Giustizia: il lavoro dei detenuti?... è un business di Luciana Grosso L’Espresso, 11 marzo 2013 La legge lo sancisce come un diritto. Ma per chi è dietro le sbarre, lavorare è un optional. E chi riesce ad avere un impiego, è pagato pochissimo. Mentre le aziende che impiegano i carcerati godono di grossi sgravi fiscali. Il lavoro penitenziario è un diritto preciso, sancito dalla legge 354. Si è dimostrato efficace nel rieducare e reinserire i detenuti, con le recidive che raramente superano il 20% (secondo dati che dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria definiscono “empirici”) ma è anche un’opportunità clamorosamente vantaggiosa per cooperative più o meno sociali e aziende, che, grazie alla legge Smuraglia sul lavoro dei detenuti, si ritrovano con mano d’opera a costo minimo e compensati con ampie agevolazioni fiscali. È un ingranaggio che sulla carta funziona per tutti: detenuti, carcere e aziende. Ma nella pratica i meccanismi si inceppano. La prima cosa che non va riguarda, per i detenuti come per tutti, la disoccupazione. In base al rapporto stilato dall’associazione Antigone, “Senza dignità”, il numero dei detenuti oggi impiegati è il più basso dal 1991: “Nel primo semestre 2012” recita il report “a lavorare sono stati 13.278 detenuti, ossia meno del 20% del totale dei reclusi”. Questo con buona pace del fatto che il lavoro dietro le sbarre sia obbligatorio e necessario. “Quello che si tende a dimenticare” spiegano dall’osservatorio Ristretti Orizzonti, che monitora la situazione delle carceri italiane “è che il lavoro in carcere è obbligatorio. I detenuti non possono rifiutarsi di farlo e il carcere è tenuto a fornirlo. Solo che questo non succede e oggi chi ha la possibilità di lavorare viene considerato un privilegiato: il lavoro passa per essere un premio”. Il secondo intoppo riguarda la retribuzione. In questo caso la grande differenza la fa il fatto che si lavori per il carcere (con mansioni semplici come portavivande, portalettere o cuoco) o per un soggetto esterno, cooperativa o azienda. Nel primo caso, ai detenuti spetta una mercede, ossia un compenso, da cui vengono scalati circa tre euro al giorno per i costi di vitto e alloggio. Per questi lavori il compenso può limitarsi anche solo a 50 euro al mese. La mercede viene calcolata da un’apposita Commissione e non può essere inferiore ai due terzi dello stipendio del Contratto nazionale di categoria. “Questa è la teoria” continuano gli analisti di Ristretti Orizzonti “la pratica è un po’ diversa. Tanto per cominciare la Commissione non si riunisce dal 1994. Da 19 anni aspettiamo che ne venga nominata una nuova, che aggiorni gli importi, che sono fermi alla base del 1987. Inoltre bisogna considerare che si viene pagati a ore e certe mansioni, come il portavivande, con tutta la buona volontà, non possono essere svolte per più di due o tre ore al giorno, e quindi i compensi sono solo di poche decine di euro”. Nonostante si tratti di lavori per lo più dequalificati e retribuiti in modo minimo, quelli all’interno del carcere sono considerati un lusso sempre più raro perché il budget previsto nel bilancio del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria per le mercedi dei detenuti negli ultimi anni si è ridotto del 71%. Migliore è la condizione di chi lavora presso cooperative o aziende, e ha una retribuzione sostanzialmente pari agli omologhi liberi e la possibilità di fare un lavoro qualificato e qualificante. Ma qui arriva il terzo, grave, inghippo: quello dei diritti. Benché siano del tutto regolamentati dalla legge e pari a quelli del Ccnl (ferie, malattia, assicurazione ecc.) spesso sono solo affidati al buon cuore dei datori di lavoro perché nessuno tra i lavoratori ha il coraggio di alzare al testa. Un silenzio difficile da scalfire. “Solo da poco siamo riusciti a penetrare l’ambiente del carcere” conferma Corrado Mandreoli, della Cgil di Milano “Difficile che i detenuti avanzino rivendicazioni. Per la prima volta abbiamo fatto una vera assemblea e una vera vertenza legata alla retribuzione”. Il caso è quello di un gruppo di lavoratori del carcere di Bollate che lavorava a cottimo per un’industria metalmeccanica. “Eravamo riusciti a introdurre un contratto migliore, con paga oraria. Ma l’azienda, con una serie di escamotage, è riuscita a riconvertire la paga oraria in paga a pezzo, calcolando l’orario svolto sulla base dei pezzi prodotti, il che ha comportato una revisione al ribasso degli stipendi”. Giustizia: l’8 marzo che non ha dimenticato la tortura di Elisabetta Reguitti Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2013 Le donne parenti delle vittime chiedono che la legge cambi. L’avvocato Anselmo, che segue le famiglie, spiega: “Troppo lievi le sanzioni per chi infierisce sulla persona affidata in custodia”. Tortura, secondo la convenzione delle Nazioni Unite è: “Qualsiasi atto mediante il quale vengono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni. Di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata, di intimorirla o di far pressione su di lei; qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, su sua istigazione, con il suo consenso espresso o tacito”. In Italia la tortura è praticata. A testimoniarlo sono le storie di Patrizia Aldrovandi, Ilaria Cucchi, Domenica Ferulli e Lucia Uva protagoniste dell’incontro “8 marzo, la forza delle donne. I nostri uomini attendono giustizia”, promosso dalla Tavola della Pace circolo Peppino Impastato. Insieme a loro Andrea Matricardi di Amnesty International e l’avvocato Fabio Anselmo legale di tutti questi casi e molti altri meno conosciuti perché non è facile trovare il coraggio di rendere pubblico e condividere il proprio dolore per un lutto procurato da uomini dello Stato nei casi in cui l’ordine diventa abuso. Non è facile perché “ti vergogni, come se fosse una colpa” spiega Lucia ricordando alcuni nomi di altre donne nelle sue stesse condizioni dopo che il fratello Giuseppe di 43 anni è morto in ospedale dove era stato portato durante un fermo. Queste donne si cercano e si ritrovano anche solo via web su siti come quello che ha aperto Patrizia Aldrovandi e dal quale sono ripartite le indagini che in un primo tempo erano state insabbiate. Spesso le famiglie decidono di non iniziare un processo perché non ne hanno le possibilità economiche. “Ottenere giustizia, costa” afferma Lucia Uva. Per Andrea Matricardi in Italia cambiano i governi ma non la violenza con la quale, in taluni casi, agiscono le forze dell’ordine. Rilancia le proposte di un istituto nazionale dei diritti umani nelle carceri e l’introduzione di un codice d’identificazione degli agenti nelle manifestazioni pubbliche. Nelle carte dell’inchiesta per la morte di Michele Ferulli di 51 anni, si legge: “I poliziotti lo picchiano a più riprese anche con l’uso di corpi contundenti mentre è già immobilizzato. Gli agenti hanno ecceduto i limiti del legittimo intervento”. Fabio Anselmo è chiaro: “Nell’immaginario collettivo benpensante la tortura è associata a situazioni irreali, cinematografiche a contesti politico-sociali lontani dal nostro. Quando si sente parlare della mancanza di una legge che punisca la tortura spesso ci si chiede quale ne sia la necessità. Gli atti di sofferenza e dolore inferti sulla persona affidata in custodia, sono puniti dal nostro codice da sanzioni lievi”. Ilaria Cucchi rinnova il ringraziamento a Ingroia per aver sostenuto la sua battaglia di verità per il fratello Stefano morto a 31 anni all’ospedale Pertini dopo l’arresto. “È necessario conformarsi al diritto internazionale che impone di adeguarci alle normative adottate da tutti gli altri paesi civili, punendo severamente questi comportamenti non solo perché eticamente scorretti e intollerabili ma anche perché pericolosi per la tenuta democratica del nostro sistema giudiziario e l’incolumità delle persone coinvolte” sottolinea l’avvocato. L’Italia è inadempiente rispetto all’obbligo giuridico internazionale di non aver introdotto il reato di tortura respingendo le raccomandazioni formali dell’Onu. Giustizia: la tortura non è devianza ma sistema di Ranieri Salvadorini L’Unità, 11 marzo 2013 Patrizio Gonnella, con il libro “La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica” (Derive Approdi), mette a fuoco come la tortura sia praticata nelle istituzioni che hanno il monopolio legale della violenza (carceri e comandi di Polizia e Carabinieri). Lo sguardo è quello di chi le istituzioni punitive le ha conosciute prima dall’interno, come vice-direttore di carcere, e poi dall’esterno, come presidente dell’associazione Antigone, un punto d’osservazione privilegiato. E attraverso una scomposizione della semantica della tortura in circa trenta parole-chiave l’autore spiega come possa accadere che un crimine contro l’umanità sia ancora praticato e perché la tortura non sia adeguatamente punita. È un libro denso di storie drammatiche ed esemplificative, spesso urlate dai giornali senza una cornice concettuale che consenta al lettore di comprenderle nella loro gravità. Perché quando le cronache funzionano come shock momentanei i torturatori vengono inquadrati - in modo riduttivo e in definitiva sbagliato - come cosiddette “mele marce”. Stigmatizzati come casi isolati. Le cose non stanno così e l’indagine di Gonnella lo mostra indagando ogni criticità del sistema, in un serrato confronto tra storie, sentenze, dibattiti teorici e giuridici, prassi, regole scritte e non scritte, iter parlamentari e raffronti internazionali. E il luogo che Gonnella sceglie per mostrare al lettore come la violenza possa degenerare in tortura è il buio della galera: dove le regole si spaccano perché ogni eccezione alla regola, figlia della cultura emergenziale, genera altre eccezioni, in un’escalation fuori controllo e al contempo diventato la normalità. In questo senso il libro, oltre che una ricognizione sullo stato dei diritti umani, è una riflessione rigorosa sul concetto (affatto intuitivo) di tortura e una “cassetta degli attrezzi” preziosa. È scritto quasi per intero al condizionale: i colpevoli rimangono sempre presunti. E le violenze perpetrate, che pure sono descritte così in dettaglio, testimoniano uno Stato incapace di scandalizzarsi di fronte al dolore inflitto a coloro che aveva in custodia. Perché se manca il reato di tortura non è possibile il riconoscimento pubblico di quel “dolore intenzionalmente inflitto” che consente alla vittima di diventare testimone. E chi subisce tortura rimane solo. In questo senso, la serrata ricostruzione fatta da Gonnella di oltre venti anni di dibattito politico sull’introduzione del reato di tortura (l’Italia ha ratificato la Convenzione Onu che prevede l’introduzione di un reato specifico), dà meglio di qualsiasi interpretazione la misura di uno Stato inerte, che ha sacrificato la dignità umana per la sicurezza. Giustizia: intervista allo psichiatra Albertini (Dsm Imperia) sulla chiusura degli Opg palagius2012.blogspot.it, 11 marzo 2013 In base a quanto stabilito dalla Legge 9/12, dal 31 marzo 2013 (salvo l’attesa proroga) le misure di sicurezza del ricovero in Opg e dell’assegnazione a casa di cura e custodia non potranno più essere eseguite negli ospedali psichiatrici giudiziari, ma nelle strutture alternative che dovranno essere approntate dalle Regioni. I soggetti sottoposti a misura di sicurezza, internati in Opg, che hanno cessato di essere socialmente pericolosi dovranno essere dimessi e presi in carico dai Dipartimenti di Salute Mentale (Dsm) competenti per territorio, facendo riferimento al luogo di residenza. A decorrere dallo stesso termine (31 marzo 2013), coloro che hanno lo stato di detenuto e che necessitano di cura e/o di assistenza psichiatrica, saranno invece ospitati in apposite sezioni realizzate presso le singole carceri, le stesse per le quali il nostro Paese è stato condannato per le disumane condizioni di sovraffollamento. Apriamo un colloquio con Maurizio Albertini, psichiatra del Dipartimento di Salute Mentale della Asl1 di Imperia, per dar voce a chi ogni giorno affronta sul campo le problematiche di adeguatezza, compatibilità ed efficacia dei trattamenti psichiatrici in Opg e nelle sezioni create all’interno delle carceri, nonché della cura e dell’assistenza psichiatrica prestata presso i Dsm. Quanto sono adeguati ed efficaci i trattamenti psichiatrici all’interno degli Opg? Ritiene che sia possibile realizzare nel breve termine il previsto processo di superamento degli Opg? Parlo di ciò che so, non conosco le realtà di tutti gli Opg. In genere, i trattamenti sono sicuramente adeguati dal punto di vista farmacologico e clinico, almeno per quello che riguarda la competenza medica. Non credo che sia possibile, a breve termine, il superamento degli Opg perché non esistono molte strutture territoriali adatte ad accogliere soggetti così problematici e che, oltre alla cura strettamente medica, richiedono altri supporti logistici, controlli, luoghi idonei che consentano la sorveglianza e che impediscano le fughe, ecc. Senza contare la necessità che il personale non medico sia adeguatamente formato, e in genere lo è per casi lievi, mentre non lo è per quelli molto gravi e nei quali è maggiore il grado di pericolosità. È compatibile l’osservazione, la cura e l’assistenza psichiatrica con la detenzione (in carcere)? A quali condizioni ? Sono adeguate le sezioni all’uopo istituite presso le carceri? Sono stato per tre anni il consulente specialista psichiatra del Carcere di Imperia sicché la mia esperienza si limita a quella casa circondariale, piuttosto sovraffollata, in cui non esiste una sezione destinata ai pochi casi che riguardano detenuti veramente psichiatrici. Mi sono occupato soprattutto della cura di disturbi d’ansia e di panico, dei disturbi depressivi reattivi alla condizione carceraria, della gestione delle tossicodipendenze e della cura delle psicosi, quando occasionalmente si presentavano pazienti con disturbi schizofreniformi o borderline. Mi è capitato di inviare persone affette da schizofrenia al carcere di Torino, attrezzato per la loro cura, oppure nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Imperia per un ricovero. La cura in carcere è possibile se esiste collaborazione fra medico, infermieri e guardie carcerarie soprattutto per quello che riguarda l’assunzione delle terapie. Nei casi in cui il paziente rifiuti i colloqui psichiatrici o che rifiuti di assumere le terapie prescritte la cura diventa impossibile, con tutte le ovvie conseguenze. Nella mia esperienza mi sono trovato a dover operare in condizioni non proprio ortodosse. Mi riferisco all’ambiente, che non è quello di un ambulatorio psichiatrico dove viene mantenuta una discreta privacy e non vi sono interferenze da parte del personale infermieristico e/o carcerario. Voglio dire: non è certo facile per un detenuto poter rimanere solo fuori dalla cella (a volte nemmeno dentro), dunque è difficile parlare, esprimersi liberamente (è proprio il caso di dirlo). Ed è difficile per chi è detenuto (a prescindere che sia già stato condannato ovvero in attesa di giudizio) avere il coraggio di raccontare anche a un medico ciò che gli è capitato e che lo ha condotto in carcere: pochi ci riescono, molti cercano soltanto un sollievo dai sintomi oppure la possibilità di avere un momento di comprensione; altri ancora ricercano esclusivamente vantaggi personali, oppure vorrebbero solo psicofarmaci con un atteggiamento tossicomanico o manipolatorio. Ho comunque incontrato realtà molto variabili: raramente mi sono imbattuto in patologie mentali importanti quali la schizofrenia, i disturbi bipolari o i disturbi dell’umore non reattivi, già presenti prima dell’incarceramento (se escludiamo la tossicodipendenza naturalmente), più frequentemente mi sono trovato di fronte a disturbi narcisistici e a quelli di personalità. Per lo più si è trattato di soggetti che presentavano solo sintomi reattivi alla perdita della libertà: angoscia, ansia, depressione (a volte con idee autolesive), claustrofobia, attacchi di panico, insonnia grave, psicoastenia, somatizzazioni di vari tipi, dalla cefalea all’asma. Che tipo di cura e assistenza possono attualmente fornire i Dsm, le Comunità terapeutiche o gli altri servizi sul territorio? Rappresentano una valida e concreta alternativa all’Opg? Nella realtà locale, la cura e l’assistenza territoriale e in Comunità Terapeutiche, o centri diurni, è adeguata per le persone che accettano le cure e di sottoporsi alle stesse. Nei casi concreti di pazienti con gravi problemi che le rifiutino occorre che il magistrato competente intervenga sia nella fase acuta, con dei Trattamenti Sanitari Obbligatori (Tso), sia in seguito, con altro tipo di provvedimenti per poterli ricoverare nelle comunità anche contro la loro volontà per il tempo necessario a somministrare le cure del caso. Allo stato, tenuto conto del carico di lavoro esistente, dovrebbero essere creati nuovi spazi di cura per poter accogliere adeguatamente le persone attualmente internate negli Opg. È dunque ancora così lunga la strada da percorrere per “superare” - come si esprime il legislatore - l’ internamento e la custodia negli Opg e al contempo curare e assistere al di fuori dalle strutture alternative che dovranno essere approntate dalle Regioni? A meno che non intervenga un massiccio investimento in termini di risorse, penso di sì, soprattutto perché la questione logistica e quella della formazione del personale rivestono entrambe importanza cruciale. Se pensiamo alla difficoltà ad applicare veramente la legge Basaglia sul territorio, all’incremento esponenziale negli ultimi anni delle persone con disturbi mentali (dai più lievi ai più gravi) nella popolazione generale, non c’è da stupirsi se un ulteriore aumento dei carichi di lavoro in questa fase storica sia poco auspicata e auspicabile. Lettere: detenuti e persone oneste… di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2013 Caro Colombo, gradirei sapere che cosa pensi dei detenuti e delle persone oneste. Per i detenuti sono anni che si legge sui giornali e si ascolta in tv del sovraffollamento delle carceri e di come vengono calpestati i loro diritti. In parte condivido e in parte no. Ci sono diversi tipi di delinquenti e il trattamento dovrebbe essere differenziato. Passiamo ora agli onesti. Nessuna legge li protegge, eppure non sento la stessa indignazione di quella per i detenuti, lo vengo dai tempi in cui si teneva la porta aperta e nessuno entrava senza chiedere permesso. Mario Risponde Furio Colombo Io vengo da tempi ancora più lontani del nostro amico lettore (fascismo, guerra, dopoguerra, anni Sessanta, anni Settanta, anni di piombo, anni della corruzione e della lotta alla corruzione, poi il ventennio berlusconiano) e devo dire che il tempo delle porte aperte non mi è mai toccato di vederlo. Per una ragione o per l’altra, la frase è sempre stata: “Bisogna stare attenti, i tempi sono difficili”. Sono d’accordo con Mario: le persone oneste hanno sempre avuto vita dura. Sono in disaccordo con Mario: in tutta la vita non ricordo nessuno che abbia mai difeso i detenuti. Tranne i Radicali (ecco un caso in cui la frase diventa utile e giusta). Perché questo è accaduto, e vorrei spiegare a Mario, i cui dubbi mi sembrano ragionevoli, in buona fede, ma fondati su un equivoco: nessuno avrebbe mai parlato delle carceri italiane, in cui le condizioni di vita sono condizioni di non vita, condannate dalla giustizia europea, se i Radicali (Marco Pannella, Emma Bonino, Rita Bernardini e gli altri deputati e senatori di quel partito che stanno uscendo in questi giorni dal Parlamento) non si fossero battuti in tutti i modi, quasi da soli, nelle due Camere e fuori, e con continue visite nei penitenziari e continuo tentativo di essere ascoltati dai media. Ci sono riusciti una volta su dieci. Ma poiché non se ne era parlato mai, Mario ha avuto l’impressione che non si parlasse d’altro. Ha ragione quando dice che nessuno si occupa degli onesti, ma quella sua frase rappresenta il fallimento della politica che adesso agita drammaticamente il Paese. Però da questo scambio di opinioni, in