Giustizia: dalla corruzione agli Opg… le “mezze leggi” del governo Monti www.wallstreetitalia.com, 5 maggio 2013 Una legge anti corruzione che ha scontentato molti, anche i corrotti. Un ddl sulla incandidabilità dei condannati depotenziato e che ha portato in Parlamento indagati e imputati. Una mancata riforma sulla diffamazione che ha rischiato di essere peggiorata al tal punto da essere bocciata anche dal centrodestra. Un’altra mancata riforma dell’uso/presunto abuso delle intercettazioni che ha portato il Pdl a togliere la fiducia al governo. La chiusura o accorpamento dei Tribunali causa spending review comporterà lo spostamento di migliaia di fascicoli. Nessuna soluzione definitiva per la condizioni dei detenuti nelle carceri. Il bilancio del governo Monti nel settore Giustizia ha molte più ombre che luci. La legge anticorruzione. Risultato di una mediazione a tratti estenuante il ddl anticorruzione con il cosiddetto “spacchettamento” della concussione ha accorciato la prescrizione. E due mesi fa la norma ha “salvato” le coop rosse nel procedimento sul “Sistema Sesto”. E così, fresco di nomina a Palazzo Madama, Pietro Grasso, ha messo al primo posto la riforma della legge: “La mia proposta parte dalla legge varata nei mesi scorsi dal ministro Severino e punta a migliorarla sotto il profilo repressivo, allungando anche i tempi di prescrizione”. Incandidabilità: la legge coi “paletti”. Il dl sulla incandidabilità è un provvedimento i cui “paletti” sono stati fissati dalla delega ereditata dal precedente governo, e ‘“all’interno di questi paletti abbiamo fatto il massimo di quanto si poteva fare”. Il ministro Severino ha dovuto rispondere alle critiche ricevute in particolare sulla soglia di due anni di condanna previsti. Il provvedimento ha quasi dimezzato il numero di impresentabili - molti sono stati lasciati fuori dalle liste - ma ha comunque permesso l’ingresso di 7 condannati in via definitiva, di sei imputati che hanno beneficiato della prescrizione, di 11 parlamentari con processi in corso o condanne non definitive, di 19 indagati. Spending review e accorpamento Tribunali. L’estate scorsa il Cdm ha approvato il taglio di 37 tribunali. Sono poco meno 220mila i fascicoli che dovranno essere portati da una sede all’altra insieme a magistrati, personale amministrativo, avvocati e parti. Gli uffici di Castrovillari (Cosenza) dovranno assorbire poco meno di 30mila procedimenti in corso a Rossano, a oltre 50 chilometri. A Bassano del Grappa (Vicenza) chiuderà il Tribunale anche se era già pronta una nuova sede costata 12 milioni. Per “ragioni organizzative o funzionali” si potrà continuare a utilizzare, al massimo per 5 anni, le stesse sedi soppresse: in alcuni casi probabilmente si continuerà a rimanere nelle stesse sedi con le stesse spese. Le udienze fissate fino al 13 settembre si terranno negli uffici da eliminare, mentre quelle fissate dopo dovranno tenersi negli uffici “accorpanti”. Sovraffollamento nelle carceri e condizioni dei detenuti. “Confido che il nuovo Parlamento… dimostri sensibilità nei confronti del mondo carcerario e dei problemi dei detenuti, affrontando l’argomento delle misure alternative” dichiarava il ministro della Giustizia pochi giorni fa. Il ddl sulle misure alternative non è arrivato al termine del suo iter parlamentare. La conversione in legge del decreto salva-carceri ha consentito di incidere parzialmente sul fenomeno degli ingressi per soli 2-3 giorni. Poco rileva il fatto che i detenuti siano poco più di 65mila contro i 68.047 del novembre 2011 perché le prigioni potrebbero al massimo ospitare la Corte europea di Strasburgo a condannare l’Italia per “trattamento inumano”. Il rinvio di un anno della chiusura degli ospedale psichiatrici giudiziari. 22 marzo 2013. “Abbiamo lavorato moltissimo perché il provvedimento sugli ospedali psichiatrici giudiziari passasse dalla carta ai fatti…” diceva il ministro Severino, ma non è andata così. Un rinvio bollato come “il fallimento del governo dei tecnici che avrebbero avuto tutto il tempo per organizzare il superamento di questi ghetti” da Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. Si trattava di trovare posto a 1.214 persone “che aveva persino la copertura finanziaria, 50 milioni di euro”. Giustizia: macché allarme... in Italia gli omicidi sono in calo da almeno vent'anni di Vittorio Feltri Il Giornale, 5 maggio 2013 Ieri, sabato, il Tg1 delle 13.30 ha dedicato le prime quattro notizie alla cronaca nera: un farmacista che ammazza a pistolettate moglie e figlia, riduce in fin di vita (coma) il figlio e si lascia annegare in piscina, dopo essersi stordito con barbiturici e roba simile; una ragazza picchiata e strangolata da uno straniero a Castagneto Carducci (Livorno); un’altra ragazza uccisa di coltello a Dragona (Roma); una sposa romana stecchita dal marito “amorevole”, guardia giurata, con un colpo d’arma da fuoco alla nuca. L’informazione fa quello che deve fare: informa. Infatti anche il Corriere della Sera, ancora ieri, recava in prima pagina questo titolo ingentilito da uno sfondo celeste: “Tre storie. Ilaria e le altre. Una strage quotidiana di donne”. Sotto, un pezzo firmato da Giusi Fasano. Incipit: “Siamo tutte Ilaria, Alessandra, Chiara, uccise nelle ultime 48 ore”. Più chiaro di così il messaggio non poteva essere: l’Italia è diventata una macelleria in cui si abbattono specialmente donne. I macellai, manco a dirlo, sono uomini. Da qui nasce e prende forza l’idea di coniare un nuovo reato, il femminicidio (di cui si discute da mesi), da considerarsi più grave del comune omicidio. In altri termini, esemplificativi: fai fuori un uomo? 20 anni di reclusione; fai fuori una signorina o una signora? 30 anni. Sarebbe un deterrente: indurre i maschi a pensarci due volte prima di stroncare la moglie, la fidanzata, l’amante. Se il progetto di punire più severamente il femminicidio rispetto all’omicidio ordinario andasse in porto, introdurremmo il principio che gli esseri umani non sono tutti uguali: le donne valgono ai più, per cui se ne accoppi una devi scontare più galera. Mi sembra che ciò si scontri con la Costituzione, ma è noto che la Carta è molto adorata e poco rispettata. Ecco perché si fa tanta fatica a modificarla e aggiornarla. Proseguiamo. I delitti tengono banco in televisione e (meno) sui giornali. Si prestano ad approfondimenti morbo setti e incrementano gli ascolti, e si pensa che i lettori siano assai interessati ai racconti noir. Quasi tutte le emittenti offrono programmi - veri e propri processi - riservati alla trattazione dei delitti clamorosi. I casi della mamma di Cogne, della neolaureata di Garlasco, di Amanda (Perugia), del caporale Parolisi, della ragazzina di Avetrana hanno fatto scuola e inaugurato un filone destinato ad avere un posto fisso nei palinsesti. Segno che rende, come si evince dai dati Auditel. Al punto che l’editore Urbano Cairo, il più svelto sul mercato, ha addirittura varato una nuova pubblicazione cartacea ad hoc, Giallo, nella speranza di sfruttare la spinta televisiva per avere successo, proponendo strangolamenti e accoltellamenti particolareggiati. Il rotocalco imita, a molti lustri di distanza, lo stile adottato nel dopoguerra da Krimen, rivista che si presentava anche graficamente per ciò che era: una rassegna di violenze varie, simboleggiate da gocce di sangue ben visibili nella testata. Nulla da eccepire su Giallo e chi lo confeziona. Raccontare i fattacci che turbano l’opinione pubblica è lecito: guai a proibirlo, sarebbe una censura intollerabile. Ma una riflessione sull’orgia nera propinata quotidianamente ai consumatori (anche involontari) della