Giustizia: i delitti contro le donne le colpe dell’informazione di Giovanni Valentini La Repubblica, 10 marzo 2013 Le donne sono il primo Altro degli uomini e nell’immaginario maschilista sono le depositarie insieme del passato e del futuro, delle tradizioni e dell’identità della nazione così come della sua continuità. (da “Contro il decoro” di Tamar Pitch - Laterza, 2013 - pag. 12). Finora, nel gergo dell’informazione quotidiana, li abbiamo chiamati sbrigativamente reati passionali, delitti d’onore, raptus di follia, drammi della gelosia. Ma in realtà sono omicidi di genere, commessi dagli uomini contro le donne, come atto estremo di una serie di abusi, sopraffazioni e brutalità, spesso all’interno della stessa famiglia. Per motivi sessuali, di prepotenza o di sfruttamento. Il femminicidio, per usare il neologismo coniato già per la strage di circa cinquemila ragazze compiuta in vent’anni nella città messicana di Ciudad Juarez, non è però soltanto un fenomeno criminale. Ha anche una dimensione mediatica, di comunicazione e di cultura. E perciò interpella direttamente tutti noi, operatori dell’informazione, in rapporto alle rispettive responsabilità. È stata dunque un’iniziativa più che apprezzabile quella promossa dalla Commissione Pari opportunità dell’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti Rai, sotto il titolo “Donne e informazione: ricominciamo dai giovani”. Proprio da loro, infatti, è opportuno partire per cercare di rompere la sottocultura maschilista che costituisce l’humus di certi comportamenti aggressivi e violenti. Con questo obiettivo dichiaratamente pedagogico, negli ultimi due giorni i colleghi dell’Usigrai sono entrati nelle scuole e nell’università di diverse città italiane, in occasione della Festa della donna, per lanciare una campagna di rieducazione civica. Non c’è dubbio che la televisione e il cinema abbiano sfruttato più di tutti gli altri media l’immagine femminile, contribuendo così ad alimentare una mentalità sopraffattrice. La donna come oggetto di desiderio e di concupiscenza. Ma anche come vittima designata di una violenza latente che può arrivare, appunto, a degenerare fino al femminicidio. È anche questa, in fondo, una forma di razzismo o di schiavismo che pretende di rivendicare al maschio - padre, marito o compagno - una presunta superiorità di genere. D’altra parte, secondo la stessa cultura cristiana, Eva non sarebbe nata da una costola di Adamo? Quasi fosse un essere inferiore, una parte o una derivazione dell’uomo. A ben vedere, è proprio intorno alla figura femminile che ruota il degrado della nostra società verso l’indecenza pubblica e la mancanza di decoro. Il sessismo declinato come segregazione ovvero sfruttamento: in famiglia o nel lavoro, in privato o in pubblico. Ed è anche attraverso una comunicazione improntata a un modello diseducativo che la donna rischia di essere considerata un soggetto sociale di rango inferiore, sottoposto per diritto naturale alla volontà o al dominio maschile. Ecco un campo privilegiato in cui il servizio pubblico televisivo, se mai volesse, potrebbe distinguersi nettamente dalla concorrenza privata, rifiutando gli stereotipi anti-femministi che imperversano sulla tv commerciale: dall’informazione all’intrattenimento, dalla fiction al reality. Non si tratta, evidentemente, di tornare indietro al bigottismo né tantomeno alla censura del vecchio monopolio Rai. Ma piuttosto di tutelare l’identità della donna e valorizzarne il ruolo nella società moderna, per incrementare un orientamento di maggiore rispetto e considerazione nei suoi confronti. Rincresce, perciò, che il vertice della Rai non abbia accolto la richiesta del sindacato di dedicare a questo tema una trasmissione di approfondimento in prima serata. Non si rischia di essere troppo severi a giudicarlo come un segno di insensibilità rispetto a una questione sociale che riguarda l’intera comunità nazionale. Ne deriva purtroppo un’ulteriore conferma che il nostro servizio pubblico non è incline a interpretare la propria funzione istituzionale in ragione di una crescita generale della collettività. Il femminicidio, come tutte le manifestazioni di violenza, si può contrastare più prevenendo che reprimendo. E cioè sradicando il fenomeno dall’habitat sociale e culturale in cui alligna. Vale a dire rimuovendo le prevenzioni, i pregiudizi, le ostilità che più o meno consapevolmente i mass media favoriscono. Se oggi è senz’altro opportuno aggiornare il nostro Codice deontologico professionale, questo è un punto da cui non si deve assolutamente prescindere. Giustizia: Sappe; resta alta tensione in carceri italiane, nel 2012 morti più di 150 detenuti Ansa, 10 marzo 2013 “Resta alta la tensione nelle carceri italiane. Nel 2012 ben 1.300 detenuti hanno tentato il suicidio, 7.317 gli atti di autolesionismo e 4.651 le colluttazioni. 56 i suicidi e 97 le morti per cause naturali. Oltre 1.500 le manifestazioni su sovraffollamento e condizioni di vita intramurarie”. “Al di là delle chiacchiere e delle dichiarazioni di intenti, la situazione penitenziaria resta ad alta tensione e questa dirigenza dell’Amministrazione Penitenziaria, a guida Giovanni Tamburino e Luigi Pagano, sembra non rendersi conto della gravità delle cose. Gli stessi dati recentemente elaborati dall’Amministrazione Penitenziaria e relativi agli eventi critici accaduti nelle carceri italiane nel corso dell’anno 2012 dovrebbero fare seriamente riflettere sulle evidente problematiche del sistema, rispetto alle quali è assolutamente necessario una riforma organica e strutturale e non soluzioni fantasiose come la vigilanza dinamica e l’autogestione dei detenuti. Questi dati sono altresì importanti per far conoscere il duro, difficile e delicato lavoro che quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria svolgono con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità. È importante che la Società riconosca e sostenga l’attività risocializzante della Polizia Penitenziaria e ne comprenda i sacrifici sostenuti per svolgere tale attività, garantendo al contempo la sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, commentando i dati relativi agli eventi critici che si sono verificati negli istituti penitenziari italiani nell’anno passato. Il Sappe sottolinea che “nel 2012, nelle sovraffollate carceri italiane, i detenuti hanno posto in essere 7.317 atti di autolesionismo e 1.308 tentativi di suicidio. Le morti per cause naturali in carcere sono state 97 e 56 i suicidi (36 di italiani e 20 di stranieri), 4.651 sono stati le colluttazioni e 1.023 i ferimenti. Sono state 14 le evasioni e 55 i detenuti che non sono rientrati in carcere dopo aver fruito di permessi di necessità e di permessi premio. Oltre 1.500, infine, le manifestazioni di protesta collettive sulla situazione di sovraffollamento delle carceri e sulle critiche condizioni intramurarie che si sono tenute nel 2012. Il SAPPE torna a proporre con urgenza un nuovo ruolo per l’esecuzione della pena in Italia, che preveda circuiti penitenziari differenziati ed un maggiore ricorso alle misure alternative, e sottolinea l’importante ruolo svolto quotidiano dai Baschi Azzurri del Corpo: “La Polizia Penitenziaria, negli oltre 200 penitenziari italiani, è formata da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando centinaia e centinaia suicidi di detenuti. Dispiace constatare che le risposte dell’Amministrazione penitenziaria all’emergenza penitenziaria si siano rilevate del tutto inefficaci, come ad esempio la fantomatica quanto irrazionale e sporadica sorveglianza dinamica, che accorpa ed abolisce posti di servizio dei Baschi Azzurri mantenendo però in capo alla Polizia penitenziaria il reato penale della colpa del custode (articolo 387 del Codice penale). Il Dap, con il Capo Dipartimento Tamburino ed il