questa pagina, una cosa si vede: non è un luogo comune dire che le condizioni di vita dei carcerati rispecchiano tutto un Paese. Infatti, siamo il Paese con il più alto numero di suicidi in carcere e il più alto numero di suicidi di piccoli imprenditori e di nuovi disoccupati che non vengono più pagati. “È una guerra e questi sono i caduti” ha detto il sindaco di Bari dopo avere sventato un tentato suicidio davanti al suo ufficio. Amaro compenso per i Radicali poter dire di averlo fatto sapere prima. Liguria: Sappe; troppi detenuti causa tensioni, in cella 1.850 persone, ma posti sono mille La Stampa, 11 marzo 2013 Carceri liguri sovraffollate: è ancora allarme. A denunciarlo è Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, e lo fa dati alla mano: sono 1.850 persone le persone detenute, quasi il doppio dei posti letto disponibili (1.000). E la tensione resta alta. “Nelle sovraffollate carceri liguri - osserva Martinelli - i detenuti si sono resi protagonisti di 92 atti di autolesionismo (e cioè ingestione di corpi estranei come chiodi, pile, lamette; tagli diffusi sul corpo e provocati da lamette) e 29 tentativi di suicidio”. Secondo i dati resi noti dal Sappe hanno tentato il suicidio 9 persone a Marassi, 7 a Sanremo, 6 a La Spezia, 5 a Pontedecimo ed 1 a Chiavari e Imperia. Le morti per cause naturali in carcere sono state 5 (3 a Marassi, 1 a Sanremo ed Imperia). Non si sono registrati casi di suicidio. Sono state, infine, 93 le colluttazioni (7 a Imperia, 19 a Pontedecimo, 9 a Chiavari, 2 a La Spezia, 53 a Sanremo e 3 a Marassi) e 19 i ferimenti (12 a Marassi, 5 a Savona e 2 a Imperia). Sono state infine 5 le evasioni in Liguria da parte di altrettanti detenuti che non sono rientrati in carcere dopo aver fruito di permessi premio e semilibertà. Secondo il Sappe ad alimentare le tensioni nelle carceri è anche il fatto che i detenuti non siano impiegati in attività lavorative o comunque utili alla società (come i lavori di pubblica utilità). “In Liguria - spiega Martinelli - lavora solamente 1 detenuto su 5, e per di più per poche ore al giorno. Sul tema del lavoro in carcere c’è profonda ipocrisia. Tutti, politici in testa, sostengono che i detenuti devono lavorare: ma poi, di fatto, a lavorare nelle carceri oggi è una percentuale davvero irrisoria di detenuti (circa il 20% dei ristretti). Peraltro, il condannato che espia la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4% contro il 19% di chi ha fruito misure alternative e addirittura l’1% di chi è inserito nel circuito produttivo. Stare invece 20 ore al giorno chiusi in cella favorisce una tensione detentiva fatta di risse, aggressioni, suicidi e tentativi suicidi, rivolte ed evasioni. Firenze: Rifondazione Comunista alla Provincia; chiusura Opg, che succede il 31 marzo? www.gonews.it, 11 marzo 2013 Domanda d’attualità dei consiglieri Andrea Calò e Lorenzo Verdi: “Chiediamo di sapere a che punto è la rete di vigilanza esterna voluta dal governo per curare i malati nel rispetto della loro dignità”. Rifondazione comunista pone il quesito alla Provincia di Firenze “Che succede all’Opg di Montelupo?”: i consiglieri provinciali di Rifondazione comunista Andrea Calò e Lorenzo Verdi fanno presente che si avvicina il 31 marzo, data prevista dalla legge che impone il “superamento” degli Opg ed “è tempo di bilanci, anche a fronte di quelle che sono le ultime notizie che hanno riguardato lo stesso istituto di Montelupo”. Rifondazione comunista chiede alla Provincia di Firenze, in relazione alla chiusura dell’Opg di Montelupo Fiorentino, di riferire sulla procedura in essere per il superamento dell’Opg, sulle soluzioni e gli assetti futuri individuati per la sistemazione dei detenuti ivi compreso l’utilizzo che avrà l’antica Villa Medicea servita all’attuale istituto. Di seguito il testo della domanda d’attualità che i consiglieri di Rifondazione hanno presentato sull’argomento in Provincia. “Che succede all’Opg di Montelupo? Si avvicina il 31 marzo, data prevista dalla legge che impone il “superamento” degli Opg ed è tempo di bilanci, anche a fronte di quelle che sono le ultime notizie che hanno riguardato lo stesso ististuto di Montelupo. Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono 6: Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli Sant’Eframo, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino. Gli internati sono 1.073 La struttura di Montelupo, antica (era una villa medicea), è inadatta a curare quel genere di pazienti, ma non resterà abbandonata. L’ospedale psichiatrico giudiziario, dovrà chiudere e trovare una sistemazione adeguata per i suoi detenuti pazienti. Trentacinque sono quelli toscani, gli altri torneranno nelle regioni di appartenenza: Liguria, Sardegna, Umbria. Sono circa cento gli attuali pazienti dell’Opg: il 30% degli ospiti di Montelupo hanno reati di omicidio alle spalle, gli altri lesioni, maltrattamenti, rapine. Sono tutti uomini e tutti hanno bisogno di trovare strutture attrezzate per curarli. I detenuti di quello che un tempo si chiamava il “manicomio”, in attesa di essere trasferiti, sono liberi dalle 8 alle 20 di passeggiare nei corridoi e usare le sale comuni. Restano in cella solo quelli considerati pericolosi. Dal 2011 quando è stata chiusa la sezione dell’Ambrogiana, tutti i detenuti - attualmente un centinaio - sono divisi nelle celle della terza sezione, ospitate nelle x scuderie, dove è stato ultimato da poco un restauro. L’Asl 11 tempo fa dichiarò di stare “pensando di creare piccoli centri per venti pazienti al massimo, i luoghi distribuiti nelle varie aree vaste, saranno strutture sanitarie in grado di seguire meglio i pazienti con problematiche anche gravi. Fra le location accreditate c’è una struttura a San Miniato nell’empolese. Altre strade invece sono ancora da esplorare”. Il provveditore della Toscana all’amministrazione carceraria, Carmelo Cantone tempo fa dichiarò - contrariamente a quanto dichiarava l’Amministrazione Comunale di Montelupo che l’antica Villa Medicea non torni ad essere un carcere. “Il progetto è di sostituire l’Opg con una struttura di reclusione per detenuti con lunghe condanne, ma con un basso livello di pericolosità”. Opinioni diverse anche se l’urgenza in questo momento è quella di individuare sul territorio toscano due o tre luoghi in cui creare le nuove strutture per l’assistenza e cura di chi è ancora “prigioniero” dell’Opg. A quanto è dato sapere niente, dentro la struttura, fa pensare alla scadenza del 31 marzo, data prevista dalla legge impone il “superamento” degli Opg. Negli ultimi anni sono stati spesi 5 milioni per ristrutturazioni, sarebbe una scelta miope buttare questi soldi nel cestino - afferma la direttrice Antonella Tuoni alla guida della struttura dal 2011 - il 31 marzo non ci sarà un cambiamento epocale”. Gli scriventi Consiglieri Provinciali di Rifondazione Comunista in relazione alla chiusura dell’Opg di Montelupo prevista per il 31 marzo 2013 così come recita il dispositivo legislativo chiedono al Presidente della Provincia di Firenze e all’Assessore competente di riferire sulla procedura in essere per il superamento dell’Opg, sulle soluzioni e gli assetti futuri individuati per la sistemazione dei detenuti ivi compreso l’utilizzo che avrà l’antica Villa Medicea servita all’attuale Opg. Altresì chiediamo di sapere a che punto è la rete di vigilanza esterna voluta dal governo per curare i malati nel rispetto della dignità umana e i provvedimenti adottati dalla Regione Toscana per individuare le strutture che dovranno ospitare i malati”. Cagliari: il carcere scoppia, 530 detenuti anziché 345... ma alle 3 del mattino c’è la sveglia www.buongiornoalghero.it, 11 marzo 2013 “Un ordine di servizio che impone, nell’Istituto cagliaritano, una conta numerica notturna, alle 3 del mattino, sembra un inutile dispendio di energie in una Casa Circondariale sovraffollata, dov’è presente un Centro Clinico con una trentina di ammalati e anziani, tra cui diverse persone con gravi disturbi psichici. Occorre poi considerare che più di un terzo dei detenuti ( oltre 200) sono tossicodipendenti”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso che il provvedimento è stato assunto per riaffermare il principio della massima sicurezza negli Istituti Penitenziari. “Sorprende - afferma Caligaris - che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria possa ritenere di risolvere il problema della sicurezza con irruzioni notturne dentro le celle nel cuore della notte, senza considerare invece che l’Istituto conta oltre 540 detenuti anziché 345, secondo quanto stabilisce la capienza regolamentare, e che non è stato ancora colmato il deficit di circa 60 Agenti di Polizia Penitenziaria. Sembra inoltre che si voglia ignorare che dalla Casa Circondariale è quasi impossibile evadere”. “Attuare un’iniziativa di questa portata - sottolinea la presidente di SdR - rischia di esasperare gli animi dei reclusi, che sono costretti a condividere uno spazio ridottissimo anche in 6 persone. Potrebbe infatti suscitare reazioni finora scongiurate grazie ad un clima, salvo qualche eccezione, improntato al dialogo e alla responsabilità dei detenuti nonché incentrato sulla professionalità degli operatori”. “La conta numerica peraltro avviene in diverse momenti del giorno, come al mattino alle 6, e della sera e contempla spesso anche delle perquisizioni nelle celle e/o individuali. Un tale controllo sistematico, nel cuore della notte, sarebbe inoltre impossibile senza un rafforzamento dell’organico altrimenti si verificherebbe un’esposizione a rischio degli Agenti nel servizio notturno quando sono presenti soltanto 11 operatori per altrettante sezioni ciascuna delle quali è strutturata in più celle con letti che arrivano ai soffitti. Il Dipartimento - conclude Caligaris - dovrebbe impegnarsi a favorire la territorialità della pena e ad attivare tutte quelle iniziative utili a ridurre il numero di detenuti, anziché continuare ad ammucchiarli e pretendere di fare nozze con i fichi secchi”. Milano: pessimo cibo e scarsa igiene, la Garante