cronaca trucida è obbligatoria. Ricorrono nelle conversazioni sui treni, nei bar e nelle famiglie commenti grossolani e fuorvianti di questo tipo: ogni giorno c’è un delitto; un tempo non accadevano queste cose orribili; dove andremo a finire? come mai gli inquirenti non riescono a scoprire gli assassini? Mi sa che siamo vicini all’apocalisse. Discorsi influenzati dall’informazione, la quale però non per questo dev’essere condannata: essa segue l’onda com’è nella propria natura, riflette gli umori prevalenti, espone in vetrina la mercanzia che incontra i gusti maggioritari. In pratica, essendo di moda criticare aspramente il nostro Paese, i media si adeguano e, specializzati come sono nel loro lavoro, colgono al volo l’opportunità di spiattellare anche i dettagli più raccapriccianti degli atti criminali. Che tuttavia in Italia sono da oltre dieci anni in netta decrescenza. Basta dare un’occhiata alle statistiche per rendersene conto. È falso affermare che aumentino vistosamente i delitti (peraltro crepano ammazzati più uomini che donne). Al contrario, calano a ritmo costante. Gli omicidi volontari nel quadriennio 1993-1997 furono in media 3.819. In quello dal 1997 al 2001 furono 3.215. E in quello dal 2001 al 2005, 2.740. Negli anni successivi si è mantenuta la tendenza verso il basso. Non lo diciamo noi bensì il ministero dell’Interno, di cui abbiamo riportato le cifre ufficiali. Complessivamente, anche altri reati segnano una marcata flessione. L’Italia, checché se ne dica, è diversa da come noi stessi addetti all’informazione la descriviamo: in Europa, e non solo, è tra le nazioni meno funestate dalla delinquenza. Il nostro sistema di sicurezza, pur vituperato, è efficiente. Il merito sarà di qualcuno: anche dei cittadini, oltre che delle forze dell’ordine e di chi le guida. Nonostante ciò, non riusciamo a risolvere il problema del- le carceri, sempre strapiene, luoghi non di pena ma di tortura, dove l’illegalità esercitata sistematicamente dallo Stato è superiore a quella esercitata saltuariamente da chi le frequenta quale detenuto. Su 18mila arrestati l’anno, 10mila sono stranieri. Le strutture scoppiano anche a causa dell’ingiusta carcerazione preventiva, di cui sono vittime coloro i quali attendono il giudizio. Pendono 5 milioni di processi e i magistrati affogano nelle carte. Che fare? C’è una sola via: pene alternative alla prigione, depenalizzazione dei reati minori, riforma della custodia cautelare, riforma del potere giudiziario. Per realizzare un’impresa di questa portata bisogna cominciare dall’amnistia, che consentirebbe di ripartire da zero. Ma soltanto ad accennarne si rischia il linciaggio. La gente (e persino certi politici) ignora la realtà: non siamo un popolo di malviventi e assassini. Vi dispiace? Giustizia: amnistia indispensabile, ma irrealizzabile perché riguarderebbe anche Berlusconi di Massimo Melani Notizie Radicali, 5 maggio 2013 In questi ultimi giorni veri e propri bollettini di guerra, provenienti dalle patrie galere e normalmente snobbati dai media, ci parlano di detenuti e agenti penitenziari morti a Catanzaro, Velletri, Reggio Emilia, Milano, Lecce In Italia parlare di Amnistia, necessaria come l’ossigeno, significa immediatamente collegarla a Silvio Berlusconi e ai suoi interminabili processi dai quali, in molti, si augurano sentenze di colpevolezza. Per i giornali di partito, così come per certune televisioni, ormai è diventata una vera e propria ossessione, una vera e propria esigenza personale, mania che arriverebbe ad accettare lo svuotamento delle carceri a meno che, in tale provvedimento, non rientrasse l’odiato Cavaliere. Insomma, tutti fuori meno colui che, nell’ultime elezioni, ha ricevuto 10milioni di voti, tanto per ricordare. Se qualcuno si è imbattuto, in questi giorni, in certi articoli o in taluni blog che trattavano la vicenda, si sarà accorto che nessuno mai ha evidenziato come merita la condizione disumana e criminale in cui versa lo Stato Italiano dagli anni 80, continuamente condannato dalla Corte Europea dei Diritti Umani per le ininterrotte violazioni della Convenzione in merito all’articolo 3 che parla di “trattamenti inumani e degradanti” all’interno della carceri italiane. Il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ha affermato due giorni addietro che “il sovraffollamento delle prigioni è una priorità che mi sta molto a cuore” ed ha voluto gli ultimi aggiornamenti sulla disperata situazione che qui riepiloghiamo: suicidi in cella (57 nel 2012, 11 nel 2013), sovraffollamento (65.785 i detenuti presenti su 38mila posti materialmente disponibili) In questi ultimi giorni veri e propri bollettini di guerra, provenienti dalle patrie galere e normalmente snobbati dai media e messi in evidenza solo da Radio Radicale e Notizie Radicali.it, ci parlano di detenuti e agenti penitenziari morti a Catanzaro, Velletri, Reggio Emilia, Milano, Lecce. Dati catastrofici che, prima o poi, potrebbero interessare ognuno di noi visto com’è garantita la giustizia nello Stivale. Ma, intanto, il benevolo quotidiano Il Fatto se ne esce con un articolo che spiega così la situazione: “amnistia e indulto, grimaldelli per salvare Berlusconi da carcere e interdizione”. E, sempre ieri, Liana Milella di Repubblica asserisce di poter anche accettare l’amnistia, ma essa deve risultare “pulita” e “trasparente”, fatta nella “logica e nello spirito di favorire i poveracci che stanno in galera”. Se, guarda caso entra in ballo il Cav. no, che i poveracci stiano dentro a marcire e a suicidarsi; con in mezzo Berlusconi, noto serial killer, ladro, terrorista, torturatore di suore, sventratore di papere e conigli, non se ne deve neanche parlare; non si deve argomentare in merito alle nostre galere, all’interno delle quali sono in corso, come attestato dalla Corte Europea dei Diritti umani, trattamenti brutali e degradanti paragonabili, senza mezzi termini, alla tortura. Immaginiamoci poi alla signora cosa possano interessare le migliaia di cittadini in attesa di processo; bazzecole, l’importante è mettere in gattabuia Berlusconi poi, forse, se nessun altro della dinastia di Arcore si ripresenta in politica, si potranno riaprire le gabbie. Ecco cos’è l’Italia, da quali persone è abitata e quali cervelli la stanno riducendo ad un mattatoio legalizzato. Oramai il Bel Paese è da ben 33 anni condannato dalla Cedu, per la situazione carceraria e sembra che adesso stiano finendo la pazienza, ma che importa, l’amnistia deve essere immacolata e quando si parla del Cav non può che trasformarsi in contaminata, deturpata da subito. È intuibile, quindi, “Bersani docet”, che i geni della sinistra se ne stanno lavando le mani, affermando che loro potrebbero anche accettarla, ma non al punto di salvare quel mostro di Berlusconi. Questo demoniaco personaggio, ricercato dagli uffici di polizia di tutto il mondo, insozzerebbe ogni cosa quindi se, ogni giorno, detenuti e non, perdono la vita in questi luoghi di tortura peggio per loro; l’astio verso quell’uno viene prima della salvezza di decina di migliaia di persone. Giustizia: Governo stabile, pacificazione, amnistia di Arturo Diaconale L’Opinione, 5 maggio 2013 C’è un solo modo per voltare pagine dopo una guerra civile, “calda” o “fredda” che sia. Se si punta alla pacificazione non c’è altra strada che l’amnistia. All’indomani della guerra civile calda il governo formato da tutti i partiti che avevano partecipato alla Resistenza contro il fascismo si affrettarono a varare una amnistia per tutti i crimini che erano stati commessi durante gli anni della lotta fratricida. A firmare il provvedimento, nella sua qualità di