Giustizia: il Consiglio d’Europa bacchetta l’Italia per il disastro delle carceri Tm News, 3 maggio 2013 Impietoso, il rapporto Space del Consiglio d’Europa traccia un quadro disastroso della condizione delle carceri italiane, disegnando una realtà abbondantemente denunciata ma immobile. Il rapporto annuale fotografa la situazione nel settembre 2011 nei 47 paesi della più antica istituzione europea, e conclude che il sovraffollamento riguarda la metà dei penitenziari dei paesi presi in esame. L’Italia, con 147 detenuti per ogni 100 posti disponibili, è la terza dal basso della lista: peggio di noi fanno solo la Grecia (151,7 detenuti) e la Serbia (157,6). Meglio di noi l’Ungheria, Cipro, la Croazia; il Belgio conta 127 detenuti per 100 posti; la Francia ne ha 113, la Scozia 105, la Germania non rientra nei paesi sovraffollati. E il rapporto ha provocato la reazione del neo sottosegretario alla Giustizia Giuseppe Berretta: “Lavorerò - ha detto oggi - insieme al Ministro Anna Maria Cancellieri e alla squadra ministeriale affinché si affrontino da subito le tante e delicate questioni che attengono all’organizzazione della Giustizia, a partire dalla difficile situazione delle carceri: l’Italia è il terzo Paese d’Europa per sovraffollamento”. “Definirlo un dramma è quasi un eufemismo” scrive da parte sua lo Sportello dei Diritti, ma un dramma che “emerge solamente in poche occasioni come oggi”. Mentre per Daniele Farina, capogruppo di Sel alla Camera dei Deputati “i dati diffusi oggi sono un ulteriore stimolo a portare in Parlamento queste priorità. Si tratta di dare una risposta immediata decongestionando le carceri e una strutturale modificando radicalmente due pessime leggi “riempi carceri”: la Fini-Giovanardi e la Bossi-Fini, su cui abbiamo già presentato un progetto di legge per abrogare il reato di clandestinità”. Generalmente, in Europa le carceri sono pienissime: la media europea conta 99,5 detenuti per 100 posti. Ma i motivi della carcerazione sono per lo più di scarso rilievo. Le persone che - nei 47 paesi - scontavano in carcere una condanna definitiva nel settembre del 2011 erano state essenzialmente condannate per violazione delle leggi sugli stupefacenti (17,5 %), furto (17,5 %), furto qualificato (12 %) e omicidio (12 %). Altro dato essenziale, circa il 21 % dei detenuti scontava misure di detenzione provvisoria e il 27 % era in attesa della pena definitiva. In media, il 26 % dei carcerati scontava una pena inferiore a un anno, il 26 % una pena da uno a tre anni e il 48 % pene più lunghe, di cui il 14 % una pena superiore a 10 anni. L’età media della popolazione carceraria di questa “fotografia” in 47 paesi è di 33 anni, e le donne rappresentano il 5,3 % del totale dei detenuti. In media, il 21 % dei detenuti è costituito da stranieri, ma esistono divari molto importanti: nei paesi dell’Europa orientale, gli stranieri rappresentano raramente più del 2 % del totale dei detenuti, mentre nei paesi dell’Europa occidentale la cifra supera in genere il 30 %. La mortalità media nelle carceri era di 28 decessi per 10.000 detenuti; il suicidio era la causa del decesso nel 24 % dei casi. La spesa media giornaliera per detenuto nel 2010 era di 93 euro, ma, anche in questo campo, esistono enormi differenze tra i paesi (i costi vanno da 3 a 750 euro). L’indagine esamina anche eventuali misure sostitutive del carcere, che risultano però ben poco utilizzate per sostituire la detenzione provvisoria. Approssimativamente, solo il 10% della popolazione sottoposta a libertà vigilata è oggetto di un controllo prima dello svolgimento del processo. La sorveglianza elettronica è un sistema adottato in circa il 60% dei paesi che hanno risposto all’indagine e il braccialetto è il dispositivo più diffuso. Si constata una grande diversità nell’utilizzo della sorveglianza elettronica, che permette per esempio di sorvegliare i detenuti condannati agli arresti domiciliari, di evitare la