcere pone delle problematiche molto diverse rispetto ai lavori in un edificio adibito ad altri usi. L’intervento presuppone infatti una pianificazione accurata sotto il profilo della gestione della sicurezza in corso d’opera tenendo presente che sarà necessario anche trasferire temporaneamente i detenuti nel periodo in cui i lavori interesseranno le celle. L’attività della struttura carceraria, comunque, non sarà interrotta. “Sono previste delle riunioni con l’ispettorato del Triveneto - spiega Signor - per definire con i tecnici i dettagli operativi, a cominciare dalla vigilanza durante i lavori. Si prevede che sarà necessario trasferire temporaneamente non meno di una ventina di detenuti che dovrebbero essere accolti in qualche carcere del Veneto visto l’affollamento che già caratterizza le strutture della nostra regione”. Verona: nel carcere di Montorio solo quattro educatori per ottocento detenuti L’Arena, 15 marzo 2013 Un numero crescente di reclusi con sentenze definitive (pari al sessanta per cento degli 820 complessivi), e la quasi totale assenza dei magistrati di sorveglianza. Il tutto condito da un sovraffollamento che, con celle da due popolate in quattro e carenza di docce, non dà pace ai galeotti di Montorio. È questo il dato rilevato dal senatore radicale Marco Perduca che ieri, dopo la precedente visita del ferragosto del 2009, ha nuovamente messo piede nella struttura penitenziaria scaligera. Lasciando la poltrona a Roma, Perduca invita i futuri colleghi a “individuare le leggi che hanno creato questo stato di cose”, considerando la necessità di un’amnistia e di varie riforme, ma partendo anche dall’utilizzo delle pene alternative già prevista dalla legge. “Due terzi dei reclusi a Verona sono stranieri, soprattutto di lingua araba”, fa notare il senatore, sottolineando la necessità di specifici corsi di mediazione culturale per agenti ed educatori, a loro volta ridotti all’osso da prepensionamenti e mancanza di fondi. “Nella struttura ci sono solo quattro educatori per oltre ottocento detenuti, il che vanifica il loro ruolo di anello di congiunzione tra la direzione e i reclusi, alimentando frustrazioni, episodi di autolesionismo e tensioni”. Ad agevolare un po’ le cose e distendere il clima, per fortuna, ci sono le occasioni di lavoro, rivolte a circa 120 persone. “La garante dei detenuti e la direzione stessa sono molto attente a potenziare l’offerta di lavoro interna, che aiuta anche a garantire un minimo di autosostentamento agli stranieri”. Gli stessi che, per altro, sono i più penalizzati nella possibilità di beneficiare dei domiciliari negli ultimi diciotto mesi di pena da scontare. “Trovare un alloggio idoneo per gli stranieri non è sempre facile. Ma a Verona manca anche la presenza in carcere dei magistrati di sorveglianza che potrebbero agevolare tale passaggio per chi è recluso nella nuova sezione riservata ai cosiddetti dimittendi”. Maggiore attenzione, per il senatore in uscita, andrebbe riservata anche al circuito dei giovani adulti, ossia quei cento ragazzi tra i diciotto e i venticinque anni che necessitano di un trattamento diverso, a partire da una maggiore istruzione scolastica. “Gli studi si fermano alle medie, ma non bastano. Si parla di corsi di scuola alberghiera, che agevolerebbero la ricerca del lavoro in uscita dal carcere, ma per ora sono ancora inesistenti”. Cagliari: Sdr; ingiusto sospendere potestà a genitore detenuto con condanna non definitiva Ristretti Orizzonti, 15 marzo 2013 “Il grave provvedimento assunto dai Giudici del Tribunale dei Minori di Cagliari nei confronti di un padre privato della libertà che si era visto sospendere la potestà genitoriale perché aveva subito una condanna in primo grado a “una pena rilevante” è stato revocato”. Lo rende noto, esprimendo soddisfazione, Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso che la sezione per i Minorenni della Corte d’Appello ha dato ragione al padre P.L. attualmente nella Colonia Penale di Isili (Cagliari). Contro l’ordinanza del 16 gennaio 2012, che introduceva nella giurisprudenza un grave precedente, aveva presentato reclamo il difensore del detenuto avvocato Carlo Amat. “La sentenza dei Giudici della sezione