Giustizia: tre leggi per i diritti umani Il Manifesto, 13 marzo 2013 Un appello lanciato da oltre venti associazioni su giustizia, carcere e droghe (Info: www.3leggi.it). Con una sentenza all’inizio dell’anno la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato l’Italia per trattamenti disumani e degradanti, in relazione allo stato delle carceri. L’Italia ha un anno di tempo per ripristinare le condizioni dello stato di diritto e l’osservanza della Costituzione. Il presidente Napolitano ha definito il sovraffollamento carcerario una questione di “prepotente urgenza” e di recente ha rivolto l’ennesimo invito perché siano approvate misure strutturali per porre fine alle disumane condizioni delle carceri. Il sovraffollamento non è una calamità naturale né un mostro invincibile: basta cambiare le leggi criminogene alla radice del fenomeno, prima fra tutte la legge sulla droga. Occorre dare applicazione alle proposte del Consiglio superiore della magistratura, in particolare eliminando le norme di tipo emergenziale, dagli automatismi sulla custodia cautelare alla legge Cirielli sulla recidiva, dal reato di clandestinità alle misure di sicurezza e prevedendo un meccanismo di messa alla prova, di misure alternative e di numero chiuso. Su queste linee sono state elaborate tre proposte di legge di iniziativa popolare, sostenute da un vasto cartello di organizzazioni e associazioni impegnate sul terreno della giustizia, del carcere e delle droghe: la prima propone l’inserimento nel Codice Penale del reato di tortura secondo la definizione data dalla Convenzione delle Nazioni Unite; la seconda interviene in materia di diritti dei detenuti e di riduzione dell’affollamento penitenziario. La terza si propone di modificare la legge sulle droghe nei punti più odiosi che provocano tanta carcerazione inutile. Sosteniamo le tre proposte di legge e invitiamo tutti e tutte a sottoscriverle. Il 15 marzo si riunirà il nuovo Parlamento e inizia una legislatura certamente difficile. Ci auguriamo che nell’agenda del nuovo governo siano presenti punti precisi e qualificanti. Fra questi, i temi della giustizia, del carcere, della droga dovrebbero entrare nell’agenda delle priorità. Ci appelliamo con forza al Parlamento perché dedichi subito una sessione speciale all’esame di provvedimenti urgenti per il carcere. Chiediamo infine la nomina di un ministro della Giustizia capace di rompere le logiche di potere e corporative che hanno fin qui impedito di operare le scelte necessarie e indifferibili. Pretendiamo una netta discontinuità nella responsabilità del Dipartimento delle Politiche Antidroga, che ha perseguito politiche dannose e fallimentari in nome dell’ideologia punitiva e proibizionista. Le condizioni inumane delle nostre carceri mettono in gioco la credibilità democratica del nostro paese. Noi non intendiamo essere complici, neppure per omissione, dell’illegalità quotidiana. Invitiamo tutti e tutte a fare altrettanto. Sostenete la campagna “Carcere, droghe e diritti umani” sottoscrivendo questo appello on line e firmando le tre leggi di iniziativa popolare. Giustizia: l’anno che verrà… dialogo tra i penalisti e il ministro Severino Agenparl, 13 marzo 2013 Si è tenuto presso la Sala Europa della Corte d’appello penale di Roma, il “dialogo” sul passato, presente e futuro della Giustizia tra il Presidente dell’Unione Camere penali Valerio Spigarelli e il Guardasigilli, la professoressa Paola Severino. L’incontro, dal titolo che evoca la fortunata canzone di Lucio Dalla, è stato introdotto dalla voce del Presidente della Corte d’Appello Santacroce che ha parlato di una “insufficiente cultura del futuro”, dei buoni risultati dell’ultimo governo in tema di riforma della cd. “legge Pinto” (sul risarcimento per irragionevole durata del processo) ed è proseguito con le parole di Cinzia Gauttieri, Presidente della Camera Penale di Roma, in tema di “giusto processo”, principio ancora da attuare perché “per adesso ce lo raccontiamo e basta”. Ad un ritmo serrato e incalzante, il dialogo è proseguito a mo’ di intervista tra Valerio Spigarelli e il guardasigilli ed ha avuto come oggetto essenzialmente due temi principali e cioè il sovraffollamento delle carceri, anche in relazione anche alle misure cautelari, e i tempi della giustizia. Spigarelli, che scherzando chiede al Ministro i suoi pronostici sul futuro Pontefice, inizia con una domanda secca sull’esperienza politica dell’Avvocato Severino: “ne è valsa la pena?”. “Sì, ne è valsa la pena perché è stato un generale arricchimento culturale. Credo - ha continuato - che, al di là dei singoli provvedimenti, un risultato questo governo l’abbia raggiunto aprendo una stagione di dialogo in materia di giustizia”. Spigarelli continua con le domande, svolgendo benissimo il ruolo dell’intervistatore anche se non gli piace molto vestire i panni del giornalista e lo esterna lasciandosi andare ad un commento di cui probabilmente si pente anche lui (“mi tocca l’ignobile ruolo di fare le domande”). Sul primo tema sovraffollamento carceri, Spigarelli chiede un parere del Ministro in merito ad eventuali provvedimenti di amnistia e indulto: “sì, si possono prendere in considerazione provvedimenti di amnistia e indulto ma se questi non si accompagnano a provvedimenti strutturali, non hanno senso. Ci vogliono cioè provvedimenti che deflazionino l’ingresso in carcere. Il vero problema è la carcerazione temporanea non quella definitiva”. Si passa poi al tema delle misure cautelari, della loro funzione in relazione al bilanciamento che la giustizia deve compiere tra la necessaria tutela sociale e il principio della libertà personale: “se il pm si occupa della tutela sociale va bene - afferma Spigarelli - ma il giudice deve bilanciare questo valore con il principio della libertà personale. Se il 42% dei detenuti è in carcere in applicazione di una misura cautelare significa che la difesa sociale è applicata in maniera patologica”. Sui tempi della giustizia, la Severino rileva che le lungaggini sono essenzialmente dovute alle pause infra processuali. “In una commissione di studio ministeriale - continua il Ministro - abbiamo constatato che solo il 6% dei rinvii deriva dalle richieste delle parti. Anche se abbiamo notevolmente incentivato il sistema delle notifiche on-line, ci sono molte altre cose da fare sul sistema delle notifiche: ad esempio, per alcuni atti la doppia notifica al difensore e all’imputato può essere superata”. Sull’obbligatorietà dell’azione penale, è dato rilevare che molti procedimenti si concludono per prescrizione durante la fase delle indagini preliminari: “questo - spiega il Ministro - mina il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, determinando una depenalizzazione di fatto. Io preferirei una depenalizzazione di diritto”. In chiusura, Spigarelli pone una domanda su “una vecchia petizione di principio sull’ergastolo ostativo”, non in linea, come spiega Spigarelli, con i principi costituzionali di cui all’art. 27 sulla rieducazione dell’imputato. “Sì, non è compatibile con la funzione di rieducazione della pena. Però se si dovesse arrivare ad una sua abolizione io credo che esistano delle categorie di reati rispetto alle quali i benefici che oggi vengono concessi e che comportano degli sconti di pena rilevanti ogni anno dovrebbero essere esclusi”. Le battute finali sono sul problema dei magistrati fuori ruolo: “la questione dei magistrati fuori ruolo, realizza una commistione tra politica e magistratura che finisce per complicare il quadro politico, ci vorrebbe una bella azione di governo”. “Devo rivendicare con orgoglio - afferma la Severino in chiusura - che questo governo è stato coraggioso affrontando il problema dei fuori ruolo estendendo, innanzitutto la disciplina degli ordinari anche per i magistrati amministrativi”. Giustizia: Rapporto dell’Unione Europea; aumenta il numero delle donne in carcere www.italia-news.it, 13 marzo 2013 Sempre più donne si danno al crimine? Non è solo una percezione di come cambia in peius la società ma è un fenomeno studiato che purtroppo cresce giorno dopo giorno e impone di rivedere il sistema carcerario già inadeguato ai numeri che è costretto a sopportare. Se è vero, infatti, che si è arrivati ad una parità formale nei diritti e l’uguaglianza è stata raggiunta in molti settori della vita quotidiana, è anche vero che le donne si avvicinano agli uomini anche in quelli negativi. Le statistiche parlano chiaro: dal 2011, l’aumento del numero di donne che sono detenute a livello globale è aumentato di decine di volte più velocemente di quello degli uomini, secondo i dati nazionali così come è aumentato