Guardasigilli (cioè di Ministro della Giustizia) fu il leader massimo del Partito Comunista Italiano, Palmiro Togliatti, che con quell’atto realizzò un autentico capolavoro politico. Non solo tolse dai guai giudiziari i suoi tanti compagni di partito che avevano le mani sporche non solo del “sangue dei vinti” ma anche di quello di tanti partigiani non comunisti e dei “nemici di classe” eliminati durante e dopo il conflitto in nome della rivoluzione proletaria. Ma recuperò alla democrazia ed in gran parte alla militanza in favore del Pci buona parte di quella giovane generazione che aveva creduto nella terza via rivoluzionaria indicata dal fascismo di sinistra e che aveva bisogno di nuove e salvifiche certezze dopo il fallimento di quelle precedenti. E rese possibile la ripresa complessiva del paese dopo le laceranti e drammatiche vicende (oggi si direbbero “divisive”) degli anni precedenti. Se l’amnistia di Togliatti rese possibile la pacificazione dopo la guerra civile calda è addirittura banale rilevare che se si volesse sul serio avviare la pacificazione dopo la guerra civile fredda non solo dell’ultimo ventennio bipolare ma anche dell’intero secondo dopoguerra italiano, sarebbe indispensabile seguire l’esempio del governo del Cnl e di Togliatti e ricorrere all’amnistia. Fino ad ora la richiesta di un provvedimento del genere è venuta solo da Marco Pannella e dai radicali. Che l’hanno motivata con l’esigenza umanitaria di svuotare carceri riempiti all’inverosimile e ridare dignità ed una possibilità di nuova vita a migliaia di condannati in via definitiva o incarcerati in attesa di giudizio. All’indomani della rivoluzione giudiziaria di Tangentopoli alle motivazioni umanitarie di Pannella si aggiunsero anche quelle di chi rilevava che una amnistia azzeratrice dei guasti e dei nodi irrisolti della Prima Repubblica anche la Seconda sarebbe stata ben presto vittima delle eredità irrisolte del passato. Ma, com’è noto, le ragioni umanitarie e quelle politiche vennero travolte e cancellate dall’ondata di giustizialismo giacobino che puntava al rilancio ed alla perpetuazione della guerra civile fredda per eliminare gli avversari e vincere la battaglia per il potere. Quell’ondata non si è affatto esaurita. Al contrario, è cresciuta a dismisura provocando addirittura la fine della Seconda Repubblica all’insegna della richiesta di condanna non solo morale ma anche giudiziaria nei confronti della aborrita “casta” formata dalla classe politica. Di fronte a questa ondata niente affatto in via di esaurimento può sembrare non solo inutile ma addirittura ridicolo rilanciare il tema dell’amnistia. Ma il giustizialismo giacobino non ha prodotto solo la fine della Seconda Repubblica ma anche quella condizione di ingovernabilità a cui si tenta di sopperire in qualche modo con il governo di larghe intese di Enrico Letta. E, soprattutto, ha reso evidente che qualsiasi esecutivo intenda fronteggiare con le riforme la grande crisi del momento ha la necessità inderogabile di mettere un freno alla guerra civile fredda di giacobini ed antigiacobini e di avviare un difficile ma indispensabile processo di pacificazione. Ma come pacificare il paese senza unire alla motivazione umanitaria di Pannella quella politica di creare le migliori condizioni per una solida terza Repubblica? L’esigenza dell’amnistia sarà pure impopolare e non realistica. Ma è chiaro che senza amnistia non ci può essere pacificazione. E senza pacificazione non ci può essere stabilità di governo, possibilità di fronteggiare la crisi, speranza di ripresa per il futuro! Giustizia: Berretta e Gozi (Pd); prioritario risolvere problema del sovraffollamento carceri Asca, 5 maggio 2013 “Mi accingo ad affrontare l’incarico di sottosegretario alla Giustizia con l’impegno e la determinazione richiesti da un compito di grande responsabilità come quello appena affidatomi. Lavorerò insieme al Ministro Anna Maria Cancellieri e alla squadra ministeriale affinché si affrontino da subito le tante e delicate questioni che attengono all’organizzazione della Giustizia, a partire dalla difficile situazione delle carceri: l’Italia è il terzo Paese d’Europa per sovraffollamento, è necessario porre particolare attenzione alle condizioni di vita dei detenuti incentivando, ove possibile, l’ampliamento delle alternative alla detenzione e favorendo misure supportate da progetti volti al reinserimento sociale”. Lo dichiara in una nota Giuseppe Berretta, Pd, sottosegretario alla Giustizia del Governo Letta. “La Giustizia va modernizzata e questo vale sia per gli edifici che ospitano i detenuti sia per quanto attiene al suo buon funzionamento - prosegue - Via allora all’informatizzazione dei processi per velocizzare la Giustizia Civile, alla riforma del Processo Penale che includa la semplificazione di alcune forme processuali ancora troppo macchinose e, ancora, trasformiamo i beni confiscati alla criminalità organizzata in una grande risorsa per lo sviluppo del Paese non lasciando soli gli imprenditori chiamati a gestirli: la legalità deve e può portare lavoro e profitti”. Conclude il sottosegretario: “Il massimo impegno poi deve essere rivolto alle norme anti-corruzione: un primo passo concreto è stato compiuto dal governo Monti con il forte apporto del Pd, ma non è sufficiente perché nonostante sia stata approvata la legge mancano ancora molti dei decreti attuativi. È mancato un intervento coraggioso per ripristinare il reato di falso in bilancio, per introdurre il reato di auto riciclaggio, per prevedere pene accessorie che abbiano effettiva efficacia deterrente, e cause di non punibilità o misure premiali per chi rompe il muro di omertà e offre elementi concreti per destabilizzare il sistema della corruzione”. Gozi (Pd): Italia a 19 mila posti dall’Europa “Il nostro paese si trova a 19 mila posti di distanza dall’Europa, che ci ha più volte richiamati per il sovraffollamento delle nostre carceri. È questo il dato drammatico che emerge dal quadro diffuso dal Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria”. Così il deputato del Pd, Sandro Gozi. “In Parlamento c’è una proposta di legge per l’amnistia che porta la mia firma alla Camera e quella di Luigi Manconi al Senato - aggiunge Gozi. L’Italia ha bisogno di una riforma profonda della Giustizia e l’amnistia è un primo, fondamentale, tassello per un percorso che dovrà realizzare un sistema giudiziario che coniughi efficienza e rispetto dei diritti di ogni persona”. Giustizia: carceri italiane affollate e costose, “record” europeo detenuti in attesa di giudizio La Sicilia, 5 maggio 2013 Le carceri italiane sono tra le più sovraffollate dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa e tra quelle in cui c’è il maggior numero di detenuti in attesa di primo giudizio. La situazione, riferita al settembre 2011, viene fotografata in un rapporto pubblicato da Strasburgo, che evidenzia anche come nel nostro paese la spesa giornaliera per carcerato sia più alta di quella media europea, poco meno di 117 euro contro 93. L’Italia è terza, dopo Serbia e Grecia, per sovraffollamento: per ogni 100 posti effettivi ci sono 147 detenuti. Un tasso che Patrizio Gonnella presidente dell’associazione Antigone, in prima linea per i diritti nelle carceri, definisce “indecente per un Paese civile” e a cui il neo sottosegretario alla Giustizia, Giuseppe Berretta, dice che bisogna porre rimedio “incentivando, ove possibile, l’ampliamento delle alternative alla detenzione e favorendo misure supportate da progetti volti al reinserimento sociale”. Ma l’Italia è al terzo posto, dopo Ucraina e Turchia, anche per numero di detenuti in attesa