minorenni della Corte d’Appello, presidente Gian Giacomo Pisotti, costituisce - sottolinea Caligaris - un importante limite a qualunque automatismo consequenziale tra l’essere detenuto, avere subito un primo grado di processo e perdere la patria potestà sui figli minori. Per i giudici insomma una sentenza non definitiva di condanna penale anche se per reati gravi, ma non direttamente pregiudizievoli per il figlio minore, non giustifica automaticamente, un provvedimento di sospensione della potestà genitoriale”. La vicenda risale al luglio del 2009 quando la ex moglie di P.L. aveva presentato l’istanza di decadenza contro il coniuge. Il provvedimento del Tribunale dei Minori, aveva gettato l’uomo nello sconforto inducendolo in uno stato di grave prostrazione. Avverso all’ordinanza aveva presentato reclamo l’avv. Carlo Amat, sottolineando l’assenza di elementi di una violazione grave dei doveri genitoriali da parte dell’adulto o di un suo disinteresse per la vita del figlio. “La sentenza - conclude la presidente di Sdr - ha un particolare valore in quanto ribadisce che un cittadino ha diritto ai tre gradi di giudizio e fino a quel momento, salvo specifici dispositivi, può esercitare la patria potestà e continuare a rapportarsi con il figlio secondo quanto stabilito in precedenza garantendo ad entrambi e agli stretti familiari di godere dell’affettività”. Rimini: sopralluogo Guardie Forestali al carcere, scoprono deposito incoltrollato di rifiuti Ansa, 15 marzo 2013 Deposito incontrollati di rifiuti al carcere di Rimini. È stato scoperto in seguito ad un sopralluogo delle Guardie Forestali di Rimini, questa mattina, al carcere “Casetti”. Tre mucchi di rifiuti abbandonati nel cortile della prima cinta, tra cui computer vecchi, fotocopiatrici, armadietti, lavatrici e pile. Parte del materiale era stato anche accatastato in un cellulare in disuso precedentemente usato per il trasporto dei detenuti. Il controllo è scattato in seguito all’esposto in Procura di un agente penitenziario con tanto di documentazione fotografica. La Procura ha aperto un fascicolo d’indagine per deposito incontrollato di rifiuti, e i militari della Forestale hanno chiesto spiegazioni alla direzione del carcere. Il materiale destinato alla discarica era stato accantonato nel cortile interno in attesa dell’autorizzazione allo smaltimento che l’amministrazione penitenziaria deve chiedere visto che si tratta di beni di proprietà dello Stato. L’indagine stabilirà se l’autorizzazione è stata mai effettivamente chiesta. Reggio E.: Sappe; riconvertire l’Opg in struttura ordinaria, evitare completa dismissione Ansa, 15 marzo 2013 “Entro il 31 marzo, così come previsto dal provvedimento del ministro Severino, dovrebbero essere dismessi i sei ospedali psichiatrici giudiziari presenti in Italia. Tra questi c’è quello di Reggio Emilia, per la cui dismissione, già tre anni addietro, era stato siglato un protocollo d’intesa tra il presidente della regione Emilia Romagna e l’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta”. Lo ricorda il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante, sottolineando che “la situazione degli ospedali psichiatrici giudiziari - sei in Italia: Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere, Reggio Emilia - è sicuramente difficile ma, è bene ricordarlo, molte delle persone che vi sono internate hanno un elevato indice di pericolosità, avendo commesso reati anche molto gravi, proprio a causa della loro condizione psichiatrica. Pertanto una completa dismissione, senza un’adeguata alternativa, potrebbe creare gravi rischi legati proprio alla gestione di queste persone”. L’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, adiacente alla casa circondariale, con la quale forma un’unica struttura, qualora fosse dismesso dovrebbe, secondo il Sappe, “essere riconvertito in struttura detentiva ordinaria, casa di reclusione o circondariale, al fine di consentire un ampliamento dei posti detentivi in regione, considerato anche che le due strutture formano ormai un’unica direzione amministrativa e un unico reparto di polizia. Ciò - conclude Durante - consentirebbe, inoltre, di salvaguardare la posizione di tutti i lavoratori che vi