boccia le carceri di San Vittore e Opera Dire, 11 marzo 2013 Negativo il quadro che emerge dalle visite di Alessandra Naldi a San Vittore e Opera. Appuntamento per dibattere la questione il 16 marzo a “Fa la cosa giusta”, la fiera degli stili di vita sostenibili. Nelle carceri di Milano non solo si sta stretti, ma si mangia malissimo e l’igiene è in condizioni pietose. È quanto emerge dalle visite effettuate da Alessandra Naldi, nuovo garante dei detenuti del Comune di Milano, negli istituti penitenziari di San Vittore e Opera. Il problema del sovraffollamento è quindi aggravato da altre carenze. “Ho ricevuto molte segnalazioni sullo stato dei materassi, sulla scarsa pulizia delle lenzuola - spiega la garante. Inoltre i detenuti si lamentano del fatto che non possono procurarsi disinfettanti per pulire le celle”. Anche il cibo è pessimo: per legge dovrebbe esserci una cucina che sforna i pasti ogni 200 detenuti, ma in realtà ce ne sono molte di meno. “C’è sicuramente un problema di qualità delle forniture -aggiunge la Naldi-, e dobbiamo capire anche se ci sono problemi di organizzazione. Alcuni detenuti si arrangiano comprando generi di prima necessità dallo spaccio interno, ma i prezzi spesso sono più alti che all’esterno e non tutti possono permetterselo”. La Garante parlerà delle condizioni delle carceri milanesi a “Fa la cosa giusta!”, la fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, organizzata da Terre di mezzo e che si terrà a Fieramilanocity, dal 15 al 17 marzo. Il suo intervento è previsto per sabato 16 marzo, dalle ore 12 alle 13, insieme a Lamberto Bertolè (presidente della sottocommissione carceri del Comune di Milano) e di don Gino Rigoldi (cappellano del carcere minorile Beccaria) durante l’incontro “La paladina degli invisibili”. Palermo: “In-formati”, programma di Unicredit con i ragazzi detenuti all’Ipm Malaspina Ansa, 11 marzo 2013 Si sono conclusi i due incontri formativi condotti con i ragazzi detenuti nel Carcere minorile Malaspina di Palermo nell’ambito di “In-formati”, il programma di UniCredit: obiettivo: “accrescere la capacità dei cittadini di realizzare scelte economiche consapevoli e sostenibili”. I moduli proposti, denominati “Guadagniamo il futuro”, sono stati elaborati a livello nazionale da UniCredit - in collaborazione con le associazioni dei consumatori Adiconsum, Federconsumatori e Movimento Difesa del Cittadino - con lo scopo di promuovere nelle giovani generazioni l’uso responsabile del denaro. I ragazzi sono stati intrattenuti dagli specialisti commerciali di UniCredit - Laura Fortunato, Ivana Battaglia e Fabio Vazzana - guidati da Vincenzo Tumminello, Responsabile Settore Pubblico e Sviluppo del Territorio Sicilia di UniCredit. Nel secondo incontro il modulo formativo è stato arricchito dallo specifico apporto di Confartigianato Imprese Sicilia che ha illustrato e spiegato che cosa è un business plan. “Abbiamo aderito con entusiasmo all’iniziativa di UniCredit anche quale momento di incontro tra il mondo esterno e i giovani del Malaspina di Palermo”, ha sottolineato Michelangelo Capitano, Direttore dell’Istituto Penale per Minorenni Malaspina di Palermo. “È stato veramente emozionante rivolgersi ai giovani del Malaspina - ha affermato Vincenzo Tumminello - perché speriamo di avere fornito un piccolo contributo per un loro successivo reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. Il nostro impegno formativo prosegue con convinzione. In poco più di 18 mesi, UniCredit ha erogato più di 150 corsi di educazione bancaria” Terni: l’appello dei detenuti “siamo in condizioni penose… intervengano le istituzioni” www.ternimagazine.it, 11 marzo 2013 Ancora una volta, si presenta una situazione problematica nel carcere di Terni: al cronico sovraffollamento, più volte denunciato dagli agenti di custodia e dall’ex direttore Francesco Dell’Aira, si è aggiunto da metà febbraio il trasferimento di una cinquantina di detenuti, provenienti da tutto il Paese e che andranno ad occupare l’ormai famoso nuovo reparto. In attesa che arrivino anche altri detenuti, definiti pericolosi e per i quali verrà ampliata la sezione di alta sicurezza. Ma mentre il numero dei reclusi supera i 400, quello del personale sembra che resterà immutato: gli agenti non ci stanno, avevano previsto da molto tempo la piega che avrebbe preso il sempre maggiore ampliamento dell’istituto e oggi osservano che “rispettare gli impegni sembra non impensierire la direzione, dato che sono arrivati meno della metà dei colleghi promessi”. Si preoccupano anche delle condizioni di vita all’interno dei nuovi padiglioni prefabbricati: avvertono che ci saranno freddo e caldo estremi e insopportabili. Prima di questo ulteriore arrivo, il carcere ternano ospitava già 360 detenuti - tra i quali ce ne sono diversi sottoposti al regime previsto dall’articolo 41bis (rafforzamento delle misure di sicurezza con riguardo alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, restrizioni nel numero e nella modalità di svolgimento dei colloqui, la limitazione della permanenza all’aperto - cosiddetta ora d’aria - e la censura della corrispondenza), e altri a quello di alta sicurezza, a fronte di una capienza ottimale che veniva stimata tra le 200 e le 250 unità. Frattanto in rete, dai forum dedicati ai temi sociali a Facebook, circola una inquietante testimonianza. Non abbiamo ovviamente le prove sulla verità delle gravi denunce che contiene, ma la nostra coscienza civile ci spinge a renderle note. M. A., in carcere ormai da 18 anni senza aver mai goduto dei giorni di liberazione anticipata e delle opportunità previste dalla riforma penitenziaria e dalla legge Gozzini, scrive: “Sono isolato, senza TV, senza coperta di casa e non posso usarne altre per allergie e asma, la finestra chiusa a chiave, senza caloriferi, siamo peggio degli animali. Quindici giorni fa è morto impiccato alle sbarre della cella. un ragazzo marocchino per come ci fanno vivere. Sono ancora senza vestiario, non sono al 14 bis (niente tv, porta blindata sempre chiusa, restrizioni sull’aria ecc.), ma qui la situazione è pessima neanche al passeggio la domenica pazzesco”. Quella descritta renderebbe irriconoscibile la situazione lasciata dal dottor Dell’Aira: si parlava addirittura di un carcere con la vocazione dell’arte. L’arte come strumento di riabilitazione. E di fatto l’istituto era pieno di quadri e graffiti, realizzati per lo più dai reclusi. M.A. prosegue “sono ancora senza vestiario, senza prodotti per l’igiene e senza TV, nonostante non sia al 14 bis, e, dopo averne girati tanti, posso dire che quello di Terni è il carcere peggiore in cui sia mai stato, dove si congela per il freddo e dove il ‘passeggiò consiste in 4 metri per 2?. Se tutto questo fosse vero, costituirebbe un grave vulnus per la dignità della nostra città, delle sue istituzioni, del suo vasto mondo associativo, del vivacissimo volontariato, soprattutto cattolico. C’è però in questa vicenda un risvolto positivo: abbiamo scoperto una forte rete di solidarietà dentro il mondo carcerario, delle amicizie profonde, un impegno serio da parte di persone tutt’altro che disingannate; credono in certi valori e persino nella giustizia, ne sono consapevoli e usano mezzi pacifici per ottenere che vengano rispettate leggi e norme. A questo punto sarebbe opportuna e doverosa una visita nel carcere di Sabbione da parte di esponenti delle istituzioni, accompagnati da giornalisti, per accertare le reali condizioni di vita e il rispetto dei diritti umani. Rieti: il Sindaco nomini un Garante comunale dei diritti dei detenuti di Marco Giordani (Segretario Sabina Radicale) www.sabinia.it, 11 marzo 2013 Sono passati 3 mesi da quando il sindaco di Rieti annunciò che presto anche il Comune di Rieti avrebbe avuto un Garante dei Diritti dei Detenuti. Fu un annuncio che fu accolto con soddisfazione da Sabina Radicale (con Cittadinanzattiva e Rieti Virtuosa), perché giudicavamo insufficiente l’attenzione dedicata a Rieti dal Garante regionale, che certo si deve occupare di molte strutture e in peggiori condizioni di quella reatina. Ora, a nostro avviso, una conferma della “lontananza” del carcere della nostra provincia da Roma è venuta dalle recenti elezioni. Il carcere di Rieti ospita circa 150 detenuti cittadini italiani, molti dei quali hanno diritto di voto. La possibilità di esercitare in concreto questo diritto di voto fu oggetto di una raccomandazione del Parlamento Italiano e lo stesso Garante Regionale, a fine Gennaio annunciava che “nelle prossime ore i collaboratori del Garante saranno nelle carceri per verificare la corretta applicazione delle procedure e per raccogliere informazioni sui provvedimenti adottati per l’istituzione dei seggi nelle carceri, per la verifica della sussistenza del diritto di voto dei soggetti che non lo hanno perduto, per l’affissione delle liste dei candidati e delle modalità di voto”. Nello stesso comunicato, il Garante affermava che “Nelle carceri della Regione ci sono decine di reclusi che non hanno perso il diritto al voto”; non erano decine, perché in quasi 350 hanno votato a Roma, 64 a Frosinone, 16 a Cassino, 14 a Velletri, 11 a Viterbo. A Rieti hanno votato solo in 8, e questo benché oltre 110 detenuti avessero un mese prima sottoscritto per la lista Amnistia, Giustizia e Libertà. Davvero pochi 8, anche laddove si consideri che non tutti i detenuti italiani disponessero del diritto di voto. La discrepanza si può spiegare osservando come la effettiva partecipazione al voto si sia innalzata (fino a raggiungere il 60%; a Roma il 30%) negli istituti in cui i parlamentari radicali erano andati a spiegare personalmente ai detenuti cosa fosse necessario per poter votare. Noi non sappiamo se collaboratori del Garante siano venuti anche a Rieti come annunciato, ma crediamo che un Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti avrebbe potuto meglio garantire questo diritto ai detenuti. Chiediamo perciò al Sindaco Petrangeli di dare attuazione, senza esitazioni, a quanto annunciato in dicembre. Como: la protesta dei Sindacati