Se la libertà sognata durante la reclusione ha poi il sapore dell’ansia e dell’incertezza Mattino di Padova, 7 maggio 2013 Quali sono gli strumenti legislativi e procedurali più adatti per coloro che intendo liberarsi dai debiti personali? La perdita della libertà è una condizione così innaturale per l’uomo, che probabilmente l’attimo dopo che uno è entrato in carcere inizia già la sua scalata per ritornare un uomo libero. Ma la libertà sognata per anni, quando poi ti piomba addosso ha spesso il sapore amaro dell’ansia, della paura del futuro, dell’incertezza. Perché dopo aver conosciuto la galera niente è più facile, neanche una cosa piccola come un giorno di permesso. E anche quando si arriva a fine pena, poi il mondo libero ti può riservare l’amara sorpresa della solitudine e dell’abbandono, soprattutto se sei straniero, ma anche se sei italiano, magari con problemi di tossicodipendenza che ti hanno creato un deserto affettivo intorno. Lo sforzo per tornare “quasi normale” Sono detenuto ormai da parecchio tempo, e devo stare rinchiuso ancora per qualche anno per pagare il mio debito verso la società. La situazione in cui si trovano le carceri italiane è davvero grave. Anche in istituti come il nostro di Padova, che dovrebbe avere un tetto massimo di detenuti non superiore alle 400 unità, ma per il problema del sovraffollamento purtroppo supera le 900, e questa è un’ingiustizia, perché tante di queste persone sono dimenticate dal sistema. Non è per niente facile qui dentro poter fare qualcosa di utile, invece di stare tutto il giorno buttato in una branda, aspettando che il tempo passi. E non è stato facile neppure per me riuscire a far sì che il mio vivere in carcere non sia proprio diseducativo, ma alla fine con molta fatica sono arrivato a fare del volontariato per il nostro giornale, “Ristretti Orizzonti”. Oramai sono in questa redazione da quasi tre anni, e passi in avanti ne ho fatti, anche per ritornare nella società, ho incominciato con qualche permesso premio con il nostro progetto scuola/carcere, per poi uscire dopo tanto tempo per due giorni in una struttura che di carcere non ha proprio niente e subito ti fa dimenticare la galera, almeno per qualche ora. Queste sono cose molto belle, ma portano anche molte ansie se come me non hai più una famiglia forte da cui avere un appoggio, perché per mille motivi sei stato un pò abbandonato, e non hai una età per dire: “Mi rifaccio una vita”. Però non bisogna mai mollare, e anche questi piccoli permessi sono degli spunti per rimettere in discussione il tuo futuro incominciando proprio da questi primi passi verso la libertà. Quando il giorno del primo permesso arriva e davanti a te si apre l’ultima porta verso l’uscita, ti cresce dentro una grande paura, non sei più abituato ad uscire senza un agente che ti accompagni, ti senti come se il tempo ricominciasse a scorrere da dove tu lo avevi lasciato molti anni prima, certo per ritenerti libero ne dovrà passare del tempo, ma almeno quell’aria triste, che ti accompagna da parecchio, in un attimo svanisce. La casa di accoglienza dove ti trovi ti sembra persino bella, sei libero puoi fare quello che vuoi, non hai nessun agente che ti deve aprire la porta. Ti accorgi però che il mondo davanti a te è cambiato e anche per fare le cose più semplici, fai una fatica bestiale, hai sempre paura di sbagliare e ti sembra che tutti ti stiano giudicando, per qualsiasi iniziativa che cerchi di prendere. Ma succede anche che quando hai provato la perdita della libertà, tornare a essere libero per poche ore è una cosa che apprezzi molto e non ti sembra vero che quel momento sia capitato proprio a te. Certo queste sono felicità effimere perché il mondo che mi aspetta fuori non è proprio del tutto bello, e dovrò lottare molto di più di altri per districarmi e pian piano ricominciare a far crescere il mio futuro, coltivando quegli affetti che erano andati perduti ma non del tutto dimenticati. Comunque è un buon inizio per riprendere in mano tutta la mia vita, con la speranza di avere quell’aiuto di cui avrò bisogno per dare un senso a tutto quello che sto facendo sia all’interno che all’esterno. Alain C. Il primo giorno dopo la prigione Quando mi sono ritrovato finalmente libero dopo una lunghissima detenzione, ovviamente ero molto contento di aver riabbracciato la libertà. All’uscita dell’istituto dove ho espiato la mia pena, mi sono fermato sul piazzale davanti, solo a guardarmi intorno: era pieno di macchine, ma non c’era nessun essere umano, e nemmeno una cabina telefonica per chiamare qualcuno che venisse a darmi una mano, ed era davvero un grande problema anche arrivare alla fermata dell’autobus. Mentre ero lì ad aspettare e sperare di vedere una faccia nota, per mia fortuna dal carcere è uscita una suora alla quale ho chiesto cortesemente un passaggio fino alla stazione dei treni per poter depositare il mio bagaglio. Lei è stata gentile, ha accettato di accompagnarmi, e io ero davvero molto contento, per me la sua presenza è stata come quella di un angelo che mi ha fatto sentire molto sollevato. Dopo aver lasciato il bagaglio al deposito, mi sono recato subito in una struttura, dove pensavo di poter riprendermi un pò dalle tante emozioni e fermarmi per qualche giorno, anche per poter svolgere il lavoro come volontario che dovevo fare per un breve periodo, per pagare una pena pecuniaria. Al mio arrivo nella Casa di accoglienza ho trovato la persona che pensavo potesse ospitarmi, ma tutti i posti che avevano erano occupati. All’inizio mi sono sentito molto male, poi ho cercato di reagire e mi sono recato da un altro volontario che sostiene le persone che sono in difficoltà, mi era stato detto di contattarlo e io l’ho fatto, speranzoso di essere suo ospite per un pò, ma non è andata come pensavo. Praticamente mi sono sentito più spaesato che mai: anche se provavo la grande gioia di non dover più rivedere il carcere, sentivo un gran disagio per il fatto che non sapevo cosa fare in quel momento, ero pieno di ansia, angosciato nonostante la libertà ritrovata dopo tanto tempo. Alla fine mi sono recato al dormitorio come mi era stato consigliato, da lì sono dovuto andare all’ufficio che si occupa dell’ospitalità al dormitorio e lì sono rimasto ad aspettare fino a che hanno aperto, così ho spiegato a loro la mia situazione e mi hanno detto che potevo avere un posto per una notte, ed io ho accettato subito, ero talmente stanco, confuso, deluso che non vedevo altre soluzioni. Lì ho dovuto aspettare fino alle nove di sera che arrivassero le altre persone che anche loro erano ospiti del dormitorio. Era una serata molto fredda, non vedevo l’ora di potermi riposare. All’arrivo mi sono ritrovato in una grande camera, che ospita sette persone, e non c’era nemmeno un bagno o un lavandino per poter lavarsi la faccia, è stata davvero una esperienza dura, mi ricordo che nemmeno avevamo la possibilità di spegnere la luce, praticamente c’era una luce forte in camera che proveniva dal corridoio, sembrava un incubo. Mi sentivo molto male, anche per il fatto che le persone che erano ospiti come me erano sofferenti, tossivano, qualcuno si lamentava, e io non riuscivo a chiudere occhio nonostante la stanchezza, mi sembrava che la mia mente esplodesse. Non ho potuto nemmeno farmi una doccia e cambiarmi, così quando sono uscito ho deciso di ritornare nella città dove abitavo prima di finire in carcere e dove conoscevo delle persone, speranzoso di trovare qualcuno dei miei amici che mi potesse dare una mano, nei primi tempi, per poter superare il primo impatto con la libertà. Ma ben presto mi sono sentito anche lì come se fossi in un deserto senza punti di riferimento, alla fine però almeno ho trovato una persona che mi ha aiutato con l’alloggio per quattro giorni, anche se non ero certo tranquillo perché sapevo che dovevo cercarmi un’altra sistemazione. Se avessi avuto la possibilità di avere i miei soldi all’uscita dal carcere, avrei potuto pagarmi una stanza almeno per un giorno o due, ma purtroppo non è successo perché mi avevano detto che per ritirare la busta paga che avanzavo avrei dovuto ritornare dopo quattro giorni a partire dalla data della mia scarcerazione, così mi sono ritrovato con pochissimi soldi e quindi non ho avuto la possibilità di recarmi in un albergo. L’impatto con la libertà non è sempre un momento felice, credo che questa mia esperienza possa insegnare che le persone che finiscono di scontare una pena e non hanno la famiglia vicina dovrebbero essere aiutate almeno nelle prime emergenze. Mohamed E. Giustizia: il Governo dimentica i diritti… di Giovanni Palombarini (Magistratura Democratica) Mattino di Padova, 7 maggio 2013 L’on. Enrico Letta, parlando del lavoro come questione essenziale, si è tenuto molto sul generico. Ad esempio, non ha parlato dell’eliminazione dell’articolo 8 di un decreto introdotto dal governo Berlusconi, ministro Sacconi, ovvero la norma che consente di stipulare accordi aziendali anche in deroga ai contratti nazionali e addirittura alle leggi. Giustificata con la più ampia possibilità per l’imprenditore di affrontare le crisi aziendali e di assumere nuovi lavoratori, la cosiddetta “contrattazione di prossimità” è servita soltanto a imporre ai dipendenti condizioni più sfavorevoli rispetto a quelle, minime, che le leggi assicurano a tutti a livello nazionale. Né ha accennato all’esigenza di difendere il contratto nazionale, strumento di uguaglianza e solidarietà, che molti poteri forti auspicano che venga superato, in definitiva per accrescere in nome della ripresa economica le possibilità di sfruttamento del lavoro. Sono riscontrabili altri vuoti, nel suo discorso, ad esempio in materia di diritti civili. Uno alla volta, in Europa, ultima la Francia, tutti i paesi vanno introducendo una qualche regolamentazione giuridica delle coppie di fatto, anche fra omosessuali. Si va da leggi i cui contenuti ricordano i pacs, al riconoscimento del matrimonio, con annessa possibilità di adottare un bambino. L’Italia è indietro a tutti; e il governo non dice