di primo giudizio: sono 14.140 su un totale di 67.104, pari al 21,1%. L’Ucraina ne ha quasi 18mila ma su un totale di oltre 158mila, mentre in Turchia sono quasi 36mila su 127mila circa. E se le carceri scoppiano, anche la spesa giornaliera per detenuto è superiore alla media europea. Dal rapporto risulta infatti che l’Italia nel 2010 ha speso - spese mediche escluse - 116,68 euro contro i 96,12 di Francia ed i 109,38 della Germania (in questi casi le spese mediche sono incluse nella cifra). Dal confronto con Francia e Germania emerge inoltre che in Italia ci sono più guardie carcerarie per detenuto: una ogni 1,9, contro una ogni 2,7 negli altri due Paesi. Tuttavia quest’ultimo dato viene fortemente contestato dai sindacati italiani. “Quei dati non fotografano la realtà che è ben diversa ed è quella che si può constatare dal vero: sezioni da 80, 90, 100 detenuti con un solo agente” ha affermato Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-pa Penitenziari. Lettere: troppi detenuti nelle carceri? sì, ma anche poche carceri Il Giornale, 5 maggio 2013 Scrive Valentino Castriota di Trepuzzi (Lecce) Il ministro Cancellieri e Napolitano (ricordate le sue lacrime per i detenuti?) adesso non perdano tempo e prendano immediatamente provvedimenti per il sovraffollamento delle carceri, visto che arriva l’estate e per sei persone non è facile vivere in una stanzetta di due metri quadrati. Seguano le proposte di Pannella e del neo ministro Bonino. Facciano almeno un indulto. Si avrebbe un risultato migliore di quello ottenuto del 2006. Oltre a dare dignità all’essere umano, permetteranno al governo di risparmiare milioni di euro e a noi italiani di non essere più paragonati alle peggiori realtà del quarto mondo. Risponde Mario Cervi C’è lo scandalo di 66mila detenuti nelle carceri che non dovrebbero ospitarne più di 45mila (le statistiche ci collocano, per questo problema, in coda alla graduatoria europea). E c’è lo scandalo d’un Paese dove troppo spesso le pene non vengono espiate e la prescrizione si abbatte su innumerevoli processi. Vale a dire che abbiamo un eccesso di durezza per le condizioni delle carcerati e un eccesso di indulgenza per le tante scappatoie grazie alle quali un malfattore può cavarsela. Non è che l’Italia abbia un numero strabocchevole di detenuti in rapporto alla popolazione. Se ben ricordo i detenuti statunitensi - circa un milione e mezzo - sono proporzionalmente molti di più. È che l’Italia non ha carceri adeguate alle esigenze della giustizia ma anche della civiltà, e nemmeno una giustizia adeguata alle esigenze dei cittadini. Gli indulti, le amnistie - che rimettono in libertà molti condannati, tra i quali primeggiano i delinquenti abituali - sono un espediente, non un rimedio. Va bene il ricorso, nei casi meno gravi, alle pene alternative, va bene il ricorso eccezionale alla detenzione preventiva. Non va bene la sostanziale impunità per chi vive nella malavita e di malavita. La pena, secondo i principi più nobili, deve essere rieducativa e non afflittiva. Ma deve esistere. Per essere franco, non vedo grandi prospettive di redenzione in molti che lamentano l’inadeguatezza delle carceri, ma che in carcere sono finiti per assiduità delinquenziale, non per la forza d’un destino crudele. Ci vuole più umanità. Ci vogliono anche più carceri. Lettere: Pietro Maso, i politici e il senso della giustizia La Repubblica, 5 maggio 2013 Scrive Francesca Battistini, di Milano In risposta a un lettore che le chiede se trova un bell’esempio per i giovani la libertà di Pietro Maso, lei sostiene che “l’impunità continua dei politici è un esempio peggiore ben più letale per i giovani” di quello di Pietro Maso che ha compiuto un assassinio perpetrato a sangue freddo, trucidando entrambi i genitori servendosi di un tubo di ferro e di altri corpi contundenti tra cui spranghe e un bloccasterzo, per intascare subito la sua parte di eredità. Spero vivamente di aver capito male! Risponde Pietro Colaprico Ha capito vivamente bene e nel breve spazio di Postacelere provo a mostrarle l’altro lato di un discorso complesso. Chi è Maso nel 1991? Un giovane che cresce senza grandi valori nel ricco Nord-Est e che - come accade ad altri ragazzi, una minoranza - odia i genitori. Lui, a differenza di altri, passa all’azione, accompagnato dai suoi amici. Punto. E, secondo me, basta questa sequenza per comprendere che Maso, parlo sempre del Maso 1991, sia un assassino e, nello stesso tempo, un carnefice di se stesso. Lui è cattivo, perché voleva la Bmw, ed è vivo, mentre i suoi genitori, che pregavano in chiesa, sono buoni e sono morti: è vero. Ma, mi dica lei, quale giovane può prendere Maso ad esempio e attuare lo stesso attacco a mamma e papà? Viceversa, il cattivo politico è diventato un modello vincente e replicabile. Ha mediamente studiato. Ha letto libri. Sa fare un discorso. Eppure, ruba sui rimborsi elettorali. Truffa per avere i voti. Ingrassa sugli appalti. Divide il popolo tra chi lo sostiene e chi no, e ripaga i primi (voto di scambio), schiaccia se può i secondi. In questi anni abbiamo avuto la fuga dei cervelli, la mancanza di lavoro di massa, zero leggi a favore dello studio e della meritocrazia, zero leggi contro gli evasori fiscali e potrei andare avanti a lungo. Maso, nel bene e nel male, è solo. Questi politici cattivi si tengono la mano, l’uno con altro, e grazie all’impunità la infilano dove vogliono. Chi è più “letale”, più mortifero? Ammiro molto la forza morale del padre di quella ragazza che uccise la madre e il fratello: non l’ha mai lasciata sola. Il male è complicato: come saprà c’è un comandamento che dice “non uccidere”, e un altro che dice “non rubare”. Maso ha ucciso i suoi ed è stato condannato. I politici, quelli cattivi, hanno ucciso le speranze di alcune generazioni, hanno stretto patti con la mafia e gli stragisti, e si assolvono da soli: dica lei, chi ha le mani più lorde? Livorno detenuto morto nel 2003, la madre denuncia medici e chiede di riaprire le indagini Ansa, 5 maggio 2013 La madre di Marcello Lonzi, il detenuto morto in cella quasi dieci anni fa nel carcere Le Sughere di Livorno, ha sporto querela ai carabinieri di Pisa, città nella quale risiede, contro due medici della casa circondariale e contro il medico legale che eseguì l’autopsia accusandoli di non avere “svolto bene il loro dovere” e chiedendo la riapertura delle indagini sulla morte del giovane. Lonzi morì l’11 luglio 2003 e secondo l’inchiesta a ucciderlo sarebbe stato un malore, mentre per la madre, Maria Ciuffi, il figlio sarebbe morto in conseguenza di un pestaggio subito in cella. Alla querela contro l’anatomopatologo e i medici in servizio all’epoca dei fatti presso l’infermeria del carcere livornese, Maria Ciuffi, assistita dall’avvocato Erminia Donnarumma, ha allegato ampi stralci della relazione medico legale eseguita dal consulente nominato dalla procura livornese, quando fu riesumata la salma del giovane detenuto per effettuare una nuova autopsia, nella quale si evidenziavano “condotte non idonee”. Si rileva inoltre, secondo la denuncia, la presenza nella parte addominale del cadavere di numerose fratture non evidenziate prima, nonché “l’infossamento corticale dell’osso di ben due millimetri in corrispondenza di una ferita lacero contusa all’arcata sopracciliare di Lonzi non compatibile con una morte naturale”. Ivrea: Osapp; detenuto tenta di impiccarsi, salvato dalla Polizia penitenziaria Adnkronos, 5 maggio 2013 “Poco prima delle 16 nel carcere di Ivrea (Torino) un detenuto italiano di 29 anni, con fine pena fine nel 2016 per concorso in estorsione aggravata e ricettazione, ha tentato