prestano servizio, con particolare riferimento alla polizia penitenziaria”. Chieti: Corbelli (Diritti Civili); detenuto carcere di Lanciano potrà rivedere figlia malata www.primadanoi.it, 15 marzo 2013 La bambina cosentina di 10 anni, gravemente malata, che vive su una sedia a rotelle, presto potrebbe di nuovo avere vicino e riabbracciare il papà, detenuto dall’inizio di febbraio nel carcere di Lanciano. L’uomo era rimasto per cinque anni nella Casa circondariale di Rossano. Lo rende noto il leader del movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, che in una nota informa che dopo il suo appello al ministro della Giustizia, Paola Severino, “si è avviata l’istruttoria per il ritorno in un carcere calabrese del detenuto. Corbelli e l’avvocato Enzo Paolini, prosegue la nota, “avevano denunciato questo caso umano un mese fa”. Corbelli aveva scritto al Guardasigilli, chiedendogli “prima di concludere la sua esperienza al Ministero un gesto nobile, significativo, umano nei confronti della bambina calabrese che non può più vedere e incontrare il suo papà, da quando è stato trasferito dal carcere di Rossano a quello di Lanciano”. Corbelli aveva chiesto al Ministro di “fare a questa bambina questo regalo: far ritornare il suo papà nel carcere di Rossano o Cosenza in modo che lo stesso genitore possa vedere e stare vicino alla sua bambina”. “Dopo il mio appello - ha sostenuto Corbelli - il direttore del carcere di Lanciano ha chiesto e acquisito tutta la documentazione sul detenuto e la sua bambina e successivamente gli assistenti sociali si sono recati in carcere a Lanciano per avere dal detenuto ulteriori informazioni. Si aspetta adesso che il Ministero della Giustizia disponga, d’accordo con il giudice competente, il ritorno del detenuto in Calabria”. La bambina si trova intanto ricoverata da un mese al Bambin Gesù di Roma per le periodiche visite, cure e terapie. “Oggi - ha concluso Corbelli - la bambina, mi ha informato la madre che sento di continuo al telefono, sarà sottoposta ad un nuovo delicato intervento chirurgico. La prossima settimana dovrebbe far ritorno a casa a Cosenza. Mi auguro e spero che la piccola possa quel giorno riabbracciare il suo papà come è suo sacrosanto diritto”. Ragusa: catturato dai Carabinieri il detenuto evaso dal carcere di Modica Italpress, 15 marzo 2013 La notte scorsa i carabinieri del Comando Provinciale di Ragusa hanno arrestato Gianluca Zafarana, 39 anni, evaso ieri mattina dal carcere di Modica dove stava scontando la pena di 3 anni e 6 mesi per ricettazione e violazione della sorveglianza speciale. L’uomo era fuggito dal penitenziario dopo aver tagliato la rete di recinzione interna e saltato un muro di cinta di oltre 4 metri. Una speciale task Force di Carabinieri l’ha localizzato in serata e fatto irruzione in una abitazione della località balneare di Cavadalica, vicino al capoluogo ibleo. I militari stanno ora identificando il proprietario dell’immobile. Dopo il blitz i militari hanno condotto l’evaso nel carcere di Ragusa e stanno eseguendo altre perquisizioni domiciliari in casa di pregiudicati per individuare eventuali fiancheggiatori. Immigrazione: Via Crucis davanti al Cie Bari; missionari Comboniani chiedono di entrare Ansa, 15 marzo 2013 Numerose associazioni e in particolare il Coordinamento Cittadino per la Giustizia e la Pace e i Missionari Comboniani organizzano anche quest’anno la Via Crucis davanti al Centro di identificazione ed espulsione per immigrati (Cie) di Bari che si terrà domani sabato 16 marzo dalle 16 alle 19. In occasione della manifestazione religiosa, per la prima volta tre missionari comboniani hanno fatto richiesta alla Prefettura di visitare gli immigrati detenuti nel Centro. ‘Sentiamo forte il bisogno di pregare sui crocifissi che sono ancora in questo Cie - affermano i comboniani in una nota - come negli altri luoghi in cui sono rinchiusi i migranti. Siamo coscienti che la detenzione delle persone entrate in Italia senza visto di ingresso è un atto che va contro la nostra Costituzione, la quale garantisce il rispetto dei diritti fondamentali delle persone (art. 2)’. “Noi credenti - è detto nella nota - vogliamo continuare ad essere testimoni della