di PolPen; mancano 80 agenti… e il Bassone scoppia La Provincia di Como, 11 marzo 2013 Ruoli di responsabilità ricoperti senza averne il grado, straordinari pagati anche dopo cinque mesi, tentati suicidi all’ordine del giorno da mascherare. Per la polizia penitenziaria di Como, sotto organico di 80 unità, continuare a svolgere il proprio ruolo nel carcere del Bassone di Albate diventa di giorno in giorno più difficile. Al punto che il 23 marzo intendono far sentire compatti la loro voce durante la manifestazione di protesta in programma a Roma. “Il carcere del Bassone è stato costruito nell’83 per ospitare al massimo 270 detenuti, oggi ce ne sono 530 - spiega Giovanni Orrù, segretario provinciale Sindacato Autonomo Polizia penitenziaria, da 25 anni in forze al Bassone - così, in celle di tre metri per due, devono convivere anche quattro detenuti, costretti quasi a mangiare in piedi ed ad utilizzare la cella solo per dormire. “Non c’è da meravigliarsi che gesti di autolesionismo, tentati suicidi e aggressioni al personale siano all’ordine del giorno, fatti che, per scrupolo, dobbiamo ingegnarci a nascondere”. Una situazione “esplosiva”, ormai “fuori controllo”. Così viene descritto il clima che si respira all’interno del carcere del Bassone, a Como. A lanciare l’allarme è stata, ieri, la Federazione nazionale sicurezza della Cisl di Como, pronta a rivolgersi al ministero della Giustizia pur di veder ripristinate le condizioni minime di sicurezza all’interno del penitenziario di Como. In effetti, gli ultimi 4 giorni sono stati contraddistinti da un paio di episodi che la dicono lunga sulla vita degli agenti di polizia penitenziaria dentro il Bassone. Nella notte tra giovedì e venerdì scorsi, un ispettore è finito all’ospedale con i sintomi e i segni visibili sul collo dello strangolamento. La “colpa” dell’agente è stata intervenire in una cella per sedare una rissa scoppiata per futili motivi tra due detenuti. L’obiettivo, effettivamente, è stato centrato, visto che i contendenti, venuti precedentemente alle mani, sono stati divisi. Il punto, però, è che uno di essi si è poi sfogato contro l’ispettore, afferrandolo di spalle e stringendogli le mani al collo fino quasi a soffocarlo. Per l’agente è stato necessario il ricovero al Pronto soccorso e tuttora è in convalescenza. Di altra natura l’episodio accaduto all’inizio della settimana. Quando un detenuto di origine albanese, sfruttando un permesso, ha lasciato il Bassone la mattina per non farvi mai più ritorno. Dell’evaso, finora, nessuna traccia. “Questi due episodi - reclamano i rappresentanti sindacali - sono soltanto le ultime due gocce che hanno fatto traboccare il vaso. Basti pensare che, stando alla pianta organica, gli agenti in servizio dovrebbero essere quasi 400 e invece ne mancano 80. In compenso, i detenuti sono 530 e dovrebbero essere meno di 300”. Uno scompenso evidente, dunque, reso ancora più grottesco da un altro fattore. “Per quanto riguarda i detenuti, spiegano dalla Cisl, il numero ufficiale della pianta organica, oggi, dice che ne possono essere ospitati 421. Ma per arrivare a quel numero, vennero conteggiati anche gli spazi dei bagni. Ora, per fortuna, si procederà a un calcolo più serio”. Meno semplice, per così dire, sarà porre rimedio alle altre magagne del carcere lariano. Che, per citarne una clamorosa, dal tramonto all’alba viene inghiottito da una surreale oscurità. “È inevitabile - confermano i sindacalisti - perché tutti i lampioni che dovrebbero illuminare la struttura fuori e dentro il muro di cinta sono rotti. E persino i sistemi di allarme e videosorveglianza hanno grossi problemi”. I soldi per sistemarli, però, non ci sono. “Ma di questo passo - è la prospettiva - la situazione peggiorerà sempre. Ormai non è più garantita la sicurezza né per gli agenti, né per gli stessi detenuti, che vivono sulla propria pelle una situazione di sovraffollamento evidente. Senza un intervento rapido, si rischia che tutto possa degenerare”. Salerno: i Radicali; doverosi ricorsi contro le ordinanze del tribunale di sorveglianza La Città di Salerno, 11 marzo 2013 Permessi premio, permessi di lavoro, possibilità di scontare la pena nelle comunità o in centri sanitari attrezzati: sono solo alcune delle tante richieste che il Tribunale di sorveglianza, nella maggior parte dei casi boccia. Un atteggiamento ostativo “di gran lunga più intransigente di quello che viene adottato in altre realtà” e che “rischia di far decadere l’articolo 27 della Costituzione relativo al recupero ed al reintegro del detenuto”. Donato Salzano, dell’associazione Radicale Maurizio Provenza, è durissimo. “Non si possono negare i diritti”, sottolinea, annunciando che Nessuno tocchi Caino, il pool di avvocati che si dedica ai problemi dei detenuti e dei loro familiari, “sta valutando di incardinare dei ricorsi contro le ordinanze dei giudici del tribunale di sorveglianza”. Ricorsi basati sulla responsabilità civile dei magistrati che, per la prima volta, verranno chiamati in causa per le loro “bocciature”. “La cosiddetta svuota-carceri dalle nostre parti non viene neppure presa in considerazione - incalza Salzano. La possibilità di usufruirne, laddove ovviamente i detenuti siano nelle condizioni di poterlo fare, è in percentuale molto vicina allo zero. In pratica, su cento richieste, forse ne viene accolta una”. Eppure oltre il 50% dei detenuti “si trova a Fuorni per un abuso della custodia cautelare in carcere che dovrebbe essere una misura eccezionale, visto che la Costituzione prevede la presunzione di innocenza fino a sentenza passata in giudicato. Invece da noi viene adoperato come uno strumento di indagine”. Un dato, questo, che supera di gran lunga la media nazionale (42%) e che alimenta un sovraffollamento ormai non più gestibile “che ha contribuito a collezionare 2200 condanne della Corte di giustizia per trattamenti inumani e degradanti, alias torture, che vedono l’Italia dietro solo alla Turchia”. I Radicali si preparano dunque a dare filo da torcere, ma in primis chiedono “che il Csm nomini il presidente del Tribunale di sorveglianza, una poltrona che resta vuota da più di un anno”. Roma: operai e dirigenti delle coop di ex detenuti occupano l’Assessorato all’Ambiente Agi, 11 marzo 2013 L’assessorato all’Ambiente di Roma Capitale, a Porta Metronia, da diverse ore è stato “occupato” da maestranze e dirigenti delle cooperative sociali di tipo B, che gestiscono parte del servizio di manutenzione di parchi e giardini della città. Alcuni operai sono saliti sul tetto della struttura che ospita il Servizio Giardini: tra loro c’è anche Pino Pelosi, l’uomo condannato per l’assassinio di Pier Paolo Pasolini, libero dal 2009 e affidato ai servizi sociali. Pelosi avrebbe “minacciato il suicidio”, secondo quanto denuncia il Coordinamento delle cooperative sociali di tipo B, che riconduce i motivi della protesta “alla mancanza di risposte da parte dell’amministrazione comunale di Roma da ormai 2 mesi”, in merito alla “scadenza, il 31 dicembre scorso, degli affidamenti”. A causa della quale “i parchi hanno iniziato ad avere problemi di manutenzione e decine di lavoratori sono finiti in cassa integrazione”. Ora, secondo i manifestanti, il Campidoglio “vorrebbe distogliere le risorse destinate ai servizi eseguiti dalle cooperative sociali per assegnarle ad imprese private”, mettendo a rischio “400 lavoratori appartenenti per lo più a categorie svantaggiate: detenuti ed ex detenuti, disabili fisici e psichici, tossicodipendenti e alle fasce deboli della società”. Il Coordinamento annuncia che le maestranze “occuperanno ad oltranza l’assessorato all’ambiente fin quando il sindaco Alemanno non ripristinerà le procedure votate all’ unanimità dal Consiglio comunale e da lui stesso assunte in termini di impegno”. Contestualmente chiedono primo cittadino di dare corso alle proroghe degli affidamenti con 800mila euro disponibili e contemporaneamente di indire la gara da 2 milioni di euro” riservata alle cooperative sociali. “La nostra cooperativa copre il 40% del lavoro di manutenzione dei giardini e verde pubblico di Roma. Fermarci non vuol dire solo mandare a casa 400 lavoratori che versano già in condizioni socialmente disagiate, ma anche far perdere alla città un importante contributo in termini di servizi per la collettività”, ha dichiarato Annamaria Cesaretti, responsabile del circolo Sel di Casal Bruciato del Municipio V e portavoce della manifestazione. “Siamo qui a manifestare in modo pacifico, ma non ce ne andremo fino a quando non avremo ottenuto la proroga e quindi la possibilità di tornare a lavorare”, ha continuato. Nel frattempo, sul posto sono accorse anche le forze dell’ordine, che per il momento presidiano la situazione valutando o meno l’eventualità di intervenire nel caso in cui la manifestazioni degeneri in scontri e violenze. Udine: incontro con Franco Corleone, per dire “stop” al sovraffollamento nelle carceri Messaggero Veneto, 11 marzo 2013 “Una battaglia di civiltà”. Dopo la condanna inflitta all’Italia dalla Corte europea dei diritti umani per trattamenti degradanti nelle carceri, adesso è la società ad alzare la voce: migliaia di cittadini hanno già firmato il disegno di legge di iniziativa popolare proposto da 30 associazioni. E ieri la campagna ha toccato Udine. “È un vero e proprio programma di governo per ripristinare la legalità nel nostro sistema penale e penitenziario”, ha detto l’ex sottosegretario alla Giustizia e presidente della Società della ragione onlus, Franco Corleone. “Il sovraffollamento non è una calamità naturale né un mostro invincibile - ha proseguito Corleone parlando a un nutrito gruppo di cittadini riunito al caffè Caucigh: basta cambiare le leggi che sono la radice del fenomeno, prima fra tutte quella sulla droga”. Si calcola che soltanto nel 2012 siano entrate in prigione 28 mila persone fra consumatori e piccoli spacciatori. E sono oltre 15 mila i tossicodipendenti su un totale di circa 67 mila detenuti. “La metà delle persone stipate nelle patrie galere ha avuto a che fare con la legge sulle