una parola in riferimento a questo problema. Come nulla dice in materia di fecondazione assistita o di testamento biologico, materie per le quali solo i giudici, nazionali o europei, tentano di assicurare la tutela dei diritti delle persone. Ancora. Com’è a tutti noto, la questione immigrazione è da anni all’ordine del giorno. Si tratta di un tema con tante sfaccettature, che suscita divisione e contrasti, come hanno evidenziato alcuni commenti alla presenza di una donna di colore fra i ministri del nuovo governo. Ma almeno su due questioni non dovrebbe essere difficile arrivare a una regolamentazione normativa: il riconoscimento della cittadinanza a chi nasce in Italia da genitori stranieri qui regolarmente residenti e il diritto di voto. Sembra incredibile. Si può risiedere in Italia per anni, avendo un lavoro e pagando le tasse: e però da un lato i figli, che pure parlano in italiano, sono considerati stranieri, dall’altro non è possibile votare, neppure per il sindaco. Un ultimo rilievo. L’associazione Antigone s’è fatta promotrice di alcuni disegni di legge di iniziativa popolare per sanare almeno alcune delle tante gravi lacune del nostro sistema penale. Fra questi, l’introduzione del reato di tortura, da tempo richiesta dall’Europa, e l’abrogazione di una serie di norme, dalla ex Cirielli a quelle in materia di stupefacenti fino al reato di clandestinità, che costringono inutilmente tante persone al carcere, determinandone un intollerabile sovraffollamento. Anche qui, il silenzio del presidente del Consiglio induce a temere che la strada dell’iniziativa non sarà affatto facile. Si può sperare che l’unica forza di opposizione espressa dalle recenti elezioni, il Movimento 5 Stelle, si faccia carico di tutte queste problematiche, che hanno palesemente a che fare con i diritti delle persone? Molti ne dubitano. E però il M5S già in campagna elettorale, unico fra tutti, denunciava l’inciucio verso il quale si stava andando; e non solo parlava di conflitto di interessi e contro le grandi opere e le spese militari, ma affermava l’esigenza di tutelare i diritti. Oggi che è nato il governo delle larghe intese non può trascurare il fatto che il compito di operare per il cambiamento, a livello di rappresentanza politica, pesa innanzitutto sulle sue spalle; e che tante fasce sociali sotto protette guardano con interesse e speranza alle sue iniziative. Non a caso subisce attacchi di varia natura, ma può trovare alleati, come ad esempio Sel. Certo, dovrà fare chiarezza al proprio interno, superare ambiguità e assumere posizioni coraggiose. Se ciò dovesse avvenire, troverà nel paese non solo movimenti e associazioni che ne sosterranno le iniziative, ma anche ulteriori consensi popolari. Giustizia: Kyenge, Idem e l’orizzonte-Italia… due cose importanti di Francesco D’Agostino Avvenire, 7 maggio 2013 Intelligente e opportuna la nomina nel governo Letta del ministro Cécile Kyenge, per il duplice lavoro che potrà portare avanti, quello a favore di una giusta integrazione degli immigrati nel nostro Paese e soprattutto quello contro i pregiudizi xenofobi e razzisti che ancora pervadono alcune parti della nostra società civile. È però soprattutto un altro il punto su cui è bene richiamare l’attenzione, per quel che concerne la nomina di Kyenge (alla quale sotto questo profilo va affiancata la nomina - altrettanto significativa - del ministro Josefa Idem). Abbiamo ora nell’elenco dei ministri del nostro governo due persone (che siano due donne fa piacere, ma è sotto questo profilo del tutto irrilevante) la cui identità civile è nettamente distinta dall’identità nazionale. Si tratta infatti di due cittadine italiane, la cui identità nazionale però non è italiana: è congolese per Kyenge e tedesca per Idem. Ciò non toglie che del tutto correttamente Kyenge abbia dichiarato di ritenersi italo-congolese: ma in tal modo essa ha fatto riferimento esclusivamente a una sua situazione psicologica soggettiva, perché non esiste una nazionalità italo-congolese, così come non esiste una cittadinanza di questo genere (analogo discorso possiamo evidentemente farlo per chi volesse ipotizzare una nazionalità o una cittadinanza italo-tedesca). Se vogliamo chiamare “italiani” coloro che hanno la cittadinanza italiana, Kyenge e Idem sono italiane al cento per cento (mentre non lo sono i ticinesi che hanno la cittadinanza svizzera); se invece chiamiamo italiani coloro che sono di nazionalità italiana, né Kyenge né Idem sono italiane, ma lo sono i ticinesi. In altre parole, la nomina di questi due ministri dovrebbe aiutarci tutti a capire quanto sia rilevante la distinzione tra Stato e Nazione, struttura politica la prima, realtà storico-valoriale la seconda. Si tratta di due dimensioni diverse, che il nazionalismo otto/novecentesco ha cercato in tutti i modi, ma invano, di far coincidere, a volte anche - e purtroppo - attraverso pratiche di inaudita violenza, come quelle della “pulizia etnica”. Oggi dovremmo essere tutti avvertiti di due cose importanti (e la nomina di queste due donne ministro può aiutarci in tal senso). La prima è che nell’Italia repubblicana, caratterizzata istituzionalmente dal primato del principio di laicità (un supremo principio del nostro ordinamento, come affermò in una celebre sentenza la Corte Costituzionale), le strutture dello Stato cui è affidato il potere politico non possono né devono identificarsi con strutture eminentemente non politiche, come quelle nazionali (alle quali possiamo affiancare strutture religiose, linguistiche, educative, culturali...). La seconda cosa, ancor più importante, che dobbiamo capire è che la laicità politica dello Stato non può né deve essere interpretata come indifferenza e meno che mai come ostilità nei confronti di identità e pretese, pur se particolaristiche, di carattere nazionale, religioso, linguistico, ecc. Lo Stato infatti ha bisogno di queste strutture meta-politiche, perché da esse può assorbire dimensioni valoriali che da solo non è in grado di elaborare: si tratta di un autentico e prezioso processo di apprendimento, che non è però a senso unico, in quanto a sua volta lo Stato ha la possibilità, anzi il dovere, di “insegnare” alle strutture meta-politiche il principio del rispetto reciproco e della reciproca conoscenza. In questo senso, il lavoro del ministro Kyenge (ma anche, in diversa misura, quello del ministro Idem) non dovrà essere inteso semplicemente come difensivo, cioè come rivolto alla giusta tutela delle tante minoranze presenti nel nostro Paese, ma piuttosto come finalizzato a un allargamento di orizzonti, di cui tutti coloro che vivono e lavorano in Italia (comunque cittadini, anche se non sempre cittadini italiani) hanno un estremo bisogno. Giustizia: Sappe; 100mila persone tra carcere ed area penale esterna, situazione allarmante Ristretti Orizzonti, 7 maggio 2013 Sono 65.917 le persone (63.029 uomini e 2.888 donne) detenute nelle celle dei 206 penitenziari italiane. Alle quali aggiungerne 10.655 ammesse a scontare la pena attraverso la misura alternativa dell’affidamento in prova ai servizi sociali, 877 in semilibertà, 10.241 in detenzione domiciliare. Altre 2.945 sottoposte a libertà vigilata, 191 tra libertà controllata e semidetenzione, 3.924 tra lavoro di pubblica utilità, lavoro all’esterno e sospensione condizionale della pena. “Il carcere invisibile delle misure alternative e di sicurezza e di altre misure sostitutive della detenzione coinvolge dunque oggi oltre 28.800 persone che, sommate a quelle in carcere, porta ad avere complessivamente quasi 100mila detenuti in Italia. Se a questo aggiungiamo che mancano in organico oltre 6.500 poliziotti penitenziaria, si comprenderà perché da tempo il SAPPE sostiene che la situazione è allarmante ed emergenziale”, commenta Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “È del tutto evidente” aggiunge “che scontare la pena fuori dal carcere, per coloro che hanno commesso reati di minore gravità, ha una fondamentale funzione anche sociale. Come, ad esempio, il lavoro di pubblica utilità per i soggetti sorpresi alla guida in stato di ebbrezza, che consistente in una prestazione di lavoro non retribuita a favore della collettività da svolgere in via prioritaria nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale: sono complessivamente 3.098”. “Ma che la situazione nelle carceri sia esplosiva” prosegue Capece “lo confermano le notizie di cronaca che, in pochi giorni, hanno fatto registrare i suicidi di un Agente di Polizia Penitenziaria (nel carcere minorile di Lecce) e di due detenuti (a Castelfranco Emilia ed a Catanzaro), altri due suicidi di ristretti sventati in tempo dalla Polizia penitenziaria a Modena ed nel carcere minorile di Catanzaro, poliziotti aggrediti in carcere a Spoleto e Salerno ed un’aggressione contro un altro Basco Azzurro sventata ad Alessandria, due risse tra detenuti nel carcere genovese di Marassi, due incendi provocati da detenuti a Como e Montelupo Fiorentino che per il pronto intervento degli Agenti non è sfociato in tragedie, la morte improvvisa per malore di due detenuti (nel carcere di Velletri e nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia) e di un poliziotto del carcere di Firenze Sollicciano”. “La situazione penitenziaria resta allarmante nell’assoluta indifferenza ed apatia dell’Amministrazione Penitenziaria. In questo contesto è palese e grave l’inefficienza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria guidato da Giovanni Tamburino e dal Vice Capo Luigi Pagano, che pensa a risolvere le criticità del sovraffollamento delle nostre prigioni con soluzioni fantasiose e pericolose”, conclude. Proprio per questo “domani mercoledì 8 maggio 2013 il Sappe terrà una originale manifestazione di protesta davanti al DAP: abbiamo organizzato un piccolo palco di fronte al palazzo del Dipartimento (una specie di speakers’ corner), in Largo Luigi Daga, 2, dal quale poter far esprimere tramite altoparlante problemi, lamentele, rivendicazioni, richieste e necessità dei poliziotti penitenziari”. Al