Giustizia: la “Carta di Milano” approvata dal Consiglio nazionale Ordine dei Giornalisti di Marta Manzo ifg.uniurb.it, 14 marzo 2013 Un codice etico per il trattamento di detenuti o ex detenuti, soprattutto in quella fase difficile che è il reinserimento nella società. È la Carta di Milano - la “Carta del carcere e delle pene” - il documento steso proprio tra le mura di alcune carceri italiane, che il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ha approvato nel pomeriggio. Già sottoscritta dagli ordini regionali di Lombardia, Veneto, Toscana, Emilia Romagna, Basilicata, Liguria, Sicilia e Sardegna, la Carta fissa in dodici punti i limiti tra la corretta e la cattiva informazione. Invita, quindi, a “usare termini appropriati” e a “considerare sempre che il cittadino privato della libertà è un interlocutore in grado di esprimersi e raccontarsi”. Lo scopo è tutelare il cittadino detenuto o ex detenuto dalla “gogna” mediatica cui può essere esposto: per questo, invita i giornalisti a tenere conto, ad esempio, che “il condannato che decide di parlare con i giornalisti non va identificato con il reato connesso, ma con il percorso che sta facendo”. Tra i diritti che il documento sottolinea con forza c’è anche quello all’oblio: riconosce, infatti, all’individuo privato della libertà o ex detenuto tornato in libertà di non “restare indeterminatamente esposto ai danni ulteriori che la reiterata pubblicazione di una notizia può arrecare all’onore e alla reputazione”. Un diritto, questo - ricorda la stessa Carta - che rientra tra i diritti inviolabili di cui parla l’art. 2 della Costituzione. Eccezioni sono previste per “quei fatti talmente gravi per i quali l’interesse pubblico alla loro riproposizione non viene mai meno”. Tra questi, i crimini contro l’umanità, per i quali “riconoscere ai loro responsabili un diritto all’oblio sarebbe addirittura diseducativo”. La normativa si applicherà a tutte le forme di giornalismo, compreso quello online, che richiede un’attenzione particolare vista la presenza prolungata delle notizie su Internet. La carta si aggiunge ai documenti deontologici che l’Ordine dei giornalisti ha adottato finora, molti dei quali a tutela delle categorie più sensibili: la Carta di Treviso, approvata nel ‘91, è stato il primo documento che impegna i giornalisti a norme e comportamenti eticamente corretti nei confronti dei minori ed è a firma della Federazione nazionale della Stampa, dell’Ordine e di Telefono Azzurro. La Carta dei doveri del giornalista, sottoscritta nel 1993, costituisce uno statuto completo della deontologia professionale e contiene, tra gli altri, il divieto di pubblicare immagini violente o raccapriccianti, nonché l’obbligo di tutela della privacy dei cittadini e, in particolare, dei minori e delle persone disabili o malate. La Carta di Roma, approvata nel 2008, regolamenta il trattamento dei richiedenti asilo, dei rifugiati, delle vittime della tratta e dei migranti, richiamandosi alla Carta dei doveri del giornalista. Il documento invita i giornalisti ad adottare termini giuridicamente appropriati, per “restituire al lettore la massima aderenza alla realtà dei fatti”, per evitare di alimentare eventuali atteggiamenti razzistici. Nel 2009, un altro codice di autoregolamentazione è stato sottoscritto a Roma e riguarda i processi in tv: per impedire i “processi-show” trasferiti dalle aule di giustizia sul piccolo schermo, il codice ha chiarito le differenze tra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra accusa e difesa, sempre nel pieno rispetto dei diritti inviolabili della persona. Venerdì la Carta di Milano verrà presentata nella sala conferenze del carcere di Regina Coeli a Roma e, nel pomeriggio, sempre a Roma, si terrà un seminario nella sede della Fnsi, in corso Vittorio Emanuele II. Giustizia: Starnini (Simspe Onlus); chiusura degli Opg, ma senza facili demagogie Asca, 14 marzo 2013 Comprensione e accoglienza per gli oltre mille tra internati, detenuti con infermità mentale e minorati psichici che dovranno a breve lasciare gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari italiani, ma non facili demagogie e deresponsabilizzazione nei confronti della società civile. Questa la posizione di Simspe Onlus, la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria che per voce del proprio Segretario Generale e Fondatore Giulio Starnini, pubblica una nota dettagliata sulla situazione legislativa che ha condotto al momento attuale e sulle reali necessità che, possibilmente in tempi estremamente contenuti, devono essere affrontate e risolte localmente di concerto tra le Amministrazioni della Giustizia e della Salute, per impedire su tutto il territorio nazionale la vergogna da una parte dell’abbandono dei più deboli fra gli ultimi e dall’altra del mancato controllo dei malati socialmente pericolosi. Ricordando che “fra le mille persone rinchiuse in queste strutture si trovano internati prosciolti per infermità mentale sottoposti al ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, detenuti assegnati alla casa di cura e custodia perché socialmente pericolosi, persone sottoposte alla misura di sicurezza provvisoria in ospedale psichiatrico giudiziario, detenuti minorati psichici, detenuti imputati soggetti a custodia preventiva sottoposti a perizia psichiatrica, internati con infermità mentale sopravvenuta per i quali sia stato ordinato l’internamento in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e custodia, detenuti condannati con sopravvenuta infermità di mente”, Starnini sottolinea come si tratti di “una popolazione alquanto eterogenea che di fatto ha reso problematica la gestione di pazienti che dal punto di vista giuridico hanno diverse esigenze in ordine alla sicurezza e allo sviluppo di progetti trattamentali e riabilitativi”. Problematica questa, avverte, “che non cesserà con la realizzazione di nuove strutture”. “Forse c’è stata presunzione nel pensare che un anno fosse stato sufficiente per attuare una delle tappe più difficili della Riforma della Sanità Penitenziaria”, aggiunge precisando che per tutti questi motivi “il 31 marzo non potremo assistere alla chiusura degli Opg esistenti”. “Come Società - conclude - non possiamo, pur condividendo le preoccupazioni e l’angoscia per situazioni disumane che nulla hanno a che fare con la parola salute, che raccomandare la massima professionalità e serietà nel processo di trasformazione degli attuali Opg, sul modello di quello esistente di Castiglion delle Stiviere. Non crediamo, e ce ne assumiamo la responsabilità come esperti della materia, che i servizi territoriali dei Dipartimenti di Salute Mentale attualmente esistenti, possano reggere l’impatto di un carico di lavoro niente affatto simile a quello usuale. Confidiamo che gli stessi, sull’esempio di quanto avvenuto a Catanzaro, si attivino per realizzare in tutta Italia sezioni per la patologia psichiatrica, che rappresenta oggi la vera tragica emergenza sanitaria nelle nostre carceri”. Giustizia: Opg di Barcellona Pozzo di Gotto… le esistenze sospese dei matti da slegare di Mario Barresi La Sicilia, 14 marzo 2013 Barcellona Pozzo di Gotto. L’inferno chiude per decreto. E Giuseppe ha già in testa un piano B: “Me ne vado in Venezuela, lì conosco tutti. Anche Chavez lo conoscevo, sai? Ma non è morto per malattia, l’hanno fatto fuori. Conosco tutti, in Venezuela. Se vieni con me ti faccio eleggere presidente del Venezuela”. Stringe un rosario bianco, mentre la pioggerellina scivola fastidiosa nel chiostro di questo museo della fragilità umana. Ma come può fidarsi, Giuseppe “l’amico di Chavez”, di una data cerchiata in rosso sul calendario - il 31 marzo 2013, una domenica - lui che è imprigionato nel girone delle vite senza tempo? L’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto è una delle sei strutture italiane, l’unica in Sicilia, che dovrebbe chiudere i battenti a fine mese. Ma forse resterà aperta ancora un po’. Già, perché se vent’anni fa chiusero i manicomi e si dimenticarono degli Opg, oggi vogliono rottamare questi ospedali-carceri ma gli internati non sanno dove metterli. In tutto 1.400 matti da slegare, qui dentro sono in 158. C’è chi ha spaccato il maxischermo alla stazione ferroviaria di Milano, ma anche chi ha le mani ancora sporche di sangue e qualche cadavere sulla flebile coscienza. Ci sono malati gravi e chi forse pazzo non ci è ma ci fa; c’è chi ha qualcuno che lo aspetta ancora e chi fuori non sa dove andare. Il mercoledì è il giorno delle visite dei parenti. Come il lunedì e il venerdì: dalle 8 alle 14. Ma nessuno - ieri come tanti altri mercoledì - è andato da Massimo e a Pasquale. Loro sono del “Terzo”, quello che un tempo si chiamava “Reparto Agitati”. “Ma quando esco? Ma quando esco? “, continuano a gridare battendo i polsi sulle grate ridipinte di fresco. Lì dentro è dura. “Ci sono i muri e sono alti”, ammette Giuliano Nunzio, medico riabilitatore. E spesso si finisce con la “fiorentina”. Che è una cinghia sul petto, sopra un letto che sembra al centro di una stanza pulita. Non si sa ancora dove andranno a finire, Massimo e Pasquale, dopo il 31 marzo. Ma a loro non sembra che gliene importi più di tanto, mentre continuano a battere forte su quelle sbarre: “Direttore! Ti voglio bene”. E poi la litania: “Ma quando esco? Ma quando esco? Ma quando esco?”