droghe - ha precisato Corleone. Ecco perché è urgente cancellare le norme affolla carceri per evitare arresti in caso di reati di lieve entità”. Su questa linea sono state elaborate tre proposte di legge di iniziativa popolare che potranno essere presentate in Parlamento se almeno 50 mila cittadini le sosterranno. La prima prospetta l’inserimento nel Codice penale del reato di tortura, escluso dal nostro ordinamento firmato nel 1930 dall’allora ministro Alfredo Rocco. “Dobbiamo salvaguardare la dignità delle persone e anche quella dello Stato - ha detto l’avvocato Andrea Sandra, impegnato nel processo per la mattanza avvenuta nella caserma Bolzaneto. Durante la mia carriera ho visto l’impotenza e l’imbarazzo dei giudici impossibilitati a punire il reato di tortura”. La seconda proposta interviene in materia di diritti dei detenuti e di riduzione dell’affollamento penitenziario. La terza, infine, si propone di modificare la legge sulle droghe nei punti più controversi. “La legge Giovanardi riduce una questione che attiene la società come l’uso di droghe a una questione meramente criminale - ha evidenziato Corleone. E chiedo anche la rimozione immediata dall’incarico del capo dipartimento politiche antidroga Giovanni Serpelloni, braccio destro di Giovanardi che ha messo in campo una politica ideologica senza precedenti”. Prossimo impegno è la raccolta firme, giovedì 4 aprile, davanti a tutti i tribunali italiani, mentre il martedì successivo, l’11, la proposta sarà presentata a Roma a tutti i parlamentari. Alla conferenza di ieri hanno partecipato anche esponenti politici, rappresentanti di associazioni (come Massimo Brianese della Società della ragione) e cittadini. Michela Zanutto Cagliari: i Radicali oggi visitano il carcere di Buoncammino e l’Imp di Quartucciu L’Unione Sarda, 11 marzo 2013 I Radicali e le associazioni in visita al carcere di Buoncammino. Questo pomeriggio, dalle 15, il deputato Maurizio Turco, insieme alla segretaria dell’associazione “Il detenuto Ignoto”, Irene Testa, e alla Radicale Maria Isabella Puggioni visiteranno l’istituto penitenziario del capoluogo. I parlamentari Radicali uscenti della lista Amnistia Giustizia e Libertà concluderanno il loro mandato parlamentare visitando alcune delle carceri italiane, e in questo tour verificheranno le condizioni di detenzione e di lavoro di tutti coloro che prestano la loro opera all’interno degli istituti, compresi quelli sardi. “Sarà l’occasione - fanno sapere gli organizzatori dell’iniziativa - per chiedere ai neo-eletti che si insedieranno a breve di proseguire quell’opera di attenzione che tutti i parlamentari radicali dal 1976 in poi, a partire da Marco Pannella, hanno riservato al carcere quale specchio della civiltà di un Paese”. La delegazione radicale visiterà anche il carcere minorile di Quartucciu. Bologna: domani la Garante regionale dei diritti dei detenuti in visita all’Ipm del Pratello Ristretti Orizzonti, 11 marzo 2013 Il 12 marzo la Garante dei diritti delle persone private della libertà della Regione Emilia-Romagna, Desi Bruno, si recherà in visita all’ Istituto penale minorile di Bologna. A seguire parteciperà al terzo incontro previsto con i ragazzi del carcere minorile del Pratello. Si parlerà di diritto alla cittadinanza e dei problemi che quotidianamente un minore straniero deve affrontare per restare in Italia. L’incontro si colloca all’interno del progetto “Liberiamo i diritti, impariamo a conoscere i nostri doveri” promosso congiuntamente dal Garante per le persone private della libertà personale e il Garante per l’infanzia e l’adolescenza della regione Emilia-Romagna. L’iniziativa, che ha come obiettivo quello di sensibilizzare i ragazzi alla cultura dei diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione ma anche al tema dei doveri e delle responsabilità, è gestita dall’Associazione Uva Passa in collaborazione con il Centro di Giustizia Minorile dell’Emilia-Romagna, le direzioni dell’Istituto penale minorenni, della comunità ministeriale e dell’ufficio servizio sociali minorili. I due incontri precedenti, svoltisi tra dicembre e gennaio, hanno trattato il tema del “Lavoro come strumento per realizzare la propria libertà”. In entrambe le occasioni i ragazzi - rispettivamente della comunità prima e del centro minorile poi - hanno seguito con grande interesse l’intervento del responsabile del progetto Fare Impresa Dozza S.r.l., Gian Guido Naldi che oltre a raccontare il progetto - la sua nascita e le attuali evoluzioni - ha focalizzato l’attenzione sul lavoro come mezzo per realizzare la propria libertà. Immigrazione: Garante Desi Bruno; situazione Cie Modena per bando al massimo ribasso Ristretti Orizzonti, 11 marzo 2013 Dopo la visita di venerdì 8 marzo all’interno del Cie (Centro di Identificazione e di Espulsione) di Modena, il giudizio di Desi Bruno, Garante regionale per le persone private della libertà personale, appare più severo che in passato: “Nel complesso, la situazione del Cie di Modena è certamente migliore dell’analoga struttura di Bologna [appena chiusa per interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, ndr], ma è certamente peggiorata da luglio 2012”. Da allora, è diventato ente gestore del Cie il Consorzio Oasi, vincitore della gara al massimo ribasso indetta del Ministero degli Interni. La scelta compiuta dal Ministero di indire bandi al massimo ribasso per queste strutture non si è rivelata positiva, come ha evidenziato anche il Sindaco di Modena, Pighi. Anziché risolversi, i problemi denunciati in passato, sono aumentati. Venerdì si trovavano dentro il Cie di Modena 47 persone, alcune con gravi problemi di salute e per le quali sarebbero necessari accertamenti immediati. Si aggiungano le difficoltà degli operatori non pagati da mesi, lo stesso menù fornito da settimane e di qualità scadente, la presenza di un solo medico. Di una situazione così precaria, fanno le spese anche gli operatori di polizia e i militari costretti a gestire una situazione sempre più incandescente. Sono recenti la richiesta di chiusura del Cie di Modena da parte degli operatori di polizia penitenziaria, e lo sciopero (28 febbraio) dei dipendenti del Consorzio Oasi per il mancato pagamento degli stipendi. Perciò, la Garante afferma: “Mentre aspettiamo una assunzione di responsabilità per la chiusura definitiva del Cie, dobbiamo intervenire quanto prima per impedire che il disagio diventi velocemente degrado, mettendo a rischio le persone trattenute e i lavoratori”. Una prima misura concreta sarebbe l’apertura dello sportello di informazione giuridica già attivato da maggio 2012 presso il Cie di Bologna. L’autorizzazione ad avviare questo servizio dipende dalla Prefettura; lo sportello consentirebbe di dare consulenza gratuita ai cittadini trattenuti, che spesso non capiscono perché si trovano reclusi senza aver commesso un reato. “Lo sportello di informazione giuridica - conclude Desi Bruno - agirebbe in sinergia con il Comune di Modena, come auspicato dall’assessore alle Politiche sociali, Francesca Maletti, e con il volontariato, che in queste settimane muove i primi passi all’interno del Cie”. India: i marò Latorre e Girone resteranno in Italia dopo il termine del permesso elettorale Agi, 11 marzo 2013 Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non faranno rientro in India alla scadenza del permesso di quattro settimane concesso loro il mese scorso dalla Corte Suprema di Nuova Delhi. Le tappe fondamentali del caso dei due fucilieri del Reggimento San Marco: 15 febbraio 2012: due pescatori indiani, Valentine Jalstine e Ajesh Binki, vengono uccisi da colpi di arma da fuoco a bordo della loro barca al largo delle coste del Kerala. Della loro morte vengono accusati i due marò in servizio anti-pirateria sulla petroliera Enrica Lexie, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, che però sostengono di aver sparato in aria come avvertimento. Inoltre, il fatto sarebbe avvenuto in acque internazionali a sud dell’India. 25 maggio 2012: dopo aver passato quasi tre mesi nel carcere indiano di Trivandrum, capitale dello Stato federale del Kerala, i due fucilieri della Marina vengono trasferiti in una struttura a Kochi e viene loro concessa la libertà su cauzione, con il divieto di lasciare la città. 20 dicembre 2012: viene accolta la loro richiesta di un permesso speciale per trascorrere in famiglia le festività natalizie in Italia, con l’obbligo di tornare in India entro il 10 gennaio. Il 22 dicembre atterrano a Roma, per ripartire alla volta di Kochi il 3 gennaio. 18 gennaio 2013: la Corte Suprema indiana stabilisce che il governo del Kerala non ha giurisdizione sul caso e dispone che il processo venga affidato a un tribunale speciale da costituire a New Delhi. 