detenzione o di scontare in libertà vigilata il resto della pena. Donne detenute appena 5,3% Su 67.104 persone detenute in Italia le donne sono solo 2.887, cioè il 4,3%. Una percentuale che non varia di molto negli altri paesi del Consiglio d’Europa, dove in totale le donne in prigione sono il 5,3%. Secondo Marcelo Aebi, professore di criminologia all’università di Losanna, e autore del rapporto sulla popolazione carceraria pubblicato oggi dal Consiglio d’Europa, questa bassa presenza femminile si spiega principalmente col fatto che “le donne compiono meno atti violenti degli uomini”. “C’è chi ritiene che sia dovuta anche a un diverso trattamento che i sistemi giudiziari riservano alle donne”, dice il professor Aebi, portando ad esempio il fattore figli che giocherebbe a favore delle donne ma non degli uomini. “Io ritengo però che questo spieghi solo in minima parte la differenza”, sottolinea l’autore del rapporto. Delle 2.887 donne in carcere in Italia al settembre 2011, il 40,7% era di origine straniera, a fronte di una popolazione carceraria totale proveniente da paesi terzi del 36%. Le detenute in attesa di un primo giudizio erano invece il 42,3%, una percentuale doppia rispetto a quella del totale delle persone detenute in attesa di giudizio che è del 21,1%. Giustizia: sovraffollamento delle carceri, solo Serbia e Grecia peggio di noi di Antonietta Nembri Vita, 3 maggio 2013 In Italia ben 147 detenuti ogni 100 posti disponibili. In Europa siamo in coda alla classifica. I dati del rapporto annuale del Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria in 47 Paesi europei. Il sovraffollamento delle carceri è un problema comune alla metà delle amministrazioni penitenziarie europee e da noi in Italia le carceri letteralmente scoppiano di gente. L’Italia in questa particolare classifica, che emerge dal rapporto annuale del Consiglio d’Europa, si piazza al terzo posto dopo Serbia e Grecia. Nella Penisola, per ogni 100 posti ci sono ben 147 detenuti. La fotografia (i dati fanno data al settembre 2011) della situazione carceraria nei 47 stati membri del Consiglio d’Europa mostra come la media sia di 99,5 detenuti per 100 posti, a superare la soglia dei 130 detenuti oltre a Italia, Serbia e Grecia ci sono anche Cipro e l’Ungheria, tuttavia il sovraffollamento anche a fronte di una diminuzione in numeri totali della popolazione carceraria (passata dal 1.862.246 detenuti nel settembre 2010 al 1.825.356 del settembre 2011) interessa altri 19 Paesi europei. Per l’Italia, già condannata dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo lo scorso gennaio a pagare 100mila euro per danni morali a sette detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza, proprio a causa del sovraffollamento e delle condizioni di vita in carcere, ha anche un altro triste podio. Si piazza infatti alle spalle di Ucraina e Turchia come Paese con più detenuti in attesa di giudizio: 14.140 su un totale di 67.104 persone private della libertà (pari al 21%), l’Ucraina ne ha circa 18mila (su un totale di oltre 158mila detenuti) mentre la Turchia ne conta quasi 36mila su una popolazione carceraria di 127mila detenuti. Alle spalle dell’Italia si trova la Francia con 12.561 persone in attesa di giudizio su un totale di 72.326 detenuti. Nei 47 stati aderenti al Consiglio d’Europa le persone che stanno scontando un pena definitiva sono state condannate essenzialmente per violazione alle leggi relative agli stupefacenti (17,5%), furto (17,5%), rapina (12%) e omicidio (12%). L’Italia, dopo la Spagna, ad aver il maggior numero di condannati in via definitiva per reati connessi alla droga: 14.868 su 37.622 (circa il 40%), in Spagna sono 15.551, ma il totale dei condannati in via definitiva è di quasi 60mila persone. Per quanto riguarda la nazionalità dei detenuti il rapporto stima che il 21% delle persone in carcere è straniera, ma la media nasconde delle notevoli differenze: nei paesi dell’Europa