il livello della gravità dei reati che hanno commesso. Mentre il numero di autori di reati di sesso maschile sono rimasti stabili sostanzialmente stabili negli ultimi dieci anni, i dati più recenti dimostrano un aumento del 15 per cento per il “gentil sesso”. Ciò quasi a denotare che anche l’aggressività nelle donne è aumentata costantemente negli ultimi 10 anni. I ricercatori sono d’accordo, sostenendo che il comportamento violento da parte delle donne è in aumento e non mostra segni di rallentamento. Anche un rapporto delle Nazioni Unite rivela che il tasso di crescita del numero di donne che entrano in carcere è superiore a quello degli uomini. Ciò nonostante la ridotta percentuale del 4,9% sulla totalità dei detenuti rappresentata dal gentil sesso. A dire il vero, in relazione alle 100mila donne che sarebbero detenute attualmente nelle carceri europee, il rapporto cambia da paese a paese. Solo per fare gli esempi estremi, si passa da Malta dove le detenute sono appena una decina, alla Spagna dove arrivano al numero di 5.000 rappresentando l’8,8% del totale della popolazione carceraria. L’Italia, invece, si pone in linea con la media europea con una percentuale di detenute pari a circa il 4,7% del totale, che è anche, più o meno lo stesso dato che viene confermato anche su scala mondiale dalle Nazioni Unite. A livello mondiale le cose quindi non cambiano con le donne che comunque costituiscono una porzione molto piccola della popolazione carceraria, che varia generalmente dal 2 al 9%. Solo 12 sistemi penitenziari superano questa soglia nel resto del pianeta, mentre una statistica del Regional Office of Europe ha individuato nell’Azerbaijan la quota meno elevata (1,5%). Ciò non vuol dire che il fenomeno sia sotto controllo. Ed, infatti, la tendenza di cui parlavamo conferma una crescita dappertutto. Per tornare all’Europa basta verificare come in Inghilterra e in Galles il numero delle donne che per varie ragioni sono finite in istituti di detenzione è aumentato negli ultimi dieci anni della sorprendente percentuale del 200%, a fronte di una crescita del numero degli uomini pari al 50%. L’Unione Europea, ha anche precisato che la maggior parte delle donne detenute scontano pene brevi, legate al possesso di stupefacenti. A ciò consegue un permanente ricambio della popolazione carceraria che ovviamente aggrava la già complessa situazione dei sistemi penitenziari. Altro problema rilevato dall’Ue riguarda il fatto che il numero di detenute in attesa di giudizio è equivalente se non addirittura superiore a quelle che scontano una pena definitiva. Ciò comporta ulteriori questioni circa la gestione perché le donne in attesa di giudizio hanno opportunità ridotte di accedere ai programmi lavorativi, di mantenere contatti con le famiglie e anche con gli altri detenuti. Tante, tantissime sono anche madri. Le statistiche conosciute in Europa sono sconvolgenti se si pensa che ci sono circa 10.000 bambini al di sotto dei due anni che hanno una madre in carcere. Mentre sono centinaia di migliaia i bambini di età superiore ed i ragazzi fino alla maggiore età che devono fare i conti con una mamma detenuta. In tal senso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2003 ha approvato una risoluzione che invita “governi, autorità internazionali, istituzioni a tutela dei diritti umani e organizzazioni non-governative a impegnarsi per aumentare l’attenzione verso lo stato detentivo delle donne, compresi i figli di donne in prigione, in modo da identificare i problemi principali e impegnarsi a risolverli”. Questo perché lo sviluppo psicosociale dei figli corre pericoli di gran lunga maggiori quando è la madre a finire in carcere piuttosto che il padre. Uno studio inglese del 2008 ha rilevato che quando le madri sono detenute, nell’80% dei casi i padri non si prendono cura dei loro figli. Anche alla luce di tali dati, ormai quasi tutti gli stati europei consentono alle madri di tenere con sé i figli piccoli scontano la loro pena. Permangono anche in tal caso divergenze fra le varie normative nazionali che passano da un limite minimo di zero ad un massimo di sei anni per la permanenza dei bambini negli istituti. Solo in Norvegia non è consentito ammettere bambini nelle carceri mentre la media nel resto d’Europa è di tre anni. Un altro dato che dovrebbe far riflettere è quello dell’età delle detenute. Negli ultimi anni, infatti, è possibile evidenziare una costante crescita delle ragazze che finiscono negli istituti correzionali per minori. Un esempio lampante in tal senso sono gli Stati Uniti, dove le giovani rappresentano ormai il 25% della popolazione dei riformatori. Questi dati in prospettiva dovrebbe far preoccupare ancora di più. Le donne più anziane, ossia quelle che superano i 50 anni di età sono una categoria che richiede trattamenti particolari in ragione a problemi legati principalmente alla salute. Molte, sono peraltro le straniere che costituiscono a livello europeo oltre il 30% delle donne rinchiuse negli istituti. La maggior parte hanno commesso crimini che riguardano la droga oltre a quelle detenute per ragioni concernenti il loro status illegale nel paese dove vivono. Purtroppo, le detenute hanno molti più problemi di salute rispetto agli uomini. Molte di loro in genere arrivano in carcere in condizioni già complicate legate alla vita in povertà, all’uso di droghe, alla violenza familiare, a violenze sessuali e gravidanze giovanili. Nello specifico, le donne dipendenti da sostanze stupefacenti mostrano in proporzione maggiore degli uomini problemi come tubercolosi, epatite, anemia, ipertensione, diabete e obesità. Anche le malattie mentali sono molto diffuse negli istituti penitenziari femminili, e riguardano l’80% delle detenute. I due terzi, ad esempio, mostrano disordini legati a stress post-traumatico. Ma sono tante le problematiche connesse alla detenzione delle donne ed all’aumento del fenomeno che per Giovanni D’Agata, fondatore dello “Sportello dei Diritti”, richiedono una revisione profonda dei sistemi carcerari a partire da quello nostrano che serva non solo per porre un limite a quella che appare come una vera e propria emergenza ma anche per gestire un problema in crescita ed adeguarsi a necessarie esigenze di civiltà, umanità e tutela dei diritti. Se è vero, infatti, che di fronte a tale grave situazione le istituzioni europee hanno dato input a politiche per arginare il fenomeno e migliorare le condizioni delle donne in carcere è altrettanto vero che il processo di adeguamento dell’Italia procede a rilento. Tra gli obiettivi fissati dall’Ue ed ancora non del tutto realizzati nel nostro Paese vi è da segnalare in primo luogo la richiesta di ricorrere il più possibile alle misure alternative, soprattutto per le donne incinte e per quelle che hanno figli piccoli. In secondo, di assicurare un servizio sanitario efficiente e capace di rispondere ad ogni tipo di esigenza. Ed in ultimo di considerare come primario l’interesse del bambino quando questo è coinvolto nella detenzione della madre. In quest’ottica, come “Sportello dei Diritti”, siamo impegnati a tutelare tutte le donne a partire dalle madri ed i loro bambini che subiscono trattamenti degradanti e non corrispondenti ai dettami delle linee guida europee all’interno delle carceri italiane. Giustizia: l’orizzonte “corto” dei detenuti e la vista che se ne va di Simone Lenzi La Repubblica, 13 marzo 2013 Fra le milioni di cose che non so, c’era anche questa: che ai detenuti, con il tempo, cala la vista. Non ci avevo mai pensato. Eppure, ora che me lo hanno detto, mi pare una cosa ovvia. Bastava fare due più due per arrivarci: se una cosa la usi poco, poi non funziona più tanto bene. Lo so anch’io che mi alzo troppo poco dalla sedia, e mi basta fare due passi in più del solito che poi mi fanno male i muscoli delle gambe. Atrofizzati, si dice. Atrofia vuol dire precisamente questo, che qualcosa soffre perché non gli diamo il giusto nutrimento, o non gliene diamo abbastanza. Ora che mi hanno detto della penuria di occhiali a Sollicciano, mi viene in mente Dante, che nel Canto X fa dire a Cavalcante “Se per questo cieco carcere vai”. L’inferno è dunque un “carcere cieco”: non si vede una via d’uscita, perché una via di uscita non c’è. La dannazione eterna consiste proprio nel fatto che l’inferno non sia solo un carcere, ma che, soprattutto, sia un vicolo “cieco”. Penso anche a Gramsci che, in un altro carcere cieco, dedicò non per caso a questo Canto alcune della pagine più acute dei suoi Quaderni. Il carcere, ora lo so, diventa cieco con il tempo, perché vivere scrutando un orizzonte monocromo di pochi metri atrofizza