primo posto, per il Sappe, “la gestione fallimentare del Corpo di Polizia Penitenziaria e del Dap, distante dalla realtà e che sottovaluta la sicurezza del personale e delle strutture”. Giustizia: Di Sabato (Osservatorio sulla Repressione); esistiamo perché lo Stato è assente di Alessandro Corroppoli www.primonumero.it, 7 maggio 2013 Italo Di Sabato, già assessore e consigliere regionale, è il responsabile nazionale dell’Osservatorio sulla Repressione, fondato nel 2007 dalla mamma di Carlo Giuliano, ucciso durante il G8 di Genova. In questa intervista spiega le ragioni dell’organismo, illustra il drammatico panorama italiano legato a ingiustizie subite da detenuti e migranti e le tre leggi di iniziativa popolare per la giustizia e i diritti: tortura, carceri e droga. La repressione sociale è un tema delicato, attuale e di vitale importanza in un contesto di crisi come lo è quello odierno. Un tema sul quale vigila, in Italia, l’Osservatorio sulla Repressione, fondato nel 2007 da Haidi Giuliani, Francesco Caruso e Italo Di Sabato. Quest’ultimo, già assessore e consigliere regionale, è oggi il Responsabile nazionale. Di Sabato, quando nasce l’Osservatorio Nazionale sulla Repressione? “Nel 2007 insieme con Haidi Giuliani (la mamma di Carlo, il giovane ucciso durante il vertice del G8 a Genova, ndr) e Francesco Caruso abbiamo fondato l’osservatorio sulla repressione, promuovendo un sito/blog www.osservatoriorepressione.org. Dal 2011 l’osservatorio è diventato una associazione di promozione sociale a carattere nazionale”. Cosa fa l’Osservatorio, di cosa si occupa? “In questi anni abbiamo partecipato e promosso iniziative, dibattiti, seminari sui temi della repressione, in modo particolare si fatti accaduti al G8 di Genova nel luglio 2001m e della legislazione speciale d’emergenza, sulla situazione carceraria e dei migranti, sulla tortura, abbiamo denunciando e seguito casi di mala-polizia. Qualche esempio: dal caso di Federico Aldrovandi, a quelli di Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Marcello Lonzi, Riccardo Rasman; Stefano Frapporti, Paolo Scaroni. Inoltre, da oltre due anni abbiamo istituito 5 sportelli carcere a Roma, in grado di fornire assistenza agli ex detenuti e i familiari dei reclusi”. Oltre ad un’assistenza umana riuscite a dare anche un copertura legale ai vostri assistiti? “Oggi posso dire di sì. Grazie anche alla collaborazione attiva con il legal team Italia che ha aderito all’Osservatorio forniamo anche assistenza legale alle tante vittime di repressione e mala-polizia. Abbiamo promosso la pubblicazione di materiali ed esiti delle proprie ricerche e lavorato in progetti come “Ingaggiami” sul territorio di Nardò e il “Camper dei Diritti” in Basilicata in sostegno dei lavoratori migranti in agricoltura. Un lavoro necessario nel contesto socio-politico attuale dove i governi rispondono alla crisi sociale ed economica con un ipersviluppo delle istituzioni totali con le quali si cerca di rimediare alle carenze della protezione sociale dispiegando, negli strati inferiori della società, una rete poliziesca e penale dalle maglie sempre più fitte” Cosa intende dire con “ipersviluppo delle istituzioni totali”? “Oggi siamo di fronte ad uno Stato che ha abdicato al proprio ruolo nel rimuovere le cause che determinano l’ineguaglianza sociale, e che ha sviluppato per contrappeso una suo intervento etico, rispetto alla questione delle libertà e dei diritti civili: ad uno Stato Sociale Minimo si accompagna la tendenza ad uno Stato Penale Massimo, che fa dell’esclusione un dato strutturale” Mi par di capire che uno dei vostri terreni di battaglia preferiti sono quei luoghi come carceri o centri di identificazione ed espulsione (C.I.E.). Come si svolge il vostro lavoro in questi ambiti? “Mi permetta una breve premessa”. Prego... “Carceri, C.I.E, istituzioni psichiatriche, caserme e, più in generale, la militarizzazione della società, sono sempre di più gli strumenti con i quali la “fortezza Europa” affronta la crisi economica, ecologica ed etica. Una vera e propria crisi di sistema che si manifesta anche attraverso le svariate politiche di negazione dei diritti e delle libertà e delle tutele individuali e collettive. La risposta che il governo Monti ha dato alla crisi economica e sociale, per esempio, è stata la dichiarazione di guerra al più povero. Se ti opponi per reclamare diritti, reddito, casa c’è il rischio di essere brutalmente picchiati, torturati e arrestati. Chi invece ha prodotto la violenza, ha calpestato i più elementari diritti (come è accaduto a Genova durante il G8 nel luglio 2001) viene assolto, promosso e premiato come un “eroe” dello Stato”. Diamo qualche numero, dato preciso che possa rendere meglio il suo concetto? “Dal G8 di Genova del luglio 2001 a oggi sono numerosi i casi in cui la magistratura ha cercato di trasformare le lotte sociali in azioni puramente delinquenziali. Si parla di circa 17.000 persone sotto processo, interessano tutti i gangli attraverso i quali il movimento tentò di esprimersi nel luglio 2001: contrapposizione alle politiche liberiste, lotte sociali riguardanti il tema della precarietà (e con esso il diritto alla casa, ai servizi, al reddito), le lotte dei migranti. Le mosse delle varie procure sembrano inserirsi nel solco ideologico delle nuove tecniche repressive: disconoscere il primato politico delle varie forme di opposizione per sancirne la resa giudiziaria delinquenziale e tramutare ogni lotta politica in ordine pubblico. La dimensione del fenomeno e la qualità delle imputazioni mosse indica la volontà di taluni apparati dello Stato e della stessa Magistratura di procedere ad una vera e propria criminalizzazione di istanze che dovrebbero trovare ben altre sedi e modalità di risposta”. La risposta operativa dell’Osservatorio a queste tecniche repressive? “Nei prossimi mesi lanceremo una campagna nazionale per l’amnistia e la depenalizzazione di una serie di reati, spesso ereditati dal vecchio Codice Rocco, che sanzionano stili di vita, comportamenti sociali diffusi o persino le libere opinioni. Una campagna per il riconoscimento della legittimità di alcune forme di lotta, entrati nella prassi dei movimenti e dei comitati territoriali. Una campagna che va ad aggiungersi alla raccolta firme per le tre leggi di iniziativa popolare per la giustizia e i diritti. Tortura, carceri e droga”. Ci illustra brevemente, nei loro passaggi fondamentali, le tre leggi? “La prima proposta si limita a dare una definizione e una sanzione per il delitto di tortura. La seconda cestina la legge Fini-Giovanardi sulle droghe depenalizzando il più possibile, riducendo le pene, prevedendo un trattamento differenziato per chi spaccia droghe pesanti e leggere, legalizzando il consumo a fini terapeutici. La terza proposta di legge intende ripristinare la legalità costituzionale nelle carceri italiane, deflazionando il sistema e assicurando diritti, oggi spesso negati, per chi è dentro”. Come avvenuto ad esempio con Stefano Cucchi? “Ha colto nel segno. Infatti, chi sostiene la tesi che Stefano Cucchi sia scivolato in carcere, oppure in caserma o in tribunale, oppure che i “reclusi” alla caserma Bolzaneto a Genova o alla Ranieri a Napoli si siano fatti mali da soli giocano con l’intelligenza delle persone e si rendono complici di tesi precostituite di impunità”. Lei avrà visitato diversi centri di detenzione. Centri che spesso sono sulle prime pagine dei quotidiani allorquando avviene un decesso oppure i detenuti si ribellano alle condizioni ambientali in cui sono costretti a vivere. Cos’è oggi un carcere? È ancora il luogo deputato alla riabilitazione oppure ha perso totalmente la sua funzione sociale? “Il carcere oggi è una “discarica sociale”, un “non-luogo”. I dati sulla situazione carceraria sono drammatici. I detenuti sono 68.527 per soli 44.612 posti letto. Praticamente non ci sono più nemmeno i posti in piedi. I semiliberi sono appena 877. L’area penale esterna, cioè quelli che scontano misure alternative per condanne, inferiori o residuali, sotto i due-tre anni, sono 12.492. Tra questi i detenuti che hanno commesso reati sono appena lo 0,23%. Nel paese dove si racconta che l’ergastolo non esiste più, i “fine pena mai” sono 1491. I detenuti con meno di 25 anni sono invece 7.311, i bambini sotto i tre anni 57. Quelli che hanno commesso violazioni della legge Fini-Giovanardi sulle droghe 28.154, il doppio della media europea”. A questo desolante quadro va aggiunto il numero di suicidi … “Negli ultimi 10 anni registriamo più di 700 suicidi nelle carceri. Ad avere solo un anno da scontare sono 11.601, a riprova del fatto che in carcere è più facile entrare che uscire. 