22 febbraio 2013: la Corte Suprema indiana concede ai due fucilieri di tornare in Italia per quattro settimane per votare. Iraq: Amnesty; dieci anni da caduta di Saddam, ma ancora diritti umani violati e torture Agenparl, 11 marzo 2013 In un rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha affermato che, 10 anni dopo l’invasione diretta dagli Usa che abbatte il brutale regime di Saddam Hussein, l’Iraq resta intrappolato in un orribile ciclo di abusi, tra i quali gli attacchi contro la popolazione civile, la tortura nei confronti dei detenuti e i processi irregolari. Il rapporto di Amnesty International contiene una cronologia di torture e altri maltrattamenti ad opera delle forze di sicurezza irachene e di truppe straniere, all’indomani dell’invasione del 2003. Inoltre, mette in luce il costante venir meno delle autorità irachene all’obbligo di rispettare i diritti umani e lo stato di diritto nella risposta agli incessanti attacchi mortali dei gruppi armati, i quali mostrano un vergognoso disprezzo per la vita dei civili. “Dieci anni dopo la fine del repressivo regime di Saddam Hussein, molti iracheni godono di maggiore libertà ma i traguardi fondamentali che avrebbero dovuto essere conseguiti nel campo dei diritti umani devono ancora diventare realtà” - ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord. “Né il governo iracheno né le ex potenze occupanti hanno aderito agli standard richiesti dal diritto internazionale e, per questo motivo, la popolazione irachena sta ancora pagando un prezzo alto”. La tortura è comune e praticata con impunità dalle forze di sicurezza, soprattutto nei confronti delle persone arrestate sulla base delle leggi antiterrorismo e che vengono interrogate in condizioni di isolamento. Sottoposti a questo trattamento, detenuti hanno denunciato di aver confessato gravi crimini o di averli attribuiti ad altri. Una volta portati in aula per il processo, molti hanno ritrattato le confessioni rese durante gli interrogatori ma i giudici le hanno ammesse come prova di colpevolezza, senza neanche indagare sulle denunce di tortura, emettendo lunghe condanne detentive o anche sentenze capitali. Un’altra ingiustizia consiste nell’aver esibito i detenuti durante le conferenze stampa o aver trasmesso in televisione le loro confessioni prima dei processi o prima dei verdetti, in grave violazione del principio d’innocenza e del diritto di ogni persona a ricevere un processo equo. La pena di morte, sospesa dopo l’invasione del 2003, è stata reintrodotta dal primo governo iracheno non appena entrato in carica e le esecuzioni sono riprese nel 2005. Da allora, sono stati messi a morte almeno 447 prigionieri, tra cui Saddam Hussein, alcuni dei suoi più stretti collaboratori e presunti membri di gruppi armati. Centinaia di prigionieri sono in attesa dell’esecuzione nei bracci della morte. L’Iraq, con 129 prigionieri messi a morte nel 2012, è uno dei paesi in cui la pena di morte viene applicata con maggiore frequenza. “Le condanne a morte e le esecuzioni in Iraq si susseguono in modo orribile. Desta particolare sconcerto il fatto che molti prigionieri siano stati condannati a morte al termine di processi iniqui, sulla base di confessioni a loro dire rese sotto tortura. È giunto il momento che l’Iraq ponga fine a questo terribile ciclo di abusi e dichiari una moratoria sulle esecuzioni come primo passo verso l’abolizione della pena di morte per tutti i reati” - ha sottolineato Sahraoui. Dal dicembre 2012, migliaia di persone sono scese in strada nelle aree a maggioranza sunnita, per protestare contro le detenzioni arbitrarie, gli abusi sui detenuti, l’uso delle leggi antiterrorismo e per chiedere la fine dell’atteggiamento discriminatorio del governo nei loro confronti. Nel frattempo, i gruppi armati sunniti hanno continuato ad attaccare non solo obiettivi governativi ma anche la popolazione civile sciita, non risparmiando neanche gruppi di pellegrini. Sebbene la semiautonoma Regione del Kurdistan, nel nordest del paese, sia rimasta largamente libera dalla violenza, i due partiti curdi al governo restano saldi al potere e non mancano denunce di abusi nei confronti dei detenuti. “Alla caduta di Saddam Hussein nel 2003 sarebbe dovuto seguire un percorso di fondamentali riforme nel campo dei diritti umani, ma quasi dal primo giorno le forze di occupazione si sono rese responsabili di torture e altre gravi violazioni dei diritti umani ai danni dei prigionieri, come dimostrato dallo scandalo delle torture ad Abu Ghraib che ha coinvolto le forze statunitensi e dal pestaggio a morte di Baha Mousa a Bassora, un uomo che era sotto custodia britannica” - commentato Sahraoui. Sia in Gran Bretagna che negli Usa, a parte inchieste su casi specifici, non si è indagato a fondo sulle massicce violazioni dei diritti umani commesse dalle forze dei due paesi e non ne sono state accertate le responsabilità a ogni livello. Ai cittadini iracheni vittime di violazioni dei diritti umani da parte di funzionari Usa, non è stato possibile adire le corti statunitensi. Le autorità irachene hanno di tanto in tanto ammesso l’esistenza di casi di torture e maltrattamenti ma hanno cercato di descriverli come episodi isolati; nei casi di più alto profilo, hanno annunciato l’avvio di inchieste ufficiali i cui risultati, ammesso che quelle inchieste abbiano avuto luogo, non sono mai stati resi noti. Come mostra il rapporto di Amnesty International, la tortura e altri abusi sui detenuti sono l’elemento più ricorrente e diffuso dello scenario iracheno. Il governo mostra scarsa intenzione di riconoscerne l’elevata diffusione o di prendere le misure necessarie per porvi fine. I metodi di tortura denunciati dai detenuti comprendono scariche elettriche ai genitali e su altre parti del corpo, il semi-soffocamento con la testa stretta in una busta di plastica, pestaggi mentre sono sospesi in posizioni contorte, diniego del cibo, dell’acqua e del sonno, minacce di stupro nei loro confronti o delle loro parenti. Il rapporto cita anche diversi casi di donne che hanno denunciato di aver subito violenza sessuale in carcere. “L’Iraq resta intrappolato in un ciclo di tortura e impunità che avrebbe dovuto essere spezzato da tempo. È più che giunto il momento che le autorità irachene facciano passi concreti per creare una cultura della protezione dei diritti umani e che lo facciano senza ulteriori prevaricazioni né ritardi” - ha concluso Sahraoui. Ulteriori informazioni Il rapporto di Amnesty International è basato su informazioni raccolte da più fonti, tra cui prigionieri, familiari delle vittime, rifugiati, avvocati, attivisti per i diritti umani e dall’esame di atti giudiziari e di altra documentazione ufficiale. Alcune di queste informazioni sono state raccolte durante una missione di ricerca nella Regione del Kurdistan e una visita a Baghdad, nel settembre 2012, nel corso della quale Amnesty International ha incontrato funzionari del ministero per i Diritti umani e del Consiglio supremo giudiziario. Nel dicembre 2012, Amnesty International ha trasmesso al governo le sue conclusioni, non ricevendo ancora alcuna risposta. India: trovato impiccato in cella uno accusati stupro di gruppo, autista dell’autobus Adnkronos, 11 marzo 2013 Uno degli uomini accusati dello stupro di gruppo che ha provocato la morte della 23enne studentessa indiana è stato trovato impiccato nella sua cella. Secondo quanto riportano i media indiana si tratta di Ram Singh, il 33enne autista dell’autobus dove il 16 dicembre scorso l’uomo insieme ad altri sei ha aggredito e stuprato la giovane che poi è morta due settimane dopo nell’ospedale di Singapore dove era stata ricoverata. Il caso ha provocato in India un’ondata di proteste contro le violenze ai danni delle donne che ha spinto ad un’azione da parte del governo. Riguardo alla morte del detenuto, le autorità sono ancora caute nel parlare di suicidio, dal momento che l’uomo era in cella con altre tre persone. “Un’inchiesta è stata avviata per determinate le cause della morte”, ha detto un portavoce della prigione. Ma l’avvocato di Sing non ha dubbi nell’escludere il suicidio che parla di un vero “complotto”. Egitto: da polizia violenze e torture su adolescenti… la rivoluzione non arriva nelle carceri di Valentina Marconi www.osservatorioiraq.it, 11 marzo 2013 In prima linea nelle proteste di piazza, adolescenti e bambini continuano a pagare a caro prezzo il loro “impegno” nella rivoluzione. In un Egitto sempre più in balìa dell’instabilità politica e della violenza, gli abusi delle forze dell’ordine e dei militari non hanno risparmiato neanche i minori. “Cosa ti fa più paura?” chiede la voce fuori campo. “I blindati della polizia”, risponde Zeyd Taysin Mohammed, dodici anni, mentre si tocca nervosamente il viso e racconta la sua storia in un video postato su internet dal collettivo Mosireen. Zeyd stava camminando in una via centrale del Cairo quando la gente intorno a lui ha cominciato a correre. È allora che i poliziotti l’hanno preso e buttato di peso nel loro furgone. “Se non ci dici chi ti paga per protestare, ti tagliamo la gola e gettiamo il tuo corpo in mare”, gli hanno urlato. “Dentro il blindato eravamo in sei e due di noi hanno subìto violenze sessuali - spiega Zeyd. C’era anche un ragazzo copto, Kirollos e quando gli agenti gli hanno trovato un crocifisso addosso, volevano farlo a pezzi”. Una volta in carcere, Zeyd è stato messo in una cella con altre 179 persone (adulte). L’hanno accusato di appartenere ai Black Block e di aver lanciato Molotov contro gli agenti durante una manifestazione. Secondo il collettivo Mosireen, in occasione del secondo anniversario della rivoluzione, le forze dell’ordine egiziane hanno condotto la più grande campagna di arresti a carico di minori dell’era post-Mubarak: 250 ragazzi sono stati portati in prigione e sottoposti a torture corporali, psicologiche e sessuali. Nel settembre dello scorso anno invece, durante le manifestazioni davanti all’ambasciata americana, sono stati arrestati 136 minori, mentre sono 300 in tutto quelli finiti in carcere fra la fine del 2011 e novembre 2012. Secondo Human Rights Watch, in Egitto i minori vengono arrestati e reclusi illegalmente in centri di detenzione per gli adulti, senza poter parlare con uno psicologo o vedere la famiglia (spesso neanche avvertita dell’arresto). I bambini intervistati dalla Ong hanno testimoniato di aver subito maltrattamenti fisici. “Poliziotti e militari ci hanno preso a calci, percossi con l’impugnatura di fucili e bastoni e sottoposti all’elettroshock”, si legge nel rapporto. Morsi ha promesso di porre fine alle violenze sui minori ma, secondo il ricercatore Priyanka Motaparthy, se è davvero intenzionato a farlo, deve dare massima priorità alle indagini sugli abusi e impegnarsi a perseguire penalmente i responsabili. Sally Toma, psichiatra e fondatrice della campagna Kazeboon, ha dichiarato: “Gli abusi delle forze dell’ordine sono un fenomeno radicato nella quotidianità egiziana. Dopo la rivoluzione però gli attivisti ne sono diventati le vittime principali e, fra loro, vi sono molti bambini che stanno ancora combattendo in prima linea contro il regime. [..] I più piccoli sono arrestati durante le proteste, portati nelle stazioni di polizia o nei campi militari e sottoposti ad abusi, anche sessuali”. “Una volta liberati - continua - tornano in piazza a protestare