di impiccarsi con uno straccio da pavimento legato alle grate del bagno della sua cella che per fortuna si è rotto. Un agente di vigilanza se ne è accorto e lo ha subito soccorso”. A darne notizia è Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, organizzazione sindacale autonoma di Polizia penitenziari. Beneduci fa appello al neo Guardasigilli, Anna Maria Cancellieri “affinché metta mano con urgenza alle condizioni di sovraffollamento delle carceri e soprattutto alle drammatiche condizioni lavorative della polizia penitenziaria”. E questa mattina agenti di polizia penitenziaria appartenenti a Osapp Sinappe e Cisl hanno tenuto un sit in davanti al carcere di Ivrea per contestare l’attuale organizzazione del lavoro all’interno del carcere. Como: Sappe; detenuta dà fuoco alla cella, è stato necessario sfollare la sezione detentiva Adnkronos, 5 maggio 2013 “Una detenuta italiana di 30 anni, arrestata una settimana fa per tentato omicidio, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, ha dato fuoco nella serata di ieri al materasso ed alle lenzuola del suo letto all’interno della cella del carcere. Un denso fumo acre e pericolose fiamme si sono subito propagate nel reparto detentivo, dove sono presenti 50 detenute alcune con bimbi piccoli”. Ne dà notizia il sindacato di polizia penitenziaria Sappe. “Per fortuna, e grazie alla professionalità, al sangue freddo ed al senso del dovere delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria che hanno sfollato la sezione detentiva con grande professionalità il drammatico evento che poteva avere ben più gravi conseguenza è stato gestito con grandi capacità dai pochissimi poliziotti in servizio, che sono riusciti - rileva il Sappe - a gestire il drammatico evento con professionalità, capacità e tanto sangue freddo”. “Il grave episodio di Como, provocato dalla detenuta pare per protesta al sequestro di materiale non consentito presente nella sua cella durante una perquisizione, deve servire da spunto per una immediata verifica della salubrità dei luoghi di lavoro nei quali sono impiegati gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria. Esistono ad esempio - continua il Sappe - nuclei centrali e territoriali di vigilanza, Visag, che non vigilano. Il fumo tossico sprigionato dal materiale incendiato dalla detenuta ha messo a rischio l’incolumità di tutti le detenute che sono state immediatamente evacuate in altri spazi dell’edificio”. Il gesto della detenuta “ha causato l’inagibilità di un intero braccio detentivo e l’intossicazione degli agenti, i quali a rischio della loro incolumità si sono adoperati per mettere in salvo tutte le detenute presenti; queste ultime non hanno riportato nessun danno fisico. Per la professionalità dimostrata dai poliziotti di Como, spero che il Ministero conceda loro un encomio”. “Va quindi a tutto il Reparto di Polizia Penitenziaria di Como il nostro plauso ed il nostro più vivo apprezzamento per come è stato gestito l’evento critico”, dice Donato Capece, Segretario generale del Sappe. Pavia: il Consiglio Provinciale approva l’istituzione della figura del Garante dei detenuti La Provincia Pavese, 5 maggio 2013 Dopo anni di promesse estive a ogni visita dei politici e degli amministratori in una delle carceri della provincia il Consiglio Provinciale nella seduta di ieri ha approvato l’istituzione della figura del garante provinciale dei detenuti e il regolamento di riferimento su proposta dell’assessore alla Coesione Sociale Francesco Brendolise che ha dedicato l’istituzione del Garante a Franco Vanzati, sindacalista Cgil impegnato su mille fronti del sociale, carceri comprese, con cui nel 2006 Brendolise aveva lavorato a un progetto simile per il Comune di Pavia. Il garante deve promuovere la reale garanzia dei diritti fondamentali dei detenuti. La Lega ha votato contro, il Pdl si è astenuto senza motivare. “Più che di un garante avremmo bisogno di qualcuno che si occupi di rimpatriare gli stranieri che sono nelle nostre carceri”, ha detto Marco Facchinotti, sindaco di Mortara. Andrea Ceffa, consigliere del Carroccio e vicesindaco a Vigevano precisa: “Noi abbiamo ottimi rapporti con l’amministrazione penitenziaria. Ma i diritti dei detenuti sono già riconosciuti dalla Costituzione, e dato che tanti sono extracomunitari e sono mantenuti coi soldi dei contribuenti, sarebbe sia più conveniente rimpatriarlie far loro scontare la pena in patria”. “Il fatto che molti detenuti siano stranieri - ribatte Giacomo Galazzo, Pd - non ci esime dal dovere di prestare attenzione alla loro condizione. I diritti non hanno nazionalità”. Pavia: carcere di Torre del Gallo, mancano soldi dai conti dei carcerati di Maria Grazia Piccaluga La Provincia Pavese, 5 maggio 2013 A dicembre, al momento di chiudere il bilancio mensile, l’impiegato dell’ufficio Conti Correnti della casa circondariale di Torre del Gallo si è accorto che i numeri non quadravano. Calcola e ricalcola, le verifiche successive hanno permesso di appurare che all’appello, tra entrate e uscite, mancavano in effetti alcune migliaia di euro. Parte tra due e tremila. Ma in quell’ufficio, negli ultimi tempi, si erano avvicendati diversi impiegati, sia amministrativi sia appartenenti al corpo di polizia penitenziaria. Un turn over legato alla carenza cronica di personale e alla necessità di coprire turni e servizi con il personale a disposizione. Ricostruire la trama dei versamenti e dei prelievi non è stato facile. La verifica è tuttora in corso. Ma del presunto ammanco la direzione ha subito informato la Procura della Repubblica di Pavia che ha delegato al nucleo investigativo dell’amministrazione penitenziaria il compito di chiarire al più presto la vicenda. Un’indagine spinosa e delicata tanto che il direttore della casa circondariale, Iolanda Vitale, interpellata telefonicamente, preferisce non fare dichiarazioni. Una prudenza legata al fatto che l’inchiesta è ancora in corso. Si tratterebbe al momento di un’indagine di tipo amministrativo. Ma qualora dovessero essere individuate responsabilità personali nel “buco” di alcune migliaia di euro, potrebbe imboccare anche un profilo diverso, anche di tipo penale. Al momento non ci sarebbero indagati. Ma alcuni operatori sarebbero stati rimossi dal loro incarico e destinati ad altri servizi. L’Ufficio Conti Correnti del carcere gestisce i depositi dei detenuti che sono attualmente 485, per il 45% stranieri. Una sorta di sportello bancario. In carcere il denaro non può circolare. Al momento dell’ingresso viene ritirato e custodito a cura dell’area amministrativa contabile dell’istituto carcerario. Al detenuto viene rilasciato un foglio con l’indicazione dei soldi di cui dispone, denominato “libretto”, di volta in volta aggiornato con il rendiconto delle spese fatte in carcere e delle eventuali entrate. In carcere infatti i detenuti possono acquistare prodotti alimentari, sigarette, prodotti per l’igiene personale allo spaccio interno, ma anche usare i soldi per le telefonate autorizzate o la corrispondenza. Il loro gruzzolo, che non può superare un tetto di 1800 euro, può essere rimpinguato dall’esterno con versamenti da vaglia postale, anche se è più frequente che siano i familiari a portare soldi in contanti all’apposito sportello del carcere. Ma si tratta, in questo caso, sempre di piccole cifre, 50, 100 euro. È è proprio sul movimento delle somme presenti su questi libretti che si concentra l’attenzione degli inquirenti. È capitato che una borsa lavoro venisse accreditata due volte, per errore. E che il detenuto, nel frattempo trasferito in un altro carcere non restituisse la cifra non dovuta. In questo