43,7 per cento i reclusi (record europeo) ancora giudicabili, tra questi 15.233 in attesa del primo giudizio. In sostanza una crisi nella crisi. “Siamo il paese del carcere preventivo, della pena anticipata, della sanzione senza processo dove finiscono solo poveri, immigrati, tossicodipendenti, infermi di mente con una mancanza di educatori e psicologi; agenti della Penitenziaria massacrati di turni di lavoro con straordinari non pagati; dignità e diritti calpestati per tutti”. E ora il Molise. È necessario un Osservatorio sulla repressione in regione? “Credo proprio di sì. Anche in Molise ci sono carceri, detenuti, immigrati e storie di repressione sociale. Penso ad esempio alla triste storia di Radu Gheorge morto nelle campagne di Nuova Cliternia nel 2009 mentre era intento alla raccolta dei pomodori ma anche ai tanti migranti che ogni anno raggiungono le nostre terre per lavorarle e lavorare come schiavi”. Quindi nei prossimi mesi sentiremo parlare dell’Osservatorio? “Certamente. Ci stiamo già attivando per reperire fondi che possano avviare progetti che possano favorire il reinserimento e la tutela sociale oltre che legale di detenuti, migranti e di chiunque fosse vittima di un’ingiustizia, di una repressione”. Giustizia: Pannella in sciopero di fame e sete, per risolvere problema sovraffollamento Public Policy, 7 maggio 2013 Qual è l’obiettivo? “È aiutare il presidente della Repubblica, la politica e la partitocrazia ad uscire da questa situazione. L’Italia viola da trent’anni i diritti umani. Questo Paese deve affrontare subito il problema del sovraffollamento carcerario”. Risponde così Marco Pannella, leader radicale, intervistato dal Tg2, in merito alle motivazioni che lo hanno spinto a ricominciare - il 1° maggio scorso - lo sciopero totale della fame e della sete. E aggiunge: “Chiedo allo Stato di rispettare la legalità”. E sulla decisione di intraprendere lo sciopero spiega: “Ci sono molte iniziative vinte nei referendum popolari: depenalizzazione del consumo di droga, l’abolizione del servizio militare obbligatorio e il finanziamento pubblico ai partiti. Noi Radicali invece di mostrare i muscoli cerchiamo di trasferire la nostra energia sul potere perché rispetti la legalità”. Giustizia: Grasso (Senato), l’emergenza carceri non è finita, bisogna depenalizzare Tm News, 7 maggio 2013 “L’emergenza carceri oggi ci comporta che entro un anno dobbiamo trovare posto a ventimila detenuti o far sì che ventimila detenuti possano uscire dalle carceri: è un tema che sembra dimenticato ma l’emergenza ancora sussiste”. Lo ha affermato a Radio anch’io su Radio Uno il presidente del Senato Piero Grasso. Il tema, ha aggiunto, “va affrontato con misure globali e non parziali. Bisogna modificare le leggi che hanno creato il sovraffollamento, depenalizzare, ma anche costruire nuove carceri”. Giustizia: Cirielli (FdI): occorre riforma strutturale, Grasso si impegni a tutela di vittime Ansa, 7 maggio 2013 “Concordo con il presidente Grasso quando dice che l’emergenza delle carceri in Italia va affrontata con misure globali e non parziali. Occorre, però, una riforma strutturale, perché certamente il problema non si risolve depenalizzando, non punendo i pluri recidivi e affidandosi ad indulti e amnistie”. È quanto dichiara Edmondo Cirielli, deputato di Fratelli d’Italia. “Mi auguro che il Governo - spiega - decida di affrontare questa emergenza con serietà, rivedendo il sistema della custodia cautelare, facendo scontare le pene agli stranieri nei loro paesi d’origine e soprattutto prevedendo la rieducazione in carcere che, purtroppo, oggi non esiste”. “Continuare a scaricare tale inefficienza dello Stato sulle spalle dei cittadini - conclude Cirielli - non è più tollerabile. Pertanto, chiedo al presidente Grasso di impegnarsi soprattutto sul fronte della tutela delle vittime. Questa è la vera emergenza”. Giustizia: dal 2014 a regime legge a tutela rapporto tra detenute madri e figli minori di Lucia Brischetto La Sicilia, 7 maggio 2013 Nella previsione di evitare la detenzione ai bambini figli di madri detenute, il Senato della Repubblica e la Camera dei deputati hanno definitivamente approvato nel 2012 il disegno di legge n. 2568 che richiede “modifiche al codice di procedura penale e alla legge n. 354/1975 relativa alla tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”. Secondo le previsioni, la legge dovrebbe entrare in vigore all’inizio del 2014, tranne che nel frattempo non si siano trovate le soluzioni “posti disponibili” negli istituti a custodia attenuata. In questo modo e con questa “brillante” soluzione, si eviterebbe di applicare la legge che dovrà entrare in vigore, evitando così di approntare e/o costruire istituti idonei a “soddisfare” l’esigenza genitoriale dei minori detenuti assieme ai genitori. Fa scuola di grande civiltà penitenziaria l’istituto a custodia attenuata di Milano che, di fatto, favorisce il rapporto madre-figlio durante la loro detenzione congiunta. Un disagio inenarrabile quello delle madri e dei loro figli congiuntamente detenuti. Come spieghi, tu madre detenuta, al tuo bambino detenuto assieme a te che “quel” cancello non si può aprire e che da quella porta non si può uscire? Tuttavia la nuova legge consentirebbe alla madre di potere scontare la sua condanna entro i quattro anni presso una casa famiglia protetta o nella propria abitazione, sempre che non ci sia pericolo di fuga o di reiterazione dei reati e appartenenza alla criminalità organizzata. In siffatta maniera al bambino non viene tolto il diritto di stare con la madre, sebbene gli venga tolto, già a quella tenerissima età, il diritto alla libertà. La civiltà giuridica, se entrasse in vigore questa nuova legge, impone di evitare, a discrezione del giudice, la custodia cautelare per le donne incinte o per le donne con figli di età fino a 6 anni, consentendo la detenzione domiciliare per le donne condannate con figli di età inferiore ai dieci anni. Entrerà in vigore la legge? Si terrà conto della necessità di evitare ai bambini il duplice trauma di essere allontanato dalla madre e di vivere in carcere, luogo niente affatto adatto alla sua crescita e al suo sviluppo psico-fisico? Inoltre occorre necessariamente tenere conto che il luogo detentivo influenza negativamente il rapporto madre-figlio e che le rigide regole detentive limitano anche le capacità genitoriali, lasciando percepire al minore la condizione di privazione assoluta della libertà di pensiero e di movimento. E per sopravvivere a cotanta tristezza istituzionale non basteranno, come non sono quasi mai bastati, i gruppi pedagogici dell’istituto e gli esperti dell’ufficio esecuzione penale esterna. Un bambino scarcerato ebbe a dire alla madre: “Mamma, non ci dobbiamo passare mai più davanti a questo castello perché mi fa paura”. Giustizia: domani nasce la prima agenzia per l’imprenditorialità delle donne detenute Il Velino, 7 maggio 2013 Con “Sigillo” nasce la prima agenzia nazionale di coordinamento dell’imprenditorialità delle donne detenute e un nuovo modello di economia sostenibile. Obiettivo dell’agenzia, prima nel suo genere in Italia e in Europa, è quello di curare le strategie di prodotto, comunicazione e posizionamento sul mercato di quanto realizzato dalle donne detenute nei laboratori sartoriali avviati in alcuni dei più affollati istituti penitenziari italiani. Il progetto e il marchio - approvato dalla Cassa delle Ammende del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia - saranno presentati l’8 maggio presso il Museo Criminologico di Roma. Attorno alle cooperative sociali protagoniste del progetto, i rappresentanti del “socially made in Italy”, di quell’eccellenza italiana che sa abbinare alla massima qualità di tessuti, stile e prodotto, l’attenzione al bene comune dentro e fuori le mura delle proprie aziende. È questa la produttività di cui Sigillo vuole essere l’emblema. Il marchio “Sigillo” sui lavori sartoriali confezionati nelle carceri italiane Le “best practice” invitate al tavolo indetto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, forse per la prima volta, sono realtà del mondo profit. Un segnale di disponibilità e di volontà di iniziare nuove forme di dialogo tra un mondo, quello carcerario, che ha mani e tempo da spendere in attività lavorative, e le eccellenze dell’imprenditorialità italiana, capaci di innovare il modo di essere prima e il modo di fare poi. Saranno dunque presenti - oltre ai responsabili del progetto e alle autorità - Silvia Fendi, presidente AltaRoma; Santo Versace, presidente Fondatore Altagamma; Aldo Cibic, CibicWorkshop; Andrea Fora, vice presidente Federsolidarietà - Confcooperative e Francesca Claprini, di Banca Prossima. Coordina i lavori la giornalista Anna Fiorino. Giustizia: una scelta di buon senso per fermare il femminicidio di Serena Dandini Corriere della Sera, 7 maggio 2013 A volte le cose sono più semplici di quello che sembrano. Ci vogliono buon senso e buona volontà, qualità pratiche un po’ fuori moda perché poco spendibili nel circo mediatico dove è finita la politica. Ma ora c’è un’occasione da non perdere. Questo nuovo governo con tutti i suoi difetti e le “convergenze parallele” che non s’incontrano mai, potrebbe lasciare un segno, almeno per quel che riguarda la piaga del femminicidio. Non servono investimenti mastodontici e non c’è bisogno di chiamare l’esercito o invocare la pena di morte. In Italia ci sono già leggi, esempi virtuosi, energie locali e esperienze professionali che lavorano da anni sul campo: vanno ascoltate, coordinate, finanziate e collegate in un nuovo piano nazionale antiviolenza. Una donna maltrattata, minacciata, molestata, umiliata da violenze fisiche o psicologiche è un dramma e un danno per la società intera, non un trascurabile -effetto collaterale di una storia d’amore andata a male. Siamo tutti coinvolti e responsabili, anche se non direttamente violenti, perché abbiamo comunque ignorato o avallato comportamenti considerati bonariamente scontati, endemici della nostra cultura mediterranea, simpatici machismi che fanno folklore e nessun danno. E invece anche le parole sono delle armi taglienti. Non possiamo più sentire negli articoli di cronaca frasi come “Delitto passionale” o “Raptus improvviso di follia”. Che raptus può essere un gesto annunciato da anni di violenze, minacce e ricatti? Lo sapevano tutti che prima o poi qualcosa sarebbe successo: i vicini, il quartiere intero, persino al pronto soccorso e al commissariato di zona dove fioccano a volte denunce inascoltate. L’Italia è stata severamente redarguita dalle Nazioni Unite nella relazione di Rashida Manjoo, Rapporteur speciale del 2012 che dopo gli insulti al presidente della Camera avrebbe forse rincarato la dose: “La maggior parte delle manifestazioni di violenza in Italia sono sotto-denunciate nel contesto di una società patriarcale dove la violenza domestica non è sempre vissuta come un crimine... e persiste la percezione che le risposte dello Stato non saranno appropriate o utili”. Parole pesanti, gravissime, che avrebbero dovuto almeno stimolare un dibattito e che invece sono scivolate via nei cestini dei ministeri. Se ci sgridano per il debito pubblico o lo spread che s’innalza, corriamo come bambini impauriti a giustificarci mentre davanti a queste “vergogne” i governi fanno spallucce. Eppure non ci vuole una laurea alla Bocconi per capire che questo tema non è solo