vice Pagano, favoleggia di un regime penitenziario aperto, di sezioni detentive sostanzialmente autogestite da detenuti previa sottoscrizione di un patto di responsabilità favorendo in realtà un depotenziamento del ruolo di vigilanza della Polizia Penitenziaria: di fatto tutto ciò impedisce ed impedirà ai poliziotti di intervenire in tantissime situazioni critiche che quotidianamente si verificano in carcere”. Giustizia: agente muore per tumore allo stomaco, il Tar riconosce la “causa di servizio” Ansa, 10 marzo 2013 Il tumore allo stomaco colpisce gli agenti di Polizia Penitenziaria per le condizioni di stress in cui devono lavorare: si può interpretare così la sentenza con cui il Tar del Piemonte ha riconosciuto “la dipendenza da causa di servizio” per la grave patologia che nel 2009 portò alla morte un sovrintendente capo. I giudici amministrativi piemontesi hanno accolto un ricorso dei familiari dell’agente. Sovrintendente morto fu minacciato da Brigate Rosse Lo stress dovuto alle condizioni di lavoro abbinate alle minacce subite dalle Brigate Rosse: a questo è dovuto il tumore allo stomaco che nel 2009 ha portato alla morte un sovrintendente capo di polizia penitenziaria. Una malattia che il Tar del Piemonte ha riconosciuto “dipendente da cause di servizio”. “Questa sentenza - spiega l’avvocato degli eredi dell’agente, Roberto Lamacchia - è il primo passo. Adesso ripartirà la procedura per la valutazione delle implicazioni economiche come gli indennizzi o la pensione”. Sin dal 1982 il sovrintendente, in servizio a Torino, venne riconosciuto come portatore di una patologia (un’ulcera) “connessa - scrive il Tar - con fattori ambientali da stress psicofisico in sede lavorativa”. Il suo nome, secondo quanto è stato possibile ricostruire, all’epoca era comparso fra gli obiettivi delle Brigate Rosse. Alla fine degli anni Settanta le formazioni terroristiche avevano mietuto vittime fra gli agenti di custodia: il carcere delle Vallette, a Torino, è intitolato a Giuseppe Lorusso e Lorenzo Cutugno, uccisi rispettivamente nel 1979 e 1978. Il nome del sovrintendente, Sebastiano L.R., era comparso - secondo quanto si è appreso - in una lista di nomi che, all’epoca, le Brigate Rosse intendevano colpire. Nel corso dei mesi sviluppò un’ulcera duodenale che rese necessario un intervento chirurgico, e l’amministrazione riconobbe che si trattò di una malattia cronica riconducibile a causa di servizio. Anni dopo L.R. si ritrovò affetto da un tumore allo stomaco, ma nel 2006 l’apposito Comitato di verifica stabilì che non c’era alcun collegamento con le condizioni di lavoro. Un giudizio che adesso è stato ribaltato dal Tar. “Quello dell’agente di polizia penitenziaria - commenta l’avvocato Lamacchia - è un lavoro dei più usuranti. E la tensione di quel momento ha sicuramente contribuito ad aggravare la situazione”. Giustizia: per la Festa della donna, visite di esponenti politici e iniziative in molte carceri Agi, 10 marzo 2013 Standing ovation per Severino al carcere di Rebibbia Una lunga e intensa standing ovation all’arrivo e un’altra, accompagnata da un coro “Severino, Severino”, all’uscita. Così le detenute della casa circondariale di Rebibbia hanno manifestato la propria soddisfazione per la visita fatta loro dal ministro della Giustizia, Paola Severino, in occasione della Giornata Internazionale della donna. “Questo vostro abbraccio caloroso e sincero mi dice che ho fatto bene a decidere di venire qui”, ha detto il Guardasigilli dopo aver assistito a un concerto della band Officine Marconi con le detenute. Severino, che si era già recata in altre occasioni in questo carcere romano, ha poi sottolineato: “bastano piccole attenzioni per rendere il mondo del carcere più vivibile. Il carcere - ha aggiunto rivolgendosi alle detenute - deve riportarvi dentro la società e le sue regole, nelle vostre famiglie e ai vostri figli”. Le detenute, alcune con un mazzo di mughetto nelle mani, altre con qualche rametto nel fermacapelli, hanno anche ascoltato il ministro leggere una lettera consegnata da una di loro, madre di famiglia, e quindi separata dai propri figli, che deve scontare una pena fino al 2019. “Spero di non commuovermi”, ha esordito Severino, rivelando che “il problema della madri detenute mi è sempre stato a cuore”. Alla fine della lettura, che ha fatto piangere molte detenute, Severino ha spiegato quanto sia importante far svolgere una attività lavorativa ai carcerati, “perchè il lavoro facilita il reinserimento nella società”, e ha ringraziato tutto il personale, dagli agenti di polizia penitenziaria alle psicologhe, così come i volontari che si adoperano per migliorare la vita nelle carceri. Il Guardasigilli ha quindi annunciato alle detenute che potranno presto seguire un corso di formazione per diventare parrucchiere, notizia accolta con grandissimo entusiasmo da un lungo applauso e molte esclamazioni di gioia. “Mettetecela tutta e vedrete che ce la farete!”, ha concluso il ministro prima di lasciare il carcere e di essere calorosamente salutata dalle detenute. Severino: lavoro via per reinserimento “Il carcere è solo un luogo di transito in cui ci si prepara a rientrare nella società. Mettetecela tutta e vedrete che uscirete da questa esperienza più forti di prima”. Così il ministro della Giustizia Paola Severino si è rivolta alle detenute del carcere di Rebibbia in occasione delle celebrazioni per la Giornata internazionale della donna. Nel pomeriggio di oggi la guardasigilli ha infatti visitato la casa circondariale romana trattenendosi con le detenute e gli agenti in servizio. “Il lavoro è la vera fonte per la soluzione del problema - ha aggiunto Severino - Le persone che imparano a lavorare in carcere hanno delle chance di riuscita e di risocializzazione estremamente più elevate delle altre”. La guardasigilli ha fatto poi riferimento alla necessità di fare un maggior ricorso alle misure alternative alla detenzione: “Negli altri Paesi europei, come la Francia e la Germania, le misure alternative alla detenzione sono il 75% delle misure applicate dopo la condanna; in Italia il 28%’, ha osservato. Severino ha infine espresso un auspicio per il futuro: “Spero che chi verrà dopo di me continuerà a dare al tema delle carceri l’attenzione che merita - ha evidenziato - Mi auguro che il solco che è stato tracciato sia abbastanza profondo per poter proseguire con altre misure nella stessa direzione”. Rita Bernardini a Salerno assieme alle “Dame bianche” (www.clandestinoweb.com) Anche i Radicali hanno festeggiato l’8 marzo, festa della donna, all’insegna dell’impegno e della denuncia sociale delle condizioni impossibili in cui sono costretti i detenuti italiani e le loro famiglie all’interno delle carceri. Una delegazione composta da Rita Bernardini, Donato Salzano segretario di Radicali Salerno “Maurizio Provenza”, Maurizio Bolognetti della Direzione dei Radicali italiani, l’avv. Silverio Sica Presidente della Camera Penale, gli avvocati Massimo ed Emiliano Torre, Massimiliano Franco, Rosanna Carpentieri e Paolo Vocca. “Abbiamo trascorso l’8 marzo insieme alle mogli, le madri, le compagne, le sorelle e le figlie dei detenuti che soffrono nel Tribunale di Sorveglianza di Salerno ed in fila ai colloqui settimanali davanti al carcere di Fuorni” si legge proprio sul blog di Rita Bernardini che spiega di aver celebrato “l’altro 8 marzo” con un sit-in nonviolento alla Camera Penale, così da sottolineare pubblicamente la bancarotta dell’esecuzione penale in città, che determina il sovraffollamento nell’appendice carceraria di Fuorni, e l’abuso della custodia cautelare di una Procura Generale retta da quel Lucio Di Pietro che chiese l’arresto di Enzo Tortora. Bologna: il 12 Laganà e Lembi visitano detenute Dozza (Dire) Nell’ambito delle iniziative dedicate alla Festa della donna, il 