. Il “Settimo” è quello dei più tranquilli. Sembra una scolaresca durante una ricreazione che dura tutta la giornata, quella dozzina di esistenze che passeggiano nel cortile del reparto. All’ingresso del refettorio qualche chilo di avanzi: fusilli al sugo, tacchino al forno e patate lesse. “No, non è che non erano buoni”, si giustifica Vito. Martedì sera c’era stata una festa con i volontari delle associazioni, “abbiamo mangiato tante lasagne fino a scoppiare”. Vito è un ex “ragazzo fuori” palermitano: “Nel 2007 ho bruciato una saracinesca, poi sono uscito e avevo l’obbligo di firma. Ma certe sere non ci andavo, perché mi piacciono ‘i fimmini e avevo altro da fare”. L’evasore-playboy fa coppia fissa con un assassino. Saiful, il domestico tuttofare del Bangladesh reo confesso di aver ucciso il senatore Ludovico Corrao colpendolo prima con una statua d’avorio e per poi sgozzarlo con un coltello e infierire su polsi e torace. “Non mi piaceva più quello che dovevo fare di notte e poi avevo paura di essere licenziato. Ma ora mi sono pentito. Mi sono rovinato la vita”. Anche se sfoggia con sguardo beffardo un pizzino con la sua nuova destinazione: una comunità terapeutica di Palermo. “Qui dentro non sto male, ma lì starò meglio”. Mouhib ascolta con evidente invidia. Sogna il suo Marocco, ma magari tornerebbe a Milano, dove è stato arrestato qualche minuto dopo aver distrutto un televisore alla stazione centrale di Milano; le mani sanguinanti e la birra che gli ammorba l’alito e il cervello. Due anni di pena per la giustizia italiana. Ma quel bollino della “pericolosità sociale” che apre un tunnel infinito: le proroghe. Poiché avrebbe bisogno di una comunità terapeutica che lo ospiti o di una famiglia che lo riaccolga e lui non ha né l’una né l’altra, viene lasciato a marcire nell’Opg. Di proroga in proroga, sette anni. “È un’aberrazione del sistema”, ammette il direttore dell’Opg, Nunziante Rosania. E se la ricordano ancora anche le piante del giardino, la sua “incazzatura monumentale”, quella volta del “caso Maniaci”. Un internato in attesa di giudizio, per il tentato omicidio del fratello. Otto anni: lui dimenticato a Barcellona, il suo procedimento in chissà quale cassetto. Uscì, infine. Senza sapere più che uomo fosse diventato. Al piano terra dell’“Ottavo” lavorano gli operai. Salendo due rampe di scale si incontrano “quelli con qualche problema in più”. Ma sembrano sereni. Come Samuel, arrestato per un furto d’auto. Entra ed esce dall’Opg di Barcellona da sei anni. Perché lui, uno zingaro nato in Toscana, ha un senso tutto suo della libertà: “Qui dentro ci sono le sbarre e i muri, ma sto bene, c’è umanità. Mi hanno fatto pure frequentare una ragazza. Quando mi mandano in comunità mi manca l’ossigeno, posso uscire ma mi stanno sempre addosso. Sto male, mi viene il panico. E torno sempre a bussare qui”. Paolo non vede l’ora di riabbracciare sua madre, ad Acicatena. “Mi hanno arrestato perché ho litigato (sic!, ndr) con lei, ma ora sono pentito e anche lei mi rivuole a casa. Vi do il numero, così glielo dite che le voglio bene: 349”. L’ultimo miglio prima della normalità è una villetta all’altro capo della città. Il “Reparto esterno” è una comunità, cogestita con Comune e Dipartimento di salute mentale. Fuori c’è parcheggiato il “Fiorino” blu che due pazienti ex tossicodipendenti rubarono in quella rocambolesca evasione dell’ottobre 2011, durata poche ore. “Direttore, siamo qui alla stazione di Catania. Ci venga a prendere”, piagnucolarono a mezzanotte. Come Cenerentola senza scarpetta, loro senza più voglia di essere liberi. Qui le facce sembrano più serene. Vito, palermitano, tornerà a fare il cuoco a Sferracavallo. Dimenticando i menu da recluso: “Non si può mangiare la pasta col fagiolino. Il fagiolino è un contorno! “. Meno male che c’è Beniamino, di Termini Imerese: “Quando mio figlio porta la salsiccia delle Madonie facciamo festa”. Vito e Beniamino hanno commesso reati in famiglia e qui ne hanno formato una nuova. Con Giuseppe (rapina) e Vito (tentato omicidio), due pugliesi uniti dalle infinite proroghe. “Ma quando usciamo? “. Lo chiedono anche loro. Il direttore Rosania: pronti a dimetterne il 50%, ma per i casi gravi è caos Con una proroga attrezzeremo un’area, in attesa delle quattro strutture protette in Sicilia per i soggetti più pericolosi. A regime questo sarà un penitenziario normale. “Se sono contento che chiudono gli Opg? Certo che sono contento, Maronna ro Carmine. Mica sono il kapò di un lager”. Nunziante Rosania è “soltanto” il direttore dell’ospedale psichiatrico di Barcellona Pozzo di Gotto, dal 1997. E qui dentro ha vissuto quasi tutte le fasi di questo “mostro burocratico”, dimenticato dopo la chiusura dei manicomi. Un po’ ospedali, ma soprattutto carceri, anche a costo di diventare “discariche nazionali di pazzi”. Quando il direttore arrivò dalla Campania era già passata la fase dei “grandi simulatori”. Compreso il gotha della mafia, fra boss e pentiti eccellenti: Leonardo Vitale, Vito Badalamenti, Stefano Bontade, Michele Greco, Masino Buscetta. Quando allora decidevano di essere “pazzi” era difficile trovare un medico che certificasse il contrario. “Ma quando mi insediai feci subito revisionare alcune perizie e magari qualcuno c’è rimasto male. Minacce? Qualcuna, ma sono ancora qui”. Poi comincio la “normalizzazione” della struttura: nel 2007 si arrivò a una media di 160-170 ricoverati. Il dramma fu nel 2008: “Alcune strutture nel resto d’Italia cadevano in pezzi e qui diventò l’approdo di una deportazione. Arrivavano con gli autobus: schizofrenici, oligofrenici, dementi, tutti bisognosi anche di assistenza continua alla persona, 24 ore su 24”. E così l’Opg diventò un mostruoso contenitore di umanità ammassata: fino a 400 persone. “Con il contestuale taglio del 70% di risorse - ricorda Rosania - e il personale che cominciava a fuggire, non reggendo più otto ore in quell’inferno: 62 persone in meno senza rimpiazzo”. Quando nel 2011 ci fu il blitz della commissione Marino il peggio era ormai passato, ma scoppiò lo scandalo. Fino a far indignare il presidente Giorgio Napolitano, che parlò di “estremo orrore, inconcepibile in qualsiasi Paese civile”. Si arrivò pure al sequestro della struttura, ma il direttore Rosania oggi da un lato minimizza la portata di quegli eventi (“Si aspettavano di trovare un ospedale, dimenticando che era un carcere”), ma dall’altro ammette che “in Italia senza gli scandali tutto rimane fermo e quindi ben venga anche quel dossier scandalistico se è riuscito a smuovere le acque e a garantire fondi per gestire la chiusura degli Opg in un momento storico in cui si taglia dappertutto. Ma il decreto riduce il danno ma non risolve il problema e anzi ricrea una deriva manicomiale se non si gestisce al meglio questo passaggio”. Il 31 marzo - data prevista per la chiusura di Barcellona e delle altre 5 strutture nel resto d’Italia - è dietro l’angolo, ma sarà difficile rispettare la scadenza. Tant’è che si parla già di una proroga al 30 giugno, o addirittura a uno slittamento al 2014. “Noi siamo pronti a dimettere entro marzo circa il 50%, ovvero i casi meno gravi gestibili dai Dipartimenti di salute mentale e dalle famiglie”. E l’altra metà? “I territori sono impreparati, si rischia il panico generalizzato. Anche se con il governatore Crocetta e l’assessore Borsellino stiamo lavorando a un tavolo tecnico. I pazienti non dimissibili, con un alto tasso di pericolosità sociale, andranno in strutture protette”. Una per ogni distretto di Corte d’Appello (Caltanissetta, Catania, Messina e Palermo) con 20 posti per ogni struttura”. Ma cosa saranno queste strutture protette? Dei manicomi-mignon o delle case famiglia con le sbarre e i secondini fuori? “Saranno delle stutture eminentemente ospedaliere, con criteri di specializzazione psichiatrica, ma con un presidio esterno di polizia e un ufficio matricole interno”. Ma prima che queste strutture (“alcune delle quali devono essere edificate”) saranno pronte, gli internati non saranno rimessi in libertà. “Si pensa all’adeguamento di una parte della struttura per la gestione temporanea”. A regime, l’Opg di Barcellona diventerà un carcere “normale”. Con una capienza stimata in 485 posti e la possibilità di una sezione femminile. E dentro 58mila metri quadri di superficie, in questo complesso aperto nel 1925, i pazzi saranno un ricordo in bianco e nero. Giustizia: “Fine pena mai”… come cancellare la pena dell’ergastolo ostativo? di Nello Scavo Avvenire, 14 marzo 2013 Neanche al ministero della Giustizia sanno esattamente quanti siano. Uomini ombra: 1.500 secondo alcune stime, 3mila secondo le associazioni di volontariato nelle carceri. Gli ergastolani ostativi sono dei fantasmi la cui voce ogni tanto riesce a superare le barriere di acciaio e cemento. Sono la prova vivente che il fine pena mai non è una leggenda. Che davvero nelle prigioni della Penisola ci sono uomini che ne usciranno solo da morti. Come Giuseppe Barreca, rinchiuso a Spoleto, che per non aver rivelato i nomi dei complici non lascerà mai la galera. Il carcere, però, lo ha cambiato. “Ho capito peraltro che il sacrificio ripaga e che il sudore versato per raggiungere uno scopo è quanto di più nobile l’uomo possa aspirare”, ha scritto di recente in occasione della sua laurea. “Ecco perché ritengo un vanto potere affermare che giorni, mesi e anni ingobbito sui libri hanno rivoluzionato e fatto crollare tutto ciò che di inutilmente nocivo albergava in me”. Ed oggi “mi sembra incredibile che io possa essere stato diverso di come invece sono diventato. Ma tant’è. E nessuno può negarlo”. Le ragioni che spingono i giudici a comminare l’ergastolo ostativo sono quasi unicamente legate alla mancata collaborazione del detenuto giudicato colpevole di reati particolarmente gravi e cruenti. In alcuni casi, però, può arrivare il ravvedimento. “Ma nessuno - ci ha recentemente scritto uno di loro - tiene conto delle conseguenze”. Pentirsi, mettersi in discussione, riscoprirsi diversi da come si era fino al momento in cui si è premuto il grilletto o si è dato l’ordine di ammazzare qualcuno, non è una strada in discesa. A volte ci vogliono anni. “E gli anni sono una condanna in più”, spiega l’ergastolano che non ha perso la speranza di riabbracciare, un giorno, i suoi cari. “Ero giovane, sono passati vent’anni da allora, e se adesso dicessi che avevo dei complici e chi essi sono, per la mia famiglia sarebbe una catastrofe”. L’uomo in questione nel frattempo è perfino diventato nonno. “Questo vorrebbe dire che la mia famiglia, i miei figli, le mie nuore, i miei