gli occhi. Ma voglio arrischiarmi oltre, per dire che secondo me non c’entra solo la fisiologia in questo abbassamento della vista nei regimi detentivi. C’entra la sostanza di cui sono fatti gli uomini, ciò che li distingue davvero dagli altri animali: guardare oltre, progettarsi nell’avvenire. Fosse solo pensare a cosa ci sarà per secondo a mensa domani, o attendere una visita, o ricordarsi che mercoledì c’è una partita importante in televisione. Questo aspettare, attendere, questo rivolgersi a ciò che ancora non c’è, è in realtà sempre un darsi appuntamento allo specchio con se stessi, con ciò che ci rende umani. Ed è qualcosa che facciamo soprattutto con gli occhi. Anche ad occhi chiusi, certo. Ma sempre con la vista che traguarda un orizzonte. Per questo, quando l’orizzonte finisce a pochi metri e le pareti hanno sempre lo stesso colore, la vista si atrofizza. Nella finzione poetica del Canto X i dannati, “come quei c’ha mala luce”, non vedono le cose vicine e intuiscono invece le lontane, tanto che se Cavalcante ignora cosa ne sia di suo figlio, Farinata invece profetizza a Dante l’esilio. Nella realtà del regime detentivo, al contrario, la prigione condanna sicuramente ad avere la vista corta. Succede per il continuo mettere a fuoco l’angustia dello spazio. Ora, chi ama le parole, sa che Spa-tium ha la stessa radice di Spes, speranza. Perché come la speranza è un tendersi verso qualcosa, un attendere, così lo spazio è ciò in cui ci muoviamo, da questo punto a un punto dove ancora non siamo, ma che pure già abbiamo traguardato. E se Dante scrive “lasciate ogni speranza voi ch’entrate”, all’ingresso dell’Inferno, è proprio perché i dannati sappiano da subito che quello in cui si trovano è un disperato non-spazio. Ma se è così, ed è così, allora tutto dipende da cosa pensiamo debba essere invece un regime detentivo. Se non vogliamo che sia persino peggiore dell’inferno, allora credo che bisogna davvero trovare il modo di comprare gli occhiali ai detenuti di Sollicciano. Dobbiamo trovare questi soldi. Ne va del nostro essere umani. Gli occhiali impossibili dentro quelle celle che rendono ciechi, di Maria Cristina Carratù C’è un problema, fra i tanti, giganteschi drammi che affliggono le carceri in Italia, di cui non si parla mai: gli occhiali. Sembra niente, rispetto alla non-vita di detenuti costretti dove dovrebbe starne la metà, come a Sollicciano (1.000 invece di 450). E invece è moltissimo. Anche perché il calo della vista che colpisce gran parte dei detenuti (in gran parte sotto i 45 anni) a pochi mesi dall’ingresso in carcere è un po’ il simbolo di questa istituzione “contro” le persone, la loro dignità e i loro diritti. N.J., marocchino 24enne, è qui da un anno: “Avevo una vista buonissima” racconta, “dopo sei mesi la tv mi sembrava tutta sfuocata, adesso non sopporto più neanche la luce”. A. H., albanese, 21 anni, ha due occhi bellissimi “ma” dice “non riesco a scrivere una cartolina alla mia famiglia”. L. M., italiano di 26 anni, dopo appena quattro mesi ha fatto domanda per gli occhiali: “Pensavo di avere un tumore al cervello, prima vedevo lontano dieci chilometri, ora neanche il fondo del cortile”. Succede così, racconta Salvatore Tassinari, presidente dell’associazione Pantagruel, che lavora in carcere con i suoi volontari: “Quando cominci a passare le giornate chiuso in una cella, la prima cosa che si riduce è il campo visivo. Il tuo sguardo spazia al massimo entro i pochi metri che dividi con i tuoi compagni, e a poco a poco perde il senso della profondità. Si abitua a non spingersi oltre, finché, a un tratto, non ci riesce proprio più”. E non è solo la percezione della distanza, a svanire dietro le sbarre. Se ne va, piano piano, anche un altro piacere della vita, il senso dei colori: “Qui dentro ci sono solo tonalità di grigio” spiega Tassinari, “e l’occhio, a un certo punto, comincia a leggere come grigio anche quello che c’è fuori”. Tutto, insomma, in questo mondo chiuso, si contrae, e la vista che cala diventa il simbolo stesso della vita in carcere, costretta “a rinunciare a ogni aspettativa”. Cioè ad annullarsi. Se poi si aggiunge che “dopo la vista, di solito, si alterano anche l’olfatto e l’udito, e il detenuto vive in un continuo, nevrotizzante, stato di allerta”, c’è da stupirsi che la gente si suicidi? Ma non basta: ancora più grave, se possibile, è che nella stragrande maggioranza dei casi i detenuti non possano procurarsi gli occhiali: “I medici del carcere glieli prescrivono, ma se non glieli portiamo noi” dice Tassinari, “nessuno di loro ha la possibilità di comprarseli”. Troppo cari per chi “a malapena ha i soldi per comprarsi un francobollo o una lametta da barba nello spaccio del carcere”. Solo che adesso i soldi mancano anche a Pantagruel, “quelli degli enti pubblici sono mirati solo su progetti specifici, non su un bisogno endemico come questo, che ogni anno ci costa dai 3 ai 4 mila euro”. Non resta allora che organizzare ogni tanto cene di autofinanziamento (info: www.asspantagruel.org), “dove ai tanti che neanche lo immaginano spieghiamo come per i detenuti gli occhiali siano ormai un genere di prima necessità”. Giustizia: Severino; amnistia e indulto utili, ma non risolvono problema sovraffollamento Adnkronos, 13 marzo 2013 “L’amnistia e l’indulto sono sicuramente strumenti da prendere in considerazione in un periodo di emergenza come l’attuale, ma non risolvono il problema”. Lo ha affermato il ministro della Giustizia uscente Paola Severino durante il confronto “Giustizia: l’anno che verrà”, tenutosi questa mattina presso la Corte d’appello di Roma, organizzato dall’Unione camere penali. “Per favorire un processo deflazionistico, occorrono delle riforme strutturali che implichino misure alternative alla detenzione”, ha aggiunto la Guardasigilli rispondendo al presidente dei penalisti, Valerio Spigarelli. Sempre in tema di emergenza carceri, il ministro ha aggiunto: “A contribuire all’affollamento dei penitenziari italiani non è tanto la detenzione definitiva, bensì quella cautelare. Sono favorevole ad un cambio di impostazione sulla carcerazione preventiva ferma restando però la salvaguardia di un margine di discrezionalità del giudice”. Infine Severino si è appellata direttamente alla politica: “Abbiamo un appuntamento a Strasburgo fra nove mesi per fornire all’Europa una risposta al problema - ha evidenziato - I progetti ci sono, bisogna riaprire al più presto la discussione”. Giustizia: i parlamentari Radicali hanno speso gli ultimi giorni carica per visitare carceri Notizie Radicali, 13 marzo 2013 Con Rita Bernardini da Vibo a Brindisi, di Maurizio Bolognetti Accompagnare Rita Bernardini nelle sue visite alle patrie galere è un’ esperienza sempre uguale e sempre diversa. Sempre uguale, perché immutata è la passione, l’impegno, la dedizione, l’attenzione che Rita riversa in queste visite, che hanno caratterizzato una parte importante della sua attività parlamentare e che si sono tradotte in un’infinità di atti di sindacato ispettivo. Sempre diversa, perché diverse sono le persone che incontriamo, l’umanità dolente che vive e lavora in carceri infami, assurte - per dirla con Marco Pannella - a luoghi di tortura senza torturatori. Il tour nelle carceri calabresi è preceduto da un viaggio sulla Salerno-Reggio Calabria in direzione Vibo Valentia, che sembra voler preannunciare quello che troveremo negli istituti. Ci sono tratti della Sa-Rc dove ti viene da pensare che lo Stato non c’è, che ti ricordano la martoriata Beirut degli anni 70. Tratti dimenticati e costati chissà quanti milioni di euro a km; un percorso ad ostacoli, la metafora di uno Stato incapace di far rispettare leggi-regole, incapace di rispettare la sua propria legalità. Sì, la Salerno-Reggio - oltrepassate le colonne d’ercole di Lauria Nord - è un po’ metafora di carceri dove l’art 27 della Costituzione diventa carta straccia e dove ogni santo giorno viene violato l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Succede a Vibo, succede a Palmi, succede a Reggio Calabria. Lo affermiamo senza mai dimenticare che a soffrire di questo stato di cose è un’intera comunità penitenziaria. Detenuti e agenti, direttori e operatori, abbandonati da “Cesare”. Luoghi di tortura senza torturatori, appunto. Entriamo a Vibo intorno alle 18.00. Ad attenderci i compagni calabresi. Come sempre si parte da un colloquio preliminare con il direttore e come sempre, o quasi, apprendiamo che le presenze vanno ben oltre la capienza regolamentare. La pianta organica degli agenti, manco a dirlo, è carente. Iniziato il giro delle celle veniamo a conoscenza della carenza di gasolio e acqua