12 marzo avrà luogo una visita istituzionale alle donne detenute nel carcere della Dozza di Bologna. Parteciperanno la Garante comunale per i diritti delle persone private della libertà personale Elisabetta Laganà, la presidente del Consiglio comunale Simona Lembi e la presidente della commissione delle elette Mariaraffaella Ferri. Lo annuncia una nota diffusa dalla stessa Laganà. “L’incontro, oltre ad essere occasione di approfondimento e riflessione sulle problematiche del carcere in chiave femminile- spiega una nota- costituisce anche un modo per lanciare alle donne detenute il segnale di una presenza istituzionale e di un investimento su un loro futuro possibile fuori dalle mura carcerarie”. L’evento si inserisce “all’interno di una serie di iniziative che l’ente locale mette in atto come segno di attenzione nei confronti della popolazione detenuta ed in particolare di quella femminile”, continua la nota: “Attenzione già espressa in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne”. A Venezia la Festa dell’8 marzo al carcere femminile compie 10 anni (Adnkronos) È giunta alla sua decima edizione la tradizionale festa dell’8 marzo alla Casa Circondariale femminile della Giudecca, organizzata quest’anno dall’associazione “Il Granello di Senape” - in collaborazione con le cooperative sociali “Il Cerchio” e “Rio Terrà dei Pensieri” e la Cooperativa Adriatica - e promossa dall’Assessorato comunale Cittadinanza delle Donne e Attività culturali, Centro Donna del Comune di Venezia, nell’ambito delle manifestazioni per “Marzo Donna 2013”. “È per me ogni volta una gioia - ha detto l’assessore comunale al Commercio, Carla Rey, portando un breve saluto da parte dell’Amministrazione comunale assieme al vicesindaco, Sandro Simionato, e a Camilla Seibezzi, presidente della Commissione consigliare alle Attività culturali e Cittadinanza delle donne - tornare a condividere questa festa assieme a voi, che rappresenta un’occasione di divertimento, un giorno davvero diverso”. Di sorridere, in carcere, c’è infatti bisogno. Ecco perchè Rey ha concluso auspicando che manifestazioni di questo tipo si possano organizzare anche in altri momenti dell’anno. Il momento istituzionale è stato comunque volutamente breve, per lasciar spazio allo spettacolo del duo comico ‘Papù, alla pausa dolce con torte e biscotti preparati dalle volontarie delle associazioni coinvolte, ma anche alla musica e alle danze. Consiglieri provinciali di Milano a San Vittore (Ansa) “L’8 marzo è un’occasione preziosa per ricordare tutte le donne, in particolare quelle di cui raramente si parla, come le detenute”. Lo ha detto il presidente del Consiglio provinciale di Milano, Bruno Dapei, questa mattina al carcere di San Vittore, dove una delegazione di consiglieri ha donato alle detenute 24 stendi biancheria in plastica, comprati con una colletta tra i consiglieri. “Anche un gesto banale come stendere i panni può essere difficile in una situazione di detenzione - ha spiegato Fabrizia Berneschi, Garante per i diritti delle persone limitate nella libertà personale di Palazzo Isimbardi - Abbiamo dato risposta a un piccolo problema quotidiano che ci avevano segnalato le detenute”. Alla visita hanno inoltre partecipato i consiglieri Agnese Tacchini (presidente della commissione Pari opportunità, che ha promosso l’iniziativa), Gabriella Achilli, Bruna Brembilla, Roberta Capotosti, Diana De Marchi e Massimo Gatti. Festa a Fuorni per le detenute e proteste contro il Tribunale (La Città di Salerno) In carcere la festa per l’8 marzo delle detenute; fuori, davanti al Tribunale di sorveglianza in piazza XXIV Maggio, la protesta di mogli, madri e figlie di chi sta scontando la sua pena a Fuorni e fa i conti con giudici definiti dai Radicali “un plotone di esecuzione”, perché “tutte le richieste vengono respinte”. Accanto ad Anna Sammartino, vedova da pochi mesi, la parlamentare Rita Bernardini che, esprimendo la sua vicinanza alle donne alle prese con le lunghissime file per i colloqui settimanali al carcere, ha sottolineato quanto diseducativa sia la casa circondariale tra sovraffollamento e non rispetto dei diritti umani. “Mio marito sarebbe uscito a dicembre - racconta la signora Sammartino - ma è morto appena un mese prima. Era recidivo perché purtroppo nel nostro Paese, quando si sbaglia una volta, si viene etichettati come delinquenti per sempre. La vita non è stata facile ed ora vorrei solo giustizia per lui”. Accanto a lei Matteo Luzzi, ex detenuto che ricorda la sua vita dietro le sbarre come un incubo: “Io ho problemi di diabete - ha raccontato - ma qualunque disturbo abbia avuto, in carcere la pillola somministrata è stata sempre la stessa. Davvero non c’è rispetto per chi sconta la pena”. Una mattinata diversa l’hanno avuta ieri le detenute, che grazie all’impegno di alcune associazioni hanno festeggiato la giornata internazionale della donna. Per loro è stata organizzata una mattinata in musica in compagnia dei volontari, che hanno portato gerbere, mimose e un libricino con pensieri ispirati alla figura della donna. “L’augurio - ha detto il direttore della casa circondariale Alfredo Stendardo - è che le donne possano influenzare in maniera positiva la società”. Napoli: dai Radicali un’interrogazione parlamentare sul carcere femminile di Pozzuoli Notizie Radicali, 10 marzo 2013 Interrogazione a risposta scritta al Ministro della Giustizia dei Senatori Marco Perduca e Donatella Poretti (Radicali). Premesso che giovedì 7 marzo 2013, si è tenuta una visita ispettiva senza preavviso presso la Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli (Na); la struttura detentiva è ricavata da un ex convento del 700 in una zona centrale, quindi logisticamente inadeguata per ospitare un istituto che dovrebbe avrebbe caratteristiche molto diverse per poter ospitare a norma di legge, oltre che degnamente, le decine di recluse; considerato che: il 7 marzo, il giorno della visita effettuata dal Senatore Perduca, la casa Circondariale di Pozzuoli ospitava 224 detenute (di cui 27 non italiane) mentre la capienza regolamentare è di 82, registrando un sovraffollamento tale da confermare quanto recentemente reso noto dall’associazione Antigone, e cioè che si tratta del quarto carcere più sovraffollato d’Italia. nell’ultimo anno i dati mostrano un incremento della popolazione carceraria, tanto che la sala della socialità al primo piano è stata convertita in cella che il giorno della visita ospitava 19 detenute, tra l’altro in regime di alta sicurezza, mentre il loro circuito è a media sicurezza; l’inadeguatezza strutturale è l’aspetto più problematico del penitenziario, al suo interno l’edificio presenta cameroni che ospitano in media una dozzina di detenute, crepe e infiltrazioni d’acqua. Calcinacci si staccano continuamente dal soffitto rappresentando un rischio per la salute delle detenute; la delegazione è stata informata che recentemente era avvenuta un’imbiancatura del soffitto per far cessare, almeno temporaneamente, la caduta di calcinacci, ma che, trovandosi nell’impossibilità economica di far eseguire una corretta impermeabilizzazione dell’istituto. Detti interventi sono presto vanificati dalla vetustà dell’edificio; in alcune stanze infatti è già possibile scorgere macchie d’umidità e crepe; delle 224 detenute nove sono semilibere, 95 in attesa del primo giudizio, 24 appellanti, 10 ricorrenti, mentre le definitive sono soltanto 94 - meno della metà; il reato commesso dalla maggioranza delle detenute, per l’esattezza 133 di esse (di cui 14 straniere e 33 definitive), è la violazione dell’art. 73 della l. 309/1990 “Produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope”; mentre 39 (4 straniere, 9 definitive) sono le detenute ristrette per la violazione dell’art. 74 della l. 309/1990 “Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope”; sono