nipotini, dovrebbero cambiare identità, cambiare città, vivere una vita blindata”. E lui, dopo avere inflitto anni di dolore ai suoi, cari, non se la sente di affliggere un altro colpo ad una famiglia “che mia moglie è stata in grado di tenere unita nonostante me”. Storie come quella di Carmelo Musumeci, che per il suo lavoro di scrivano-bibliotecario presso il carcere di Spoleto guadagnava 26 euro al mese. Una remunerazione “non decorosa, umiliante e non rieducativa”, per questo Carmelo Musumeci, aveva scritto al ministro Severino una lettera aperta. “Sono un uomo ombra, un ergastolano ostativo, cattivo e colpevole per sempre secondo la legge”, scrisse Musumeci. Entrato in cella con la licenza elementare, mentre era all’Asinara in regime di 41-bis, riprese gli studi e da autodidatta completò le scuole superiori. Nel 2005 la laurea in Giurisprudenza con una tesi in Sociologia del diritto dal titolo “Vivere l’ergastolo”. Nel maggio 2011 la laurea a Perugia in Diritto penitenziario. Attraverso alcuni volontari dell’associazione Giovanni XXII fondata da don Oreste Benzi, Musumeci aggiorna anche un suo blog dedicato esclusivamente a quelli come lui. L’ultimo è del primo marzo: “Oggi pensavo che mi sono rimasti solo i miei sogni. Solo loro sono ancora vivi”. A meno che il legislatore non voglia ascoltare le loro voci e quelle dei tanti giuristi che cominciano a scardinare l’assurdo giurisprudenziale del “fine pena mai”. Giustizia: frate Lupo, da 50 anni con i detenuti “l’ergastolo toglie speranza di recupero” Avvenire, 14 marzo 2013 Accogliere l’uomo rinchiuso in prigione per incontrare il suo cuore e avviare, insieme, un cammino di redenzione e recupero sociale. È quello che, da cinquant’anni, fa Giuseppe Prioli, frate minore non sacerdote, che ha speso tutta la vita per “alleviare le sofferenze” dei carcerati, senza giustificare l’errore e, soprattutto, “senza dimenticare le vittime” dei loro reati. Settant’anni compiuti martedì, fra Beppe si porta addosso un soprannome (frate Lupo) che, nel tempo, è diventato una seconda pelle e che ben rappresenta il suo spirito ribelle e controcorrente. “Negli anni mi sono ammansito - dice divertito - anche se tutti i giorni chiedo a Dio la forza di continuare a gridare che l’accoglienza cambia il cuore dell’uomo. Anche di quello che si è macchiato dei delitti più terribili e feroci, che entra in carcere come un lupo arrabbiato, ma la sua rabbia è un urlo: aiutami”. In mezzo secolo, fra Beppe, veneto di Bonaldo di Zimella, ha visitato oltre 250 strutture penitenziarie, incontrando centinaia di detenuti. È capace anche di viaggiare per mille chilometri per un colloquio. “Perché in cella voglio incontrare l’uomo, non il delinquente. Metto da parte la colpa per parlare al cuore, cercando in ogni uomo il volto di Cristo”. La vocazione di fra Beppe Prioli è nata a vent’anni, nel 1963, dopo la lettura di un articolo di Famiglia Cristiana che raccontava la vicenda di un giovane, Livio, condannato all’ergastolo. Quel fatto lo colpì a tal punto che, quasi per reazione, maturò la decisione di farsi frate e di dedicarsi ai carcerati. “Quel ragazzo - ricorda fra Beppe - aveva la mia stessa età, vent’anni, e la sua vita era già stata del tutto decisa: fine pena mai. Non potevo pensare che per lui non c’era più niente da fare. Così, pochi mesi dopo sono andato a trovarlo a Porto Azzurro”. Da allora e sono passati cinquant’anni, fra Beppe non ha più smesso, girando tutta Italia per colloqui e visite ai carcerati. Lo spirito che lo muove è quello di San Francesco, che accolse lebbrosi e briganti e ammansì il lupo di Gubbio riconciliandolo con la popolazione del piccolo paese umbro. “Oggi in Italia la lebbra non c’è più ma ci sono ancora i lebbrosi”, sottolinea il battagliero frate, che si batte per far rientrare le carceri a pieno titolo nel consesso sociale. “Un tempo - ricorda - i penitenziari erano dentro le città, tra le case della gente. Oggi, invece, le nuove strutture sono costruite fuori, nelle periferie desolate e abbandonate, dove non c’è nulla se non il disagio di vivere in condizioni al limite dell’umano, in celle troppo piccole e sovraffollate. Qui sono rinchiusi i nuovi lebbrosi, uomini e donne ai quali la nostra società vuole togliere anche la visibilità. Ma il carcere ci appartiene perché, appunto, fa parte della società”. Una posizione certamente minoritaria rispetto a un discorso pubblico, della politica ma anche dei media, che invece chiede sempre più spesso “pene esemplari”. Chi la pensa così, secondo fra Beppe, “dovrebbe prima conoscere che cosa è il carcere”, poi, probabilmente, “cambierebbe idea”. Anche per diffondere questo sguardo nuovo sulla colpa e sulla pena, il francescano 45 anni fa ha fondato a Verona, dove vive nel convento San Bernardino, l’associazione “La fraternità”, che si occupa dei carcerati, delle loro famiglie ma anche delle famiglie delle vittime di chi ha commesso reati e per questo si trova dietro le sbarre. “È giusto che chi ha sbagliato paghi per ciò che ha fatto e per il dolore che ha causato - dice chiaramente il religioso -. Questo, però, non significa togliere la speranza ai detenuti, come invece fa la pena dell’ergastolo, che ferma il male ma certamente non lo cura. Un uomo che non ha speranza non è recuperabile alla società. Noi, soprattutto come cristiani, dobbiamo invece dare speranza, sapendo accogliere chi ha sbagliato. Tutti i giorni chiedo a Dio la forza di andare incontro, di saper accogliere i carcerati che vado a visitare, cercando di vivere in pienezza il Vangelo della carità”. Giustizia: Pannella; fare tesoro esperienza Radicali, nel 1976 la mia prima visita in carcere Ansa, 14 marzo 2013 “Offriremo la possibilità ai parlamentari neoeletti di far tesoro della nostra esperienza, di esercitare una loro facoltà, un loro potere. E non ci vorrà molto prima che se ne accorgano”: così il leader dei Radicali Marco Pannella al termine di una visita di oltre quattro ore al carcere romano di Rebibbia. Pannella è stato accompagnato dall’ex deputata Rita Bernardini e dai consiglieri uscenti della Regione Lazio Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo. Questa di oggi è l’ultima visita ispettiva compiuta dai Radicali, visto che tra i neoeletti nel Parlamento italiano non ci sono loro esponenti. “La prima visita in carcere da deputato fu un mese dopo essere stato eletto. Era il 1976 - ha ricordato Pannella. Dopo due mesi andai nel carcere di Firenze insieme a Emma Bonino e Mauro Mellini. Ci eravamo chiusi dentro perché i carcerati non avevano le coperte che per regolamento dovevano avere. Non uscimmo finché non arrivarono le coperte”. Durante il suo tour, secondo quanto riferiscono, Pannella è stato applaudito più volte dai detenuti. Grillini capiranno come fare i Radicali “Le carceri sono le catacombe di un Cesare, di uno Stato. In Italia sono una vergogna, un orrore denunciato dalla giurisdizione europea. Vorrei dire però che, in un futuro o presente prossimo, questo lo capiranno forse i grillini che stanno lì e scopriranno come si può fare i radicali, i non violenti. Costruire un futuro diverso già nel presente che è quello delle carceri. Così il leader dei radicali Marco Pannella prima di entrare nel carcere romano di Rebibbia. Giustizia: Rita Bernardini; da domani sarò ancora più agguerrita sul tema delle carceri di Carlotta Sabatino Clandestinoweb, 14 marzo 2013 Nel suo ultimo giorno da deputata l’On. dei Radicali Rita Bernardini ha rilasciato un’intervista alla redazione di Clandestinoweb in cui spiega come porterà avanti le sue battaglie quando non sarà più in Parlamento e dare un’ultima fotografia delle carceri italiane dopo le visite negli istituti siciliani, calabresi e a Roma a Rebibbia. In questi giorni ha svolto le ultime visite nelle carceri da parlamentare, in Calabria, Sicilia e a Roma Rebibbia dove era in compagnia di Marco Pannella. Com’è la situazione? Purtroppo quando si parla di carceri italiane bisogna fare una classifica con una gradazione al peggio o al meno peggio. Ossia andiamo a classificare dove i diritti umani sono violati in maniera maggiore o minore. Ma sempre violati vengono. Nonostante la dedizione e la buona volontà del personale delle carceri ad iniziare dai direttori. Nelle ultime carceri che abbiamo visitato, come nella maggioranza d’Italia c’è il problema del sovraffollamento. Ma al sud Italia ed in Sicilia in particolar modo c’è la problematica dei detenuti sfollati dalle carceri del Nord Italia. Questa è una violazione gravissima dei diritti, perché i detenuti vengono allontanati in modo sostanzioso dalle loro famiglie, che a volte non vedono per anni. Tra le altre cose questa è una cosa vietata dall’Ordinamento Penitenziario. La cosiddetta “Carta dei diritti e doveri dei detenuti” di cui il Ministro Severino ha parlato un pò di tempo fa non esiste ancora. Nelle carceri non la hanno, al loro ingresso in istituto i detenuti non ricevono proprio nulla. Anche perché se fossero a conoscenza dei loro diritti, insorgerebbero senza dubbio, perché vengono violati. Ad esempio a Rebibbia abbiamo trovato un giovane romeno condannato a sei mesi, che era da una settimana nel reparto nuovo giunti, senza un centesimo per telefonare e senza la possibilità di chiamare un avvocato. Forse nel penitenziario di Augusta in Sicilia, essendo proprio una casa di detenzione, si sta un pò meglio, i detenuti hanno un lavoro e si tengono occupati. Lei non è stata rieletta nell’ultima tornata elettorale, come continuerà il suo impegno non essendo più parlamentare? Continuerò a fare e farò più di prima. Sicuramente dovrò superare più ostacoli ma assolutamente non mi fermerò. Il mio impegno sulla giustizia e sulle carceri continuerà indefesso. Come ha già accennato Marco Pannella vogliamo lanciare l’associazione “Amnistia, Giustizia e Libertà” a cui ci si può iscrivere con 10 euro all’anno e in cui speriamo di raccogliere tutti i detenuti, le loro famiglie, i lavoratori del sistema