politico o culturale, ma anche economico. In questo Paese il welfare si chiama donna: sulle spalle di milioni di cittadine gravano la cura dei figli, degli anziani, della casa; è evidente che la crisi si abbatte con particolare violenza principalmente su di loro. Non è un caso che l’escalation dei delitti s’impenna quando la vita quotidiana si fa più dura per tutti. Le ultime cifre parlano da sole e questa scia di sangue e dolore va fermata. La violenza maschile sulle donne non è una questione privata, ma politica. Ecco perché in tanti, donne e uomini, hanno firmato l’appello di “Ferite a morte” che chiede al Governo e al Parlamento di convocare senza indugi gli Stati Generali contro questa violenza. Servono interventi immediati, è necessario riconoscere l’urgenza e istituire finalmente un Osservatorio Nazionale che segua il fenomeno. La ministra Josefa Idem ha recepito queste necessità e mi auguro che al più presto dia delle risposte concrete. Ma lo sforzo deve essere interministeriale, deve essere inaugurata una nuova sensibilità comune che colleghi le pratiche virtuose di sanità, scuola, giustizia, economia verso lo stesso obiettivo, dando ascolto, in primo luogo, a chi da anni lavora sul territorio come le associazioni che fanno parte della Convenzione No More!. Basterebbe leggere quelle due paginette per capire subito cosa fare. Altri Paesi hanno adottato queste buone pratiche e i risultati si sono visti immediatamente. Più di 6.000 firme in meno di un giorno per questo appello rappresentano un segno forte che sarebbe un ulteriore delitto trascurare. Sardegna: detenuti a Elmas con un volo charter, interrogazione di Pili alla Cancellieri L’Unione Sarda, 7 maggio 2013 Settantuno detenuti, di cui una decina di alta sicurezza, sbarcheranno oggi all’aeroporto di Elmas con un volo charter. La denuncia è del deputato Mauro Pili (Pdl). “Un volo charter con Air bus 320 di Meridiana sbarcherà alle 14.50 nell’aeroporto di Cagliari-Elmas con a bordo 71 detenuti, di cui una decina di alta sicurezza, tutti in arrivo da Malpensa. Si tratta di un’ennesima ‘vacanzà pagata con soldi dello Stato per continuare a riempire le carceri sarde già in sovraffollamento e con gravissime carenze di personale. Un situazione insostenibile che denota l’arroganza con la quale il Ministero della Giustizia continua a considerare la Sardegna una vera e propria cayenna di Stato”. La denuncia è del deputato sardo Mauro Pili che ha rivolto un’interrogazione parlamentare al Ministro Cancellieri per sapere quanto costano questi voli e per quale motivo questi detenuti vengano trasferiti in Sardegna con costi di trasferimento abnormi e soprattutto con tutte le carceri sarde sovraffollate. “Non si capisce - sostiene Pili - il motivo di tale decisione di inviare, a ridosso delle vacanze estive, un nuovo rilevante contingente di detenuti con un dispiegamento di forze che smobiliterà ulteriormente il già precario sistema penitenziario sardo”. “Costi di trasporto alle stelle, con i sardi che non hanno voli di continuità territoriale e con lo Stato che paga fior di quattrini per i voli charter per 71 detenuti. Una situazione insostenibile che deve cessare, sia sul piano scandaloso dei costi che per la reiterata decisione del Ministero di scaricare in Sardegna una “pressione” penitenziaria inaccettabile”. “L’aereo che atterrerà nel pomeriggio ad Elmas stracolmo di detenuti e polizia penitenziaria è stato noleggiato alla Meridiana con costi superiori ai 30.000 euro per il trasbordo di 70 detenuti. Una gestione vergognosa del sistema penitenziario del nostro paese”. Così il deputato sardo Mauro Pili, che ha aggiunto: “Un ingente schieramento di forze della Polizia penitenziaria - ha detto Pili - che mette a rischio il già labile e scarno numero di poliziotti penitenziari costretti a turni massacranti e per giunta obbligati a questo ulteriore e grave trasloco”. “Dai miei riscontri - dice Pili - 8/10 sono i mafiosi a bordo del charter che andranno a incrementare ulteriormente la già ampia colonia mafiosa che lo Stato sta creando in Sardegna. Sette o otto mafiosi di alta sicurezza sarebbero destinati al nuovo carcere di Oristano, mentre uno o due andranno nel braccio di alta sicurezza di Tempio. Nei carceri sovraffollati di Buon cammino arriveranno 16 detenuti, mentre in quello stracolmo di Sassari 12. Gli altri saranno così ripartiti: sei ad Isili, sei a Macomer, 24 a Mamone, sei a Nuoro”. “L’arrivo in Sardegna su un volo charter di nuovi detenuti - ha continuato Pili - è già di per sé uno sperpero di denaro pubblico, ma quel che è più grave è che il governo continua a considerare l’Isola un vero e proprio collettore penitenziario, dato che le carceri sarde, a partire da Buoncammino di Cagliari per finire con il San Sebastiano di Sassari, sono stracarichi di detenuti, più del doppio di quanto consentito”. “Per quale motivo non sono stati alleggeriti i carichi di detenuti nelle carceri isolane e si è preferito invece l’utilizzo di aerei pagati chissà quanto per trasportare detenuti comuni e mafiosi provenienti dalla penisola? - È la domanda che si pone il parlamentare sardo - È evidente che il ministro della Giustizia continua a ritenere la Sardegna una vera a propria Cayenna di Stato dove scaricare detenuti comuni e mafiosi”. Pili ribadisce: “la preoccupazione in queste ore resta quella per l’arrivo in Sardegna dei 125 detenuti in regime di Alta Sicurezza 1 destinati al carcere di Oristano-Massama, per il quale esistono forti preoccupazioni per il pericolo di infiltrazioni mafiose già indicati nella stessa circolare istitutiva del regime As1. Un carico di mafiosi di 500 unità in Sardegna - conclude il deputato - che hanno fatto dichiarare al professor Pino Arlacchi, massimo esponente mondiale di problemi di mafia, che si tratta di una vera e propria follia tecnica e politica”. Palermo: monta la protesta al Pagliarelli, i detenuti chiedono “amnistia e indulto” www.blogsicilia.it, 7 maggio 2013 Una lettera scritta a mano e firmata dai detenuti del carcere Pagliarelli di Palermo. Con le firme depositate presso “l’ufficio competente della casa circondariale che provvederà su richiesta a renderle note”. Due pagine e mezzo rivolte al ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri principalmente e dopo al partito dei Radicali italiani e dal garante dei detenuti in Sicilia. Il messaggio è chiaro e diretto: i detenuti del Pagliarelli chiedono che venga emesso il provvedimento di “amnistia e indulto” (scritto in maiuscolo nella lettera) “per porre fine ad una realtà indegna per una società civile, sviluppata, promotrice di molte campagne per la difesa dei diritti inviolabili e inalienabili dell’uomo, quale l’Italia è, ma che sull’argomento carceri e trattamento detenuti ne esce mutilata e invalida come risulta evidente e come le stesse autorità europee hanno più volte accertato e condannato”. Una lettera circostanziata e motivata che richiama a supporto gli articoli 3, 10 e l’ex articolo 27 della Costituzione ricordando l’obbligo per lo Stato di “rimuovere quegli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” oltre che la violazione di quelle norme “in base alle quali le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità tendendo alla rieducazione del condannato”. Nella lettera i detenuti del carcere Pagliarelli annunciano inoltre che manifesteranno “pacificamente” per sostenere la propria richiesta e che a partire dai prossimi giorni attueranno “forme collettive di manifestazione, quali battitura nelle ore tardo pomeridiane, rifiuto del cibo e scioperi pacifici di varia altra natura, per porre l’attenzione sulla nostra situazione”. Bologna: Ipm Pratello; Sindacati PolPen… ci saranno presidi e “iniziative di protesta” Dire, 7 maggio 2013 Non solo ci saranno presidi e “iniziative di protesta”, ma i sindacati non escludono di denunciare il Dipartimento per la giustizia minorile per comportamento antisindacale. Continua la linea dura degli agenti di Polizia penitenziaria del carcere minorile del Pratello, in rotta con l’amministrazione dalla metà di marzo, quando venne annunciato lo stato di agitazione. “A tutt’oggi dobbiamo constatare un assordante silenzio da parte dei vertici del dipartimento”, affermano in una nota i segretari di Sappe, Fns Cisl, Uil pubblica amministrazione, Sinappe, Ugl Polizia penitenziaria, Fp Cgil, Cnpp. Il silenzio è proseguito anche dopo che i sindacati, per protesta, non si sono fatti vedere all’incontro del 23 aprile scorso per discutere il piano ferie con la Direzione della struttura di via del Pratello. Una “scelta non facile”, sottolineano i sindacati, che voleva essere “un segnale chiaro ed evidente del malessere che tale personale sta vivendo da troppo tempo a causa delle scelte infelici dell’amministrazione centrale”, si legge nella nota. Intanto, però, al carcere minorile è arrivato un nuovo comandante di reparto (“l’ennesimo”, dicono i sindacati, chiedendosi se anche questo resterà per poco). “Dobbiamo registrare ancora una volta l’assoluta mancanza di volontà tesa a ripristinare corrette relazioni sindacali da parte dell’amministrazione centrale”, mandano a dire i sindacati, che “si vedono costretti a preannunciare a breve iniziative di protesta, quali un presidio nei pressi dell’istituto”. E se neanche allora arriveranno riscontri da parte del dipartimento, i sindacati “annunciano fin da adesso possibili azioni legali nei confronti del dipartimento Giustizia minorile per comportamento antisindacale”. Ancona: “Il volto della speranza”, il 9 e 10 un convegno sul volontariato nelle carceri www.gomarche.it, 7 maggio 2013 Il 9 e il 10 maggio ad Ancona un convegno sul volontariato nelle carceri promosso dall’Ombudsman delle Marche in collaborazione con l’Università di Camerino. Partecipano i Garanti dei detenuti di tutte le regioni. Invitata la Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini. In carcere sono il “il volto della speranza”. Si occupano delle esigenze materiali dei detenuti, dagli indumenti al dentifricio, oppure, secondo quanto prevede