invece 27 (4 straniere, 12 definitive) le detenute ristrette per la violazione dell’art. 628 “Rapina” e 8 (2 straniere, 3 definitive) per l’art. 575 “Omicidio”, ovvero 172 (18 straniere, 42 definitive) detenute su 224 sono ristrette per reati legati alla legge sulle droghe. Considerato altresì che nell’istituto si registra una grave carenza di agenti di polizia penitenziaria: la pianta organica prevede 132 unità, di cui effettivamente presenti 106 a fronte di un numero di recluse che negli ultimi tempi non è mai sceso sotto le 190 unità. Gli educatori presenti in istituto sono quattro, un solo psicologo per sole 15 ore mensili, mentre uno psichiatra è presente tutti i giorni per circa 6 ore al giorno presso l’ala ristrutturata al primo piano, che ospita 7 detenute in osservazione, di cui una in isolamento; scarse sono le attività trattamentali atte a preparare il futuro reinserimento sociale delle detenute. Si nota un buon rapporto tra il personale e le detenute che rende il clima più sereno, segnale positivo è anche la percentuale, più alta rispetto alla media italiana, delle detenute votanti rispetto alle recenti elezioni politiche. Tali piccoli segnali positivi non possono supplire a un percorso stabile verso il recupero alla collettività delle detenute, reso impossibile dal sovraffollamento e dalla struttura. Rispetto a quanto osservato un un’altra visita ispettiva tenuta nel mese di agosto 2012, si evidenzia che la torrefazione del caffè Lazzarelle ha ripreso la sua attività, anche se, nonostante la buona attrezzatura e gli ampi spazi, si riesce a coinvolgere nelle sue attività soltanto tre detenute. Sono presenti altri progetti, come quello volto all’integrazione e mediazione culturale, ma che per quantità di detenute coinvolte e per continuità progettuale mirata al reinserimento non possono considerarsi sufficienti per la Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli. Considerato che nelle circa due ore di visita, la delegazione si è sofferma a colloquiare con quasi tutte le detenute, registrando lamentele circa il sovraffollamento, le celle fatiscenti, l’ingiustizia del sistema giudiziario italiano e la scarsa presenza attiva del magistrato di sorveglianza dott.ssa Beneduce che, a detta delle ospiti, visita l’istituto raramente. Si chiede di sapere: se e quando il Ministro in indirizzo intenda provvedere a stanziare fondi per la manutenzione strutturale dell’edificio al fine di fronteggiare i problemi più urgenti; se e quando si intenda ripristinare i fondi per la manutenzione ordinaria della struttura; se e quali urgenti iniziative si intendano assumere per garantire normali condizioni di vita ai detenuti e agli operatori del carcere della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli; quali iniziative amministrative, ovvero proposte legislative a livello nazionale, si intendano promuovere per garantire ai detenuti le attività trattamentali atte a preparare il futuro reinserimento sociale previsto dall’articolo 27 della Costituzione., e in particolare se si voglia promuovere il rilancio della Cooperativa Lazzarelle che sembrava ben avviata, registrando una distribuzione quanto più ampia possibile del caffè prodotto colà; come si intenda risolvere la grave e perturbante carenza di personale di polizia penitenziaria assegnata presso il carcere di Pozzuoli; se il Ministro confermi la necessità di sacrificare tre celle dell’istituto per la creazione di un’area di osservazione psichiatrica, anche in vista della chiusura degli OPG prevista per il 31 del marzo 2013, e che, inevitabilmente influirà negativamente sulla già drammatico sovraffollamento dell’istituto; se il Ministro in indirizzo sia a conoscenza di eventuali comunicazioni da parte del magistrato di sorveglianza competente circa le disposizioni necessarie per il rispetto della normativa riguardante le condizioni di detenzione e, in caso affermativo, quali siano le ragioni per le quali tale disposizioni stesse siano state disattese; se il Ministro in indirizzo sia a conoscenza di quale sia il carico di lavoro del magistrato di sorveglianza di Pozzuoli che non ne consentono una maggiore presenza nell’istituto e se siano note le ragioni di quella che agli interroganti risulta essere un’inadeguata e carente risposta alle istanze avanzate alla stessa da parte dei detenuti; se si intenda, in qualche modo, intervenire per quanto di competenza affinché sia effettivamente assicurata l’assistenza legale ai detenuti, soprattutto stranieri, sprovvisti di avvocati di fiducia. Pescara: detenuto suicida, l’autopsia confermata il decesso per asfissia acuta Ansa, 10 marzo 2013 Asfissia acuta, secondo i primi risultati dell’autopsia, è la causa della morte del detenuto tunisino trovato senza vita l’altra ieri nella sua cella, nel carcere San Donato di Pescara. L’esame è stato eseguito questo pomeriggio, dal medico legale Cristian D’Ovidio, nell’ospedale civile pescarese. In attesa del risultato degli esami tossicologici, si è appreso che attraverso la comparazione degli indici indiretti, è stato confermato quanto evidenziato dal primo esame fatto dal medico legale e cioè che la morte fosse avvenuta per l’inalazione del gas contenuto in una bomboletta da campeggio in dotazione nelle celle. La relazione del medico legale sarà ora inviata alla procura della Repubblica di Pescara. In particolare il pm che conduce l’inchiesta, Barbara Del Bono, aveva aperto un fascicolo tecnico, con l’ipotesi di istigazione al suicidio ma senza indagati, proprio per consentire l’autopsia. Varese: il Sindaco si oppone al progetto del Dap di dismettere il carcere dei Miogni Il Giorno, 10 marzo 2013 Il sindaco varesino dice no alla decisione del Dipartimento di amministrazione penitenziaria regionale di chiudere definitivamente la vecchia e malandata casa circondariale dei Miogni per accentrare il tutto a Busto Arsizio. “Offensivo” addirittura, secondo il sindaco di Varese e presidente di Anci Lombardia Attilio Fontana, se si dovesse i chiudere i Miogni per accentrare tutto non a Varese, il capoluogo, ma a Busto Arsizio. “Offensivo” nei confronti della città innanzi tutto, dice Fontana da rappresentante della cittadinanza varesina, e “offensivo” nei confronti delle amministrazioni locali, ribadisce da primo rappresentante “sindacale” dei comuni lombardi. Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria regionale, dopo anni di dibattito sul futuro della vecchia e malandata casa circondariale dei Miogni, ne avrebbe chiesto infatti la chiusura definitiva. Il futuro dei presenti e prossimi detenuti sul territorio nelle intenzioni sarebbe quindi da accentrare a Busto Arsizio, dove il carcere esistente potrebbe essere ampliato quanto basta per farne una struttura unica a livello provinciale. La decisione archivierebbe definitivamente il Piano carceri varato dal governo Berlusconi nel 2010; in quel documento Varese viene indicata come una delle otto città considerate strategiche per costruire una nuova struttura detentiva anche per la presenza dell’aeroporto internazionale di Malpensa. Si prevedeva pertanto la costruzione di un nuovo maxi carcere da un minimo di 450 posti e la contemporanea dismissione dei Miogni, appena 99 posti. Un provvedimento però difficilmente attuabile in carenza di risorse economiche del Ministero, tanto che non ha mai trovato seguito nonostante l’amministrazione comunale di Varese da subito avesse indicato un’area abbastanza ampia e collegata per la nuova struttura, in Valle Olona. Su un punto in ogni caso il Ministero non ha mai lasciato spiragli: la ristrutturazione dei Miogni era esclusa, non essendo possibile ampliarlo in modo significativo e risultando quindi un’operazione diseconomica rispetto alla costruzione di un carcere nuovo di zecca e grande cinque volte