e lì il ciclo ricomincia con nuovi arresti e nuove violenze. [..] In un certo senso, il regime sta plasmando una generazione pronta a tutto pur di eliminarlo, e carica di odio contro le autorità”. Purtroppo, le leggi in vigore non sono rispettate e i diritti garantiti dal sistema giuridico rimangono solamente sulla carta. Infatti, l’Egitto ha ratificato la Convenzione sui Diritti del Fanciullo il cui articolo 37 prevede che l’arresto e la detenzione dei minori siano misure di ultima istanza, usate solo per periodi di tempo brevi e in conformità con la legislazione nazionale. Inoltre, la legge egiziana dispone che i bambini sotto i dodici anni non siano penalmente perseguibili mentre la custodia cautelare non può essere applicata ai minori di quindici anni. Le autorità sono quindi incoraggiate a non privare i più piccoli dell’ambiente famigliare salvo che in casi eccezionali e per periodi molto circoscritti. Infine, in base alla legge n.126 del 2008, spetta al tribunale minorile giudicare questi casi e i pubblici ufficiali che permettono la detenzione di minorenni insieme ad adulti sono perseguibili penalmente. “Non è chiaro perché le autorità giudiziarie continuino ad ignorare la legislazione in materia - ha dichiarato Motaparthy. I giudici non dovrebbero decidere in modo arbitrario delle vite dei più piccoli, anche se è quello che stanno facendo”. Prima della rivoluzione, i bambini di strada si affidavano a dei centri di aiuto per ricevere cibo, medicinali e altri beni di prima necessità. Con l’inizio delle proteste e dell’instabilità politica, molti di questi centri hanno chiuso e i bambini si sono ritrovati ancora più soli di prima. Secondo il ricercatore Andrew Wander, molti sono stati attratti dal “Festival di Tahrir” e hanno preso parte alle manifestazioni. Ma l’euforia iniziale ha presto lasciato spazio alla paura e, quando la violenza è esplosa, questi bambini sono diventati bersaglio di maltrattamenti e violazioni da parte delle forze dell’ordine. Per loro, Tahrir è stata un’opportunità per vendicarsi degli abusi subìti sotto Mubarak e la prima vera occasione per sentirsi parte della comunità egiziana. Tuttavia, dopo la rivoluzione, l’intolleranza nei loro confronti è cresciuta notevolmente. Secondo Frida Alim, i media hanno giocato un ruolo centrale a questo riguardo, dipingendoli come criminali. “In realtà - spiega la ricercatrice - molti di loro scappano da famiglie violente e sono stati vittime di maltrattamenti anche fra le mura domestiche”. La maggior parte di questi bambini vive al Cairo e ad Alessandria: secondo le fonti governative sarebbero circa 50.000, ma le statistiche delle Ong sono molto più alte (dai 250.000 ai 2 milioni). Le loro storie fanno luce su una piaga sociale enorme, tanto più preoccupante e difficile da gestire perché circondata da una profonda omertà. “È sorprendente come in Egitto il prezzo dei pomodori faccia arrabbiare la gente molto più degli abusi sui minori”, ha scritto su Twitter la ricercatrice Nelly Ali, la settimana scorsa. Il fatto che molti di loro non abbiano documenti identificativi costituisce un altro grande problema. Primo, perché senza carta di identità non possono accedere ad alcuni servizi di base come l’educazione e la sanità. Secondo, perché la polizia li arresta proprio con questa scusa, facendoli diventare due volte vittime del sistema politico e giudiziario egiziano. In un Egitto in transizione, la morsa del regime sui rivoluzionari si fa sempre più stretta. E la violenza delle forze dell’ordine è lo strumento principe con cui eliminare gli attivisti dalle piazze: anche i più piccoli. Arabia Saudita: pena morte; decapitato omicida a Riad, da gennaio eseguite 18 condanne Aki, 11 marzo 2013 Un cittadino saudita è stato decapitato a Riad dopo essere stato condannato alla pena di morte per l’omicidio di un connazionale. Lo riferisce una nota del ministero dell’Interno saudita, riportata dall’agenzia di stampa ufficiale Spa. Khaled bin Hamad era stato condannato alla pena capitale per aver ucciso a coltellate Abdul Mohsen bin Othman dopo una lite. Da gennaio in Arabia Saudita sono state eseguite almeno 18 condanne a morte. Nel 2012, secondo Human Rights Watch, nel regno sono stati messi a morte almeno 69 detenuti. Omicidio, stupro, apostasia, rapina a mano armata, oltre al traffico di droga, sono i reati che nel Paese vengono puniti con la pena di morte. Arabia Saudita: scarcerate tutte le donne arrestate durante protesta a Buraida Aki, 11 marzo 2013 Sono state scarcerate tutte le donne arrestate a inizio mese a Buraida, località nella zona settentrionale dell’Arabia Saudita, durante un sit-in di protesta per chiedere il rilascio di alcuni prigionieri islamisti. Lo ha riferito una nota della polizia della provincia di Qassim, citata dall’agenzia d’informazione Spa. “Tutte le donne arrestate sono state liberate eccetto due di loro, che hanno rifiutato di lasciare il carcere anche dopo che tutte le procedure per il loro rilascio erano state espletate”, si legge nel comunicato. “Sono in corso contatti con i loro familiari per convincerle ad attuare la disposizione giudiziaria”, prosegue la nota. Lo scorso 1 marzo la polizia saudita ha arrestato 176 dimostranti, tra cui 15 donne, per aver organizzato una manifestazione illegale a Buraida. Le autorità hanno accusato gli arrestati di aver tenuto un comportamento analogo a quello dei “gruppi devianti”, un termine che nel regno del Golfo viene di solito accostato ad al-Qaeda. Emirati Arabi: Human Rights Watch chiede di fare chiarezza su torture a 94 imputati Aki, 11 marzo 2013 L’ong internazionale Human Rights Watch ha lanciato un appello alle autorità degli Emirati Arabi Uniti, chiedendo che si faccia luce sulle denunce di torture subite in carcere da un gruppo di attivisti accusati di “crimini contro la sicurezza nazionale” e di aver pianificato una strategia per sovvertire il governo. Molti dei 94 imputati hanno raccontato ai giudici, la scorsa settimana, di essere stati più volte percossi, messi in isolamento, bendati, costretti ad assumere farmaci sconosciuti e di essersi viste negare alcune cure mediche. A queste violazioni, secondo Hrw, si aggiunge un accesso molto limitato agli strumenti di difesa e poca trasparenza su documenti e prove. Per l’ong, il caso solleva “interrogativi sulla volontà degli Emirati di rispettare i diritti fondamentali degli imputati. L’ong chiede inoltre ai giudici di non utilizzare eventuali prove “ottenute attraverso i maltrattamenti o la coercizione”. Il processo è ripreso questa mattina a porte chiuse e non è quindi possibile conoscerne gli sviluppi. Tra gli imputati si contano due noti avvocati per i diritti umani, Mohammed al-Roken e Mohammed al-Mansoori, oltre a giudici, insegnati e leader studenteschi. Tra i 94 a processo, anche una decina di donne. Afghanistan: iraniano condannato a morte per spionaggio Aki, 11 marzo 2013 Un cittadino iraniano è stato condannato a morte da un tribunale afghano con l’accusa di spionaggio a favore delle forze armate della Repubblica Islamica. Lo riferisce la tv afghana Tolo. La sentenza di primo grado è stata emessa da un tribunale della provincia di Badghis, nell’Afghanistan nordoccidentale. L’uomo è accusato di essere entrato illegalmente in Afghanistan lo scorso febbraio e di aver raggiunto Badghis dalle zone di confine della provincia di Herat. L’iraniano è accusato di essere un agente dell’intelligence dei Guardiani della Rivoluzione e di lavorare per conto del consolato di Teheran a Herat con l’obiettivo di ottenere informazioni militari. La difesa sostiene che l’uomo - arrestato nei pressi di un checkpoint nel distretto di Moqor gestito dall’esercito afghano e dai militari spagnoli delle forze della coalizione - fosse a Badghis per lavorare come operaio. “Ha confessato. Abbiamo prove a sufficienza”, ha detto il presidente del tribunale di primo grado di Badghis, Ferdaws Ahmad Fayez. Secondo Amnesty International, sarebbero 200 i detenuti condannati a morte in Afghanistan. Lo scorso novembre in appena due giorni a Kabul sono stati messi a morte 14 prigionieri. Negli ultimi quattro anni le condanne alla pena capitale eseguite erano state due. Libia: cristiano protestante egiziano muore in carcere, per la moglie è stato torturato Asca, 11 marzo 2013 Un cristiano protestante egiziano è morto dopo 10 giorni di prigionia in un carcere libico di Bengasi. Si tratta di Ezzat Hakim Attalah, 45 anni, padre di due figli, arrestato lo scorso 28 febbraio insieme ad altri cinque connazionali cristiani evangelici con l’accusa proselitismo. Ne dà notizia la Middle East Christian News Agency, citando fonti del ministero degli Esteri egiziano secondo cui l’uomo è deceduto per cause naturali poiché diabetico e affetto di disturbi cardiaci. Interpellata dalla stessa Mcn-direct, Ragaà Abdullah Guirguis, la moglie di Attalah, ha tuttavia raccontato che il marito è morto per le pressioni e le torture materiali inflitte dai carcerieri libici e ha annunciato che farà quindi ricorso ad avvocati internazionali per stabilire la reale dinamica del decesso. Il caso di Attalah ha acceso i riflettori sulla drammatica situazione dei cristiani in Libia, divenuti bersaglio delle milizie salafite che controllano la regione della Cirenaica, scrive Asia News. Assaltata ambasciata libica al Cairo dopo morte copto in carcere Decine di egiziani copti hanno assaltato l’ambasciata libica al Cairo. Lo ha riferito il sito web del quotidiano “Ahram”, secondo cui i manifestanti hanno fatto irruzione nell’edificio per protestare contro la morte di Ezzat Hakim, un egiziano copto arrestato nelle scorse settimane in Libia con l’accusa di proselitismo e morto in carcere in circostanze poco chiare. Secondo il quotidiano, i dimostranti hanno bruciato la bandiera della Libia, sostituendola con quella egiziana. L’edificio che ospita la sede diplomatica, inoltre, sarebbe stato danneggiato. Hakim era tra le decine di egiziani di fede copta arrestati in Libia nelle scorse settimane e sottoposti a torture da parte di una brigata salafita di Bengasi.