speranza perché finiscano le detenzioni amministrative ingiuste”. La nota conclude invitando la cittadinanza a partecipare a questo evento in cui saranno presentati anche frammenti di storie drammatiche degli immigrati detenuti nei Cie. India: marò italiani “a casa”… e Tomaso ed Elisabetta “dimenticati” in cella www.ivg.it, 15 marzo 2013 È sempre più delicata la posizione di Tomaso Bruno e di Elisabetta Boncompagni, i due ragazzi italiani imprigionati nelle carceri indiane per il presunto omicidio di un connazionale con il quale stavano viaggiando. Il caso diplomatico del mancato ritorno dei Marò italiani rischia di compromettere le difficili e delicatissime trattative per riportarli a casa. I due sono accusati dai giudici indiani di aver ucciso Francesco Montis, un giovane che viaggiava con loro e che è stato trovato senza vita nell’albergo dove i tre risiedevano. Il giovane soffriva di gravi problemi respiratori e la madre si è sempre detta convinta che il figlio sia morto proprio a causa di questi problemi. Di diverso avviso i giudici indiani, forse fuorviati da una perizia medica “inadeguata” perché compiuta da personale non pratico di autopsie e medicina legale. Fatto sta che Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni sono rinchiusi senza alcun privilegio nelle carceri di Varanasi ormai da mesi. La “fuga” dei due marò italiani, accusati di aver ucciso alcuni pescatori scambiati per pirati, rischia di rendere molto scomoda la posizione degli italiani rinchiusi nelle carceri comuni indiane e per questo motivo amici e familiari dei giovani invocano la massima cautela diplomatica. Resta evidente la disparità di trattamento per cittadini italiani in possesso di pari diritti. I due Marò sono stati seguiti passo passo da stuoli di avvocati e da decine di funzionari di ambasciate e corpo diplomatico mentre Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni (come altri cittadini italiani nei guai con la Legge indiana) restano a marcire nelle celle di un carcere comune. La fuga dei marò, che si sono sottratti alla Giustizia indiana provocando un incidente diplomatico di cui non si conosce fino in fondo la gravità, ha complicato e molto la vita dei cittadini italiani ancora nelle carceri indiane. I due militari hanno utilizzato il permesso concesso dalle autorità indiane per votare e non sono più ritornati, pur essendo fuori dal carcere e oggetto di privilegi che certamente non venivano concessi ad altri carcerati italiani. Una scelta molto probabilmente “suggerita” e certamente subita da chi, indossando una divisa, deve accettare ordini superiori ma che ha stupito anche molti italiani. Viene da pensare che sia un peso molto gravoso per due difensori della Patria, accettare che, con il loro comportamento e le loro “scelte” possano mettere in pericolo altri cittadini italiani. Meglio sarebbe che i due disobbedissero agli ordini e impartissero una lezione di orgoglio alla diplomazia italiana, pretendendo di tornare in India per non suscitare problemi a connazionali fuori e dentro le carceri. Indossare la divisa militare comporta anche scelte che oltrepassano i propri interessi personali. Tomaso: ecco come si vive nel carcere di Varanasi Più dell’iter giudiziario che ormai molti di noi conoscono, sono le lettere di Tomaso a rivelare davvero cosa significhi vivere tra i detenuti del carcere di Varanasi. Le parole del ragazzo ingauno, condannato in primo grado all’ergastolo, insieme all’amica torinese Elisabetta Boncompagni, per la morte del loro compagno di viaggio Francesco Montis, sono state pubblicate da alcuni amici del gruppo “Alziamo la voce” nel tentativo di impedire che cali l’attenzione su questo caso. In particolare in questi giorni difficili nei rapporti tra Italia e India, dopo la decisione del nostro governo di trattenere i due marò nel nostro Paese nonostante lo scadere del permesso elettorale concesso da quello indiano. Mamma Marina, in partenza domani per Varanasi insieme al marito Luigi Euro Bruno, ha concesso così la pubblicazione delle missive del figlio che descrive la difficile quotidianiatà all’interno della prigione straniera. “Dove abito” è il primo “capitolo” delle memorie del ragazzo di Albenga. “Mi