carcerario, ma anche cittadini. Speriamo di avere tutte le persone che hanno votato la lista alle ultime elezioni. Un’altra delle sue battaglie è quella sull’uso terapeutico della marijuana, questa la continuerà? Assolutamente ho intenzione di continuare a lottare con azioni di disobbedienza civile, ad esempio. Giustizia: caso Cucchi; il processo prosegue ed emergono dubbi sulle cause della morte Il Messaggero, 14 marzo 2013 La famiglia di Stefano Cucchi non crede che la sua morte sia stata provocata dalla malnutrizione, come è stato invece sostenuto dai periti incaricati dal tribunale di Roma di fare luce sulle cause del decesso del giovane geometra nell’ottobre 2011, una settimana dopo il suo arresto per il possesso di un modica quantità di droga. Lo ha spiegato ieri in aula il dottor Gaetano Thiene, ordinario di Patologia cardiovascolare a Padova e perito di parte civile al processo contro i sanitari dell’ospedale Sandro Pertini e contro tre agenti penitenziari: “C’è confusione in quella perizia - ha sostenuto Thiene - dicono che l’inanizione ha portato alla morte Stefano, ma la sua è stata una morte improvvisa, inaspettata, avvenuta nel sonno”. Nel corso dell’udienza i legali di parte civile Alessandro Gamberini e Fabio Anselmo hanno inoltre sostenuto che il senatore Ignazio Marino, al quale avevano chiesto di svolgere le funzioni di perito di parte, non accettò l’incarico a causa delle pressioni della procura. Il pm Francesca Loy, negando fermamente l’episodio, ha con forza chiesto ai legali di parte civile di provare quanto detto che “poteva assumere carattere di calunnia”. La Corte d’Appello ha disposto la trasmissione di copia del verbale al Procuratore della Repubblica per quanto di sua competenza. Giustizia: Pietro Maso torna libero dopo 22 anni di carcere, nel 1991 uccise i genitori Ansa, 14 marzo 2013 Pietro Maso tornerà libero il prossimo 15 aprile dopo aver scontato 22 anni di carcere. L’ex “ragazzo della Verona bene”, che nel 1991, a 20 anni, uccise i genitori per impossessarsi dell’eredità, era stato condannato a 30 anni e 2 mesi, poi “ridotti” dall’indulto e dalla liberazione anticipata. Maso, nato il 17 luglio 1971, e che oggi ha quasi 42 anni, il 17 aprile 1991 uccise i genitori, i coniugi Antonio Maso e Maria Rosa Tessari, 52 e 48 anni, nella loro casa di Montecchia di Crosara in provincia di Verona, in combutta con tre suoi amici. Maso, detenuto dal 19 aprile 1991, quando finì in carcere due giorni dopo l’omicidio, venne condannato nel 1992 a 30 anni e 2 mesi di reclusione per omicidio aggravato e si trova nel carcere milanese di Opera, da dove uscirà per la fine della pena detentiva il prossimo 15 aprile. Dal 9 ottobre 2008 l’uomo, che nel frattempo si è anche sposato, è in regime di semilibertà, ossia durante il giorno lavora come addetto alle pulizie al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e torna a dormire in carcere. Nell’aprile 2011 era stata proposta la revoca del beneficio della semilibertà, ma poi il Tribunale di Sorveglianza di Milano aveva rigettato l’istanza della Procura generale. In seguito, nel febbraio 2012, lo stesso Maso aveva chiesto di uscire dal carcere commutando la pena in detenzione domiciliare, richiesta bocciata dai giudici di Sorveglianza. E nei mesi scorsi, infine, era stato lui stesso a rinunciare all’ affidamento in prova ai servizi sociali. Alla condanna a 30 e 2 mesi vanno sottratti i 3 anni di indulto e 1800 giorni di liberazione anticipata. Così la pena scade il 15 aprile dopo quasi 22 anni (esattamente 22 anni meno quattro giorni) di carcere. Quanto si deve “pagare” se si sono ammazzati con ferocia i genitori? Quanto si deve “pagare” se si sono ammazzati con ferocia i genitori, per prendersi il loro denaro? 22 anni di carcere, meno 4 giorni. È il tempo che Pietro Maso, prototipo del figlio-killer per antonomasia, ha trascorso dietro le sbarre. Dal 15 aprile prossimo Maso, oggi 42enne, lascerà il penitenziario di Opera a Milano e tornerà uomo libero. Per il delitto del padre e della madre, Antonio Maso e Rosa Tessari, 52 e 48 anni, compiuto il 17 aprile 1991 a Montecchia di Crosara (Verona) con la complicità di tre amici, l’ex ragazzo della Verona bene si era visto infliggere nel 1994 in Cassazione 30 e 2 mesi di reclusione. A questo carico sono stati sottratti i 3 anni di indulto e 1800 giorni di liberazione anticipata. Così il conto di Pietro con la giustizia si chiuderà il 15 aprile 2013, dopo 22 anni (meno 4 giorni) di carcere. In quel lontano 1991, un’Italia molto diversa da quella odierna, il delitto da “Arancia meccanica” dei coniugi di Montecchia aveva trasformato il 19enne Pietro Maso nell’icona di una generazione senza valori: il figlio di una società che, anche in periferia, aveva perso la voglia di far fatica e voleva solo i soldi, non importava in quale maniera. Nulla dopo Maso sarebbe più stato uguale nell’approccio ai casi di cronaca efferata. Alle sbrigative motivazioni di pazzia, spesso appiccicate ai protagonisti dei delitti, si sarebbe aggiunta l’analisi sul contesto sociale degli omicidi, sulla mancanza di valori che può far deflagrare la violenza. La sera del 17 aprile 1991 Antonio e Rosa stavano rientrando nella loro villetta dopo aver partecipato ad un incontro di preghiera in parrocchia. Nel buio dell’ingresso, camuffati con maschere da Carnevale, armati con un bloccasterzo e delle padelle, li aspettavano il figlio Pietro e tre suoi amici, Giorgio Carbognin, Paolo Cavazza all’epoca 19enni, e Damiano B., allora 17enne. Fu un massacro. Il gruppetto agì senza alcuna pietà. I due coniugi vennero lasciati a terra in una pozza di sangue. Poi i quattro assassini andarono in discoteca, a finire la serata. Fu Pietro a recarsi più tardi dai carabinieri, raccontando d’aver trovato i genitori uccisi. Ma gli investigatori si insospettirono subito: il giovane era pronto a collaborare, ma appariva freddo e distaccato rispetto alla tragedia. L’ipotesi di una rapina finita male fu presto abbandonata. Tre giorni di interrogatori e Pietro e suoi amici crollarono. Togliendo di mezzo i genitori, si appurò poi, Maso voleva impossessarsi subito dell’eredità così da continuare lo stile agiato di vita che aveva sempre sostenuto. Il piano diabolico prevedeva anche l’eliminazione delle due sorelle del giovane. Dopo la condanna in Cassazione, Maso scrisse una prima lettera di pentimento. Poi i lunghi anni della detenzione, ma con le cronache sempre attente a cosa succedeva a Maso. Nel 2008 l’ex giovane della Verona bene si sposò e in quell’anno ottenne tra le polemiche anche la semilibertà, che gli consentì da allora di lavorare di giorno fuori dal carcere. Beneficio che rischiò di perdere nell’aprile 2011, per una frase, ‘io ti ammazzò nei confronti di un uomo a cui aveva prestato del denaro che però ha sempre negato di aver pronunciato. Il Tribunale di Sorveglianza gli confermò così la semilibertà, ma un anno dopo il giudice di sorveglianza bocciò la sua richiesta di uscire dal carcere commutando la pena in detenzione domiciliare. Ora il conto con la giustizia dei Tribunali Pietro lo ha saldato. A Montecchia, dove la villetta dell’orrore è stata venduta da tempo, nessuno lo aspetta. “Non è più nostro cittadino - dice il sindaco, Edoardo Pallaro. Il paese ha voltato pagina. In tutti i sensi”. Giustizia: Pietro Maso; esce il libro-confessione “Il male ero io”, edito da Mondadori Ansa, 14 marzo 2013 “Sono in piedi accanto ai loro corpi. Morti. Sono in piedi ma non ho percezione di me. Una linfa gelata mi è entrata dentro, nelle vene, nelle ossa, nel cervello”. Il 17 aprile del 1991 Pietro Maso uccide i genitori a Montecchia di Crosara (Verona) con l’aiuto di altri tre ragazzi. Per il delitto viene condannato a 30 anni, che con l’indulto e gli sconti di pena per buona condotta sono diventati 22. Il 15 aprile 2013 sarà un uomo definitivamente libero, il giorno dopo arriverà in libreria il libro-confessione “Il male ero io” (Mondadori). Nel volume, Maso parla del sogno della “bella vita”, della notte del massacro, degli anni trascorsi in carcere, della sua conversione religiosa, del lungo e travagliato percorso intimo, fatto di pentimento, di preghiera, di perdono. Una testimonianza potentissima, scioccante, che mette il lettore faccia a faccia con il Male, con la sua logica folle e agghiacciante. Ma che indica anche una via possibile di redenzione e riscatto. “Vado in bagno. Devo lavarmi”, continua il racconto di Maso che toglie il fiato per la lucido ricordo dell’orrore. “Apro a manetta l’acqua calda, tengo la testa bassa. Fisso le macchie sul dorso delle mani. È sangue. È il sangue di mio padre. È il sangue di mia madre. Ci è schizzato sopra, sulle dita. Ma io lo vedo allargarsi sulla pelle, dappertutto. Schiaccio sul dosatore del sapone. Schiaccio, ne voglio tanto. Devo lavarmi bene. Lavo e lavo e lavo ancora. Non so quanto dura: attimi, minuti, mesi, anni. Alzo gli occhi, punto lo specchio. Mi vedo. Mi vedo. È la mia faccia. E non è la mia faccia. Sono io. E non sono io. Giorgio mi spunta alle spalle. A bruciapelo gli chiedo: Guardami, guardami bene: sono diverso?”. Giorgio non capisce: “Che...? In che senso diverso? Sei tu. Chi cazzo vuoi essere?”