dell’Est gli stranieri raramente superano il 2% della popolazione carceraria, mentre nell’Europa occidentale la percentuale supera generalmente il 30%. In Italia gli stranieri rappresentano il 36% (24.155 persone di cui quasi la metà in attesa di giudizio). Giustizia: rapporto Consiglio d’Europa; commenti di politici, operatori sociali, sindacalisti Ristretti Orizzonti, 3 maggio 2013 Berretta (Pd): prioritario risolvere sovraffollamento carceri “Mi accingo ad affrontare l’incarico di sottosegretario alla Giustizia con l’impegno e la determinazione richiesti da un compito di grande responsabilità come quello appena affidatomi. Lavorerò insieme al Ministro Anna Maria Cancellieri e alla squadra ministeriale affinché si affrontino da subito le tante e delicate questioni che attengono all’organizzazione della Giustizia, a partire dalla difficile situazione delle carceri: l’Italia è il terzo Paese d’Europa per sovraffollamento, è necessario porre particolare attenzione alle condizioni di vita dei detenuti incentivando, ove possibile, l’ampliamento delle alternative alla detenzione e favorendo misure supportate da progetti volti al reinserimento sociale”. Lo dichiara in una nota Giuseppe Berretta, Pd, sottosegretario alla Giustizia del Governo Letta. “La Giustizia va modernizzata e questo vale sia per gli edifici che ospitano i detenuti sia per quanto attiene al suo buon funzionamento - prosegue - Via allora all’informatizzazione dei processi per velocizzare la Giustizia Civile, alla riforma del Processo Penale che includa la semplificazione di alcune forme processuali ancora troppo macchinose e, ancora, trasformiamo i beni confiscati alla criminalità organizzata in una grande risorsa per lo sviluppo del Paese non lasciando soli gli imprenditori chiamati a gestirli: la legalità deve e può portare lavoro e profitti”. Conclude il sottosegretario: “Il massimo impegno poi deve essere rivolto alle norme anti-corruzione: un primo passo concreto è stato compiuto dal governo Monti con il forte apporto del Pd, ma non è sufficiente perché nonostante sia stata approvata la legge mancano ancora molti dei decreti attuativi. È mancato un intervento coraggioso per ripristinare il reato di falso in bilancio, per introdurre il reato di auto riciclaggio, per prevedere pene accessorie che abbiano effettiva efficacia deterrente, e cause di non punibilità o misure premiali per chi rompe il muro di omertà e offre elementi concreti per destabilizzare il sistema della corruzione”. Scalfarotto (Pd): governo riporti situazione alla normalità “L’Italia continua a essere maglia nera per la situazione carceraria, lo ha ricordato anche il Presidente Letta nel suo discorso programmatico e il rapporto che oggi rende noto il Consiglio d’Europa ribadisce l’urgenza che alle parole seguano fatti concreti. La riforma della giustizia che tutti auspichiamo è strettamente legata anche alla riorganizzazione delle carceri”. Così Ivan Scalfarotto, deputato del Pd, componente della commissione Giustizia, commenta il rapporto diffuso dal Consiglio d’Europa sulla situazione carceraria tra i Paesi membri, sottolineando la grave urgenza degli istituti di pena italiani. “Tra i vari dati presenti nel rapporto, due saltano agli occhi: l’Italia è terza per sovraffollamento delle carceri con 147 detenuti per 100 posti e terza, in numeri assoluti, per numero di detenuti in attesa di giudizio - spiega Scalfarotto -. La situazione è insostenibile, ci sono problemi legati al rispetto dei diritti e della dignità delle detenute e dei detenuti, alla sicurezza degli istituti e al rispetto delle condizioni di lavoro degli operatori. Dobbiamo agire in maniera celere cercando di rimodulare l’uso della detenzione preventiva, promuovere il ricorso a provvedimenti diversi dalla detenzione soprattutto per i reati minori e adeguare gli investimenti stanziati sia per le strutture, sia per il personale”. Farina (Sel): situazione insostenibile “I