trovo nel District Jail di Varanasi (quasi 4 milioni di abitanti), chiamato dai detenuti “Choukaghat” dal nome di un ponte che è nelle vicinanze e che dà il nome a tutta la zona - scrive - Il carcere ospita tutti i detenuti in attesa di giudizio oppure sentenziati per meno di 10 anni(io non sono stato trasferito dopo la sentenza grazie ad un particolare permesso ricevuto, dopo formale richiesta dell’Ambasciata Italiana a New Delhi). In totale siamo circa tremila persone divise in 16 baracconi (barak) ognuno dei quali ospita circa da 100 a 150 detenuti. C’è un piccolo ospedale, ovviamente una cucina, una piccola libreria (che in quasi due anni non sono mai riuscito a visitare) e vari campi dove vengono coltivate verdure con l’aiuto di due buoi. C’è anche un cortile (non troppo grande) utilizzato principalmente per le visite e per la celebrazione delle festività nazionali indiane (15 agosto, giorno dell’Indipendenza, 2 giugno, compleanno di Ghandi)”. “Io mi trovo nella baracca n.8, è una struttura lunga una sessantina di metri e larga circa 6 (compreso lo spazio per due latrine) e alta circa 3, al cui interno siamo 130 (il numero varia tutti i giorni) - scrive ancora Tomaso - Dividiamo un esiguo cortile (circa 70 metri x 4) con la baracca 9 che è proprio di fronte alla nostra e che anch’essa ospita circa 130 detenuti. Nel cortile c’è una piccola struttura in cemento con all’interno dieci turche e un’area minuscola con 4 rubinetti e una pompa a mano che utilizziamo per lavarci sia i corpi che i panni. L’acqua viene erogata per 6 ore al giorno, 3 al mattino e 3 nel tardo pomeriggio in modo che ti puoi lavare 2 volte al giorno e poi riempirti le bottiglie d acqua poiché quella del pozzo è imbevibile( un giorno per sbaglio ne ho bevuto un bicchiere e sono dovuto stare in bagno per 6 ore)”. “Nelle latrine non c’è acqua corrente quindi quando devi usarle, devi recuperare un contenitore di plastica, riempirlo d’acqua e poi addentrarti in quel fetore e pulirti con le mani che per gli indiani la “carta igienica” è anti-igienica ed inoltre potrebbe intasare i tubi di scarico. Per lavarti invece ti armi di un secchio di plastica e combatti per poterlo piazzare sotto un rubinetto e quindi lavarti con l’aiuto di una tazza - racconta il giovane. All’interno della baracca siamo disposti in due file e ciascuno ha a disposizione circa un metro per due per il suo giaciglio fatto di tre o quattro coperte sovrapposte più un telo come lenzuolo. Nel muro vari ganci di legno per appendere le tue cose. Lungo entrambi i muri ci sono finestre di circa un metro per due e al soffitto ventole ogni circa tre metri. Le ventole sono la cosa più importante visto il caldo massacrante da aprile a metà ottobre (picchi di 50° e tasso di umidità al 70%), purtroppo l’elettricità va e viene e nell’arco di una giornata è erogata ala massimo per 14 / 16 ore… nelle restanti 10 ti fai aria con dei particolari ventagli chiamati “panci” ricavati da foglie di palma”. “All’interno della baracca ci sono anche due televisori che fungono anche da radio e, elettricità permettendo, mandano musica a tutto volume per l’intera giornata. La sera, invece, da lunedì a giovedì “Soap Opera” ed il weekend film di Bollywood e, se gioca l’India, cricket…Io comunque non guardo mai la TV, preferisco leggere…in quasi due anni ho guardato le finali di Wimbledon e Rolland Garros, le semifinali e la finale dei mondiali di calcio e qualche gara dei Commonwealth Games. La vita all’interno della baracca è relativamente tranquilla gli unici litigi avvengono per l’acqua e nonostante tutto anche le condizioni igieniche(latrine a parte) sono accettabili, ma ne parlerò più avanti nella sezione “usi e costumi”. Concludo questo capitolo parlando del cibo. La prigione distribuisce per colazione una tazza di porridge e una tazza di the tutte le mattine, del pane morbido il lunedì e il venerdì mattina il “channa”(fagioli) le restanti mattine. Per pranzo il “Dhal” (una zuppa di lenticchie) e vegetali di stagione, la cena idem come il pranzo”. “Il cibo arriva in due grossi pentoloni e ti devi mettere in fila con tuo vassoio di alluminio per recuperare la tua razione completata da un pugno di riso e 8 