calda. Nella cella n°20 troviamo due detenuti ultra ottantenni; nella cella n°14, tre detenuti in attesa di giudizio lamentano problemi con l’infermeria; nella cella n°12, G.M. ci racconta di aver girato 12 carceri in nove anni e otto mesi. Nella cella n°11, un lampo di luce: A.G. si è diplomato in carcere e ha scritto una sceneggiatura teatrale, “L’altra libertà”. Il direttore ci racconta con una punta d’orgoglio del laboratorio di teatro-terapia. Nella cella n°7 ci dicono che fa freddo e lamentano problemi con i termosifoni, poi parlano della Corte di Strasburgo e affermano che “funziona bene”. Sula porta della cella n° 5 colpisce il fatto che sia stato affisso il “Veni creator spirutus”, a fare da contraltare la scritta all’interno della cella che ricorda il compianto cantautore calabrese Rino Gaetano: “Ma il cielo è sempre più blu”. Sono le ore 22.00 e la visita volge a conclusione. Rita riceve un dettagliato report sulla situazione del carcere. Come sempre si esce con la certezza che il carcere, nonostante la buona volontà di chi ci opera, sia tutt’altro che un luogo di recupero. Giovedì 7 marzo: da Vibo ci spostiamo in direzione Palmi. A farci compagnia l’accattivante voce del navigatore satellitare installato sull’automobile di Giuseppe Candido. Si va a Palmi, un carcere aperto nel 1979 su input del generale Dalla Chiesa. Al posto di guardia, tra il serio e il faceto, ci chiedono di depositare le armi. Anche qui solito cahier de doleance, tra sovraffollamento e carenza di agenti. Il direttore tiene a sottolineare l’impressionante quantità di traduzioni e dice: “questo è un istituto che quando si sveglia, si muove verso le aule di giustizia”. Il 60% dei detenuti è presente a Palmi “solo per esigenze di giustizia”, ma sono assegnati altrove. Lo stesso direttore sottolinea che a volte le udienze saltano per l’impossibilità di tradurre i detenuti. Inevitabilmente viene da pensare: ecco un altro esempio di pessima amministrazione della giustizia. Il colloquio con la direzione procede spedito e cordiale ed emerge che occorrerebbe un investimento per portare le docce in cella. Arrivati alla voce “Sanità penitenziaria”, il dito affonda in una ferita non sanata. Non può essere che così, considerando la situazione del servizio sanitario nella Calabria del “Caso Fortugno”. Il direttore racconta di un corto circuito verificatosi nel 2009. L’incidente, sottolinea, mandò k.o. l’ecografo, il gabinetto odontoiatrico e le apparecchiature radiologiche. Con sconcerto apprendiamo che solo nel luglio del 2012 è stato ripristinato il laboratorio odontoiatrico. L’intera vicenda è finita all’attenzione della Procura della Repubblica con un esposto firmato dallo stesso direttore. Dopo aver ascoltato con attenzione, Rita cita il caso di una sala operatoria di Regina Coeli mai entrata in funzione e costata un milione e 600mila euro. Insomma, la sanità a Palmi, oltre al sovraffollamento e alla carenza d’organico, è sicuramente un “nervo scoperto”. E tanto è critica la situazione dell’istituto che il direttore sottolinea che in almeno una occasione non ha avuto “la possibilità di alloggiare nuovi giunti”. A proposito di carenze d’organico, vien fuori che nonostante i minacciosi cartelli posti all’esterno, i cinque posti di guardia(le garitte) restano regolarmente scoperti. Il colloquio prosegue e Rita ricorda ai presenti la vicenda della “scadenza dei materassi”, problema risolto eliminando la data di scadenza degli stessi. Ascolto e chissà perché penso a quel Ministro della Sanità che voleva risolvere il problema dell’atrazina nelle acque innalzandone i limiti di tolleranza. Il colloquio, lungo e cordiale, con il disponibilissimo direttore termina e noi ci avviamo a visitare le celle, o meglio i “camerotti” e i famigerati “cubicoli”. Mentre camminiamo mi colpisce il commento di un agente: “Se loro stanno male, noi non stiamo bene”. Incrociamo il carrello del vitto e l’odore non è dei migliori. In compenso, in qualche cella si lamentano per i prezzi del sopravitto. Passando davanti alla Cappella notiamo, invece, che il concetto di “barriera architettonica” non è stato ancora recepito. Tra un acronimo e l’altro, registriamo che mentre la sala colloqui MS (media sicurezza) è a norma, non si può dire altrettanto per la sala AS (Alta sicurezza). L’area verde, pur essendo presente, non viene utilizzata per problemi organizzativi. Arriviamo ai “camerotti” 1-6 e un detenuto, S.M., ci mostra la ricevuta del ricorso inviato alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nel “camerotto” n°6, su sette detenuti presenti sono ben cinque quelli che hanno fatto ricorso lamentando trattamenti inumani e degradanti. D.S. mi guarda e mi dice: “occorrerebbe un’ iniziativa nonviolenta di massa”. Avviandoci all’uscita viene in mente un commento del comandate: “Per noi la capienza regolamentare è utopia”. Si parte da Palmi in direzione della Casa Circondariale di Reggio Calabria, un convento trasformato in carcere nel ventennio. Manco a dirlo, anche a Reggio solito refrain: sovraffollamento e carenza d’organico. Il comandate chiosa: “Quello della capienza tollerabile è un concetto evanescente”. Apprendiamo di un laboratorio marmi mai entrato in funzione e realizzato con i fondi della cassa delle ammende. Iniziamo il nostro giro e l’impatto non è dei migliori. In una cella, che potrebbe ospitare al massimo due persone, sono stipati in cinque. Nella cella n°3 troviamo un detenuto, A.A., che ha scritto la sceneggiatura per un cortometraggio. Nella cella n° 2, quattro letti a castello e si lamentano problemi con le telefonate e le troppe ore trascorse in cella. Un detenuto olandese ci mostra un articolo firmato da Valentina Ascione e pubblicato su “Gli Altri”. Lo tira fuori come una reliquia dal cellophane. Ricorda che due anni prima aveva mangiato una fetta di panettone in compagnia di Marco Pannella in un carcere romano, la notte di capodanno. La visita prosegue e arriviamo al reparto psichiatrico. L’incontro con B.S. è devastante. Esco pensando che tutto il dolore del mondo si sia concentrato in una piccola cella del profondo sud di questo nostro Bel Paese. Le ore passano; Rita visita le celle, si ferma a parlare a lungo con i detenuti, prende nota, invita a scrivere, informa sulla recente sentenza di Strasburgo. Arrivati alla sezione femminile la situazione non cambia, anzi peggiora. In una delle celle una detenuta paragona la magistratura di sorveglianza alla Gestapo. Nessuno, e sottolineo nessuno, dice aver visto o sentito anche una sola volta il Garante per i diritti dei detenuti, che pure a Reggio c’è. Le celle sono stie e il cortile, destinato alla cosiddetta ora d’aria, una gabbia. Ad A. P. non hanno concesso il permesso per andare ai funerali del fratello e nemmeno un permesso per portare un fiore sulla tomba. Siviglia non c’è, il garante non c’è. E non è l’unico “Garante” ad essere assente. La visita termina e a Giuseppe Candido toccherà l’incombenza di inviare un bel po’ di documenti per consentire i ricorsi alla Cedu. È sera, e dopo due giorni e le ore trascorse tra Vibo, Palmi e Reggio, poter guardare il cielo e respirare l’aria, che ci porta l’odore del mare e dello stretto, è terapeutico. Il tour con Rita riprenderà la mattina dopo in direzione Salerno, per poi concludersi a Brindisi. Ed è proprio a Salerno, nel corso della manifestazione fuori ad un tribunale di sorveglianza definito “un plotone d’esecuzione”, che mi accorgo che le mani di Rita parlano e accompagnano la denuncia, la rafforzano. Sono le mani e la voce di chi non si è mai stancato ed ha onorato il suo ruolo di parlamentare di una Repubblica che non c’è, rappresentata da un Presidente “arbitro”, che non è stato garante del diritto, dei diritti, della Costituzione. Il giorno dopo a Brindisi mi appunto una frase di Marco Pannella: “Non mi intendo di comunicazione; di solito quelli che se ne intendono non comunicano niente”. Ci siamo ancora - nonostante tutto - e ricordando Ernesto Rossi proveremo a “Non Mollare”, ristretti come siamo nella galera/confino di questo sessantennio, degno erede del ventennio fascista. Le liste Agl, i contenuti delle liste AGL, le liste e i contenuti negati, quelli che non abbiamo potuto comunicare e far conoscere, ripartono da Brindisi. Noi antitotalitari abbiamo da onorare una lotta, vogliamo legalizzare questo Paese, vogliamo interrompere la flagranza di reato contro i diritti umani e la Costituzione. Alle anime belle diciamo che questa amministrazione della giustizia ci disonora di fronte all’Europa e che il carcere ne è il putrido percolato. Viviamo nella consapevolezza che in questo Paese, che non riesce