il regolamento penitenziario, tengono corsi, offrono esperienze formative, realizzano attività specifiche dal valore trattamentale. In entrambi i casi parliamo delle persone che scelgono di entrare in carcere per aiutare il prossimo e creare un ponte con il mondo fuori. Un fenomeno in crescita, oggetto di una ricerca promossa dall’Ombudsman delle Marche in collaborazione con l’Università di Camerino e al quale è dedicato il convegno “Il volto della speranza. Volontariato negli istituti penitenziari delle Marche” ad Ancona (Regione Marche, Palazzo Leopardi) il 9 e 10 maggio. “Fino a pochi anni fa la presenza dei volontari era ridotta, svolgevano per lo più un ruolo di carattere assistenziale, surrogatorio, concentrato sui bisogni dei detenuti, dall’igiene al vitto - spiega il Garante regionale dei diritti dei detenuti Italo Tanoni - Con il tempo il loro perimetro di azione è diventato più diversificato e autonomo, fino ad operare in settori una volta impensabili, come la realizzazione di testate giornalistiche”. I risultati della ricerca, condotta dalla sociologa Patrizia David della Facoltà di giurisprudenza Unicam, saranno presentati nel corso del convegno, durante il quale si svolgerà anche l’Incontro nazionale dei Garanti dei detenuti. Le due giornate di confronto, alle quali è stata invitata la Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini, coinvolgeranno i principali protagonisti del pianeta carcere, dal Vice capo del Dap Luigi Pagano al responsabile nazionale psicologia penitenziaria Alessandro Bruni. “Crediamo - conclude Tanoni - che mettere insieme intorno ad un tavolo tutta una serie di istituzioni, che vanno dal Prap all’Uepe, fino alla sanità penitenziaria e ai servizi socio-assistenziali, possa servire a fare il punto sui problemi del carcere e sui rapporti che esistono tra realtà istituzionali e volontariato”. L’evento, aperto dal saluto del Presidente del Consiglio regionale Vittoriano Solazzi giovedì 9 maggio alle ore 10.00, sarà trasmesso in diretta streaming (www.ombudsman.marche.it) e riconosce crediti formativi per gli assistenti sociali. Pisa: Seda Aktepe, dissidente turca arrestata il 30 aprile, chiede asilo politico all’Italia Ansa, 7 maggio 2013 Chiederà asilo politico anche in Italia, dopo averlo già ottenuto in Svizzera, Seda Aktepe, 29 anni, la dissidente turca arrestata il 30 aprile scorso in esecuzione di un mandato di cattura internazionale a Castiglioncello (Livorno) dove era in vacanza col fidanzato. Lei stessa, attualmente detenuta nel carcere di Pisa, lo ha annunciato stamani al presidente della seconda sezione penale della Corte d’Appello di Firenze che l’ha sentita nell’ambito del procedimento in cui si deve decidere dell’estradizione. “Abbiamo presentato al giudice i documenti che dimostrano che Seda Aktepe ha già ottenuto in Svizzera l’asilo politico, e ora lo chiederemo anche in Italia”, ha riferito il difensore della dissidente, avvocato Cecilia Vettori, che confida in una decisione di diniego dell’estradizione. Inoltre Seda Aktepe ha risposto no alla domanda formale rivoltale dal giudice di appello circa la sua eventuale intenzione di acconsentire all’estradizione in Turchia dove deve ancora scontare una condanna a due anni e sette mesi per aver sostenuto un’organizzazione terroristica turca e per aver aderito al partito marxista-leninista turco (Mlkp), sciolto dalle autorità statali nel 2007 perché accusato di terrorismo. La Corte d’Appello ha tre mesi di tempo per pronunciarsi sull’estradizione: decisione che sarà presa anche dopo aver ricevuto un parere del ministero della Giustizia, cui vengono inviati gli atti del procedimento. Mentre, sempre oggi, il difensore Cecilia Vettori ha presentato alla Corte d’Appello un’istanza di revoca dell’arresto su cui il giudice dovrà pronunciarsi entro cinque giorni. Genova: lode del Ministero della Giustizia ai poliziotti penitenziari di Marassi www.savonanews.it, 7 maggio 2013 Una lode del Ministero della Giustizia ai 35 poliziotti penitenziari del carcere di Marassi che furono tra i primi ad intervenire in via Fereggiano e nelle zone devastate dalla tragica alluvione di Genova del 4 novembre 2011. A deliberarlo nei giorni scorsi è stata la Commissione per le Ricompense dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma. Ne dà notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, per voce del Segretario Generale Aggiunto Roberto Martinelli. “Quel giorno tragico e maledetto i colleghi della Polizia Penitenziari di Marassi furono eccezionali: furono tra i primi ad intervenire nelle zone devastate dalla piena del Fereggiano, nei minuti immediatamente successivi l’alluvione”. Martinelli ricorda, ancora commosso, come tra le vittime dell’alluvione di Genova, quattro adulti e due bambini, vi fosse anche la moglie di un assistente Capo del Nucleo Traduzioni della Polizia Penitenziaria di Marassi. “Credemmo allora e ne siamo ancor più convinti oggi, dopo il prestigioso riconoscimento ministeriale conferito ai colleghi” conclude Martinelli “che ad essere orgogliosi del prezioso impegno dei nostri valorosi colleghi sia non solamente il Sappe ma tutto il Corpo di Polizia Penitenziaria e la Nazione”. Trento: agente di polizia penitenziaria condannato per “abuso mezzi correzione” Ansa, 7 maggio 2013 Si è concluso con 20 giorni di reclusione e 1.000 euro di risarcimento (pena sospesa) il processo di primo grado nei confronti di Fabio Piazza, delegato sindacale del Sinappe, il sindacato di categoria più rappresentativo del personale del carcere di Spini di Gardolo, a Trento. Piazza era imputato per un presunto abuso di autorità, ma il giudice ha deciso per la derubricazione del reato in abuso di mezzi di correzione. La vicenda era nata dopo che un detenuto aveva lamentato di avere subito un trattamento esagerato: si era agitato e le guardie carcerarie, in particolare proprio Piazza, l’avrebbe chiuso in un luogo in cui non potesse nuocere ad altri. Una soluzione che evidentemente non ha convinto il giudice. Il sindacalista Andrea Mazzarese commenta così la decisione del Tribunale di Trento: “L’accusa era stata costruita per togliere di mezzo un delegato sindacale scomodo come Piazza. Il risultato non era quello che ci aspettavano. Siamo certi che tutto è nato da ripercussioni sul rapporto con la precedente dirigente. Prendiamo atto della sentenza, leggeremo le motivazioni, poi faremo delle valutazioni per un possibile ricorso in appello”. Sinappe: carenza di assistenza medica Nel nuovo carcere di Spini di Gardolo, a Trento, c’è carenza di assistenza medica. La denuncia è di Andrea Mazzarese, delegato sindacale del Sinappe. “Invece di essere potenziata, l’assistenza sanitaria è ora limitata addirittura ad una copertura giornaliera di 11 ore di presenza medica nei giorni feriali e a 14 ore di copertura del servizio infermieristico”, afferma Mazzarese. “Questo, poi, solo sulla carta, in quanto - aggiunge - ci è stato segnalato che spesso la presenza del medico risulta nettamente inferiore in termini di orario rispetto a quanto dichiarato e depositato in direzione”. Secondo l’esponente del Sinappe, il fatto che a Trento il personale di polizia penitenziaria si trovi quotidianamente a dover valutare, senza averne le competenze, se e quando richiedere l’intervento del medico in un istituto che ospita circa 300 detenuti, “costituisce una disparità di condizioni rispetto ai colleghi che lavorano in Istituti delle stesse dimensioni nel resto d’Italia, disparità che espone il personale ad un ulteriore stress lavorativo, oltre che a rischi di vario genere ed ad un’assunzione di responsabilità non prevista e non dovuta”. Terni: la denuncia dell’Ugl; in arrivo 9 ex brigatisti... è di nuovo emergenza carceri www.ogginotizie.it, 7 maggio 2013 Dopo le aggressioni ai due agenti di Maiano, Francesco Petrelli chiede più sicurezza e un aumento del personale adeguato. Dopo le aggressioni ai due agenti di sicurezza del carcere di Maiano, compiute dallo stesso detenuto, anche l’Ugl di Terni interviene sulla vicenda. Il segretario del comparto polizia penitenziaria Francesco Petrelli, esprime “solidarietà ai colleghi di Spoleto” e denuncia una “situazione esplosiva e intollerabile. Da isola felice con bassa microcriminalità, oggi la nostra regione, con 1.700 detenuti, si è trasformata in un soggiorno obbligato per i criminali e le loro famiglie”. A Terni è previsto anche l’arrivo di nove ex esponenti delle brigate rosse in regime di alta sicurezza, provenienti dalla casa di reclusione di Carinola che, nel frattempo, è stata declassata a istituto a custodia attenuata. “L’aumento consistente dei detenuti - continua Petrelli - non rapportato all’adeguamento del personale di custodia, rappresenta una criticità assoluta. Per questo l’adeguamento delle piante organiche che doterà l’Umbria e la Sardegna di nuovo personale entro luglio, dovrà sopperire alle necessità”. Ivrea (To): nel carcere situazione difficile, detenuto tenta suicidio, gli agenti in protesta La Sentinella, 7 maggio 2013 Un tentativo di suicidio di un detenuto e una manifestazione di protesta promossa dagli agenti di polizia penitenziaria. È accaduto tutto nella stessa giornata (venerdì) e, in un certo senso, sono due facce della stessa medaglia, ovverola situazione di tensione e delle condizioni difficili nelle carceri. Il tentativo di suicidio è avvenuto nel pomeriggio di venerdì, quando un detenuto di 29 anni ha tentato di impiccarsi appendendosi alle sbarre del bagno della propria cella. L’unica cosa che ha salvato l’uomo è stato il cedimento della sbarra al quale aveva legato la corda per appendersi. Gli agenti hanno sentito il trambusto e sono accorsi, traendolo in salvo. “Ci appelliamo al guardasigilli Annamaria Cancellieri - commenta Leo Beneduci, del sindacato Osapp - affinché si metta mano con urgenza alle condizioni di sovraffollamento delle carceri e alle drammatiche condizioni lavorative della polizia penitenziaria”. Un evento che sembra la diretta conseguenza di quello che gli agenti e i loro sindacati vanno