piadine. Questo è il cibo ufficiale e gratuito, che personalmente non ho mai mangiato…la prigione infatti, illegalmente, ha anche una seconda cucina che prepara cibo migliore e ovviamente lo vende come se fosse un ristorante self-service. Al mattino preparano jelaibi (ottime ciambelle di zucchero) e dei vegetali che servono con una specie di pan fritto. Per pranzo sempre vegetali e Dhal ma di qualità molto superiore a quelli gratuiti e la sera idem. Inoltre puoi comprarti il latte caldo tutte le mattine e passano a vendere il the tre o quattro volte al giorno. La varietà dei vegetali è minima, patate, zucchine, melanzane, cavolfiori ed altri due o tre tipi che non avevo mai visto prima e che non saprei come definire. Carne e pesce non sono ammessi e i detenuti cercano di arricchire la dieta con insalate(cipolle, pomodori, cetrioli, rape rosse), frutta (mele, melograni, banane, mango e papaia), patatine di ogni genere, biscotti e qualche dolce (quasi tutti a base di burro) Ah dimenticavo, tre volte alla settimana vendono uova sode” conclude Tomaso. Stati Uniti: il Maryland abolisce la pena di morte, è il 18esimo stato dell’Unione a farlo Ansa, 15 marzo 2013 Anche il Maryland dice basta con la pena di morte: La Camera dei rappresentati dello stato ha oggi approvato una legge che la mette al bando, e la sostituisce con l’ergastolo senza possibilità di libertà condizionata, diventando così il 18 stato dei 50 dell’Unione a decidere di mandare in pensione il boia. La legge, già passata al Senato la settimana scorsa, è stata approvata con 82 voti a favore e 56 contrari. Per renderla operativa, manca ora solo la firma formale del governatore Martin O Malley, che da anni si batte contro la pena capitale ed è stato uno degli autori del testo approvato oggi, dopo che già nel 2009 aveva fatto un primo tentativo del genere. L’ultima esecuzione di una condanna a morte in Maryland risale al 2005. Attualmente sono cinque i detenuti nel braccio della morte nelle carceri dello stato. La nuova legge non ha carattere retroattivo, ma sono in molti a ritenere che con ogni probabilità il governatore O Malley, che ne ha il potere, ora convertirà la loro condanna in ergastolo. Da tempo ormai in tutti gli Stati Uniti il sostegno alla pena capitale sembra calare sensibilmente. Il numero delle condanne eseguite nel 2011 e 2012 ha raggiunto il record più basso, in calo del 75 per cento rispetto al 1996, secondo i dati del Centro di informazione sulla condanna a morte. Un fenomeno dovuto anche al fatto che tecniche di investigazione sempre più moderne hanno svelato errori giudiziari e salvato innocenti già condannati e in attesa dell’ esecuzione. Ma anche al fatto che molti ne mettono in dubbi il potere deterrente, la giudicano molto costosa, e in molti casi anche venata di motivi razziali. Secondo uno studio diffuso in questi giorni dal criminologo Ray Paternoster, dell’università del Maryland, gli afroamericani hanno il doppio delle probabilità rispetto ai bianchi di essere condannati a morte. “Anno dopo anno - sottolinea invece da tempo il governatore O Malley - gli stati in cui c’è la pena di morte hanno avuto un numero di omicidi maggiore degli stato dove invece la pena capitale non c’è”. Con il Maryland sono sei gli stati che negli ultimi sei anni hanno detto basta: il Connecticut, l’Illinois, New Mexico, New York e New Jersey. Stati Uniti: Rapporto del Senato di 6mila pagine accusa la Cia di torture sui detenuti di Franco Fracassi www.globalist.it, 15 marzo 2013 In attesa della pubblicazione delle 6.000 pagine e dei sei milioni di documenti contenuti nell’inchiesta, molti senatori vorrebbero insabbiare tutto per evitare lo scandalo. Adesso è ufficiale: gli Stati Uniti hanno praticato per anni la tortura, e in casi sporadici continuano a praticarla. È quanto ha sentenziato la Commissione servizi segreti del Senato Usa. Il tutto è contenuto in un rapporto di seimila pagine, arricchito da trentacinquemila note a piè di pagina e sei milioni di documenti. Rapporto, che presto verrà reso pubblico nella sua interezza. Anche se indiscrezioni raccolte dalla Cnn e dall’Abc raccontano della riluttanza di molti membri della Commissione a declassificare il documento. L’indagine