a battere la via delle riforme, toccherà anc Visite nelle carceri sarde con i candidati della lista Amnistia Giustizia Libertà Una delegazione di Radicali, candidati della Lista Amnistia Giustizia Libertà, guidata dal deputato Maurizio Turco, accompagnato dalle Radicali Maria Isabella Puggioni e Irene Testa, ha visitato il carcere Buoncammino di Cagliari e quello di Iglesias. Sono stati visitati alcuni reparti del carcere, il centro clinico, la sezione femminile, dove era presente una bambina di 18 mesi. Il Comandante di Buoncammino Michela Cangiano ha fornito alcuni dati che confermano il sovraffollamento e la carenza di personale. Il Carcere ha una popolazione di 487 detenuti su una capienza regolamentare di 330 detenuti, la polizia penitenziaria in pianta organica risulta di 267 agenti ma quelli in servizio sono 205. Nelle celle del piano terra, ciascuna di circa 8 metri quadrati e perciò destinate in origine ad ospitare una persona, convivono dai 2 ai tre detenuti; considerata la superficie occupata dal letto a castello, dal tavolo, dagli sgabelli e dai miseri mobiletti, non c’è lo spazio fisico per muoversi.. La situazione giuridica dei detenuti è la seguente: 70 in attesa di 1o giudizio, 40 ricorrenti, 352 definitivi, 35 appellanti. Fra i 487 detenuti, le diagnosi psichiatriche riguardano 220 detenuti con problemi di dipendenze mentre i soggetti “psichiatrici puri” sono circa il 15%, circa 40 detenuti 40 detenuti hanno un’infezione da HIV, Un quadro sanitario molto compromesso e, ad aggravare la situazione, c’è da sottolineare il fatto che il passaggio dalla sanità penitenziaria a quella del Servizio sanitario nazionale sta creando notevoli problemi. Dopo l’ulteriore taglio delle mercedi, sono veramente pochissimi circa 60 i detenuti che hanno la fortuna di poter lavorare e i pochi che hanno questa opportunità, che riguarda esclusivamente impieghi che non offrono alcuna opportunità di imparare un mestiere utile per l’esterno, lo fanno per pochi spiccioli al mese. Tra gli altri problemi di carenze strutturali vi è la mancanza di riscaldamento nelle celle e una forte umidità riscontrabile in tutte le aree del carcere. Carcere di Iglesias. Si tratta di un carcere destinato ai detenuti condannati per reati sessuali i cosiddetti “sex offender”, e collaboratori. I detenuti presenti nell’istituto so circa 60, una situazione quasi ottimale, di cui la gran parte con condanna definitiva. Da un punto di vista trattamentale oltre all’ora d’aria e alla socialità non è in atto nessun programma volto all’effettivo recupero degli individui che si sono resi colpevoli di reati sessuali. Il medico del carcere segnalava come la mancanza di interventi psicologici o educativi mirati rende queste persone ancora più emarginate e ghettizzate con l’alta probabilità che al termine della pena, sono ancor più a rischio in quanto questa condizione, potrebbe favorisce dei meccanismi difensivi di negazione e minimizzazione del reato che, impediscono una presa di coscienza critica di quanto fatto e agevolano la recidiva. Non a caso, la casistica internazionale in materia di recidiva parla di una percentuale pari al 17,3% a 4 anni, 17,5% a 5 anni e 20-30% a 10 anni nel caso di detenuti non trattati. Non siamo riusciti ad avere altri dati sull’istituto poiché il comandate ha fatto riferimento ad una circolare di poche settimane fa che impedisce agli istituti di fornire dati riguardanti la struttura. Su questo, chiederemo certamente conto al Ministero della Giustizia. Ultima visita dei parlamentari Radicali nel penitenziario di Rebibbia Hanno portato avanti le visite ispettive nelle carceri fino all’ultimo giorno utile. I parlamentari Radicali, a scadenza mandato e non rieletti, non hanno voluto sprecare nemmeno un giorno da deputati e senatori. Dal nord al sud del Paese, delegazioni del movimento guidato dal leader Marco Pannella hanno fatto visita ai penitenziari per toccare con mano le varie realtà. L’ultima è stata quella di mercoledì 13 marzo nel carcere di Rebibbia. Marco Pannella, insieme alla deputata uscente Rita Bernardini e agli ex consiglieri della Regione Lazio Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo, ha varcato i cancelli del penitenziario romano. “Da dopodomani i parlamentari radicali non potranno più andare nelle carceri - ha commentato Pannella prima di entrare nella struttura di Rebibbia - perché non sono più parlamentari e anche perché il Paese non ha potuto capire quello che succedeva. Non preoccupatevi perché le istanze di Amnistia, giustizia e libertà noi riusciremo a portarle avanti come fatto con il divorzio, l’aborto e il servizio militare considerati allora impossibili”. Infine un invito ai grillini che siederanno in Parlamento: “Le carceri sono le catacombe di un Cesare, di uno Stato. In Italia sono una vergogna, un orrore denunciato dalla giurisdizione europea. Vorrei dire però che, in un futuro, presente o prossimo, questo lo capiranno forse i grillini che stanno lì e scopriranno come si può fare i radicali, i non violenti. Costruire un futuro diverso già nel presente che è quello delle carceri”, ha concluso Pannella. Giustizia: caso Cucchi; perizia consulenti parte civile; origine morte è per trauma subito Ansa, 13 marzo 2013 “C’è confusione nella perizia dei tecnici incaricati dalla Corte: dicono che l’inanizione ha portato alla morte Stefano, ma la sua è stata una morte improvvisa, inaspettata, avvenuta nel sonno”. Così Gaetano Thiene, Ordinario di Patologia cardiovascolare all’Università di Padova, nel processo sulla morte di Stefano Cucchi, in corso davanti alla III Corte d’assise di Roma, e che vede imputati sei medici, tre infermieri e tre agenti penitenziari. Secondo l’accusa Cucchi sarebbe stato “pestato” nelle camere di sicurezza del tribunale in attesa dell’udienza di convalida del suo arresto per droga, e in ospedale “abbandonato” dal personale sanitario. “Questo è un caso cardiologico - ha aggiunto Thiene, chiamato come consulente di parte civile - Già il 17 ottobre 2009 il tracciato elettrocardiografico era allarmante e mi sorprende che Stefano non sia stato portato in una unità di terapia intensiva per il monitoraggio”. Confermata poi da parte del consulente quella cascata di eventi che portarono alla morte il giovane (dal trauma subito, all’emorragia sacrale, e fino alla ritenzione enorme di urina); tesi contestata in precedenza dai periti della Corte, secondo i quali il giovane morì per malnutrizione. “Come può un paziente morire in 5 giorni perché non ha mangiato? Saremmo tutti a rischio”, ha aggiunto il prof Serviddio, altro consulente di parte civile. “Nella catena causale che abbiamo ricostruito - ha detto il prof. Vittorio Fineschi - è pacifico che l’origine di tutto sia stato il trauma subito da Cucchi. Doveva essere monitorato continuamente, necessitava di un aiuto psicologico. Una frattura al sacro come quella diagnosticata necessitava un ricovero e una monitorizzazione più attenta”. Lettere: noi detenuti del carcere di Pavia… in condizioni disumane La Provincia Pavese, 13 marzo 2013 Noi detenuti del carcere di Pavia, unanimi con la disperata voce di altri 67mila detenuti nelle carceri italiani, vorremmo far sapere le condizioni in cui tutti i giorni siamo costretti a vivere in condizioni veramente disumane. Ogni giorno siamo sottoposti a una convivenza forzata per colpa di un esorbitante sovraffollamento. Le leggi penitenziarie vengono a mancare, così non siamo tutelati. Per colpa di una mala giustizia e di una politica corrotta e birbona che ormai da anni ci governa. Processi infiniti, strutture penitenziarie fatiscenti e degradanti, non c’è assistenza medica sufficiente e né progetti di reinserimento. Malati di Hiv, diabetici, tossicodipendenti, alcolisti e persino malati di tumore senza cure: per queste persone la possibilità di uscire vivi è pochissima. Mentre curati in strutture al di fuori del carcere avrebbero occasione di ricominciare un’esistenza migliore. Vorremmo ricordare che la commissione di Strasburgo ha multato l’Italia per ben due volte: fu dato tempo ancora tutto il 2013 per mettersi alla pari dell’Europa. Nel 2012 ci sono stati atti gravi di autolesionismo sfociati in ben 120 suicidi di detenuti e altre 60 di agenti di polizia penitenziaria. Ormai le nostre carceri stanno esplodendo, 8 o 10 persone non possono vivere in 4 metri quadrati, senza igiene in spazi angusti e fatiscenti. Ricordiamo le umili parole del nostro santo padre Wojtyla rivolte alle nostre forze politiche affinché si potesse migliorare questa degradante situazione. Ricordiamo il nostro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano commosso