caso le verifiche contabili si incrociano anche a quelle relative al carico e scarico delle merci in vendita allo spaccio interno. Al registro delle consegne. Resta aperta l’ipotesi del si tratti di un errore contabile e amministrativo, senza dolo. Un pasticcio legato ai troppi avvicendamenti all’interno dell’ufficio. Sassari: traffico di droga a San Sebastiano, in carcere il maialetto ripieno alla cocaina di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 5 maggio 2013 Maialetti e agnelli cucinati e portati dai familiari ai cari reclusi in cella. Ma al ripieno di droga. Stupefacente che sarebbe stato nascosto nelle pietanze “in un preservativo o in un finto osso”, di quelli in plastica per i cani. Talvolta, invece, il viatico era più classico, sebbene altrettanto fantasioso, come un pomodoro o un’arancia. Di necessità, virtù. Non difettavano certo di fantasia i presunti sodali di una associazione a delinquere che facevano filtrare droga a San Sebastiano, almeno fino al 2008. E la spacciava ai tanti detenuti tossicodipendenti di cui tutte le carceri sono piene. Non lo dice solo il “super pentito” Giuseppe Bigella, il portotorrese condannato per due omicidi - la gioielliera Fernanda Zirulia (2005) e il detenuto Marco Erittu (2007) - e ora teste d’accusa al processo-bis in Corte d’assise per la strana morte in cella. Agli atti dell’inchiesta sul giro di droga tra le celle, ora approdata in udienza preliminare, ci sono i verbali di altri tre collaboratori di giustizia o “dichiaranti”, che descrivono modalità di approvvigionamento dall’esterno delle mura, distribuzione ai detenuti, consumo. Alcuni di loro lanciano accuse precise a tre agenti di Polizia penitenziaria (Santucciu, Calvia e Del Rio, tutti in congedo) imputati per concorso esterno in associazione a delinquere. Oltre a loro, ci sono il presunto boss dell’organizzazione, Pino Vandi, 46 anni, che con altri sette reclusi (Saba, Iacono, Bigella, Sanna, Deaddis, Carboni, Piga) risponde di associazione a delinquere. E poi 34 tra ex reclusi e familiari, imputati per spaccio. Dopo il racconto di Bigella, a far quadrare il cerchio - secondo la Direzione distrettuale antimafia di Cagliari, che indaga col pm Giovanni Porcheddu - sarebbero le testimonianze di due napoletani, Pasquale Cozzolino e Giovanni Brancaccio, e di un maghrebino, Kabbab Khalid. I campani furono arrestati in Sardegna perché corrieri, poi entrati nell’orbita di quella che descrivono come una cupola, disarticolata dalla stessa Polizia penitenziaria che ha condotto le indagini con i carabinieri. Proveniente dalla Campania, Brancaccio era sbarcato a Olbia, nel 2007, con 5 chili di eroina. Ed era stato beccato. A San Sebastiano aveva subito capito l’antifona, tanto da accreditarsi come uomo dei Casalesi, sebbene non li avesse mai visti né conosciuti. E fu un’ottima idea: uno dei detenuti gli si presentò subito come amico di Ciccio Sandokan, Francesco Schiavone, il camorrista di Casal di Principe. Così Brancaccio riuscì ad accreditarsi presso Pino Vandi, racconta il pentito a verbale, che incontrava “per organizzare un canale per la fornitura periodica e costante di cocaina a Sassari - spiega - da spacciare dentro e fuori il carcere”. È soprattutto Brancaccio che ripercorre l’intera filiera, dall’ordinativo all’assunzione. “Chi voleva comprare drogarsi rivolgeva agli uomini di fiducia di Vandi, e tramite i familiari all’esterno pagava in anticipo - racconta il pentito - a prezzi di mercato”. Alla domanda del pm sulle modalità in cui veniva portata la droga nell’istituto, Brancaccio chiarisce: “Tramite gli agenti (si riferisce ai tre sotto inchiesta, ride) che la portavano nascosta sotto i vestiti; e poi tramite gli alimenti portati dai familiari dei detenuti”, maialetti e agnelli farciti di stupefacenti. “In questo modo - rivela - entrò parecchia eroina e cocaina”. Droga a volte trovata dagli agenti e poi segnalata all’autorità giudizi ari a. Ma se superava i controlli, veniva distribuita subito ai destinatari oppure nascosta in posti sempre diversi. “Nelle parti asciutte dei locali docce, come i tubi vuoti e dietro le inferriate delle finestre, attaccata al muro con lo scotch, negli involucri delle scope, in corrispondenza delle avvitature, nei tubolari delle brande”, per poi essere distribuita attraverso gli “spesini”, cioè i reclusi che giravano tra le celle per raccogliere le richieste di acquisto al sopravvitto. Brancaccio parla anche di pezzi di una pistola, una canna e una molla, forniti a un recluso che voleva vendicarsi di uno sgarbo. Ma non è chiaro se la circostanza sia stata poi riscontrata. La droga veniva consumata nelle celle, talvolta in gruppo. In un caso - dice il collaboratore - “vidi un detenuto che si faceva una pera in cucina”. E capitava pure che qualcuno andasse in giro con “l’eroina sotto l’orologio Swatch”. Ora tutte queste accuse devono passare al vaglio di un giudice. Il 20 maggio i 44 imputati - agenti ed ex detenuti - dovranno presentarsi con i loro legali davanti al gup di Cagliari (competente, finora, perché sede della Dda) per eventuali scelte di riti alternativi, poi il pm Porcheddu ribadirà la richiesta di un processo. E solo a quel punto, il giudice deciderà se le prove sono sufficienti a portare tutti in Tribunale. Bolzano: il regista Fabio Cavalli presenta il teatro in carcere agli studenti del Liceo Pascoli di Daniela Mimmi Alto Adige, 5 maggio 2013 “Nel Giulio Cesare si parla di potere, ricchezza, tradimento, amicizia e vendetta. Bruto è un uomo d’onore, dice Antonio, e queste parole sono pronunciate da uomini d’onore che hanno provato a vincere la sfida della vita attraverso la violenza e il potere. La loro biografia, assume significati che gli attori di accademia non riescono a dare”. Così dice il regista Fabio Cavalli, direttore del laboratorio teatrale del carcere di massima sicurezza di Rebibbia, a proposito del film che i fratelli Taviani hanno girato su di lui, “Cesare deve morire”, vincitore dell’Orso d’Oro alla 62a edizione del Festival del cinema di Berlino. Questa mattina, alle ore 9.00, il regista genovese sarà a Bolzano, al Liceo Pascoli, in un incontro con gli studenti. Chiediamo a Fabio Cavalli cosa tenta di trasmettere ai giovani. “La poesia apre orizzonti infiniti -è la sua pronta risposta - Per i detenuti è un’arma incredibile per uscire dall’analfabetismo. L’ ottanta per cento di loro è analfabeta. Il film dei Taviani avvicina i giovani a una realtà che sembra molto lontana. Invece in Italia ci sono 67 mila detenuti su una popolazione di 65 milioni di persone. Cioè, uno su mille. Loro non sono al di fuori della società, ne hanno fatto parte e ne rifaranno parte. Io sono un grande sostenitore della Costituzione italiana che prevede il reinserimento sociale di chi ha sbagliato. Ai giovani spiego cosa c’è dietro al film, do luce a un mondo sconosciuto. Spiego che loro sono dentro perché hanno compiuto azioni illegali, ma anche che non sono gli unici. L’arte è un terreno comune nel quale possono incontrarsi le persone libere e i detenuti”. E quali vantaggi hanno i detenuti attraverso il teatro? Nel caso del mio laboratorio, ci sono i dati inconfutabili. Il 65% dei detenuti è recidivo, entro un anno torna dietro le sbarre. Al Rebibbia tra i 380 detenuto del laboratorio i recidivi sono il 5%. Il teatro è un’arma, anche sociale, immensa. Adesso, dopo il film dei Taviani, tutti se ne stanno rendendo conto. Ai detenuti il teatro regala il desiderio di reinserimento. Vengono a contatto con le parole sublimi dei poeti. Ricevono la sensibilità e la cultura che non hanno ottenuto sui banchi di scuola. Loro non vogliono la