rivendicando da troppi anni e che, sempre venerdì mattina, esasperati hanno deciso di urlare nel piazzale antistante la casa circondariale. Una manifestazione organizzata da tre delle sette sigle sindacali presenti, ovvero Osapp, Cisl Fns e Sinappe. “La situazione è davvero al limite - hanno dichiarato i rappresentanti sindacali - non solo le oramai croniche lacune e deficienze che da molti anni oramai rendono difficile il nostro lavoro, adesso si aggiunge anche una nuova organizzazione del lavoro voluta dai vertici dell’istituto. Abbiamo tentato più volte di affrontare il tema, ma non è stato possibile”. A rappresentare quella, che i manifestanti, definiscono la morte della democrazia e delle relazioni sindacali, hanno portato anche una bara in cartone. “Continueremo a protestare - dicono - fino a quando non saremo ascoltati”. Saluzzo (Cn): “Volevo la Luna”, buon successo per lo spettacolo teatrale dei detenuti www.targatocn.it, 7 maggio 2013 “I pensieri del dopo spettacolo sono di grande emozione e contentezza. Non capita a tutti di stare su un palco così prestigioso con un pubblico così numeroso. Le belle emozioni ricaricano di ossigeno e danno forza per il futuro”. Così ha commentato Grazia Isoardi, regista dello spettacolo “Volevo la Luna”, al Milanollo di Savigliano con i detenuti del carcere di Saluzzo attori e protagonisti. Grazia Isoardi è impegnata da tempo all’allenamento di riabilitazione dei detenuti e lo fa con passione; lo si può constatare dall’ottimo risultato ottenuto. L’Associazione Voci Erranti continua a credere che vincere la tentazione di chiudere i progetti sia un modo per resistere alla crisi e al disconoscimento del valore della cultura. Con questo spirito la compagnia teatrale persegue da anni l’obiettivo di offrire possibilità di formazione attraverso laboratori, seminari, corsi della scuola di teatro oltre ai momenti di allestimento delle proprie produzioni e quelle di altre compagnie. Laboratori e seminari che hanno coinvolto i detenuti del carcere di Saluzzo, entusiasti di questa esperienza, che, per alcuni di loro è la prima volta. Bassirou, Kamel, Stefano, Eric, Claudio, Oscar e Marius, insieme a Marco il loro coaching insieme ad altri membri della compagnia Voci Erranti, sono saliti sul palco creando un’atmosfera lunare; il “rumore” dello spazio, gli scafandri indossati e esibiti in movenze composte “Siamo stati su Marte, abbiamo visto sorgere il sole, ma è tutto sotto controllo…” . Ha così inizio lo spettacolo accompagnato da musiche e coreografie che ti trasportano in quello ‘spaziò, in un unicum di turbolenze e movimenti gravitazionali. “Stiamo per attraversare una tempesta di polvere, tranquilli... è tutto sotto controllo”; metafora delle difficoltà da affrontare, la polvere è l’impossibilità di vederci chiaro di vedere bene e decifrare le avversità che la vita ci riserva. Nel viaggio il gruppo incontrerà Marte con lo studioso Giovanni Schiaparelli e la bellezza della luce solare. (Giovanni Virginio Schiaparelli- Savigliano, 14 marzo 1835 - Milano, 4 luglio 1910 è stato un astronomo e storico della scienza italiano). Accattivante il monologo quasi drammatico “Alzarsi e rinascere, sotto quale firmamento abbandonarsi all’universo…e parlare scrivere…bere e cantare di cose mai viste, di sguardi intravisti in altre avventure, in altre idee…e mani e abbracci e voli e sogni troppo grandi troppo immensi persino per il cielo, e alla fine scoprirsi, scendere da se stessi, lasciar le maschere in frantumi, sorvolare l’aria e pian piano svanire, niente sappiamo di noi, naufragare, interrogare il cielo e volere nient’altro che la luna”. Entra in scena Oscar, con la sua potenza unitamente alla delicatezza canta “Guarda che Luna” - Oscar è cileno e ama cantare “Ho cantato tante volte in Italia e sempre come solista, quando vedo che il pubblico si emoziona è la cosa che più mi fa piacere; questa canzone l’ho voluta imparare in italiano perché la preferivo”. Anche se qualche noce ci stava bene durante le prove...; alla fine dello spettacolo serale ci ha riservato una sorpresa regalandoci altre due canzoni, una in spagnolo e l’altra in italiano, dedicate alla mamma. Tra gli attori detenuti c’è anche Kamel, benché sia libero da un mese circa è comunque tornato da Mantova per far lo spettacolo, l’ha fatto per lo spirito del gruppo con la volontà di continuare qualcosa che è iniziato. Claudio durante le prove ci rivela che è alla sua prima esperienza e che l’ha voluta provare per se stesso, per una cosa diversa, nuova “ Ora sono agitato e sinceramente non me lo gusto lo spettacolo, forse voi sì ma io devo ancora placare l’ansia, spero di riuscirci entro stasera sennò...”. Eric invece è un veterano e si commenta così “Sono tanti anni che sono in carcere e che faccio spettacoli con Marco e Grazia, loro ci lasciano sempre molto spazio, la sola cosa che ci chiedono è la verità o un gesto che nasca da noi stessi, la cosa più difficile in fondo ma certo la più soddisfacente. Questa esperienza mi ha fatto un gran bene come essere umano, mi ha fatto crescere come uomo, la cosa più difficile è essere se stessi, noi non interpretiamo dei ruoli, noi portiamo noi stessi, con i nostri limiti o con i nostri fisici, chi più palestrato chi meno come me o Marco, che ormai abbiamo accettato la nostra pancetta. Il teatro è una delle poche reali attività rieducative perché ti smuove qualcosa che hai dentro. Il lavoro deve partire da qualcosa di nostro. La persona deve mettersi in gioco e noi abbiamo avuto la fortuna di trovare sul nostro cammino persone che ci hanno voluto seguire e una struttura che ci ha supportato. Ognuno può usare il tempo come preferisce, noi ci siamo messi in discussione allora potremo uscire diversi; il carcere inteso solo in senso punitivo, difficilmente riesce a rieducare se all’interno non c’è la possibilità di intraprendere un percorso introspettivo o che ti dia lo stimolo per uscirne diverso. Infine...siamo tutti un pochino vanitosi no? E a me fa piacere ricevere gli applausi”. Alcuni di loro hanno invitato gli amici o la loro fidanzata, sono felici ma preoccupati perché sperano di aver fatto bella figura. Marius pensa che una volta uscito dal carcere passerà il suo tempo libero dedicandosi agli spettacoli teatrali. Marco già membro della compagnia Voci Erranti ci spiega che il gruppo è frutto del lavoro di ogni giorno “Noi gli offriamo il materiale da pescare nel sacco, più loro sono veri più il risultato sarà migliore”. Gli agenti sorveglianti che li accompagnano sono soddisfatti nel vedere non solo il risultato ma anche la partecipazione attiva dei ragazzi “È la stessa costituzione a dirci che la pena deve essere si punitiva ma mirare alla reintegrazione, per noi è piacevole accompagnarli in questo percorso rieducativo inoltre è evidente la loro partecipazione attiva; ci auguriamo che possa loro servire”. Il carcere è un mondo a parte, un altro pianeta i cui abitanti si sentono “persone aliene”. Da questa riflessione gli attori cercano strade nuove o uscite per poter conoscere il nuovo territorio, ma non trovano che il “vuoto”. Tanti cerchi che non sono altro che buchi vuoti. E il vuoto fa male. Di fronte ad esso l’istinto porta a compensare, a riempire anche con elementi illusori e fittizi. Proseguono gli appuntamento tutti i venerdì del mese di Maggio, alle ore 21, al Teatro Milanollo. Non si effettua prevendita, né prenotazione per i biglietti. Le informazioni presso l’Ufficio Cultura del Comune (tel. 0172-710235/ cultura@comune.savigliano.cn.it) o segreteria Voci Erranti, tel. 340. 3732192/ 392 9020814 oppure il mercoledì tel. 0172- 89893 - info@vocierranti.org. Immigrazione: Associazioni ad Alfano… basta con i Cie, non rispettano i diritti umani Ansa, 7 maggio 2013 Basta con i Cie (Centri di identificazione e espulsione), strutture che “non rispettano i diritti umani” e rappresentano “un vulnus nel nostro sistema giuridico”. È l’appello che la campagna “Lasciatecientrare” e le associazioni che ne compongono il comitato promotore (Asgi, Cgil, Ucpi) lanciano al nuovo ministro dell’Interno, Angelino Alfano, chiedendo un incontro. “I Cie - spiega Gabriella Guido, portavoce di Lasciatecientrare - non funzionano, ogni giorno ci sono notizie di rivolte, denunce, atti di autolesionismo. Serve un vero sistema di accoglienza per gli immigrati regolari accanto ad accordi con i Paesi di origine per ridurre i flussi”. Nel mirino delle associazioni c’è anche la relazione sui Cie realizzata da una commissione indicata dal ministero dell’Interno e coordinata dall’ex sottosegretario Saverio Ruperto. Un documento, denunciano, “che manifesta la totale ignoranza delle effettive criticità delle strutture e di cui il ministero e le istituzioni governative e parlamentari non devono tenere conto”. Nel rapporto, proseguono, “vengono prospettate soluzioni ulteriormente ed inutilmente repressive (per esempio il ricorso all’isolamento) per contrastare le sommosse dei trattenuti, si ignorano alcune prassi illegittimamente attuate nei Cie e non viene spesa alcuna parola sulle categorie più vulnerabili dei detenuti, quali ad esempio le donne vittime di tratta”. L’invito che arriva da Lasciatecientrare è quello dunque di cestinare la relazione e ripartire invece dal rapporto realizzato nel 2007 dalla Commissione De Mistura, aperta anche alle associazioni e che auspicava il superamento dei Cie. Usa: Sofri ha ragione, l’America non può alimentare a forza prigionieri di Guantánamo di Giulio Meotti Il Foglio, 7 maggio 2013 I detenuti di Guantánamo vogliono morire “da martiri”. Israele, in nome della convenzione medica, li rispetta. Dal dilemma legale, politico e morale di Guantánamo non se ne esce facilmente e neppure Barack Obama è riuscito a mettere fine a questa “legal no-man’s land”, la terra di nessuno dal punto di vista giuridico. Senza giri di parole, l’ex ministro della Difesa Donald Rumsfeld ebbe a definire i detenuti di Gitmo “i più pericolosi, feroci e meglio addestrati assassini sulla faccia della terra”. Fra di loro c’è anche l’uomo che