dati diffusi oggi sulla situazione nelle carceri che vede l’Italia al terzo posto dopo Serbia e Grecia per sovraffollamento, con 147 detenuti per 100 posti, e sempre al terzo posto dopo Ucraina e Turchia, per numero assoluto di detenuti in attesa di giudizio, dimostrano come nelle carceri italiane la situazione sia insostenibile”. Lo afferma Daniele Farina, capogruppo di Sinistra Ecologia Libertà in Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, commentando i dati sulla popolazione carceraria del Consiglio d’Europa. “Per noi di Sel che stiamo lottando da anni sul tema dei diritti umani e civili nelle carceri - continua l’esponente di Sel - i dati diffusi oggi sono un ulteriore stimolo a portare in Parlamento queste priorità. Si tratta di dare una risposta immediata decongestionando le carceri e una strutturale modificando radicalmente due pessime leggi riempi carceri: la Fini-Giovanardi e la Bossi-Fini, su cui abbiamo già presentato un progetto di legge per abrogare il reato di clandestinità. Occorre inoltre - conclude Farina- rinforzare gli strumenti di prevenzione e controllo, incentivare la celerità dei processi, nonché le misure alternative alla detenzione”. Di Giovan Paolo (Pd): Governo intervenga subito “Nei fatti siamo al di fuori di ogni standard europeo in fatto di vivibilità delle carceri. Si tratta di una questione di diritti umani. Mi auguro che il nuovo governo, il ministro Cancellieri intervengano al più presto”. Lo afferma il presidente del Forum per la Sanità Penitenziaria il senatore Roberto Di Giovan Paolo. “Negli Usa alcuni detenuti sono stati scarcerati per la scarsa qualità della detenzione. In Italia, per quanto riguarda due penitenziari ci sono state altrettante condanne per trattamento inumano. È ora di muoversi” aggiunge Di Giovan Paolo. Gonnella (Antigone): numeri indecenti per Paese civile “I dati del Consiglio d’Europa non fanno altro che ricordare al governo in carica da qualche giorno quello che tutti noi diciamo oramai da tempo, ovvero che l’Italia ha tassi di sovraffollamento indecenti per un paese civile”. Così Patrizio Gonnella presidente dell’associazione Antigone, che si batte per i diritti nelle carceri, commenta il rapporto del Consiglio d’Europa che mette l’Italia al terzo posto per il sovraffollamento negli istituti di pena. “Entro un anno - ricorda Gonnella - l’Italia deve rendere conto alla Corte europea su come rimediare a questa situazione esplosiva. E non ci dicano che la soluzione è l’edilizia penitenziaria. Questa è propaganda pura. Non ci sono i soldi per costruire 50 carceri da 400 posti”. “È una follia - aggiunge - puntare in epoca di spending review su obiettivi impossibili”. “L’amministrazione penitenziaria - insiste Gonnella - dica il vero, dichiari quanti sono i veri posti letto regolamentari. Non sono 47mila come si legge nelle statistiche ufficiali, visto che lo stesso Dap in più occasioni ha ricordato che il numero è più basso. Inoltre tra i 5 e i 10 mila posti letto sono al momento non disponibili per condizioni igienico-sanitarie inaccettabili. Ciò significa che il tasso di affollamento vola ancora più verso l’alto, verso i 160-170 detenuti per 100 posti letto”. Per Gonnella, dunque, “bisogna intervenire sulle leggi che producono carcerazione senza produrre sicurezza: droghe, recidiva, immigrazione. Bisogna ridurre l’impatto della custodia cautelare”. E ricorda: “noi, insieme a moltissime organizzazioni, abbiamo in piedi una campagna per tre leggi di iniziativa popolare per la giustizia e i diritti. Il 9 saremo davanti a decine di università in giro per l’Italia a raccogliere le firme. Ce ne vogliono 50 mila. Siamo a 15 mila circa”. “Al nuovo Governo - conclude - chiediamo di affrontare il tema non con le chiacchiere e la propaganda ma con fatti concreti ovvero cambiando le leggi disastrose degli ultimi dieci anni. Solo così si darà un segnale di attenzione vera. Chiediamo anche di presentare un disegno di