lezione frontale, vogliono vivere l’esperienza culturale nel senso pieno del termine. Il teatro dà appunto anche cultura, perché Shakespeare e Molière hanno raccontato anche la storia. Il teatro e la poesia costringono a una revisione e alla comprensione del proprio io, creano un’autocoscienza che prima non esisteva. Inoltre gli regala la bellezza, negata nei carcerati, oltre al senso di giustizia e nobiltà d’animo, come diceva Aristotele”. Lei lavora in un carcere di massima sicurezza, tra assassini e mafiosi. Ha mai avuto problemi con loro? “Devo farmi riconoscere come capo. Io gli insegno a recitare. Il teatro è una dittatura, il regista comanda. A volte faccio fatica, lo ammetto. Ma poi loro hanno la soddisfazione del successo. Gli agenti di custodia, i parenti, tutti li guardano in modo diverso. Alcuni di loro vorrebbero essere fuori e rivivere la stessa esperienza. Anche loro, come noi, imparano a conoscere il successo, il divismo, sono invidiosi di quelli che sono usciti e possono continuare a recitare, ricevere applausi. Per quello, una volta usciti, non hanno più molta voglia di tornare in carcere”. Immigrazione: il ministro Kyenge “non si possono trattenere i clandestini 18mesi nei Cie” Agi, 5 maggio 2013 Le persone non possono essere trattenute per 18 mesi nei Centri di identificazione ed espulsione. Lo ha detto il nuovo ministro all’Integrazione Cecile Kyenge, rispondendo alle domande di Gad Lerner, nel corso della registrazione della trasmissione televisiva “Zeta”, su La7. “Non si possono trattenere 18 mesi le persone perché non hanno un documento o perché sono irregolari”, ha spiegato Kyenge, “vanno cambiate molte cose. La maggior parte di quelli che sono lì sono persone che vengono dal carcere e quindi sono già identificate”. Il neo ministro ha raccontato di essere stata in molti Cie dove ha constatato che “le persone non hanno diritti e vivono addirittura peggio di quelli dentro le carceri”. “Tutti dobbiamo essere uguali davanti alla legge, i diritti sono universali”, ha concluso, “molte persone non sanno che si spendono tantissimi milioni per mantenere questi centri di identificazione e con gli stessi soldi si potrebbero fare delle politiche di integrazione”. Droghe: Staderini (Radicali); basta col proibizionismo, causa di 28 mila persone detenute Adnkronos, 5 maggio 2013 La legge Fini-Giovanardi “significa 28 mila persone detenute per averla violata e un mercato illegale che garantisce alle mafie italiane un giro d’affari annuo valutato in almeno 30 miliardi di euro, coinvolgendo 400 mila piccoli spacciatori e 4,3 milioni di consumatori, con oltre 800 mila persone coinvolte in procedimenti amministrativi per possesso di droga”. Lo sottolinea in una nota Mario Staderini, segretario di Radicali Italiani. Militanti e iscritti Radicali partecipano alla Million Marijuana March “con cui in tutto il mondo si chiede la fine del proibizionismo sulle droghe, un crimine che produce enormi costi sociali, economici e sanitari”. “Agli organizzatori della Marijuana March, a chi lotta nei tribunali, a chi sta raccogliendo proposte di legge di iniziativa popolare per la riforma delle leggi proibizioniste -aggiunge- propongo di incontrarci nei prossimi giorni per promuovere insieme il referendum che abbiamo depositato il 10 aprile in Cassazione e che elimina la reclusione per i fatti di lieve entità”. Mondo: non solo marò…. l’Italia dimentica i 3.103 detenuti all’estero www.napolivillage.com, 5 maggio 2013 Se ne parla solo per casi eccezionali e che riguardano solo fatti eclatanti come quello dei due marò in India che hanno innescato una querelle internazionale come poche precedenti, ma sono migliaia, per la precisione 3103, i nostri connazionali detenuti attualmente all’estero. Non solo, quindi, uomini in divisa, ma migliaia di singole storie e migliaia di famiglie che vivono quasi sempre in silenzio e senza alcun aiuto, l’angoscia di un parente arrestato quando era turista, residente o lavoratore, ma lontano anche migliaia di chilometri e con minime possibilità d’interloquire con la madrepatria. I dati ufficiali del Ministero degli Esteri parlano chiaro: sono 3103 gli italiani che per colpa di guai con la giustizia in un paese straniero si trovano detenuti. Il fatto più eclatante è che tra tutti coloro che sono in carcere, solo 677 stanno scontando una condanna, mentre ben 2400 sono in attesa di giudizio. Solo 32, peraltro, attendono un provvedimento di estradizione. Venendo alla distribuzione geografica di questi nostri concittadini nel globo, quasi tre quarti di queste persone è in arresto nei paesi dell’Unione europea, 494 nelle Americhe, 129 negli stati dell’Europa dell’est, o comunque fuori dall’Unione, 76 in Asia, 64 in Medio Oriente e solo 17 in Africa. Per quanto riguarda la situazione continente per continente significativo è il dato della Germania nella quale vi è il numero più alto di connazionali detenuti: sono 1115, ma ciò è dovuto alla numerosa presenza della comunità italiana. Numeri ben inferiori troviamo a seguire in Spagna e poi Belgio. Nelle Americhe il maggior numero di italiani in carcere si trova in Brasile: 83 persone, 81 in Venezuela, 76 in Perù e 69 negli Stati Uniti, anche in ragione dell’elevato numero di connazionali e dove si reca il maggior numero di turisti. Esistono anche piccoli paesi, che non sono mete di grande flussi turistici, tra questi l’Honduras, dove risulta un italiano in prigione. Tra Asia e Africa spiccano i casi di Congo e Tanzania, mentre 24 italiani si trovano ad oggi in stato di detenzione in Australia. 17, invece sono detenuti in India: sette hanno già subito una condanna mentre 10 risultano essere in attesa di giudizio come i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Per Giovanni D’Agata, fondatore dello “Sportello dei Diritti”, è ora che lo Stato italiano dica la sua sulla situazione dei detenuti all’estero che come è stato giustamente sottolineato sono dei “Prigionieri del silenzio” tant’è che i familiari si sono costituiti in associazione con questo significativo appellativo. Perché il problema della detenzione oltre confine non è solo una questione per chi è in carcere per scontare una condanna giusta o meno. Il problema riguarda anche migliaia di parenti in Italia costretti non solo a soffrire anche decenni in attesa di riabbracciare il proprio congiunto, ma a spendere tutte le proprie risorse, per chi ce le ha, sia per l’assistenza al familiare recluso all’estero, per il suo mantenimento, le spese legali e per i viaggi. È giunta l’ora, per Giovanni D’Agata di trarre le dovute conseguenze emanando un apposito provvedimento legislativo che consenta la creazione di un’apposita struttura d’assistenza presso la Farnesina, anche per alleviare i costi a carico delle famiglie. Ciò per tutti e non solo per i marò. Nel frattempo, lo “Sportello dei Diritti”, continuerà la sua opera di assistenza attraverso i suoi collaboratori, dando supporto e consulenza a tutti quei cittadini e familiari che si trovano in questa drammatica condizione. Francia: suicida in cella Marc Armando, “cervello” della super-rapina a Tolone 1992 Agi, 5 maggio 2013 Si è tolto la vita in carcere a Marsiglia uno dei più noti banditi di Francia: Marc Armando, 56 anni, considerato il “cervello” dietro la rapina nel 1992 a una filiale della Banque de France di Tolone che fruttò 146 milioni di franchi, circa 22 milioni di euro attuali. Per la Francia si trattò del “colpo del secolo”, anche perché solo un decimo del bottino fu recuperato. Condannato a 18 anni di reclusione per il suo ruolo in quel delitto, una volta tornato libero Armando non aveva cambiato vita. Nel 