fino alle lacrime al funerale del suo caro amico, stringendo nella mano destra una busta bianca con le sue ultime volontà, in cui incaricava il presidente della repubblica di prendere atto del sistema carcerario per un’amnistia o indulto. Ricordiamo le lotte pacifiche dell’onorevole Pannella, specialmente l’ultima rifiutando acqua e cibo per diversi giorni, arrivato quasi all’estremo delle forze che i medici stessi sono dovuti intervenire per salvargli la vita. Facciamo appello alle nostre forze politiche oneste e ai nuovi parlamentari, affinché prenderanno atto di questo disumano, invivibile e degradante sistema carcerario. I detenuti di Pavia Bologna: Totire (“Chico” Mendez); carcere della Dozza inagibile, va ristrutturato subito Redattore Sociale, 13 marzo 2013 Vito Totire, portavoce del circolo “Chico” Mendez annuncia una segnalazione alla procura. “Condizioni di vita inaccettabili, quel posto va pesantemente ristrutturato e portato fuori dall’illegalità”. Una segnalazione alla Procura di Bologna per denunciare la situazione del carcere della Dozza. La annuncia Vito Totire, portavoce del circolo “Chico” Mendez. Per Totire alla Dozza le condizioni di vita sarebbero ormai inaccettabili dal punto di vista abitativo, ambientale e sanitario. “Quel posto va pesantemente ristrutturato e portato fuori dall’illegalità in cui versa ormai da anni - attacca Totire - La struttura è inagibile e igienicamente fuori legge, mancano i refettori dove mangiare, non ci sono le sale fumatori, ci sono scarafaggi ovunque, le docce sono fatiscenti e i detenuti sono costretti a cucinare nel bagno della loro cella. Senza parlare del cronico sovraffollamento”. Per questo, nel documento destinato alla Procura, Totire ipotizza il reato di “abuso di mezzi di correzione”, e per sostenere la sua tesi fa riferimento all’ultimo rapporto dell’Ausl di Bologna sulla casa circondariale cittadina. “L’Ausl ha contato nella sua visita di dicembre 888 detenuti presenti, a fronte di una capacità ricettiva di 483 posti. Nel dettaglio si scopre che nella sezione giudiziaria maschile le 339 celle sono tutte singole, mentre gli occupanti sono 714. Ne consegue che in alcuni casi nei 10 mq comprensivi di bagno sono alloggiate anche 3 persone”. Per Totire una chiara violazione delle direttive europee che impongono per ogni detenuto uno spazio di almeno 3 metri quadrati. Il portavoce del circolo “Chico” Mendez chiede anche che tutti i futuri rapporti Ausl su carcere e Cie siano trasparenti, disponibili a tutti e dettagliati. “L’azienda sanitaria bolognese - incalza Totire - deve passare da una prospettiva ottocentesca attenta solo agli aspetti igienici, a una prospettiva sistemica che tenga conto delle esigenze di tutti, detenuti e lavoratori. Nel carcere mancano la salette fumatori, come la mettiamo con il problema del fumo passivo e dei diritti del personale penitenziario? Altro tema: alla Dozza ci sono detenuti che lavorano: perché non è reso pubblico il documento di valutazione dei rischi? Sono lavoratori di serie B?”. Totire conclude con un attacco all’Ausl, “che redige un rapporto pesantissimo per poi terminare dicendo che nel complesso le condizioni igieniche sono sufficienti. Una conclusione del genere è fuori da ogni logica”. Piacenza: il Comune; diritti e doveri del Garante dei detenuti e una maggiore operatività www.piacenza24.eu, 13 marzo 2013 La figura del Garante per i Detenuti, nella persona di Alberto Gromi, acquisisce maggiore formalità e vede i propri lineamenti sempre più marcati. Lo ha spiegato Elena Foletti, operatore dei Servizi Sociali del Comune: “Rispetto alla prima nomina avvenuta nel 2010 l’amministrazione comunale ha intravisto la necessità di meglio delineare i contorni del ruolo del garante essendo ormai una figura consolidata a livello amministrativo. Il garante dei detenuti si incarica di accertare che la pena venga scontata nel pieno rispetto dei diritti del detenuto. E per svolgere questo compito deve entrare all’interno del carcere, dialogare con i detenuti e ascoltarli, interagire con loro. Ora le modalità, le tempistiche e gli incarichi sono stati messi, per così dire, nero su bianco e il garante diventa, a tutti gli effetti, una figura istituzionale”. Il garante è un organo di garanzia che, in ambito penitenziario, ha funzioni di tutela delle persone private o limitate della libertà personale. Istituito per la prima volta in Svezia nel 1809 con il compito principale di sorvegliare l’applicazione delle leggi e dei regolamenti da parte dei giudici e degli ufficiali, nella seconda metà dell’Ottocento si è trasformato in un organo di controllo della pubblica amministrazione e di difesa del cittadino contro ogni abuso. Oggi questa figura, con diverse denominazioni, funzioni e procedure di nomina, è presente in 22 paesi dell’Unione europea e nella Confederazione Elvetica. In Italia non è ancora stata istituita la figura di un garante nazionale per i diritti dei detenuti, ma esistono garanti regionali, provinciali e comunali le funzioni dei quali sono definite dai relativi atti istitutivi. I garanti ricevono segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria, sui diritti dei detenuti eventualmente violati o parzialmente attuati e si rivolgono all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. Il loro operato si differenzia pertanto nettamente, per natura e funzione, da quello degli organi di ispezione amministrativa interna e della stessa magistratura di sorveglianza. I garanti possono effettuare colloqui con i detenuti e possono visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione, secondo quanto disposto dagli artt. 18 e 67 dell’ordinamento penitenziario (novellati dalla legge n. 14/2009). Il garante comunale di Piacenza è, come si è detto, Alberto Gromi. Modica (Sr): il Sappe denuncia; clamorosa evasione di un detenuto dal cortile dei passeggi Ansa, 13 marzo 2013 Clamorosa evasione dal carcere di Modica. Un detenuto è evaso durante l’ora d’aria dal cortile passeggi. “È indubbiamente motivo di preoccupazione la notizia dell’evasione del detenuto dal carcere di Modica avvenuto poca fa. L’interesse primario ora è partecipare attivamente alle ricerche in collaborazione con le altre Forze di Polizia per catturare il fuggitivo, ma questo episodio conferma ancora una volta le criticità del sistema carcere. La coppia di dirigenti a capo dell’amministrazione penitenziaria Tamburino e Pagano, con la scellerata intenzione di introdurre una vigilanza attenuata nelle carceri italiane scendendo a patti con i detenuti, ha ottenuto il solo risultato di raggiungere il record di 23 evasioni nel 2012 (erano state 9 nel 2009)”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, nel commentare l’evasione di un detenuto dal carcere di Modica. “Da tempo immemore il Sappe, il primo Sindacato del Corpo di Polizia, sostiene l’esigenza di definire i circuiti penitenziari differenziati in relazione alla gravità dei reati commessi, con particolare riferimento al bisogno di destinare, a soggetti di scarsa pericolosità, specifici circuiti di custodia attenuata e potenziando il ricorso alle misure alternative alla detenzione per la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale. Oggi ci sono in carcere 67miladetenuti a fronte di una circa 42mila posti letto, il numero più alto mai registrato nella storia dell’Italia. Bisognerebbe dunque percorrere la strada dei circuiti penitenziari differenziati: ma altrettanto necessaria è una concreta riforma del sistema penale - sostanziale e processuale - che renda più veloci i tempi della giustizia”. Nuoro: il progetto “Liberamente”, organizzato dalla Provincia, fa tappa in due scuole La Nuova Sardegna, 13 marzo 2013 Questa mattina, a cominciare dalle 9.30, nei locali del liceo Asproni e alle 11.30 nell’istituto Psico-pedagogico si terranno due incontri, organizzati dalla Provincia di Nuoro, per discutere con gli studenti della problematica relativa al recupero e al reinserimento sociale di minori ex detenuti. Il tema è inserito nel progetto di cooperazione internazionale Liberamente, finalizzato a progettare e costruire una rete di supporto in grado di promuovere la resistenza della società palestinese e per favorire il processo di pace, una opportunità di nuove dinamiche territoriali e nuove relazioni a livello internazionale. Al dibattito interverranno il presidente della Provincia di Nuoro, Roberto Deriu, Mohammad Al-Batta, direttore generale del programma di riabilitazione per ex-detenuti del ministero degli Affari dei detenuti ed ex-detenuti, Francesco Serri del dipartimento di Pedagogia, psicologia, filosofia dell’università degli studi