ha materialmente staccato la testa di Daniel Pearl, quel genio del travestimento e dell’eccidio che è Khalid Sheikh Mohammed. E molti terroristi che misurano il coraggio sulla base della capacità di sparare in faccia a un bambino di Beslan. Nessun paese arabo vuole indietro questi jihadisti. E le organizzazioni umanitarie hanno spesso protestato contro Washington nei casi in cui li ha rimandati in patria, perché sarebbero stati sbattuti in prigioni che in confronto Guantánamo è una spa di lusso. Quando l’Amministrazione Bush ha tentato di rispedirli nei paesi d’origine, organismi come Amnesty International hanno sempre protestato: meglio Guantánamo di un carcere algerino o saudita. Come ha spiegato Christian Rocca in una lunga risposta , i detenuti di Guantánamo non sono criminali comuni, ma guerriglieri irriducibili per i quali il Pentagono ha dovuto studiare persino un modus operandi nella fornitura di copie del Corano. Soltanto i cappellani musulmani possono maneggiare il testo sacro e solo dopo essersi infilati guanti puliti davanti agli occhi dei detenuti e si devono usare entrambe la mani “per manifestare rispetto e riverenza”. Per questo il capo dell’antiterrorismo belga, Alan Grignard, in visita per conto dell’Osce a Guantánamo, ha detto che nell’isola di Cuba (parte americana) i detenuti sono trattati meglio che nelle carceri del suo paese. L’accusa di tortura scagliata contro l’America che oggi intuba i detenuti in sciopero della fame ha qualcosa di ridicolo se si pensa che le stesse associazioni in difesa dei diritti dell’uomo sono arrivate ad accusare Washington di “tortura” quando gli stessi detenuti di Guantánamo sono ingrassati per mancanza di esercizio. I detenuti possono fare ginnastica per dodici ore la settimana con macchinari, cyclette e tapis roulant, e tutti, anche i più sanguinari, hanno diritto a una ricreazione giornaliera di due ore, il tetto minimo stabilito dalla commissione internazionale della Croce Rossa. Ha ragione però Adriano Sofri, nel suo splendido saggio pubblicato sul Foglio in cui ha affrontato il problema delle “pance vuote” di Guantánamo dal punto di vista umanitario, a sostenere che l’America non può alimentare a forza i corpi dei prigionieri. Poi Sofri aggiunge, sbagliando, che è un dilemma da cui se ne esce soltanto con la loro liberazione. Lo sciopero della fame è una vecchia e gloriosa forma di protesta, che accomuna l’epica di Gandhi per l’Indipendenza dell’India e le proteste dei prigionieri sovietici nei primi anni Ottanta. Ma è essenziale comprendere il protagonista di questa forma di lotta. Nel caso dei terroristi palestinesi, Israele ha scelto un’altra strada rispetto a quella di Guantánamo: lasciarli morire di fame e rispettare la loro devozione al “martirio”. È una soluzione cinica e brutale, che accomuna grandi democrazie a regimi odiosi come quello castrista a Cuba, dove un anno fa è morto in sciopero della fame il dissidente Orlando Zapata. Ma come ha spiegato Efraim Inbar, presidente del Besa Center e stratega vicino al premier Benjamin Netanyahu, “siamo responsabili della vita dei detenuti e della loro assistenza sanitaria di base, ma solo se vogliono restare sani. Se hanno deciso di utilizzare la loro salute come arma nella lotta contro gli ebrei, l’obbligo di Israele viene meno. Visto che molti di questi sono terroristi pronti a sacrificare la loro vita nella guerra contro Israele, Israele non ha il dovere morale di mantenerli in vita contro la loro volontà”. Lo stato ebraico avrebbe lasciato morire di fame il terrorista Ayman Sharawna se non avesse accettato la via dell’esilio. Ne è uscito, infatti, con il fisico distrutto per sempre, leso ai reni e al metabolismo. Il martirologio palestinese include numerosi prigionieri morti in carcere per sciopero della fame: Abdel Qader Jabir Ahmad Abu al Fahim, Rasim Mohammad Halaweh, Ali Shehadeh Mohammad Al-Jafari, Anis Mahmoud Douleh, Ishaq Mousa al Maraghah e Hussein As’ad Ubeidat. Israele non li ha intubati, ha lasciato che la protesta facesse il suo corso, senza cedere ai ricatti. C’è anche una sentenza della Corte Suprema israeliana, vacca sacra dei liberal: il 7 maggio del 2012 la Corte ha rigettato l’appello delle organizzazioni dei diritti umani che chiedevano il rilascio di Thaer Halahlah e Bilal Diab, due detenuti in sciopero della fame. Durante la Seconda Intifada, il ministro della Sanità, Dany Naveh, col tipico cinismo israeliano, destò le reazioni indignate delle ong umanitarie per aver dichiarato che i palestinesi accusati di terrorismo non potevano essere ricoverati negli ospedali israeliani se si fossero sentiti male a causa dello sciopero della fame. Il modello è quello di Margaret Thatcher alle prese con il terrorismo dell’Ira: “Dopo sei mesi e dieci morti per fame, senza concessione britannica in vista, lo sciopero ha perso slancio”, ha scritto Inbar. “Il suo fallimento fu una delle ragioni per cui la quota di nazionalisti irlandesi gradualmente si spostò dalla violenza al tavolo dei negoziati”. Negli stessi anni la Germania sceglieva invece la nutrizione obbligatoria per i terroristi della Rote Armee Fraktion. La Dichiarazione di Malta del 1991 stabilisce, in caso di sciopero della fame, l’immoralità medica dell’alimentazione obbligatoria in atto a Guantánamo. L’Associazione medica israeliana dichiara di rispettare lo spirito di quella convenzione quando non interviene con il sondino sul corpo dei terroristi. Un dilemma da cui i critici e i nemici di Israele vorrebbero uscire con il rilascio dei terroristi, che tornerebbero puntualmente a fare quello che sanno fare meglio: uccidere gli ebrei. I detenuti di Guantánamo in sciopero della fame, come i loro omologhi palestinesi, sono pronti a morire da “martiri”. C’è più dignità nel lasciare che perseguano la via delle vergini dagli occhi neri piuttosto che sfamarli col sondino ed essere accusati di violare le norme mediche. In fondo, chi avrebbe gridato allo scandalo settant’anni fa se Hermann Göring avesse avviato un letale sciopero della fame anziché ingerire del cianuro? Israele: dopo 6 anni il permesso ai bambini di Gaza di rivedere i loro papà detenuti di Luca Pistone www.atlasweb.it, 7 maggio 2013 Le autorità israeliane hanno permesso ai bambini di Gaza al di sotto degli otto anni di visitare i propri padri detenuti nelle carceri dello stato ebraico. Non accadeva da circa sei anni. La notizia è stata diffusa dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr), secondo il quale ieri sette bambini dell’enclave palestinese, accompagnati dai rispettivi familiari, hanno potuto far visita ai loro padri nelle carceri israeliane. Il Cicr ha accolto con favore la decisione di Israele, auspicando per il futuro la rimozione di altre simili restrizioni ai familiari dei detenuti palestinesi. Israele aveva sospeso tutte le visite ai prigionieri di Gaza nel 2006 in seguito alla cattura da parte di Hamas - al governo nella Striscia- del soldato israeliano Gilad Shalit. Nel 2011, a seguito di un accordo tra Hamas e il governo israeliano con la mediazione dell’Egitto, Shalit era stato liberato, dietro la contropartita della liberazione di un migliaio di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Lo scorso anno, pressato da uno sciopero della fame dei detenuti, Israele aveva nuovamente concesso i permessi per le visite, limitandoli solo alle mogli e ai genitori. Attualmente Israele detiene nelle proprie carceri circa 400 palestinesi della Striscia di Gaza. Russia: appello contro il diniego della libertà condizionata per Pussy Riot Tm News, 7 maggio 2013 L’avvocato di Nadezhda Tolokonnikova, una delle ragazze della band punk russa Pussy Riot in carcere, ha presentato appello contro la bocciatura da parte di un tribunale della sua richiesta di libertà condizionata. “Ho fatto ricorso alla Corte suprema di Mordovia contro la sentenza del tribunale di Zubova Polyana che il 26 aprile scorso ha negato alla mia cliente Nadezhda Tolokonnikova” ha detto a Interfax l’avvocato Irina Khrunova, spiegando di ritenere che la sentenza di primo grado sia illegittima e infondata. Presentando la richiesta di libertà condizionata la Khrunova aveva detto che Tolokonnikova, se rilasciata, avrebbe trovato un lavoro, proseguito gli studi ed educato la figlia. Tolokonnikova aveva detto che non si sente colpevole, ma questo non impedisce la concessione della libertà condizionata. “I miei mal di testa sono peggiorati in prigione e i medici dicono che è colpa dello stress. Ma hanno consigliato di cambiare pillole, ma comunque non riesco a farne a meno” aveva detto la ragazza, spiegando che cure mediche di qualità sono impossibili in carcere. L’amministrazione penitenziaria e i pubblici ministeri si erano opposti alla libertà condizionata e il giudice Lydia Yakovleva aveva abbracciato il loro punto di vista, respingendo la richiesta. Tolokonnikova è stata condannata ad agosto scorso a due anni di carcere per aver cantato insieme ad altre ragazze una preghiera punk contro il presidente russo Vladimir Putin nella cattedrale moscovita di Cristo Salvatore il 21 febbraio 2012. Con lei sono state condannate per teppismo motivato da odio religioso anche Maria Alekhina ed Yekaterina Samutsevich. Quest’ultima è stata però liberata al termine del processo di appello. Tolokonnikova sconta la sua pena al penitenziario femminile n.14 in Mordovia, Alekhina nel n. 28 nella regione di Perm. Russia: detenuto evade da un carcere di Mosca facendo buco con cucchiaio Ansa, 7 maggio 2013 È evaso da un carcere di Mosca bucando il soffitto con un cucchiaio, l’unico oggetto a sua disposizione nella cella: protagonista dell’impresa Oleg Topalov, 33 anni, accusato di duplice omicidio e di traffico illegale d’armi. Lo ha reso noto l’amministrazione del penitenziario di Matrosskaia Tishina, a nord est della capitale. Il detenuto, dopo essersi aperto un varco in cella, è salito sul tetto dell’edificio e ha fatto perdere le proprie tracce. Gli altri sei compagni di cella non hanno seguito il suo esempio. Aperta un’inchiesta per negligenza.