2011 era stato segnalato in Perù, da dove poi era tornato a Parigi e da lì si era trasferito in Belgio e quindi nei Paesi Bassi: tanti spostamenti celavano in realtà l’allestimento di una rete di narcotraffico con l’America del Sud. Colpito da un mandato europeo di cattura, il malvivente era stato arrestato il mese scorso dalla polizia olandese in relazione al ritrovamento di un contenitore a forma di siluro pieno di cocaina venezuelana, fissato alla chiglia di una petroliera alla fonda nel porto di Rotterdam. Venerdì Armando era stato estradato in patria e rinchiuso nel carcere Baumettes di Marsiglia: oggi sarebbe dovuto comparire in aula davanti ai giudici per la notifica dei capi d’accusa a suo carico. Invece, appena un paio d’ore dopo essere stato internato, si è impiccato in cella. Immediata l’apertura delle indagini sulla morte del navigato “Mauvais Garcon”. Pakistan: deceduto detenuto in India aggredito per rappresaglia a morte spia indiana Aki, 5 maggio 2013 È deceduto nell’ospedale indiano di Chandigarh, dove era stato trasferito dal carcere, Sanaullah Haq, il detenuto pakistano picchiato a morte da altri prigionieri. Si tratta di un regolamento di conti dopo la morte, giovedì a Lahore, di Sarabjit Singh, accusato di spionaggio in favore di Nuova Delhi e anche lui attaccato da altri detenuti. Lo riporta il sito di Dawn. Haq, 52 anni, scontava una pena all’ergastolo nel carcere di Jammu, nel Kashmir indiano, quando ha subito un attacco per vendetta che gli ha causato un coma profondo. I medici dell’ospedale di Chandigarh, dove era stato ricoverato, riferiranno in merito alle 18 ora indiana. Manifestanti invocano jihad contro India Sono almeno duecento i manifestanti scesi per le strade di Muzaffarabad, capitale del Kashmir pakistano, per protestare contro l’attacco subito dal detenuto Sanaullah Ranjay nel carcere indiano di Jammu che ha portato alla sua morte. Un decesso registratosi il giorno dopo che le autorità indiane avevano innalzato il livello di protezione nei confronti dei detenuti pakistani dopo che un indiano, Sarabjit Singh, era deceduto per un pestaggio subito nel carcere di Lahore dove scontava una pena a 16 anni con l’accusa di spionaggio a favore di Nuova Delhi. Un regolamento di conti che rischia di peggiorare le già tese relazioni tra India e Pakistan. I manifestanti a Muzaffarabad hanno intonato slogan contro l’India e fatto appello a un ‘jihad’ contro le forze indiane per espellerle dal Kashmir. Nella manifestazione è stata anche bruciata la bandiera indiana. Stati Uniti: lo smartphone che identifica i fermati e ne controlla i precedenti penali di Fabio Tonacci La Repubblica, 5 maggio 2013 Il sospettato immobile, con le mani alzate, in attesa. Davanti a lui un poliziotto in divisa che gli punta contro uno smartphone. L’atavica e mai risolta rincorsa tra guardie e ladri si arricchirà presto di una scena come questa. Perché nella fondina adesso trova posto una nuova arma. Che spara dati, recupera fedine penali in tempo reale, identifica volti, riconosce le impronte, annusa. E che potrebbe servire a svuotare le carceri. Succederà presto, e qualcosa succede già. A New York, per esempio. Quattrocento uomini del Ny Police Department sono stati forniti di un cellulare Android di ultima generazione, modificato. Non può ricevere né fare chiamate, ma con un’applicazione dà accesso a qualsiasi tipo di informazione su luoghi, palazzi, persone, ricercati. L’agente Tom Donaldson al New York Times la racconta così. “Mi trovo davanti a una palazzina di 14 piani ad Harlem per un controllo. Digito l’indirizzo sul telefonino e mi compaiono tutti i nomi dei residenti con precedenti penali e quelli con un porto d’armi regolare, la lista degli appartamenti teatro di incidenti domestici, le foto di chi è stato arrestato. In tempo reale ho anche la mappa delle telecamere di sorveglianza puntate sul palazzo”. Il lavoro di due giorni, tra scartoffie e confronto dei profili, in poco più di dieci secondi. Altra sperimentazione a San Francisco. Qui capita spesso di vedere agenti che fotografano i “sederi” delle automobili: sui loro telefonini hanno un’applicazione che, attraverso la fotocamera, scansiona la targa e si collega alla centrale, ricavando tutte le informazioni sul veicolo: se l’auto è rubata, a chi appartiene, se l’assicurazione è scaduta. “Tutto questo è solo un assaggio di cosa si potrà fare con la realtà aumentata “, dice Gerardo Costabile, direttore Forensic Technology di Ernst & Young per l’Italia. Realtà aumentata, dunque. Con un po’ di approssimazione, la si può definire arricchimento della percezione umana attraverso un dispositivo elettronico. Di fatto, un sesto senso digitale. Qualcosa c’è già nelle città più smart, dove i turisti ricevono notizie su un monumento inquadrandolo. Ecco, è lì, in quella direzione, che bisogna guardare per immaginare come sarà utilizzato lo smartphone tra dieci anni dalle polizie. “Riprendendo una folla - spiega Costabile - i dispositivi saranno in grado di identificare i volti, confrontandoli via web con quelli archiviati nei database. Chi fa ordine pubblico negli stadi, ad esempio, con il suo cellulare potrà individuare i soggetti con precedenti per violenza, e ricevere la scheda con età, residenza, occupazione. Un pò come faceva Robocop, il superpoliziotto d’acciaio e microchip, nel film”. Algoritmi sempre più sofisticati riescono già oggi a simulare il processo di invecchiamento di una persona, permettendo a telecamere e telefonini il riconoscimento di un ricercato sfruttando una foto vecchia di vent’anni. Del resto, se il prossimo iPhone monterà, come sembra, un lettore ottico per le impronte digitali, difficile non intravedere l’utilità di una tecnologia del genere messa nelle mani di un poliziotto. Un pò più sfumato, invece, è lo scenario immaginato da alcuni esperti della Deloitte, una delle Big Four, le quattro aziende di revisione e consulenza più influenti del mondo (tra queste c’è anche Ernst & Young). Rifacendosi idealmente al Panopticon, il carcere perfetto dove un unico guardiano controllava tutti i detenuti in qualunque momento, progettato nel 1791 dal filosofo Jeremy Bentham, hanno ipotizzato qualcosa di completamente nuovo. Nel dossier, intitolato non a caso Beyond the Bars, oltre le sbarre, spiegano come sia possibile, grazie agli smartphone, ai modelli di analisi geospaziale e agli algoritmi di simulazione del comportamento umano, monitorare i detenuti ai domiciliari. Creando di fatto un sistema carcerario virtuale, che costa la metà di quello reale e permette di avere il doppio dei detenuti. Inquietante? Sì secondo Evgeny Morozov, sociologo e giornalista bielorusso, sempre diffidente verso il facile entusiasmo dei positivisti della Rete, “Le tecnologie intelligenti non sono sempre rivoluzionare - dice - a volte servono a preservare lo status quo”. Come a dire, occhio, la mania del controllo a distanza può sfuggire di mano. “Di sicuro - ragiona Rosanna Colonna, primo dirigente della Polizia di Stato - al legislatore spetta l’oneroso compito di segnare il confine tra la crescente esigenza di pubblica sicurezza e il diritto primario dell’individuo a tutelare la propria privacy”. Ma intanto lo sviluppo degli smartphone avanza. Tra qualche anno, per dirne un’altra, sui comuni cellulari sarà installato un sensore che capta odori e tracce chimiche, le elabora e le registra. Utilissimo per l’investigatore che sulla scena del crimine ha bisogno di capire se ci sono residui di polvere da sparo. E quanto tempo passerà prima che qualcuno inventi un’applicazione per far telecomandare agli agenti piccoli droni dotati di telecamere?