di Cagliari e Marta Longu, psicologa sociale, consulente del dipartimento di Pedagogia, psicologia, filosofia dell’università degli studi di Cagliari. Brescia: Vivicittà “Porte aperte”, diciottesima edizione nella Casa Reclusione di Verziano Brescia Oggi, 13 marzo 2013 Si svolgerà sabato 16 marzo con inizio alle ore 10.30 la diciottesima edizione della corsa internazionale del Vivicittà “Porte aperte” che si snoderà su un apposito percorso podistico allestito nella Casa Reclusione di Verziano. La manifestazione segue un copione ben collaudato e che ha riscosso ampi consensi nel corso degli anni. Come nelle precedenti edizioni parteciperanno - assieme ad un centinaio di detenute e detenuti - oltre 250 studenti e studentesse degli Istituti Superiori cittadini - “Leonardo”, “Abba-Ballini”, “Nicolò Tartaglia”, “Mariano Fortuny”, “Nicolò Copernico” - e della provincia - “Lorenzo Gigli” di Rovato e “Don Milani” di Montichiari. Gli studenti e le studentesse degli istituti scolastici da anni partecipano con entusiasmo a questa particolare esperienza non solo sportiva, lasciando la parte agonistica vera e propria alle Sezioni del carcere: maschile km 6 e femminile km 3, per le quali sarà prevista una specifica premiazione con l’assegnazione di riconoscimenti per i primi cinque classificati detenuti e detenute. Questa significativa iniziativa di “sport per tutti”, patrocinata dal Comune di Brescia (assessorato allo Sport e Presidenza del Consiglio Comunale), sostenuta dalla Fondazione Asm Brescia ed organizzata con l’associazione “Carcere e Territorio” Onlus di Brescia, è parte integrante del “Progetto Carcere” dell’Uisp di Brescia. Il Vivicittà “Porte aperte” anche quest’anno rappresenterà il prologo della corsa podistica internazionale (giunta alla trentesima edizione) in programma a Brescia domenica 7 aprile (partenza ed arrivo a San Polo), che vedrà la conferma anche della tappa a Zavidovici (Bosnia Erzegovina) dove, dal 28 marzo al 2 aprile, si recherà un pullman di studenti ed atleti dell’Uisp di Brescia per la sedicesima edizione del Vivicittà in programma il giorno di Pasqua domenica 31 marzo e con diversificate iniziative sportive e di solidarietà. Altro appuntamento podistico molto atteso sarà la quinta edizione della “Corsa Rosa” - la corsa di tutte le donne, nessuna esclusa - in programma al mattino nel centro cittadino domenica 24 marzo. Il 16 marzo, 24 marzo, 31 marzo e 7 aprile: quattro appuntamenti podistici molto significativi con l’obiettivo di realizzare uno sport consapevole, solidaristico e? per tutti. Palermo: Progetto “Calcio d’inizio”, venerdì conferenza stampa per illustrare i risultati Italpress, 13 marzo 2013 I risultati ottenuti attraverso il progetto “Calcio d’inizio”, promosso con la collaborazione del Coni Sicilia, saranno illustrati nel corso di una conferenza stampa che si terrà venerdì prossimo, alle 9, nella sede di villa Niscemi, a Palermo. Il progetto riguarda l’inserimento socio-lavorativo della popolazione carceraria, attraverso la creazione di una rete di collegamento tra l’Istituto penitenziario ed il tessuto sociale del territorio. Negli ultimi due anni le associazioni partner Apa, Accademia Psicologia Applicata, Idea, Orizzonti onlus, insieme a Confcooperative e Coni, hanno promosso la realizzazione di un piano di interventi finalizzato alla rieducazione e al reinserimento sociale dei detenuti, garantendo loro parità nelle opportunità formative, professionali e sociali presenti nel territorio regionale, in modo da evitare future e possibili discriminazioni in ambito lavorativo. Attivati corsi di formazione professionale per operaio edile, elettricista, operatore del verde, custode e manutentore di impianti sportivi e consulenza alla transizione del lavoro. Varese: “Quando sono diventato grande”… cresce il concorso letterario per i detenuti www.varesenews.it, 13 marzo 2013 Le premiazioni martedì a Villa Recalcati: in gara 11 case circondariali sulle 17 lombarde. A vincere il racconto “Quando sono diventato grande” di F.F., detenuto nel carcere di San Vittore. In un’atmosfera partecipata e accogliente è tornato ieri a Villa Recalcati di Varese l’appuntamento cittadino, giunto al terzo anno consecutivo, della premiazione del concorso Letterario/Artistico per detenuti. La serata conclusiva, coordinata dalla giornalista della Prealpina Barbara Zanetti, assume un significato particolare, visto il delicato momento che sta affrontando la casa Circondariale di Varese, promotore dell’iniziativa insieme al consorzio Sol.Co. Varese, Auser e l’associazione Assistenti Carcerari di San Vittore Martire. La fatica e il disagio per l’incertezza attuale sono stati espressi dal direttore Gianfranco Mongelli, che ha evidenziato il fatto che, pur essendo la struttura dismessa, essa viene coinvolta in progettazioni future. Numerose le presenze tra le istituzioni cittadine, tutte concordi nel dichiarare che queste iniziative sono frutto di sinergia di una importante rete che coinvolge le istituzioni, le cooperative sociali e le associazioni di volontariato, una rete che porta avanti la difficile quotidianità e che è un fondamentale collegamento sul territorio e per il territorio. “La cultura rende liberi” ha aggiunto come provocazione il Prefetto vicario Andrea Polichetti, mentre il direttore Generale Asl Varese Giovanni Daverio ha evidenziato l’importanza del reinserimento e quindi di “costruire un sé attraverso un percorso che preveda una soluzione, un percorso che accompagni e sostenga con una logica di prospettiva”. “È una rete importante, stabile e non estemporanea, quella che lavora su questi temi”, ribadisce l’Assessore comunale ai servizi sociali Enrico Angelini. La Provincia di Varese, padrona di casa, attraverso il proprio delegato Cristina Bertuletti, si è unita nell’evidenziare la sensibilità delle istituzioni verso queste iniziative. Presente anche il Prap, Provveditorato Regionale della Lombardia, anch’esso tra gli enti promotori: la funzionaria Felicia Vitiello ha sottolineato la consistente rappresentanza della Polizia Penitenziaria con il vice comandante Rosario Arcidiacono e tre agenti, segno evidente della sinergia tra le aree sicurezza e educative. E ha pronunciato inoltre l’uscita di un protocollo che coinvolga le biblioteche territoriali e il carcere. Le premiazioni sono state il momento culminante, curato con rinnovata energia e sapienza dalla responsabile dell’area trattamentale Maria Mongiello. Hanno vinto l’edizione “Quando sono diventato grande”, per la sezione racconti: F.F. detenuto nel carcere di San Vittore; seguito dal detenuto a Opera Giuseppe Mauro Fele. Terzi Roberto Cusumano detenuto nella Casa circondariale di Varese e l’ex-detenuto Luca Ariu. Le menzioni speciali, intitolate a Bruna Brambilla e a Giuseppe Romano, sono andate rispettivamente al detenuto a Como Idahosa Lovely Osàs e a Amazagar Moustapha. Per la sezione artistica: vincitrice è detenuta di Milano - San Vittore Debora D’Antonio, seguita da Pierino Cavicchioli. Terza classificata Silvana Jovanovic. Il premio speciale è andato al “ Laboratorio Illustra Fiabe” dell’Istituto Icam di Milano San Vittore. Alla terza edizione del concorso hanno partecipato 11 istituti lombardi su 17, dato in incremento rispetto agli anni passati; sono state realizzate complessivamente oltre settanta opere tra elaborati artistici, racconti e poesie. Verona: Marco Goldin guida detenuti in visita virtuale a mostra “Da Botticelli a Matisse” Ristretti Orizzonti, 13 marzo 2013 Marco Goldin dal carcere di Montorio guida una visita virtuale alla mostra “Da Botticelli a Matisse”. La storia dello sguardo e del volto, attraverso dipinti di straordinaria bellezza, passerà domani anche dal carcere di Montorio, sotto la guida, il racconto e le immagini del suo curatore, Marco Goldin. Voluta dalla direzione del carcere, organizzata dalla garante delle persone private della libertà personale, con la collaborazione di educatori, polizia penitenziaria, associazione Microcosmo, la straordinaria lezione sulla storia dell’arte, in mostra alla Gran Guardia fino al 1° aprile prossimo, vedrà raccolti allievi detenuti e allievi provenienti da un istituto esterno, insieme, gli uni accanto agli altri, potranno così respirare le atmosfere di celebri ritratti, cogliere la grazia e l’estasi dei dipinti religiosi, guardare alle inquietudini dei grandi del Novecento. “Un’occasione che non potevamo perdere, il bello fa bene a tutti e ci rende più ricchi, la disponibilità del curatore a portare la mostra in carcere è un bell’esempio di inclusine socio culturale” afferma la garante, Margherita Forestan. Arabia Saudita: giustiziati