tanto. Così a livello regionale sarebbe stata presa la decisione ritenuta più conveniente, mandando su tutte le furie il primo cittadino del capoluogo. Lui stesso, ammette, non ne sapeva nulla fino a ieri. “Nessuno si è fatto sentire - prosegue Fontana - Sarebbe assurda la decisione in sé e sarebbe assurdo che fosse stata presa senza neanche consultare gli enti locali interessati. Sarebbe insomma l’ennesimo provvedimento offensivo di questo stato inefficiente e centralista che se ne frega del territorio e di chi ci vive”. Una scelta insomma totalmente inadeguata, per il sindaco, scaturita dalla “solita, nota incapacità di affrontare i problemi e dalla non-volontà di risolverli”. “Sono anni che si parla di ammodernamento e risanamento del carcere di Varese. Se anche avessero intenzione di chiuderlo - rincara Fontana - l’ipotesi andrebbe discussa con il territorio prima di prendere la decisione a livello politico”. Anche perché nonostante gli effetti non sarebbero immediati, sarebbero un bel problema per chi lavora con in Tribunale a Varese. “Magistrati, avvocati, forze dell’ordine, dovranno andare di continuo a Busto Arsizio. Adesso manderò una lettera per chiedere di essere almeno informato su cosa sia stato deciso precisamente, dove e quando. In quanto rappresentante della comunità varesina credo sia mio diritto”. Aria di pesante polemica, insomma, sul futuro dei Miogni, tornato prepotentemente alla ribalta dopo la clamorosa evasione dei tre romeni. Varese si batte in difesa di un proprio carcere, il Comune ricorda di avere già individuato un’area possibile per la costruzione nella zona di Valle Olona. se si decidesse per la costruzione ex novo. Ma ribadisce anche la possibilità di mantenere il carcere attuale, con opportune opere di ristrutturazione. Firenze: direttrice dell’Opg di Montelupo; chiusura a fine marzo, ma niente svolte epocali Il Tirreno, 10 marzo 2013 “I pazzi sono fuori”. Questo il benvenuto con cui, a suo modo, uno dei detenuti dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo accoglie il piccolo drappello degli “esterni”, quelli che varcano solo per poche ore le mura della maestosa cinquecentesca villa medicea, che da anni ospita l’Opg destinato alla chiusura a breve. Dal 2011 quando è stata chiusa la sezione dell’Ambrogiana, tutti i detenuti - attualmente un centinaio - sono divisi nelle celle della terza sezione, ospitate nelle ex scuderie, dove tante cose indicano un restauro terminato da poco. Fervono i lavori anche nel reparto Pesa, quello finito nel mirino della commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale ed a cui erano stati messi i sigilli. Ieri gli uomini del Nas hanno effettuato un’ultima ispezione. Niente, dentro la struttura, fa pensare alla scadenza del 31 marzo, data prevista dalla legge impone il “superamento” degli Opg. “Negli ultimi anni sono stati spesi 5 milioni per ristrutturazioni, sarebbe una scelta miope buttare questi soldi nel cestino” - afferma la direttrice Antonella Tuoni alla guida della struttura dal 2011 - il 31 marzo non ci sarà un cambiamento epocale”. E ipotizza, per il futuro, una riconversione istituto penitenziario per i detenuti comuni. Soluzione che troverebbe, d’accordo, come sottolinea l’ispettore Andrea Rosselli, anche le 80 guardie carcerarie dell’Opg. Le Regioni, tra l’altro, hanno già chiesto una proroga e la normativa che potrebbe slittare di diversi mesi. I detenuti di quello che un tempo si chiamava il “manicomio”, in attesa di essere trasferiti, sono liberi dalle 8 alle 20 di passeggiare nei corridoi e usare le sale comuni. Restano in cella solo quelli considerati pericolosi. Damiano, un parricidio alle spalle, è a Montelupo da quasi due anni: il suo sogno è di poter essere trasferito vicino a Genova: “così mia mamma e mia sorella possono venire a trovarmi più spesso”. Attilio ricorda angosciato il suo trasferimento e vorrebbe il “suo” reparto di psichiatria dell’ospedale di Lucca. Qui ha trovato un aiuto in don Fernando, il cappellano ultraottantenne che, nonostante tutto, continua a dare sostegno ai detenuti. L’ultimo caso di suicidio risale a due anni fa. Lo scorso anno gli agenti sventarono per due volte il suicidio di un ragazzo di 23 anni. Ad aiutare i detenuti anche una serie di attività sostenute con l’impegno di volontari: dal lavoro con la creta alla realizzazione di pupazzi colorati. “Ma quando esco mi candido al parlamento”, afferma un quarantenne napoletano, sguardo duro, che - a suo dire - di Opg in dieci anni ne ha già visti troppi: Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto, prima di sbarcare in Toscana. Palermo: lavori sociali per detenuti, vertice fra Comune e rappresentanti carceri cittadine di Roberto Immesi www.livesicilia.it, 10 marzo 2013 Si è tenuto un incontro tra il sindaco Orlando e i rappresentati dei carceri cittadini per dare il via libera al protocollo annunciato qualche settimana fa dal ministro alla Giustizia Severino. Si è tenuto due giorni fa il tanto atteso incontro fra il sindaco Leoluca Orlando, accompagnato da assessori e dirigenti, e i rappresentanti delle carceri cittadine, alla presenza di alcuni rappresentati del ministero della Giustizia. Una riunione per fare il punto sul protocollo d’intesa firmato fra il dicastero e l’Anci per il reimpiego in lavori socialmente utili dei detenuti. A fine febbraio il ministro, in visita in città, aveva annunciato che il protocollo avrebbe riguardato anche Palermo: “Ho chiamato personalmente il sindaco Orlando - aveva detto la Severino - per illustrargli la possibilità di una convenzione. Gli ho chiesto di implementare la possibilità di lavoro per i detenuti. Parliamo di quei lavoratori che possono svolgere delle attività utili alla società, come la pulizia dei tombini o la manutenzione dei monumenti”. E dal Comune è arrivata piena disponibilità, anche se bisognerà prima superare lo scoglio della copertura assicurativa: sebbene i detenuti non verranno retribuiti, sarà comunque necessario stanziare delle somme che però ad oggi Palazzo delle Aquile non ha. Il progetto quindi, almeno per il momento, resterà al palo almeno fino a quando il ministero non troverà le dovute somme. Il protocollo riguarda, comunque, quei detenuti che sono stati condannati per reati minori e con pene commutabili in lavori utili alla collettività. Como: detenuti al Bassone preparavano evasione, trovati 8 metri di lenzuola già annodate di Paola Pioppi Il Giorno, 10 marzo 2013 Lenzuola annodate e nascoste sotto una branda, all’interno di una cella della sezione Alta Sicurezza della casa circondariale Bassone di Como. La scoperta è stata fatta nei giorni scorsi dagli agenti di polizia penitenziaria, che hanno immediatamente messo sotto sequestro quanto ritrovato. Otto metri di lenzuola già annodate, occultate in un angolo, sotto una branda, al terzo piano della struttura penitenziaria. La cella è occupata da tre albanesi, che, evidentemente, stavano programmando da tempo l’evasione. Approfittando anche del fatto, particolarmente favorevole in questo momento, che l’impianto di illuminazione perimetrale del Bassone è fuori uso e che, quindi, l’intera struttura nelle ore notturne è avvolta nel buio. La finestra della cella si affaccia sulla parte laterale del carcere, sopra il campo da calcio interno. Una volta scesi in quella zona, i tre evasi avrebbero raggiunto l’esterno con estrema facilità. Arrivare a collezionare tre o quattro lenzuola è un’impresa lenta e non facile, perché tutto ciò che riguarda la dotazione dei detenuti è attentamente sorvegliato. L’unica possibilità di fare sparire e accantonare biancheria è approfittare delle scarcerazioni, quando un detenuto abbandona la cella e si crea l’unico momento in cui la sua dotazione può essere distratta. Evidentemente, i tre erano riusciti ad approfittare di questa