ha rilevato che il programma di tortura della Cia era stato portato avanti su grande scala. Era molto più vasto di quanto mai dichiarato pubblicamente. Dalle indiscrezioni emerge che la tortura è stata praticata sia per estorcere informazioni, sia per condizionare mentalmente i detenuti. E non è tutto. A quanto pare, molte delle informazioni estorte con la forza si sono poi rivelate parzialmente o totalmente false. In base al parere di persone che hanno avuto accesso al rapporto, la sua pubblicazione potrebbe provocare uno shock paragonabile ai maggiori scandali della storia americana. Secondo Human Right Watch, nell’ultimo decennio gli Stati Uniti sono stati permanentemente nei primi dieci posti della poco invidiabile classifica sulla violazione dei diritti umani. Congo: l’Onu denuncia; raddoppiato numero dei morti in carcere, il 20% per denutrizione Misna, 15 marzo 2013 Nel 2012 è raddoppiato il numero dei detenuti deceduti nelle carceri congolesi, un dato “estremamente preoccupante”: è questa la principale conclusione del rapporto congiunto stilato dall’Alto commissariato ai diritti umani e dalla locale missione Onu per la stabilizzazione del Congo (Monusco), un rapporto che evidenzia un “grave deteriorarsi delle condizioni di detenzione”. Lo scorso anno sono morti 101 prigionieri in circostanze difficili: sovraffollamento dei centri di detenzione con tassi di occupazione che superano fino all’800% la capacità numerica, come nel carcere di Goma o nella prigione centrale di Makala, a Kinshasa. Il documento è il frutto di un’inchiesta realizzata in una parte dei 222 luoghi di detenzione e in base alla quale il numero totale di prigionieri è stato stimato in 20.000 persone in un paese che conta 68 milioni di abitanti. Il tasso di detenzione non è molto elevato ma, sottolinea il rapporto, le difficoltà sono “tante”. Oltre al sovraffollamento, che provoca morti per soffocamento “in spazi angusti, non ventilati”, c’è la malnutrizione, responsabile di un decesso su cinque, ma anche l’insufficienza di cure mediche che “creano una promiscuità pericolosa per la vita dei detenuti”. Delle 211 persone che hanno perso la vita negli ultimi tre anni, per 84 di loro la causa è stata la carenza di cibo, per altri 103 la mancanza di assistenza sanitaria e in 24 casi la conseguenza di maltrattamenti. Inoltre il documento stilato dalle Nazioni Unite deplora il fatto che le autorità giudiziarie abbiano “fatto ricorso alla detenzione provvisoria sistematicamente e non in modo eccezionale, come previsto dalla Costituzione”. La situazione critica in cui versa il mondo carcerario congolese viene ricollegata da diversi osservatori e difensori dei diritti umani ai finanziamenti ridotti da parte dello Stato, alla mancanza di trasparenza nella gestione delle prigioni e alla corruzione diffusa. Secondo Scott Campbell, rappresentante dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani, “serve una vasta riforma del settore penitenziario”. Inoltre, ha sottolineato l’avvocato e difensore dei diritti umani Sylvain Lumu Mbaya, “oltre alle carceri ufficiali, per le quali è importante denunciare le cattive condizioni di detenzione, ci sono centri “non ufficiali” gestiti direttamente dai servizi di informazione ai quali non abbiamo mai accesso”. In risposta al rapporto e alle critiche espresse da varie parti, il portavoce del governo di Kinshasa, Lambert Mende, ha dichiarato che “si tratta di dati che coincidono con i nostri ma che vanno letti in una prospettiva più ampia”. Il portavoce ha chiesto ai difensori dei diritti umani di fornire al governo “un elenco di quei centri definiti non ufficiali”. Nigeria: liberati 170 detenuti, blitz di uomini armati in una prigione nel nord per paese La Presse, 15 marzo 2013 Un commando armato ha attaccato una prigione del nord della Nigeria e ha liberato i 170 detenuti. Nell’assalto sono rimasti uccisi un agente di polizia penitenziaria e un passante. Lo riferiscono fonti ufficiali. È accaduto nel carcere di Gwoza, al confine con il Camerun e situato a 130 km dalla città ribelle di Maiduguri, roccaforte del gruppo islamico Boko Haram. Gli assalitori sono arrivati a bordo di auto e moto urlando “Allah è grande”.