in pubblico 7 detenuti; stop decapitazioni, utilizzata fucilazione Aki, 13 marzo 2013 Sette detenuti, condannati a morte per rapina, sono stati giustiziati in pubblico ad Abha, nel sud dell’Arabia Saudita, malgrado gli appelli dei giorni scorsi di Amnesty International che ha parlato di atto di “vera e propria brutalità”. Lo riferisce il sito web di Bikya Misr, secondo cui i condannati sarebbero stati fucilati e non decapitati come avviene di solito nel regno del Golfo. I sette erano stati arrestati nel 2005 e nel 2006. Amnesty ha denunciato che due di loro erano minorenni al momento della condanna a morte e che tutti i detenuti saliti al patibolo sono stati vittime di torture in carcere e “costretti a confessare” i loro crimini. “La pena di morte - ha sottolineato l’organizzazione che ha sede a Londra - è una violazione fondamentale dei diritti dell’uomo ed è una punizione crudele e disumana, in qualunque forma si applichi”. L’esecuzione dei sette uomini era inizialmente prevista lo scorso 5 marzo, ma poi le autorità saudita avevano deciso di rinviare di una settimana. Pena capitale, stop alle decapitazioni Meglio il plotone d’esecuzione, di Michele Giorgio (Il Manifesto) Joselito Zapanta, uno delle centinaia di migliaia di manovali filippini che lavorano in Arabia saudita, salverà il collo ma difficilmente la pelle. Re Abdallah ha sospeso per tre mesi la sua esecuzione per dare più tempo alle autorità di Manila per raccogliere il milione di dollari che Zapanta deve, come risarcimento, alla famiglia del ricco sudanese che ha ucciso nel 2009. Non sarà facile. A oggi sono stati raccolti 245 mila dollari. L’unica (tremenda) consolazione per Zapanta è che se a giugno finirà davanti al boia, sarà messo a morte in un modo meno cruento. Lunedì, mentre avveniva la 18ma esecuzione capitale in poco più di due mesi, i regnanti Saud hanno dato disposizione ai governatori regionali di ricorrere alla fucilazione al posto della decapitazione con la spada. Un “segno di civiltà” si potrebbe dire a proposito di questo paese, stretto alleato dell’Occidente, che “lotta per la democrazia” a casa degli altri (Siria) ma nega ai suoi cittadini i diritti civili e politici più elementari, in linea con le direttive provenienti dalle gerarchie religiose wahabite (una delle interpretazioni islamiche più rigide, respinta da gran parte dei musulmani). Senza dimenticare le “riforme” cosmetiche che ogni tanto vengono annunciate: le donne, tanto per fare un esempio, da qualche settimana fanno parte del Consiglio consultivo (shura) ma non possono votare, guidare e sono autorizzate a viaggiare solo se accompagnate da un custode maschio. La decisione di passare dalle decapitazioni alle fucilazioni, spiegava domenica scorsa il giornale Al Youm, non è frutto di “umanità” in quel crimine orrendo che è la pena di morte. Bensì la conseguenza della mancanza di “decapitatori”, ossia di boia abili nel maneggiare la spada usata per tagliare le teste dei condannati. Inoltre, aggiungeva Al Youm, questi “professionisti”, sempre più rari, sono costretti a girare in lungo e in largo per l’Arabia saudita finendo per presentarsi in ritardo al lavoro. E dato che le esecuzioni sono pubbliche, finiscono per lasciare spettatori, autorità e il povero condannato a morte in attesa per ore. La fucilazione è la soluzione “giusta” che i regnanti Saud hanno trovato per il loro paese nel quale ogni anno sono messi a morte decine e decine di condannati per omicidi ma anche per rapina a mano armata, stupri, traffico di stupefacenti e stregoneria. Lo scorso anno, secondo un bilancio riferito dall’agenzia Afp sono state eseguite 76 condanne a morte che fanno dell’Arabia saudita, assieme ai “civili” Stati Uniti, all’Iran e alla Cina, uno dei paesi ai primi posti nel mondo per questa sentenza inumana. Non saranno messi a morte, per fortuna, ma dovranno scontare in carcere una pesante sentenza rispettivamente a 10 e 11 anni di carcere Mohammad al-Qahtani e Abdullah al-Hamid, fondatori dell’Associazione per i Diritti Politici e Civili. I giudici hanno usato il pugno di ferro contro i due attivisti, segnalando che per la monarchia la “primavera araba” e la stagione delle riforme devono rimanere fuori dal paese. A ben poco è servito il fatto che Qahtani fosse stato inserito nell’elenco dei 100 principali intellettuali e pensatori stilata da Foreign Policy. A rendere ancora più inaccettabile la condanna è la motivazione della sentenza. Qahtani e Hamid sono colpevoli “di aver rotto l’alleanza con il re e il suo successore” e “di aver cercato di impedire lo sviluppo del paese” (sic). “È un momento molto difficile per me ma un giorno guarderemo negli occhi dei nostri figli e potremo dire di averci provato con tutte le nostre forze”, ha commentato Qahtani dopo la lettura della sentenza. “Questa condanna di fatto è un grande successo per la nostra associazione e la nostra battaglia”, ha commentato da parte sua Hamid. Bahrain: morte manifestante dopo percosse subite, poliziotti condannati a 10 anni carcere Aki, 13 marzo 2013 Due poliziotti sono stati condannati a dieci anni di carcere in Bahrain nell’ambito di un’inchiesta sulla morte di un manifestante antigovernativo, Ali Saqer, avvenuta nel 2011. Lo riferisce il sito web del quotidiano Gulf News, secondo cui il giudice ha riconosciuto i due agenti colpevoli di omicidio. Secondo un rapporto della Commissione indipendente d’inchiesta sul Bahrain, presieduta da Cherif Bassiouni, Saqer morì il 9 aprile 2011 a causa delle percosse subite dalle forze di sicurezza. Nel suo rapporto finale, la Commissione d’inchiesta ha criticato l’uso eccessivo della forza nel corso delle manifestazioni di febbraio e marzo di due anni fa, il massiccio uso della tortura e le violazioni dei diritti umani commesse nei mesi successivi. Stati Uniti: 130 detenuti Guantanámo in sciopero fame per protesta contro condizioni vita www.internazionale.it, 13 marzo 2013 Da circa un mese 130 detenuti del carcere di Guantanámo stanno portando avanti uno sciopero della fame per protestare contro il peggioramento ulteriore delle condizioni carcerarie. Al Jazeera dedica un lungo servizio a Guantánamo, in cui spiega la situazione attuale e l’evoluzione della questione negli ultimi anni. Nell’articolo collegato scrive: “Gli avvocati di alcuni detenuti sostengono che i loro clienti hanno frequenti perdite di coscienza e tossiscono sangue. In una email, però, il responsabile della struttura ha negato che le cose stiano così: dei 166 prigionieri presenti a Guantánamo, solo sette sarebbero attualmente in sciopero della fame, inoltre le condizioni di salute dei detenuti sono costantemente monitorate”. Il carcere di Guantánamo, che si trova a Cuba, è stato aperto all’inizio del 2002. I detenuti non sono sospettati di reati specifici ma di essere dei terroristi, e non hanno avuto diritto a un giusto processo. Dopo essere diventato presidente degli Stati Uniti, nel 2008, Barack Obama ha promesso che avrebbe chiuso la prigione. Nel frattempo, però, la questione è scomparsa dal dibattito politico. “Alcuni avvocati dei diritti umani sostengono che le condizioni carcerarie nella prigione sono ulteriormente peggiorare”, continua Al Jazeera. “Ma i risultati di un sondaggio condotto da Washington Post e Abc durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2012 rivelano un altro punto di vista: più di due terzi degli statunitensi sono favorevoli al mantenimento del carcere di Guantánamo, mentre solo il 24 per cento pensa che la prigione dovrebbe essere chiusa”. Israele: detenuto palestinese in sciopero fame rifiuta anche liquidi Aki, 13 marzo 2013 Il detenuto palestinese in sciopero della fame da 223 giorni, Samer Issawi, ha interrotto da ieri l’assunzione di liquidi. Lo ha annunciato il suo avvocato Jawad Bulous all’agenzia di stampa Màan, denunciando che le sue condizioni di detenzione sono disumane. Il legale ha spiegato che quando ha fatto visita a Issawi nella sua cella ha trovato sette guardie penitenziarie israeliane che mangiavano accanto a lui per tormentarlo. I medici hanno tentato di convincere Issawi a bere acqua e temono che possa morire dal momento che la sua pressione è molto bassa. Issawi è stato arrestato il 7 luglio con l’accusa di aver violato l’accordo in base al quale è stato rilasciato in cambio della liberazione del caporale israeliano Gilad Shalit. È in sciopero della fame dal primo agosto in segno di protesta contro la violazione della sua amnistia da parte di Israele e per le condizioni di detenzione illegale a cui è sottoposto. Alla fine di febbraio Issawi è stato trasferito dal carcere di Ramle al centro medico di Kaplan.