. “Mi vedo cambiato... Non so... Sembro più vecchio” Il male aveva accelerato improvvisamente la mia vita. Emilia Romagna: Sappe; in un anno 101 tentati suicidi nelle carceri, 12 alla Dozza Dire, 14 marzo 2013 Suicidi, tentati suicidi, aggressioni ad agenti di Polizia penitenziaria, danneggiamenti di celle e strutture ma anche manifestazioni dei detenuti per chiedere l’indulto o protestare per le condizioni di vita dietro le sbarre. È una fotografia tutt’altro che rassicurante quella fatta alle carceri dell’Emilia-Romagna attraverso i dati dei cosiddetti “eventi critici”, diffusi oggi in una nota dal segretario aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante. Nel corso del 2012, nelle carceri regionali, ci sono stati 101 tentativi di suicidio sventati dalla Polizia penitenziaria e 628 sono stati gli atti di autolesionismo da parte dei detenuti (ce ne sono stati di più solo in Toscana e Lazio). Tre il numero dei suicidi (uno a Modena, uno a Bologna e uno a Parma) e otto, invece, i decessi per cause naturali. Ma da Piacenza a Rimini si contano anche molti episodi di ferimenti e colluttazioni con gli agenti di Polizia penitenziaria: i ferimenti sono stati 81 (più della metà dei quali, 46, sono avvenuti nel carcere della Dozza di Bologna) e 273 le colluttazioni (100 a Bologna). Ci sono poi stati 60 episodi di danneggiamento a beni dell’amministrazione e 628 scioperi della fame. Ancora più numerose le manifestazioni: 8.934 quelle di protesta collettiva a favore o contro misure legislative (indulto, amnistia, disegni di legge vari), altre 2.061 quelle per le condizioni di vita all’interno delle carceri. In regione, il maggior numero di tentati suicidi arriva dal carcere di Piacenza, dove sono stati 15. Al secondo posto c’è Bologna, con 12 tentativi, e poi Modena, dove sono stati otto; a seguire, ci sono la casa circondariale di Reggio Emilia e quella di Ferrara (cinque), l’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia e Rimini (quattro), Parma (tre) e Forlì (uno). Dei 628 atti di autolesionismo, 34 sono stati Bologna, 20 a Piacenza, 15 a Modena, 16 a Rimini, 10 a Ferrara, nove alla casa circondariale di Reggio Emilia, otto all’Opg (sempre a Reggio), sette a Ravenna e Forlì, uno a Castelfranco. Il dato degli episodi di autolesionismo è uno di quelli a cui il Sappe guarda con più preoccupazione: l’Emilia-Romagna è infatti da meno solo rispetto a Toscana (dove sono stati 1.236) e al Lazio (668). Ma il totale dei detenuti, in Lazio (come anche in Sicilia, Lombardia o Piemonte) è molto più alto. “Tutti questi eventi non fanno che aggravare il già difficilissimo compito della Polizia penitenziaria che ormai da anni lavora con molti agenti in meno rispetto a quelli che dovrebbe avere”, sottolinea Durante, ricordando che in Emilia-Romagna mancano più di 650 agenti (7.500 la carenza a livello nazionale). E i numeri delle assenza sono destinati a crescere: “Nei prossimi due anni, a causa dei tagli alle assunzioni, potremo assumere solo il 37% del numero complessivo di agenti che andranno in pensione”, ricorda Durante. A livello nazionale, invece, gli atti di autolesionismo sono stati 7.317, i tentativi di suicidio 1.308, i suicidi 56, i decessi per cause naturali 97. Iglesias (Ca): la Procura apre inchiesta, indagati il Direttore e il Comandante della PolPen Agi, 14 marzo 2013 C’è un’inchiesta sul carcere di Iglesias. La procura di Cagliari ha aperto un fascicolo per fare luce su alcuni episodi che sarebbero stati gestiti in maniera irrituale e ora finiti al vaglio degli inquirenti. Con l’accusa di abuso d’ufficio, è indagato il direttore dell’istituto penitenziario Marco Porcu (che regge anche quelli di Lanusei e Isili) che nel settembre 2012 avrebbe disposto una perquisizione alla ricerca di droga, nell’ufficio ragioneria della prigione senza informare gli interessati, né redigere il verbale e senza informare le autorità competenti. È indagato anche la responsabilità delle guardie carcerarie. Porcu - difeso dall’avvocato Massimiliano Ravenna - sentito martedì scorso dagli inquirenti, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Per lo stesso fatto è indagato anche il comandante della polizia penitenziaria, Gesuela Pullara - difesa dall’avvocato Guido Manca Bitti - che avrebbe eseguito la perquisizione. A Pullara vengono contestati però anche i reati di omessa denuncia e rifiuto d’atti d’ufficio per non aver segnalato alle autorità competenti né preso provvedimenti contro le violazioni compiute da alcuni detenuti, uno dei quali avrebbe minacciato il personale del carcere. Nell’indagine, affidata al pm Marco Cocco, ci sarebbero altri indagati. Chieti: nell’ex Rsa di Ripa Teatina nasce struttura specializzata per detenuti psichiatrici Il Centro, 14 marzo 2013 Sorgerà a Ripa Teatina la nuova struttura finanziata dalla Regione Abruzzo per accogliere i soggetti sottoposti a ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario. Si tratta di una casa di cura e custodia dotata di 20 posti letto, presentata questa mattina nel corso di una conferenza stampa alla quale hanno preso parte il Direttore Generale della Asl Lanciano Vasto Chieti, Francesco Zavattaro, l’assessore regionale alla Prevenzione collettiva Luigi De Fanis, il Direttore del Dipartimento Salute mentale della Asl, Nicola Carlesi, e il sindaco di Ripa Ignazio Rucci. La struttura, di tipo residenziale, è finalizzata a superare il modello di ospedale psichiatrico giudiziario, e a dare un’assistenza diversa ai malati psichiatrici che hanno commesso reati e si trovano in regime di detenzione. Sarà realizzata utilizzando il corpo di fabbrica parzialmente costruito e inizialmente destinato ad accogliere una Rsa, mai portata a termine per via di una complessa vicenda burocratica che ne ha bloccato il completamento. Per l’opera sono stati stanziati 4 milioni di euro, destinati alla Asl Lanciano Vasto Chieti in qualità di soggetto attuatore dell’intervento. La struttura, che accoglierà i pazienti di Abruzzo e Molise, è coerente con le disposizioni normative che intendono attuare il definitivo superamento degli ospedali psichiatrico-giudiziari, anche attraverso edifici rispondenti a requisiti strutturali, tecnologici e di sicurezza, definiti dai Ministeri della Salute e della Giustizia d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni. Tocca alla Asl, ora, rimettere alla Regione uno studio di fattibilità contenente l’ubicazione e le caratteristiche urbanistiche e infrastrutturali dell’area, la descrizione dei posti letto e la valutazione delle risorse umane necessarie alla funzionalità dei servizi. La gestione della struttura, infatti, sarà a totale carico della Asl, che potrà assumere personale qualificato da destinare ai percorsi terapeutico-riabilitativi finalizzati al recupero dei pazienti internati. Nel corso della conferenza stampa è stato ribadito che non sarà realizzato un nuovo manicomio criminale, perché la sfida è costruire per questi pazienti un percorso di riabilitazione che possa recuperarli e contribuire al loro reinserimento sociale. Con la realizzazione della casa di cura per detenuti psichiatrici sarà definitivamente archiviata la grande incompiuta della Rsa, la cui storia più recente risale al 2005, quando fu appaltata per 793 mila euro alla ditta Edilimpianti, che avrebbe dovuto concludere il primo lotto, con la realizzazione dei primi 20 posti letto, un anno dopo, a fine giugno del 2006. Ma l’opera collezionò fin dall’inizio inadempienze e ritardi, tanto che fu accordata una proroga di un anno sulla riconsegna dei lavori, mai avvenuta perché in quello stesso periodo l’impresa fu dichiarata fallita. Teramo: reparto ospedaliero per i detenuti pieno, carcerato occupa stanza dei poliziotti www.primadanoi.it, 14 marzo 2013 Detenuto con gravi patologie sanitarie sistemato in una stanza (senza sbarre) destinata agli agenti penitenziari, rimasti persino senza il bagno. Anche questa è la conseguenza del sovraffollamento delle carceri e di una situazione che per gli agenti diventa ogni giorno sempre più difficile da gestire e sopportare. La denuncia arriva dal segretario provinciale del Sappe, Giuseppe Pallini che racconta l’arrivo, ieri, del nuovo carcerato. Il reparto destinato ai detenuti nell’ospedale civile di Teramo conta appena 2 letti e ieri erano entrambi occupati. La sistemazione di fortuna è stata trovata, spiega il responsabile del sindacato di polizia, negli spazi che sono riservati agli agenti “per evitare che il detenuto venisse spedito in un altro ospedale della provincia, a circa 30 km dall’istituto. Inoltre la patologia di cui è affetto ha sconsigliato la sistemazione insieme ad altri detenuti degenti del reparto detentivo”. Così è stato collocato all’interno di una stanza del Reparto detentivo dell’ospedale in uso al personale, senza sbarre alla porta d’ingresso e della finestra. Il personale impiegato, oltre ad essere stato privato dell’uso del bagno si trova ad operare senza alcuna sicurezza. “È evidente che quanto sta accadendo”, denuncia Pallini, “va a calpestare qualsiasi elemento di dignità professionale, ma colpisce anche il lato umano di tutto il personale che apprendendo tali notizie si ritrova ancor più scoraggiato ed abbandonato a se stesso, demotivato, con il rischio che si venga a creare un disagio psicologico che potrebbe ripercuotersi oltre che individualmente, anche in un contesto familiare ed affettivo”. Il Sappe chiede un intervento “serio e deciso, a tutti i livelli, affinché si ponga fine al verificarsi di simili inconvenienti e perché, l’istituto teramano non diventi la discarica di essere umani del Provveditorato”. Messina: Sappe; scoperto telefono cellulare… era in una culla nella Sezione femminile Agi, 14 marzo 2013 “Nel carcere di Messina, durante il controllo di un pacco al settore colloqui, grazie alla meticolosa attività lavorativa dei poliziotti penitenziari è stata rinvenuta una SIM normalmente utilizzata per la telefonia mobile. Quasi immediatamente, grazie alla professionalità della Polizia Penitenziaria di Messina, è scattata una brillante operazione di perquisizione straordinaria al reparto femminile che consentiva il ritrovamento di un telefono cellulare al settore nido, abilmente occultato all’interno di una culla. Quanto avvenuto ci impone di tornare a chiedere al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria interventi concreti. Come, ad esempio, la dotazione ai Reparti di Polizia Penitenziaria di adeguata strumentazione tecnologica per contrastare l’indebito uso di telefoni cellulari o altra strumentazione elettronica da parte dei detenuti nei penitenziari italiani. Non a caso, in più occasioni il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, ha richiamato l’attenzione