stratagemma in tre o quattro casi, forse già sufficienti a coprire l’altezza dalla loro finestra fino a terra. Difficile, ma non impossibile, è anche recuperare delle lime per tagliare le sbarre. Finora sono stati utilizzati dei sistemi di indebolimento delle sbarre molto classici: lime molto fini, chiamate “capelli d’angelo”, che possono arrivare al detenuto durante i colloqui, approfittando di momenti di distrazione dell’agente di polizia penitenziaria addetto alla sorveglianza o quando l’agente è concentrato su altri detenuti. Infatti, un solo effettivo ha il compito di osservare più postazioni di colloquio e trovare un momento nel quale passarsi un oggetto non è impossibile. Con un pezzo di nastro adesivo, il sottile ma resistente filo metallico viene attaccato alla pelle sotto gli abiti, fino ad arrivare in cella. Da quel momento in avanti, incomincia un lentissimo lavoro di limatura delle sbarre, svolto in orari notturni quando la sorveglianza è meno pressante, che tuttavia devono rimanere al loro posto fino all’ultimo momento. Una fase che, nella cella in cui sono state trovate le tre lenzuola, pare che non fosse già iniziata. Nessun reato può essere contestato ai 3 albanesi occupanti la cella. Como: la Cisl denuncia; agente aggredito da un detenuti e quasi strangolato Ansa, 10 marzo 2013 Sale la tensione ed il rapporto polizia-detenuti si fa ogni giorno più difficile. Al Bassone di Albate, lo denunciano i sindacati del settore, la situazione è più che mai esplosiva e lo conferma anche l’ultimo episodio: tra giovedì e ieri, infatti, un ispettore è finito all’ospedale perchè aggredito da un detenuto al collo. Quasi strangolato per essere intervenuti, in una cella di sua competenza da curare, a riportare la calma dopo una rissa tra detenuti. Per l’agente è stato necessario il ricovero al pronto soccorso del Sant’Anna: ora è a casa in convalescenza. “Questo episodio - per i rappresentanti sindacali della Cisl - dà l’idea dell’esplosività della situazione. Basti pensare che, stando alla pianta organica, gli agenti in servizio dovrebbero essere quasi 400 e invece ne mancano 80. In compenso, i detenuti sono 530 in questi giorni: il loro numero massimo, secondo quanto stabilito dal Ministero, non dovrebbe superare i 300”. Squilibrio evidente con inevitabili ripercussioni. Ad aggravare la situazione anche un giovane albanese che, approfittando di un permesso premio in questi giorni, non ha fatto più rientro in carcere alla sera. Lo stanno ancora aspettando. Di fatto è diventato un latitante. Avellino: colpito da arresto cardiocircolatorio, detenuto salvato dagli agenti Agi, 10 marzo 2013 Colpito da arresto cardiocircolatorio, un detenuto del carcere di Bellizzi è stato salvato dalla Polizia Penitenziaria. L’episodio a poche ore dalla violenta aggressione ad una agente. Apprezzamento è stato espresso dal Sappe ai colleghi del reparto “che con il loro tempestivo intervento hanno salvato la vita ad un detenuto, intervenendo immediatamente”. Un intervento determinante, che ha consentito al medico e al personale infermieristico del presidio ospedaliero di attivare il defibrillatore e rianimare l’uomo, permettendo al cuore di tornare a battere. “Nell’istituto è immediatamente giunto il personale del 118 e l’uomo, poco più che quarantenne, è stato condotto all’Ospedale Moscati di Avellino, in pronto soccorso per essere sottoposto ad un delicato intervento al cuore e adesso, seppur le condizioni sono gravi, si trova fuori pericolo di vita”. Donato Capece, segretario generale del Sappe chiederà all’Amministrazione penitenziaria di Roma una adeguata ricompensa (lode o encomio) al Personale di Polizia che è intervenuto per salvare la vita al detenuto. “Si è trattato di un gesto eroico, da valorizzare, che nelle carceri italiane accade con drammatica periodicità: si pensi che nel 2011 e 2012 la Polizia Penitenziaria ha sventato oltre 2.000 tentativi di suicidio di detenuti e impedito che più di 10mila atti di autolesionismo posti in essere da altrettanti ristretti potessero degenerare ed ulteriori avere gravi conseguenze”. Foggia: Pastore (Psi); polemiche infinite sul carcere… ma la colpa non è della Regione www.quotidianoitaliano.it, 10 marzo 2013 È polemica infinita sul carcere di Foggia: questa volta ad attaccare l’istituto penitenziario del capoluogo dauno è il consigliere regionale Franco Pastore (Psi), che prende spunto dagli ultimi episodi, un tentativo di fuga e uno di suicidio, per lanciare l’allarme. “Il carcere di Foggia scoppia ed è sguarnito delle risorse necessarie, a cominciare dal numero di agenti penitenziari. La vivibilità in luoghi come questo è terribile, per tutti, detenuti in primis. Nelle ultime 24 ore uno ha tentato la fuga e un altro di uccidersi”. Pastore continua il suo affondo ricordando le condanne giunte da Strasburgo, quando la Corte dei Diritti Dell’Uomo sottolineava il “trattamento inumano” riservato ai carcerati italiani e nella fattispecie a Bruno Cirillo, “ospite” della Casa circondariale foggiana, costretta a risarcire Cirillo per l’inadeguatezza delle cure ricevute. “Fare finta che nulla accada, ogni giorno, nelle carceri della nostra Regione e nel Paese renderà la situazione sempre più esplosiva. La Regione Puglia ha mostrato in più occasioni la sua attenzione al mondo carcerario, ai detenuti e ai loro diritti, tutelati dal Garante. Ma questo non basta, perché non svuota le carceri, non migliora la qualità di vita dei detenuti e senza un intervento strutturale e profondo, sia dal punto di vista materiale, di risorse che legislativo, la situazione non cambierà” ha concluso laconico l’assessore rispondendo alle accuse che piovono periodicamente proprio sulla Regione. Bari: “Donne e arte in carcere”, la Cgil fra le detenute… non più invisibili www.rassegna.it, 10 marzo 2013 La Camera del lavoro e le 26 recluse della Casa circondariale oggi insieme nell’iniziativa “Donne e arte in carcere”, che è anche il titolo di un progetto di scrittura creativa ideato dal coordinamento donne della Cgil. L’intervento di Vera Lamonica. La detenzione non può e non deve privare la donna della sua dignità. Nessuna donna deve mai smettere di essere donna se finisce dietro le sbarre. È il messaggio che la Cgil di Bari affida alle donne detenute della casa circondariale del capoluogo pugliese, protagoniste di una mattinata insolita, speciale. La Camera del lavoro metropolitana e provinciale ha celebrato l’8marzo insieme alle 26 detenute della casa circondariale di Bari con l’iniziativa “Donne e arte in carcere”, che è anche titolo del progetto di scrittura creativa che inizierà il primo aprile e terminerà il 15 dicembre 2013. Le partecipanti al corso impareranno a interpretare e trasmettere emozioni e sentimenti, acquisiranno consapevolezza delle proprie capacità e fiducia nelle proprie possibilità all’interno di una dimensione relazionale connotata dal gruppo di scrittura e dalle sue regole di funzionamento e di rispetto reciproco. Docenti del laboratorio saranno: Rosaria Lopedote, insegnante in pensione; Piero Dargento, esperto in metodologie autobiografiche; Nicky Persico, avvocato e scrittore; Gabriella Genisi, scrittrice. Dedicato alle “invisibili dietro le sbarre”, il progetto è stato ideato dalla Cgil di Bari, insieme al Coordinamento delle donne della Cgil di Bari e all’Università popolare della Terza età, con la convinzione che la scrittura sia un mezzo efficace per le donne detenute per riappropriarsi del proprio ruolo di figlie, madri, lavoratrici, raccontando i propri vissuti, rievocando ricordi ed esperienze, con la libertà di narrare in modo creativo, senza vincoli né schemi, per ri-velare esperienze di vita reale, dentro e fuori le sbarre, per ri-mettersi in gioco dando spazio a riflessioni da dove ripartire. Le attrici Daniela Scarlatti e Antonella