legge governativo che introduca il delitto di tortura nel codice penale. In più chiediamo alle Asl e ai sindaci, quali autorità sanitarie cittadine, di ispezionare i reparti e verificarne la abitabilità”. Cgil-Fp: numero reale agenti in strutture è 25mila “Se avessimo davvero a disposizione nelle carceri tutto il personale stimato nel rapporto, non avremmo nulla di cui lamentarci. Ma le cose non stanno realmente così. Gli agenti materialmente impegnati nelle carceri o nei servizi connessi sono circa 25mila. Il resto è distaccato ad altri servizi: verso l’amministrazione centrale, dove operano circa 2.850 agenti tra ministeri, dipartimenti, scuola di formazione, servizio traduzioni; oppure verso servizi regionali, come i provveditorati; o addirittura verso altre amministrazioni diverse da quella penitenziaria”. È quanto afferma Francesco Quinti, responsabile nazionale del comparto sicurezza della Cgil-Fp, commentando i dati del Consiglio d’Europa sulle carceri, in particolare relativamente al rapporto di uno a due tra agenti e detenuti. “È inevitabile - prosegue il sindacalista - che una parte di personale sia distaccata per la copertura di servizi necessari, ma il numero di questi distacchi, come diciamo da anni, è abnorme. Tenuto conto che sono state anche aperte nuove strutture e nuovi padiglioni carcerari, la conseguenza è che il personale nella carceri è troppo poco e ha turni ormai troppo pensati, spesso deve supplire anche alle carenze di personale che si registrano tra educatori ed assistenti sociali. Quanto al contratto è fermo da 4 anni e in media un agente prende tra i 1.400 e i 1.500 euro al mese, al netto degli straordinari”. Moretti (Ugl): numeri non rispecchiano realtà, situazione più drammatica “Sono numeri che non rispecchiano la situazione reale, più drammatica di quella presentata”. Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, commentando i dati contenuti nel rapporto del Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria nei 47 Stati Membri. “Il rapporto stimato tra numero di detenuti e agenti è assolutamente errato. Il personale - spiega Moretti - che svolge servizio nelle sezioni detentive è notevolmente inferiore a quello della media europea: nella realtà un agente si rapporta con una media di 90/100 detenuti in un turno lavorativo che raggiunge spesso le otto ore continuative e considerando inoltre i numerosi servizi che vengono svolti dalla Polizia Penitenziaria, come ad esempio le traduzioni nelle aule di giustizia che impiegano non meno di 6000 agenti giornalmente”. “La superficialità del rapporto è evidenziata dal fatto che non si tiene conto che la polizia penitenziaria svolge compiti che andrebbero oltre le loro mansioni nella gestione della detenzione, nei quali si inseriscono tutti quei percorsi per il recupero del reo, previsti nel nostro sistema, portati avanti da un numero troppo esiguo di agenti. Inoltre, è addirittura un controsenso ritenere che vi sia un agente ogni due detenuti, se poi lo stesso rapporto sottolinea che il sovraffollamento è di 150 detenuti su 100 posti a disposizione”. “La situazione in cui si trova il sistema penitenziario - conclude - è grave e richiede un’attenzione che non è più rimandabile, perché al malessere dei detenuti si unisce lo stato di disagio e sofferenza di una categoria che, nonostante tutto, continua a lavorare ogni giorno con grande impegno”. Giustizia: statistiche Dap; 65.917 detenuti al 30 aprile, quasi 25mila in attesa di giudizio Ansa, 3 maggio 2013 Sono 65.917 i detenuti presenti nelle carceri italiane al 30 aprile 2013, a fronte di una capienza regolamentare di 47.045 posti. Tra questi 39.993 hanno una condanna definitiva, mentre 24.637 sono in attesa di giudizio. I detenuti stranieri sono 23.438 e 2.888 le donne. È il quadro dell’emergenza dei 206 istituti italiani fornito dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Tra le regioni italiane è la Lombardia quella che