delle Autorità dipartimentali in ordine ad alcune situazioni che con una certa frequenza interessano gli Istituti penitenziari ed in particolare sull’indebito uso di telefoni cellulari e altra strumentazione elettronica da parte dei detenuti per le comunicazioni con l’esterno. Mi auguro che dopo il ritrovamento del telefono cellulare all’interno di una cella della Sezione femminile del carcere di Messina (addirittura occultato nella culla di un bimbo detenuto con la madre si faccia concretamente qualcosa per contrastare questo grave fenomeno”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria. “Sulla questione relativa all’utilizzo abusivo di telefoni cellulari e di altra strumentazione tecnologica che può permettere comunicazioni non consentite”, prosegue il Sappe, “è ormai indifferibile adottare tutti quegli interventi che mettano in grado la Polizia Penitenziaria di contrastare la rapida innovazione tecnologica e la continua miniaturizzazione degli apparecchi che risultano sempre meno rilevabili con i normali strumenti di controllo. A nostro avviso appaiono pertanto indispensabili interventi immediati compresa la possibilità di “schermare” gli istituti penitenziari al fine di neutralizzare la possibilità di utilizzo di qualsiasi mezzo di comunicazione non consentito e quella di dotare tutti i reparti di Polizia Penitenziaria di appositi rilevatori di telefoni cellulari per ristabilire serenità lavorativa ed efficienza istituzionale, anche attraverso adeguati ed urgenti stanziamenti finanziari. Roma: da deputati e senatori donazioni di libri alla biblioteca del carcere di Rebibbia 9Colonne, 14 marzo 2013 “Lo scorso dicembre ero in visita al carcere di Rebibbia. Dopo aver incontrato i detenuti, ho conosciuto un gruppo di giovani studenti universitari che si occupano di catalogare, secondo criteri scientifici, i libri che arrivano in carcere svolgendo un lavoro di consulenza nei confronti di chi chiede un consiglio o un suggerimento sui libri da leggere. C’è bisogno di titoli di ogni genere, leggere fa bene e i detenuti ne hanno bisogno. Da qui è nata l’idea di coinvolgere i colleghi nell’iniziativa “Dona un libro al carcere”. A fine legislatura sono tanti i parlamentari che lasciano gli uffici e, anche chi continua la propria attività politica, deve traslocare in un’altra sede. In questo clima molti di noi lasciano libri e saggi che spesso non hanno una destinazione chiara e a volte vengono addirittura cestinati. Donare i libri al carcere è stato così un pensiero naturale, per aiutare, per rendere la vita dei detenuti - troppo spesso soli e privi di stimoli - più ricca e interessante. L’iniziativa è stata accolta con entusiasmo da colleghi di camera e senato. Domani la Biblioteca Papillon del carcere di Rebibbia si arricchirà di centinaia di titoli destinati a rendere meno grigie le giornate di chi sta scontando la propria pena”. Lo afferma soddisfatta in una nota Paola Binetti. Pescara: la poesia esce dalle carceri… votate sul web quella più bella Il Centro, 14 marzo 2013 La scrittura e la poesia entrano in carcere e, grazie a Internet, superano le barriere fisiche. Un’opportunità offerta ai detenuti dei penitenziari abruzzesi dal Premio nazionale di poesia “Alda Merini - A tutte le donne”. Il Premio, alla sua prima edizione, è stato organizzato dall’associazione Donna Cultura di Spoltore, guidata da Veruska Caprarese, e patrocinato dal Comune di Pescara e dalla commissione Pari Opportunità. L’associazione al femminile di Spoltore ha voluto riservare una sezione del Premio ai detenuti delle case circondariali abruzzesi. “In volo per la libertà”, questo il nome della sezione, chiama in causa anche i lettori, con un premio assegnato dalla giuria popolare. I lavori, pubblicati sulla pagina Facebook del Premio e sul nostro sito web (www.ilcentro.it) potranno essere votati attraverso il “mi piace” del social network. Il concorso, a tema libero, è articolato in tre sezioni. Oltre alla speciale riservata ai detenuti ci sono “Poesia singola edita o inedita” e “I piccoli aquiloni”, pensata per gli alunni delle classi quinte della elementare e delle medie di Pescara e provincia. La premiazione avverrà il 7 aprile a Pescara. Appuntamento all’Aurum a partire dalle ore 16. A presiedere la giuria, l’attore e regista Walter Nanni. Il Premio della Critica verrà assegnato dal giornalista Rai Nino Germano. Protagoniste assolute dell’incontro, le 40 poesie consegnate dai detenuti, che Veruska Caprarese ha incontrato insieme alla giornalista Federica D’Amato e all’attrice Franca Minnucci. A chiudere il laboratorio poetico, uno spettacolo di cabaret di Walter Nanni. Un altro laboratorio si è tenuto presso il carcere di Teramo, con la collaborazione dell’attrice Silvia Napoleone e del poeta Dante Quaglietta. Sono state consegnate circa 20 poesie. Libri: “Mantenersi al fresco, consigli utili per chi finisce in carcere”, di Salvo Fleres di Francesca Cuffari Live Sicilia, 14 marzo 2013 Presentato alla Libreria Mondadori il nuovo libro di Salvo Fleres “Mantenersi al fresco, consigli utili per chi finisce in carcere” edito dalla casa editrice catanese Inkwell Edizioni. È stato presentato nei locali della libreria Mondadori, ex cine-teatro Diana, il nuovo libro di Salvo Fleres, garante regionale per la tutela dei diritti fondamentale dei detenuti e per il loro reinserimento sociale: Mantenersi “al fresco”, consigli utili per chi finisce in carcere, edito dalla casa editrice catanese Inkwell Edizioni. Che idea abbiamo delle carceri? Le immaginiamo luoghi troppo spesso, ahimè, fatiscenti, in cui c’è una massiccia affluenza di italiani e stranieri. Attraverso questa pubblicazione, Salvo fleres, garante dei diritti dei detenuti della Regione siciliana, esperto in criminologia penitenziaria e con un passato da coordinatore nazionale dei garanti regionali dei detenuti offre ai lettori una guida sulla vita penitenziaria. Mantenersi “al fresco”, consigli utili per chi finisce in carcere narra un fenomeno sociale che desta attenzione e preoccupazione, in ragione dei numeri - 80.000 gli uomini e le donne che ogni anno varcano in Italia la soglia di una cella - e delle pessime condizioni di vita carceraria. “La tematica prescelta - spiega l’editore, Fonzie Brancato - unitamente alla qualità del prodotto librario redatto con coscienza da chi nel quotidiano si muove in prima linea, ha formato la mia volontà di condividere il progetto rendendolo fruibile ai lettori”. È una realtà problematica che peraltro coinvolge non solo i carcerati, destinatari delle misure afflittive ma anche le famiglie di questi ultimi. L’intento di Fleres, garante dei diritti dei detenuti, è quello di fornire una guida di “sopravvivenza” rivolta a tre tipologie di lettori. La prima coinvolge i detenuti che vivono il carcere e, sempre più spesso, senza alcuna colpa; si stima che siano circa 17.000 le persone innocenti attualmente recluse ingiustamente e che, tra l’altro, su 80.000 arresti annuali, 22.000 hanno la durata di soli 3 giorni, con un costo annuale di centinaia di migliaia di euro versati dagli italiani. Occorre quindi riflettere. Mantenersi “al fresco” - consigli utili per chi finisce in carcere - è poi rivolto a quanti svolgono nelle carceri il servizio di volontariato. Tralasciando i tecnicismi da manuale di diritto penitenziario, si ripercorrono le principali leggi che regolano la vita all’interno di queste strutture affinché il lettore possa sia partecipare attivamente e consapevolmente al dibattito in atto sui temi della sicurezza, sia anche esercitare un controllo sociale sulle prigioni, intendendo tale attività un dovere civico, al pari di quanto accade nelle democrazie evolute. Il libro si rivolge infine alle famiglie dei detenuti che vivono in uno stato “di libertà condizionata” e che devono sottostare a regole spesso molto rigide imposte dai regolamenti carcerari, per esempio in materia di orari di visita e di perquisizioni invasive, atti questi ultimi destinati ai parenti dei detenuti. “La stesura del libro - dichiara Fleres - ha richiesto molti anni di ricerche e di interviste somministrate non solo ai detenuti ma anche a chi lavora in carcere e alle famiglie dei carcerati. Il mio obiettivo - prosegue - è di mettere in luce le problematiche comuni alle carceri, sia da un punto di vista legislativo che organizzativo: sovraffollamento, decadenza delle strutture e carenza del personale, elementi che non possono passare inosservati”. Si intrecciano storie di detenuti privati delle cure mediche o delle attività di reinserimento sociale a quelle di quanti non hanno mai avuto il permesso di vedere le famiglie se non per qualche minuto. Il coefficiente di “afflittività” che scaturisce da inadeguate condizioni detentive è molto alto: non si dimentichi l’incidenza dei casi di depressione di uomini e donne che si procurano del male per attirare l’attenzione: dal 2000 ad oggi, in Italia, si contano centinaia di casi di suicidio. “Credo fortemente - insiste Fleres - nella necessità di una riforma penale e dell’esecuzione della pena e continuo nell’attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica affinché si adoperi con la consapevolezza e la conoscenza delle leggi e dei diritti umani”. Immigrazione: Radicali; negato da più di un mese accesso al Cie di Roma Ponte Galeria Notizie Radicali, 14 marzo 2013 Lunedì i Radicali con Marco Pannella si presenteranno davanti ai cancelli, con o senza preventiva autorizzazione. Giuseppe Rossodivita, Capogruppo dei Radicali al Consiglio regionale del Lazio attende da oltre un mese l’accesso al Cie di Ponte Galeria - Roma. Presentata interrogazione parlamentare urgente al ministero degli interni. Lo scorso 8 febbraio il Capogruppo uscente dei Radicali al Consiglio Regionale del Lazio, Avv. Giuseppe Rossodivita ha fatto una formale richiesta alla Prefettura di Roma per poter accedere al Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria a Roma per una visita sulle condizioni dei detenuti e della struttura. Non avendo ricevuto alcuna risposta il 18 febbraio è stata risollecitata la richiesta alla quale è stato risposto che a causa di gravi incidenti (“atti vandalici”) avvenuti all’interno del Cie avrebbero fatto pervenire una risposta in tempi brevi. A tutt’oggi non è pervenuta alcuna comunicazione che autorizzi l’accesso. Sulla vicenda è stata presentata oggi una interrogazione parlamentare urgente al Ministero degli Interni, prima firmataria la deputata Radicale Rita Bernardini. Lunedì 18 marzo alle ore 11,30 una delegazione di Radicali, guidata da Marco Pannella, con l’Avv. Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo, Consiglieri Regionali uscenti e Sergio Rovasio, Consigliere Generale del Partito Radicale, si recherà comunque al CIE di Ponte Galeria. Di questa decisione ne è stata data comunicazione alla Prefettura di Roma (Area IV Quater) tramite comunicazione ufficiale via telegramma e via e-mail. India: caso marò; la Corte Suprema blocca nel Paese il nostro ambasciatore Ansa, 14 marzo 2013 Si complica la vicenda dei due marò italiani accusati in India di duplice omicidio e non riconsegnati alle autorità indiane. La Corte Suprema indiana ha inviato una comunicazione all’ambasciatore d’Italia Daniele Mancini in merito alla vicenda dei marò, chiedendogli di “non lasciare il Paese”. L’ambasciatore d’Italia Daniele Mancini “non può lasciare l’India senza l’autorizzazione della Corte Suprema prima dell’udienza fissata dalla stessa per il 19 marzo” ha spiegato l’avvocato Dilijeet Titus, responsabile dello studio legale che assiste i marò. Sembra tuttavia che la Corte Suprema abbia chiesto all’ambasciatore italiano di fornire una spiegazione al tribunale sul caso entro il 18 marzo. Lo riferisce una tv indiana. I giudici hanno fissato per il giorno dopo un’udienza per esaminare la vicenda. Il ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid ha dichiarato che una decisione sugli sviluppi della vicenda dei marò italiani “sarà presa dalla Corte Suprema in collaborazione con il governo centrale”. Il governo, ha precisato, “sta seguendo la situazione in collaborazione con la Procura generale della Repubblica”. In dichiarazioni ai giornalisti, Khurshid ha infine detto che “la cosa più importante è salvaguardare la dignità ed i sentimenti dell’India”. La Russa (Fli): li volevamo candidare, poi le alte sfere ci hanno sconsigliato “Volevamo candidare i marò, ma sconsigliati da altissime sfere abbiamo desistito per evitare strumentalizzazioni”. Lo dice Ignazio La Russa, cofondatore insieme a Giorgia Meloni e Guido Crosetto, durante una conferenza stampa a margine dei lavori dell’assemblea nazionale di Fratelli d’Italia in corso al centro congressi Roma Eventi di via Alibert. La Farnesina ha comunicato l’11 marzo la decisione (presa unilateralmente dall’Italia) per la quale i due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, detenuti in India da 9 mesi con l’accusa di aver ucciso due pescatori indiani, non avrebbero fatto rientro in India alla scadenza del permesso loro concesso - dalla Corte suprema indiana - per votare. India: e in una cella indiana Elisabetta e Tomaso ora temono ritorsioni La Stampa, 14 marzo 2013 Pessimismo e preoccupazione. Sono l’altra conseguenza del braccio di ferro ingaggiato dal ministero degli Esteri con le autorità indiane sul caso dei due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Per scoprire questi due sentimenti basta parlare coi familiari di Tomaso Bruno, il trentenne di Albenga, in provincia di Savona, rinchiuso dal febbraio 2010 nel carcere indiano di Varanasi insieme all’amica torinese Elisabetta Boncompagni con l’accusa di avere ucciso Francesco Montis, loro compagno di stanza all’hotel Buddha nella città sacra dell’induismo. In primo e secondo grado, i giudici del paese asiatico hanno condannato i due turisti italiani all’ergastolo, rigettando la richiesta di condanna a morte presentata dal pubblico ministero. Bruno e Boncompagni sostengono di essere innocenti e hanno portato a loro difesa un voluminoso fascicolo di prove e incongruenze nel teorema accusatorio, chiedendo a più riprese di essere sottoposti a un processo “giusto”. A settembre è previsto l’ultimo processo davanti alla corte suprema di New Delhi (equivalente alla corte di Cassazione italiana), ma la decisione di trattenere in Italia i due fucilieri potrebbe pesare come un macigno sulla sentenza. “Siamo preoccupatissimi. Ho scritto al ministro degli Esteri Giulio Terzi, perché questa decisione rischia di avere conseguenze imprevedibili sulla loro sorte”, dice Marina Maurizio, madre di Tomaso. “Preferisco non commentare la vicenda dei marò, perché andrei oltre i limiti che mi sono consentiti in questo momento delicato. Prima voglio parlare con mio figlio e con l’ambasciatore, poi valuteremo cosa fare”, le fa eco il marito Luigi “Euro” Bruno. Sabato, i coniugi Bruno partiranno per l’India con Romano Boncompagni, padre di Elisabetta. “Lunedì prossimo incontreremo i nostri avvocati e l’ambasciatore italiano a New Delhi, al quale chiederemo delucidazioni. Tomaso ci aspetta, come ci ha scritto domenica scorsa nella lettera che ci invia ogni settimana”, spiega Bruno. Se i due fucilieri resteranno in Italia, ai detenuti Bruno e Boncompagni invece è addirittura precluso l’uso del telefono. “Purtroppo anche questa situazione non si è mai sbloccata, nonostante il costante interessamento dell’ambasciata per ottenere il rispetto dell’accordo internazionale che consente ai detenuti stranieri di avere contatti telefonici col paese d’origine”, scuote la testa il padre di Tomaso. Norvegia: una prigione senza sbarre… per la recidiva più bassa in Europa di Erwin James Panorama, 14 marzo 2013 Una prigione senza sbarre, in cui i detenuti godono di molte libertà. È in Norvegia e aiuta il reinserimento. La racconta un ex-carcerato. È subito dopo l’imbarco sul traghetto diretto alla prigione di Bastoy, nel fiordo di Oslo a una settantina di chilometri dalla capitale, che si capisce che le cose sull’isola sono diverse. L’operatore del traghetto è un detenuto che sta scontando una pena di 14 anni per spaccio di droga. Lui nota la sorpresa, sorride e saluta: “Sono Petter” si presenta. Prima di essere trasferito a Bastoy, Petter era stato per 8 anni in un carcere di massima sicurezza. “Qui ci danno fiducia e ci responsabilizzano” osserva. “Ci trattano da adulti”. Pensate le reazioni se tutto questo avvenisse in Italia. Di sicuro sono molte le differenze tra i due paesi. La Norvegia ha una popolazione di poco meno di 5 milioni di abitanti, 12 volte meno dell’Italia, e conta meno di 4 mila carcerati, contro circa 66 mila in Italia. Ma ciò che veramente è diverso è l’atteggiamento verso i prigionieri. Perfino nella prigione di massima sicurezza di Skien, a 30 chilometri a nord di Oslo, una fortezza in cemento dove è stato rinchiuso anche Anders Breivik, l’uomo che nel luglio del 2011 ha massacrato 77 persone sull’isola di Utøya, la perdita della libertà è l’unica vera pena che affligge i condannati. Le celle hanno la televisione, il computer, le docce e i bagni sono puliti. Le condanne non superano mai i 21 anni di detenzione, dato che la Norvegia non prevede né la pena di morte né l’ergastolo, e tutti hanno la possibilità di fruire di programmi educativi e formativi, quindi di trascorrere il proprio tempo studiando o imparando un mestiere. I prigionieri vivono in piccoli agglomerati, che sostituiscono i tradizionali bracci, limitando in questo modo la diffusione della subcultura da carcere che esiste nei sistemi tradizionali. Risultato: in Norvegia c’è il tasso di recidiva più basso d’Europa: meno del 16 per cento. Petter racconta che a Bastoy “è come vivere in un villaggio o in una comunità. Ognuno ha il suo lavoro, ma abbiamo anche del tempo libero a disposizione, quindi possiamo dedicarci alla pesca o, in estate, andare in spiaggia a nuotare. Sappiamo di essere prigionieri, però ci sentiamo persone”. Molti commentatori avevano descritto le condizioni di vita dei 115 detenuti a Bastoy come comode e lussuose, fino a definire la prigione un “villaggio vacanze”. Sono stato anch’io in prigione e ho passato i primi 8 anni, dei 20 che ho scontato in carcere, in una cella con un letto, una sedia, un tavolo e un secchio come gabinetto. In quel periodo mi è capitato di trovarmi coinvolto in una rissa, intrappolato in un assedio, e sono stato testimone di gravi atti di violenza. Centinaia di prigionieri si sono tolti la vita nel penitenziario dov’ero io e molti altri sono stati assassinati. Ma nonostante tutto ciò alcuni giornalisti ripetevano che il posto in cui mi trovavo era un villaggio vacanze. Quando poi installarono le toilette nelle celle e, qualche anno dopo, sono arrivate piccole televisioni, si sono moltiplicati i titoli che definivano l’istituto come una “prigione lussuosa”. Thorbjorn è una guardia di 58 anni che presta servizio a Bastoy da 17 anni. Durante il giorno, spiega, sui 2,6 km quadrati dell’isola ci sono 70 membri del personale, 35 dei quali sono poliziotti penitenziari. Il loro compito principale è contare i prigionieri: subito alla mattina, poi due volte al giorno nel rispettivo posto di lavoro, una volta alle 17 in uno specifico luogo di raduno e infine alle 23 nelle loro abitazioni. Solo quattro poliziotti penitenziari restano sull’isola dopo le 16. Thorbjorn indica piccole casette di legno dipinte a colori vivaci. “Sono le case dei prigionieri” spiega. Possono ospitare fino a sei persone; i detenuti condividono la cucina e gli altri spazi comuni, ma ognuno ha una stanza singola. “Solo un pasto al giorno viene servito nella sala mensa. I detenuti guadagnano l’equivalente di 7 euro al giorno e hanno anche un buono che può arrivare fino a 80 euro al mese da spendere nel piccolo supermercato dell’isola, dove possono acquistare i viveri necessari per colazione e cena. In Norvegia, i prigionieri ai quali restano fino a 5 anni