Fattori, autrici dello spettacolo teatrale Giorni Scontati, hanno messo in scena uno stralcio della commedia in cui quattro personaggi femminili si ritrovano a dividere una cella, vivendo situazioni divertenti disperate e grottesche. Quattro donne che si scontrano s’incontrano si amano si odiano si sopportano, ridono e piangono, ma soprattutto imparano a vivere in un luogo che è negazione della vita. Uno spaccato di vita in un carcere femminile d’Italia destinato a sorprendere, divertire, commuovere. Dopo la lettura scenica dello spettacolo è iniziato il dibattito sulla condizione carceraria delle donne. Ad aprire i lavori Pietro Rossi, garante dei detenuti di Puglia, secondo cui il progetto della Cgil di Bari ben si colloca nell’ambito della vigilanza dinamica, una svolta per la concezione della sicurezza in carcere che impone di ripensare spazi, organizzazione, iniziative, valorizzando quanto di meglio ciascun istituto può dare collaborando con sindacato, imprese e istituzioni culturali all’esterno. Maria Giuseppina D’Addetta, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bari, ha esaminato la situazione delle detenute all’interno delle carceri. Donne che subiscono una doppia penalizzazione quando per esempio, e questo accade nell’80 per cento dei casi, non possono occuparsi dei figli, svilendo così il loro ruolo di madri. Donne che hanno bisogno di fare prevenzione femminile in tema di salute. In questo, ha ricordato la D’Addetta, la Puglia si è distinta positivamente essendo stata la regione pilota che per prima ha previsto per le donne detenute la possibilità di fare il controllo senologico e quindi sottoporsi alla mammografia. Occorre una maggiore tutela della donna nella sua interezza, concetto ripreso anche dal vice direttore della Casa circondariale di Bari Valeria Pirè che, rimarcando la differenza fra detenzione femminile e detenzione maschile, ha sottolineato quanto l’energia, la complessità e la creatività siano i tre concetti attorno a cui ruota la dignità come valore assoluto e non di genere, delle detenute: donne che hanno il diritto di essere “libere” dietro le sbarre. Le fa ha fatto eco l’assessore all’Ambiente del Comune di Bari Maria Maugeri che ha evidenziato la disponibilità dell’amministrazione comunale a realizzare iniziative che creino un collegamento tra l’interno della struttura penitenziaria e il territorio mediante un continuo scambio di contatti ed esperienze. Uno spaccato della realtà detentiva pugliese è stato tracciato da Giuseppe Martone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. In Puglia ci sono 4200 detenuti; 1800 sono fuori dalle carceri. Non esiste un sovraffollamento femminile, calcolando che le donne detenute in Italia si aggirano intorno al 5 per cento. Il vero disagio deriva dal fatto che le strutture detentive sono vecchie. Fa da contraltare il capitale umano altamente specializzato degli operatori, che sono un vero e proprio punto di riferimento per le detenute a cui la Cgil di Bari, ha detto Pino Gesmundo, segretario generale della Camera del lavoro, continuerà ogni giorno dell’anno, non solo l’8 marzo, a esprimere solidarietà, vicinanza e conforto affettivo. Per questo è importante, ha sottolineato il segretario nazionale Cgil Vera Lamonica, che alle detenute sia data la possibilità di esprimere il loro mondo interiore con tutti i mezzi e gli strumenti, quindi anche attraverso l’arte, obiettivo del progetto di scrittura creativa ideato dal Coordinamento donne. L’instabilità occupazionale, accompagnata alla precarietà affettiva e domestica, quando non trova supporto nella rete di sostegno sociale si trasforma in quella forma di disadattamento la cui peggiore conseguenza è lo stereotipo di una donna considerata dalla società soggetto fragile e pertanto esente dal riconoscimento dei suoi diritti al pari di quelli maschili. Questo scenario acquista tinte ancora più scure quando impatta l’ambito penale. Per questo il sindacato è impegnato, oltre che nell’offrire il suo contributo costante, anche in una vigilanza continua affinché il carcere possa svolgere il suo ruolo non esclusivo di detenzione ma anche e soprattutto di riabilitazione insieme alle istituzioni il cui compito dovrà essere quello dell’inserimento sociale dei detenuti dopo aver scontato la pena. Padova: l’ergastolano camorrista espone le sue opere sacre al Caffè Pedrocchi Il Mattino di Padova, 10 marzo 2013 Ieri, al Caffè Pedrocchi, è stata inaugurata una mostra di detenuti dei Due Palazzi, diventati pittori ed artisti dietro le sbarre. Il più noto alle cronache nazionali è Domenico Morelli, 58 anni, omonimo del grande pittore della scuola napoletana dell’ottocento, nato a Casandrino, periferia nord di Napoli, da una famiglia medio-borghese, che, negli anni 80, è stato luogotenente del boss dei boss, Raffaele Cutolo, numero uno della Nuova Camorra Organizzata. Morelli, sposato, quattro figlie, fu arrestato e condannato all’ergastolo dopo che il “professore” di Ottaviano fu scavalcato dai nuovi camorristi della Nuova Famiglia, guidata da Antonio Bardellino, di Giugliano, Lorenzo Nuvoletta, di Marano (arrestato successivamente a Barcellona dall’ex questore di Padova, Romano Argenio) e da Carmine Alfieri, di Nola, detto Ò Ntufato. In carcere a Padova Morelli (che deve scontare l’ergastolo) si è convertito sia alla poesia che all’arte figurativa. Nella sua raccolta di poesie, pubblicata tre anni fa, nella prefazione autografa l’ex camorrista scrive “La vita è già complicata di per sé. Per un prigioniero lo è ancora di più”. Nelle sue pitture Morelli privilegia le figure sacre. Tra i suoi quadri più riusciti anche un Cristo pensieroso con la corona di spine in testa e dietro le sbarre, una tenera e romantica Natività, un San Gennaro, il santo più popolare della Campania, a cui sono rivolte quasi tutte le richieste di grazia dei napoletani. Il pittore Morelli ama anche le nature morte e la pittura astratta. Non a caso la mostra, promossa dal Ministero della Giustizia, dall’Amministrazione Penitenziaria in collaborazione con il Comune di Padova e con l’Amministrazione Provinciale, s’intitola “Colori… nascosti”. Gran parte dell’incasso, che sarà ricavato dalle opere vendute, sarà devoluta alla Fondazione “Città della Speranza”. Libri: “La pena visibile”, storie di detenuti raccontate da Salvatore Ferraro Ansa, 10 marzo 2013 Esce “La pena visibile”, l’ultimo libro di Salvatore Ferraro, condannato per l’omicidio di Marta Russo, assassinata il 9 maggio 1997 mentre passeggiava con un’amica lungo un viale dell’Università La Sapienza. Ferraro finì in carcere per l’omicidio insieme a Giovanni Scattone. Entrambi erano ricercatori dell’Istituto di Filosofia del diritto da una finestra del quale fu sparato il colpo che uccise la giovane. Salvatore Ferraro ha sempre proclamato la sua innocenza e, parlando con gli altri detenuti, ha raccolto le loro storie. Da questo percorso nasce “La pena visibile. O della fine del carcere”, edito da Rubbettino nella collana “Zona Franca”, in libreria dal 13 marzo. Obiettivo del pamphlet è dimostrare che l’esperienza dell’utilizzo del carcere quale luogo ideale e irrinunciabile dell’esecuzione della sanzione penale deve ritenersi finita causa fallimento. “La pena visibile” non ha come obiettivo quello di annullare il carattere punitivo del carcere, ma di convertire quella punizione in attività e relazioni utili alla società e, soprattutto, in grado di risarcire la stessa società del danno che l’azione delittuosa ha perpetrato a suo carico. Immigrazione: un film di denuncia sui voli di rimpatrio per chi si oppone all’espulsione Famiglia Cristiana, 10 marzo 2013 “Vol spécial”, un film distribuito in Italia da Zalab, denuncia le condizioni degradanti dei Cie svizzeri e in particolare dei voli di rimpatrio per chi si oppone