ospita il maggior numero di detenuti, 9.390, seguita dalla Campania, con 8.292, dalla Sicilia, 7.147. Quanto agli stranieri presenti nelle carceri, il gruppo più numeroso proviene dal Marocco, 4.449, poi dalla Romania, 3.715, dalla Tunisia, 2.905, e dall’Albania, 2.896. Sono poi 10.439 i detenuti che hanno lasciato il carcere per effetto della legge 199 del 2010, che prevede la possibilità di scontare ai domiciliari una pena non superiore ai 12 mesi, anche se residuale di una più lunga, limite poi portato a 18 mesi dal decreto “salva carceri” dell’ex ministro della Giustizia, Paola Severino. Giustizia: speakers’ corner del Sappe davanti al Dap, per denunciare l’emergenza carceri Ansa, 3 maggio 2013 Suicidi un Agente di Polizia Penitenziaria (nel carcere minorile di Lecce) e due detenuti (a Castelfranco Emilia ed a Catanzaro); altri due suicidi di ristretti sventati in tempo dalla Polizia penitenziaria a Modena ed nel carcere minorile di Catanzaro; un poliziotto aggredito a Spoleto ed un’aggressione contro un altro Basco Azzurro sventata ad Alessandria; due risse tra detenuti nel carcere genovese di Marassi. È il drammatico resoconto dell’ultima settimana nelle carceri italiane, dove sono anche morti per improvvisi malori due detenuti (nel carcere di Velletri e nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia) e, poche ore fa, un poliziotto per infarto del carcere di Firenze Sollicciano. “La situazione penitenziaria resta allarmante nell’assoluta indifferenza ed apatia dell’Amministrazione Penitenziaria. In questo contesto è palese e grave l’inefficienza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria guidato da Giovanni Tamburino e dal Vice Capo Luigi Pagano, che pensa a risolvere le criticità del sovraffollamento delle nostre prigioni con soluzioni fantasiose e pericolose”, commenta Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe (il primo e più rappresentativo della Categoria). “La realtà penitenziaria è che nelle carceri ci sono 45mila posti letto e nelle celle sono invece stipate 66mila persone, il 40% delle quali in attesa di un giudizio definitivo; che la Polizia penitenziaria ha settemila agenti in meno, che i Baschi Azzurri non fanno formazione ed aggiornamento professionale perché l’Amministrazione evidentemente ha altro a cui pensare, come anche per le conseguenze di quell’effetto burnout dei poliziotti determinato dall’invivibilità di lavorare in sezioni detentive sistematicamente caratterizzate da eventi critici - suicidi, tentati suicidi, aggressioni, risse, atti di autolesionismo, colluttazioni. Ma per fronteggiare tutto questo il Dap guidato da Giovanni Tamburino e Luigi Pagano non ha fatto nulla e noi ci chiediamo che senso abbia mantenerli ancora in quegl’incarichi.” Capece informa infine che questa mattina il Sappe ha inviato al Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri una nota con la quale si dà notizia che “mercoledì 8 maggio 2013 il Sappe terrà una manifestazione di protesta (l’ennesima) davanti al Dap. Nella circostanza è stato organizzato un piccolo palco di fronte al palazzo del Dipartimento (una specie di speakers’ corner), in Largo Luigi Daga, 2, dal quale poter far esprimere tramite altoparlante problemi, lamentele, rivendicazioni, richieste e necessità dei poliziotti penitenziari”. Al primo posto, per il Sappe, “la gestione fallimentare del Corpo di Polizia Penitenziaria e del Dap, distante dalla realtà e che sottovaluta la sicurezza del personale e delle strutture”. Giustizia: “Non un mio crimine, ma una mia condanna”, Campagna di Bambinisenzasbarre Famiglia Cristiana, 3 maggio 2013 Basta un sms solidale al 45507 per sostenere la causa di Bambinisenzasbarre, associazione impegnata a tutelare e promuovere i diritti dei bambini con genitori detenuti. Sono 100mila i bambini che in Italia devono fare i conti con la detenzione di mamma o papà: è così, con pochi minuti di tempo a disposizione, aree inadeguate, nessun