di detenzione possono chiedere di essere trasferiti a Bastoy. Per essere accettati devono avere la volontà di condurre una vita senza crimini dopo il rilascio. Sull’isola c’è una fattoria dove i detenuti badano alle pecore, alle mucche e alle galline, oppure coltivano frutta e verdura. “Gran parte del cibo se lo coltivano da soli” aggiunge Thorbjorn. Le altre occupazioni possibili sono in lavanderia, nelle stalle, nel negozio di riparazione delle biciclette (molti ne hanno comprata una con i propri soldi), nel servizio di manutenzione del verde o in falegnameria. La giornata lavorativa inizia alle 8.30 del mattino. Passiamo accanto ad alcune cabine telefoniche rosse dalle quali i detenuti possono chiamare familiari e amici. A sinistra si erge un grande edificio: è qui che ogni settimana i prigionieri incontrano le persone che vengono a far loro visita, in stanze private dove sono ammessi anche i rapporti coniugali. Dalla finestra dell’ufficio di Arne Nilsen, il direttore, si scorgono la chiesa, la scuola e la biblioteca. “Nelle carceri chiuse” dice “i detenuti sono internati per anni senza avere la possibilità di lavorare o senza che venga attribuito loro alcun tipo di responsabilità. Ma per la legge la punizione è la perdita della libertà. Se trattiamo le persone come bestie quando sono in prigione, è probabile che si comportino come tali anche dopo”. Nilsen, psicologo clinico di professione, non vuole sentire che gestisce un campo vacanze. “Non si cambiano le persone con la forza” sostiene. “Qui trattiamo i prigionieri con rispetto e in questo modo insegniamo loro a rispettare gli altri. Però li teniamo sotto osservazione tutto il tempo. Così è meno probabile che commettano altri crimini quando verranno rilasciati. Questo significa giustizia per la società”. E il tasso di recidiva tra gli ex prigionieri di Bastoy gli dà ragione: è del 16 per cento, il più basso d’Europa. Ma chi sono i prigionieri di Bastoy? Hessle ha 23 anni e sta scontando una condanna di 11 anni per omicidio. “Ho ucciso per vendetta” racconta. “Vorrei non averlo mai fatto, adesso devo pagare per quello che ho commesso”. Esile, capelli chiari, racconta di avere iniziato a 15 anni a entrare e uscire dagli istituti penitenziari. Le droghe non solo gli hanno rovinato la vita, ma l’hanno anche spinto a compiere atti criminali. Sono tre le regole d’oro che vigono nel carcere di Bastoy: niente alcol, niente droga e niente violenza. Questo ragazzo, che ha ancora quasi quattro anni da scontare, lavora nelle scuderie e si prende cura dei cavalli. Come vede il suo futuro? “Non sono più attratto dalla droga. Quando esco, voglio tornare a vivere e costruirmi una famiglia. Qui sto imparando come farlo”. Hessle ama la chitarra e insieme ad altri detenuti suona nella Bastoy blues band. Lo scorso anno hanno anche ottenuto il permesso di partecipare a un festival musicale e aprire il concerto della rock band Zz Top. Bjorn è il maestro della band della prigione. Qui lui stesso ha scontato cinque anni per aver aggredito la moglie in un “momento di follia”. Ora torna in carcere una volta alla settimana per dare lezioni di chitarra: “So che queste persone hanno il potenziale per cambiare”. Ex ricercatore sociale, Bjorn ha preso contatti con alcune imprese di costruzioni per le quali lavorava in passato, che hanno promesso di prendere in considerazione l’idea di assumere alcuni membri della band, a condizione che diano prova di affidabilità e impegno. “Non si tratta solo di musica” afferma “ma di dare a queste persone la possibilità di dimostrare quanto valgono”. Sven, 29 anni, un altro membro della band, è stato condannato a scontare otto anni di detenzione per omicidio. Prima era un operaio disoccupato, ora lavora nel deposito di legname. La guardia carceraria che mi presenta alla band è una donna e si chiama Rutchie. “Sono molto orgogliosa del ruolo che ricopro qui, e anche la mia famiglia lo è” afferma. In Norvegia ci vogliono tre anni di preparazione per diventare guardia carceraria. “Ci sono tante cose da imparare sulle persone che arrivano in prigione” spiega. “Dobbiamo cercare di capire come sono diventati dei criminali e aiutarli a cambiare. Io sto ancora imparando”. Vengo poi presentato a Vidor, che, con i suoi 72 anni, è il detenuto più anziano dell’isola. Lavora in lavanderia ed è il capo della casa che divide con altri tre uomini. Racconta che sta scontando 15 anni per duplice omicidio colposo. C’è una profonda tristezza nei suoi occhi, che traspare anche quando sorride. “Gli assassini come me non hanno un posto in cui nascondersi” afferma. E prosegue raccontandomi che dopo il delitto aveva “veramente toccato il fondo”. In un primo tempo non faceva altro che piangere. “Se ci fosse stata la pena capitale, avrei voluto che me la infliggessero”. È stata la prigione ad aiutarlo. “Mi hanno fatto capire perché ho compiuto quei crimini e come tornare a vivere”. Adesso studia filosofia. “Quando uscirò, avrò 74 anni e sarei contento di viverne altri 10 e poi andarmene da questo mondo”. Svizzera: scarcerato a 89 anni il detenuto più anziano, il pubblico ministero fa ricorso Reuters, 14 marzo 2013 Il Ministero pubblico ginevrino ha deciso di ricorrere contro la scarcerazione del più anziano detenuto della Svizzera, decisa oggi dal Tribunale di applicazione delle pene di Ginevra. L’89enne era stato condannato nel 2010 a dieci anni di reclusione per aver violentato la figlia adottiva. Secondo la sua legale, l’anziano è all’ultimo stadio di un cancro alla prostata; la sua speranza di vita è stimata in 10-18 mesi. Il pensionato era già affetto da demenza al momento della sua incarcerazione. Da allora è stato ricoverato una decina di volte nell’unità carceraria dell’Ospedale cantonale. Per il Ministero pubblico, la scarcerazione dell’anziano è invece “prematura”. Il procuratore Yves Bertossa sottolinea che il pensionato è pericoloso: ha abusato a più riprese della figlia adottiva sull’arco di dieci anni e sottoposto a sevizie analoghe le figlie naturali. “Arrestato a 82 anni, quest’uomo è stato un pedofilo per tutta la vita”, ha dichiarato. Secondo il procuratore, il detenuto beneficia di cure adeguate. La legale dell’ultraottantenne rivendica invece per il suo assistito il diritto di “morire nella dignità”. Libia: Unione Europea; preoccupazione per trattamento detenuti accusati di proselitismo Ansa, 14 marzo 2013 La delegazione Ue in Libia ha pubblicato una dichiarazione in cui esprime tutta la sua “preoccupazione per la detenzione e il trattamento di persone trattenute sulla base di accuse di proselitismo in Libia”. La delegazione Ue sollecita poi il governo libico “ad assicurare condizioni adeguate e il trattamento di tutti i detenuti in accordo con gli standard internazionali e agli obblighi internazionali della Libia”. Secondo quanto riferisce il sito web di Enpi (www.enpi-info.eu), la delegazione Ue a Tripoli manifesta allo stesso tempo anche la sua “soddisfazione rispetto all’impegno delle autorità libiche di rispettare pienamente tutti i diritti umani, per la creazione di una commissione per i diritti umani e l’abrogazione delle leggi del passato regime che limitano i diritti umani”. La dichiarazione della delegazione riafferma quindi la posizione dell’Ue riguardo l’universalità della libertà di religione e di credo, esortando le comunità libiche “a fare ogni sforzo in uno spirito di tolleranza e di rispetto”. Marocco: detenuti islamici accusati di terrorismo in sciopero della fame Nova, 14 marzo 2013 Hanno avviato uno sciopero della fame i terroristi islamici detenuti per l’attentato contro il Caff Arkana di Marrakech, in Marocco, avvenuto nell’aprile del 2011. I detenuti denunciano di essere stati sottoposti a un “linciaggio mediatico” da parte di alcuni giornali. I prigionieri, che si trovano nel carcere di Sal, hanno annunciato “uno sciopero della fame a oltranza”, un gesto di protesta contro quella che ritengono sia “la diffusione di notizie false sulla stampa” marocchina. Nella lista degli scioperanti manca per il nome di Adel al Osmani, il principale accusato e autore materiale dell’attentato. I detenuti smentiscono le notizie diffuse dalla stampa locale secondo le quali avrebbero mantenuto dal carcere contatti con dei siti internet jihadisti tramite cellulari. Cambogia: prosciolto in Appello noto attivista, in I Grado era stato condannato a 20 anni Ansa, 14 marzo 2013 Un tribunale d’appello cambogiano ha rovesciato oggi la condanna in primo grado contro Mam Sonando, un attivista contro gli espropri rurali condannato l’anno scorso a 20 anni di reclusione per “insurrezione secessionista contro lo stato”, in un caso che aveva attirato anche l’attenzione del presidente statunitense Barack Obama. Il suo rilascio, scrive il Phnom Penh Post, è previsto tra due giorni. I giudici d’appello hanno appurato la mancanza di prove per sostenere la condanna in primo grado, lasciando in piedi solo un’accusa minore contro l’attivista franco-cambogiano in carcere da otto mesi. La pena è stata ridotta a cinque anni e poi sospesa, consentendo così l’imminente ritorno in libertà. All’esterno della corte, centinaia di simpatizzanti hanno accolto la decisione con giubilo. Sonando, 71 anni, era stato arrestato e condannato per aver incitato i cittadini della provincia orientale di Kratie a ribellarsi contro i massicci espropri di terre date in concessione ad aziende private spesso vicine al primo ministro Hun Sen, un tema molto sentito nel Paese. Da presidente di “Radio Alveare”, un’emittente indipendente locale, Sonando è da tempo una spina nel fianco dell’autoritario governo. Il suo caso era considerato farsesco prettamente politico dalle organizzazioni per i diritti umani. Anche Obama, nella sua breve visita a Phnom Penh lo scorso novembre, aveva sollevato la questione in un acceso colloquio privato con Hun Sen, “uomo forte” del Paese dalla metà degli anni Novanta e beneficiario di un crescente giro di vite contro i dissidenti.