all’espulsione. “L’unico reato che abbiamo commesso è aver osato chiedere asilo in Svizzera”, spiega Geordry, figlio di un oppositore politico del Camerun, fuggito in Europa dopo l’assassinio della madre e dei suoi fratelli. Lo spiega “rinchiuso in una gabbia come un animale” in uno dei 28 centri di espulsione della Svizzera, dove sono detenuti i “clandestini” e i richiedenti asilo la cui domanda è stata rifiutata. Quella di Geordry è una delle storie raccontate nel film “Vol spécial”, presentato lo scorso anno al Festival di Locarno e ora distribuito in Italia da Zalab. Ogni anno, nel nostro continente, circa 600.000 persone “illegali”, compresi i bambini, sono detenuti, spesso per un semplice illecito amministrativo. Per la prima volta in Europa, una troupe è potuta entrare per nove mesi in uno di questi centri, a Frambois (Ginevra). Racconta il regista Fernand Melgar: “Avevamo legami privilegiati con quasi tutti i detenuti. Abbiamo trascorso diversi mesi con loro e conoscevamo bene le loro storie, le loro famiglie e le loro paure. Nel momento in cui la polizia veniva a prenderli per imbarcarli su un volo speciale, noi eravamo presenti ma non potevano mai salutarli. La disperazione dei loro ultimi sguardi mi ossessiona ancora oggi”. Frambois è un carcere per innocenti, dove donne e uomini vengono incarcerati senza processo né condanna. La versione svizzera dei Cie (Centri di identificazione e di espulsione) italiani. Spiega Melgar: “In Svizzera, la maggior parte dei 150mila sans papiers lavora, paga le tasse e versa i contributi alle assicurazioni sociali. Si occupa dei nostri anziani, bada ai nostri bambini, pulisce i nostri appartamenti e i nostri ospedali. Senza di loro, molti alberghi e cantieri potrebbero chiudere per carenza di manodopera a buon mercato. Ciò che li accomuna è la spada di Damocle che incombe sulle loro teste: in qualsiasi momento, potrebbero essere arrestati, posti in detenzione fino a due anni, e quindi espulsi”. Quando succede, “la vita è distrutta e ci uccidono in silenzio”, racconta Serge. Come capita a Jeton, kosovaro, quando nell’ora di visita incontra la sua famiglia. Interroga il figlio di 6 anni: “3+3”, “6”, “6+6?”, “12”. Ma poi può solo dare una caramella quando il bambino gli chiede: “Quando torni?”, e suo fratello gli spiega: “Non dorme la notte, continua a ripetere: ‘Dov’è papà?’. Non dorme e non va più a scuola. Non ne può più, non mangia da due giorni”. I figli sono sempre presenti, anche quando non appaiono. Quelli che vivono nascosti per non essere espulsi, come il figlio di tre anni di Ragip, kosovaro da 20 anni in Svizzera, che dice: “I bambini non capiscono, piangono”. O come i figli di Alain, a cui il padre preferisce scrivere perché venire a Frambois “potrebbe deprimerli e non voglio si ricordino di questa cosa”. Ma i protagonisti di Vol spécial sono anche gli operatori del centro di detenzione. Melgar ne indaga il faccia a faccia con i detenuti, segnato da rispetto e ribellione, gratitudine e tradimento, amicizia e odio. Da una parte, una piccola squadra di brave persone, unite e motivate, che cercano di fare in modo umano il proprio compito, ma sono immerse nella violenza istituzionale e nel suo implacabile ingranaggio amministrativo; dall’altra, uomini alla fine della loro corsa, vinti, esauriti dalla paura e dallo stress. Vivono sospesi, in attesa di un “vol spécial”, un volo speciale, gestito dall’Ufficio federale della Migrazione (Ufm). Quelli che si rifiutano di partire sono infatti costretti alla soluzione estrema: sono imbarcati con la forza su un “vol spécial”, legati con cinghie e nastro isolante sulla bocca, ammanettati e costretti a indossare elmetti e pannolini. Queste condizioni di rimpatrio, che hanno già provocato tre morti, sono al centro di molte proteste: ad esempio, l’Associazione svizzera dei medici si oppone ai voli speciali per ragioni mediche ed etiche. Un volo, che effettua solitamente vari scali, può durare fino a 40 ore nel corso delle quali le persone rimangono legati ai loro sedili. Fino a tornare in un paese che da anni non è più il loro. E, alle volte, a pagarne le conseguenze. Come Geordry, tornato in Camerun, incarcerato poco dopo il suo atterraggio e torturato per aver sporcato l’immagine del suo paese. Colpevole di “aver osato chiedere asilo in Svizzera”. Malawi: emergenza carceri, 13mila detenuti a rischio per mancanza di cibo Radio Vaticana, 10 marzo 2013 Padre Giorgio Gamba, un missionario monfortiano da anni in Malawi in cui si occupa in particolare della dignità dei detenuti, lancia l’allarme sulla condizione in cui versano le carceri del Paese, dove da giorni non arrivano viveri. Notizie sulla situazione - riportate dalla Misna - sono state diffuse anche sui giornali locali. I media hanno ricordato come la società nazionale che gestisce la distribuzione interna dei prodotti agricoli si fosse impegnata per la consegna nelle carceri di settemila sacchi di grano che non sono mai arrivati, mettendo a rischio la sopravvivenza di 13mila reclusi. Secondo il direttore del sistema carcerario del Paese africano, Kennedy Nkhoma, se le scorte dovessero arrivare, sarebbero appena sufficienti a colmare un deficit legato, da una parte, a una riduzione delle consegne governative, e dall’altra al forte aumento dei prezzi che le derrate hanno registrato sui mercati. In un anno, infatti, le consegne sono diminuite del 57% e contemporaneamente, a causa dei cattivi raccolti, il prezzo di un sacco da 50 kg di grano è passato da 4.500 a 10mila kwacha, più o meno da 9 a 20 euro. Afghanistan: altro rinvio per trasferimento agli afgani del controllo su carcere Bagram Tm News, 10 marzo 2013 Il trasferimento completo della prigione di Bagram, una parte della quale è ancora sotto il controllo degli Stati Uniti e che doveva avvenire oggi, è stato nuovamente rinviato. Lo hanno riferito fonti americane e afgane. “Ci sono degli impedimenti alla fine” del processo di ogni negoziazione, “malgrado una lunga preparazione”, ha indicato un responsabile militare americano. La cerimonia prevista oggi è stata annullata “all’ultimo minuto”, circostanza che “avviene di frequente con gli afgani”, ha osservato. Il segretario alla Difesa Chuck Hagel, attualmente in Afghanistan ma la cui presenza non era prevista per questo evento, lo ha a sua volta “appreso in aereo”, ha aggiunto questo responsabile americano. Alcune questioni “tecniche”, che “non sono incredibilmente importanti”, ancora “devono essere risolte”, ha proseguito. Il controverso penitenziario di Bagram, soprannominato la “Guantanamo afgana”, avvelena da diversi mesi i rapporti tra Stati Uniti e Afghanistan. Washington ne ritarda da tempo il trasferimento completo nel timore che i detenuti rilasciati aderiscano alla guerriglia. Da settembre 3mila detenuti, in particolare sospetti membri dei talebani e di al Qaida, sono passati sotto controllo afgano. Arabia Saudita: creano Ong diritti umani, 2 attivisti condannati a 10 e 11 anni di carcere Aki, 10 marzo 2013 Un tribunale saudita ha condannato a 10 e 11 anni di carcere due attivisti accusati di aver infranto la fedeltà al sovrano incitando l’opinione pubblica e fondando un’organizzazione in difesa dei diritti umani senza licenza. Gli attivisti Mohammed al-Qahtani e Abdullah al-Hamed, fondatori nel 2009 dell’Associazione saudita per i diritti civili e politici, sono stati condannati rispettivamente a 10 e 11 anni di carcere. Il tribunale ha anche imposto loro il divieto di espatrio per 10 anni dopo aver scontato la pena. Il giudice ha quindi ordinato lo scioglimento della loro organizzazione e la confisca delle sue proprietà senza licenza. Tra le accuse, la comunicazione con i gruppi delle Nazioni Unite per i diritti umani, l’uso di informazioni false con l’intento di mettere le organizzazioni internazionali contro il regno.