programma di sostegno, che le visite in carcere aprono ogni volta nuove ferite, aggravate da pregiudizi e buchi neri del “sistema”. Nasce da qui la proposta dello Spazio Giallo, un modello di accoglienza e supporto familiare di cui beneficiano già 10mila minori negli istituti penitenziari di San Vittore, Bollate e Opera (tutti nella provincia di Milano) avanzato da Bambinisenzasbarre, associazione impegnata in processi di accompagnamento psicopedagogico alla genitorialità con un’attenzione particolare ai figli colpiti dall’esperienza carcerario di uno o entrambi i genitori. Con un sms solidale al 45507, fino all’11 maggio, c’è tempo per sostenere la loro causa così da rafforzare ed estendere la diffusione di nuovi Spazi Gialli all’interno delle carceri e avviare il Telefono Giallo, una linea dedicata a disposizione di tutte quelle famiglie che sono impreparate ad affrontare un percorso così complesso, sia dal punto di vista organizzativo sia da quello emotivo. Come tutte le campagne, d’altronde, la raccolta fondi è solo una faccia della medaglia della questione che si intende sollevare; l’altra, quella per certi versi più importante, è volta alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica, nella convinzione che con un vasto consenso popolare le cose possano davvero cambiare. Ogni bambino ha diritto ad essere tale: è questo il motore che spinge l’azione di Bambinisenzasbarre. Solo passando da interventi di prevenzione sociale si riesce a dare continuità e rafforzare il legame con i genitori detenuti senza incorrere nel rischio che i comportamenti di questi ultimi vengano in qualche modo idealizzati e fatti propri dal minore. Dal punto di vista dei bambini, dunque, si fa leva sull’aiuto alla comprensione delle debolezze e degli errori commessi dai genitori, dall’altra, mamma e papà detenuti possono trovare una forte motivazione a non commettere nuovi reati per tornare a essere dei “modelli” positivi per i propri figli. La quotidianità della lontananza aumenta esponenzialmente la fragilità psicologica dei soggetti costretti ad affrontarla per lo più da soli: i pregiudizi, il senso di vergogna, spesso anche le difficoltà economiche spingono i bambini con genitori in carcere verso la discriminazione e l’esclusione sociale. Lo Spazio Giallo serve proprio a questo: offre la possibilità i intraprendere un percorso, un cammino, in compagnia di personale qualificato e “sensibile” sul tema. Psicologhe, psicopedagogiste, arte-terapeute sono la chiave per aprire nuovi orizzonti, fino a quel momento inesplorati. Lettere: il lavoro per i carcerati, una misura di civiltà di Cecilia Sechi (Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Sassari) La Nuova Sardegna, 3 maggio 2013 Non è facile affrontare il tema carcere e quello della funzione “rieducativa della pena” in riferimento al dettato costituzionale. Ancor più difficile è parlare di percorsi lavorativi per i detenuti in un momento di disperata crisi economica e sociale: l’obiezione “allora per star bene e lavorare bisogna delinquere” è sempre pronta, con grande dolore di chi il carcere lo conosce. Alla luce delle convenzioni stilate nei giorni scorsi tra il Tribunale di Sorveglianza, il carcere di San Sebastiano e i comuni di Sassari e Sorso riguardanti 6 detenuti, sento l’esigenza di una riflessione aperta che tenti di affrontare, seppur molto sinteticamente, alcuni aspetti relativi alla pena e al suo significato. Nella maggior parte delle carceri italiane, i detenuti stanno in cella anche 20 ore al giorno, prevalentemente nell’ozio, nell’apatia e nello svilimento delle capacità sociali e relazionali: questa la spiegazione dei gravi atti di autolesionismo, dei tanti, troppi suicidi e tentati suicidi. Ecco che giaci troviamo davanti ad uno dei problemi centrali: come può un carcere siffatto rispondere all’esigenza della comunità esterna di una pena che possa portare e generare sicurezza? Un tale carcere non riduce la criminalità: una carcerazione lesiva della dignità umana si trasforma, infatti, nella migliore delle “scuole di delinquenza o devianza”, con la conseguenza che, non soltanto il singolo recluso, ma la società intera si deteriora. La degradazione sociale, infatti, pesa inesorabilmente sulla nostra coscienza, ma anche sulla nostra sicurezza: i detenuti che hanno avuto la possibilità di percorsi di formazione o lavorativi all’interno e/o all’esterno del carcere, infatti, all’uscita da questo, mostrano una probabilità di recidiva (cioè di commettere altri reati) di gran lunga inferiore rispetto a coloro che hanno vissuto inerti la vita carceraria; su questo ci sono precisi dati e statistiche. Anche per questi motivi ad alcune categorie di detenuti viene data la possibilità non di un “lavoro” comunemente inteso, ma di poter svolgere percorsi formativi e lavorativi attraverso i quali possano riattivare il loro senso di utilità, ritrovare la capacità di responsabilizzazione, la propria dignità di esseri umani e prepararsi all’uscita, momento altrettanto difficile e traumatico proprio perché le nostre carceri sono sovraffollate prevalentemente da persone che hanno alle spalle vissuti di grave e dolorosa sofferenza, non hanno nessuno fuori che li aspetta, hanno compiuto reati di piccola entità perché tossicodipendenti o per sfuggire a povertà e guerre come gli stranieri. Per questo dobbiamo avere il coraggio, per alcuni reati, di affrontare il tema delle misure alternative al carcere anche in un’ottica di giustizia riparativa nei confronti della comunità offesa, quandanche in Italia ci siano recenti e incoraggianti esperienze di giustizia riparativa tra vittima e reo. La questione carceraria è anche effetto di un sistema penale e processuale che annaspa e che continua a perpetuare una visione carcerocentrica: in Italia sono circa 3.500 i reati punibili con il carcere, mentre questo dovrebbe essere l’estrema ratio qualora altre pene non abbiano funzionato. L’Inghilterra, che pure non ha “un’emergenza carceri”, ha deciso di puntare sulla riabilitazione dei detenuti. La richiesta di “più carcere”, è una rottura drammatica dei legami di solidarietà sociale verso i più deboli che, peraltro, genera altra criminalità laddove, invece, si vorrebbero riparare e ricucire le fratture che questa ha inferto al tessuto sociale. Tutti noi, se non vogliamo cadere nell’ottica sterile della “vendetta”, abbiamo bisogno di interrogarci su questi temi, pena un fallimento non solo del nostro stato sociale, ma della nostra intera comunità. Lettere: Guantánamo, la tortura e noi di Adriano Sofri Il Foglio, 3 maggio 2013 In calce alla lettera del detenuto yemenita a Guantánamo pubblicata lo scorso 14 aprile dal New York Times si legge qualche centinaio di commenti. Uno dice: “Io concordo col senatore McCain, che fu lui stesso vittima di tortura. Quando un altro senatore gli disse: ‘Perché dovremmo preoccuparci di questi terroristi?’, McCain replicò: ‘Non si tratta di chi sono loro, ma di chi siamo noi. Noi siamo gli Stati Uniti d’America, e gli Stati Uniti d’America non torturano la gente”. Nella lettera, Samir Naji al Hasan Moqbel, 35 anni, descrive minutamente il tormento dell’alimentazione forzata attraverso il sondino nasogastrico. (Ne ha scritto qui Daniele Raineri lo scorso 17 aprile). “Sono detenuto a Guantánamo da 11 anni, non ho ricevuto alcuna imputazione, non ho avuto alcun processo… Sostennero che fossi una “guardia” di Osama bin Laden, una cosa insensata, mi sembrava uscita dai film americani che mi piaceva guardare. Nemmeno loro sembrano crederci più… Non dimenticherò mai la prima volta che mi hanno infilato il tubo nel naso. Mi legano alla sedia nella mia cella due volte al giorno. Non so mai quando arriveranno, a volte vengono durante la notte... Il 15 marzo ero malato nell’ospedale della prigione e mi sono rifiutato di mangiare. Una squadra della Extreme Reaction Force /poi ribattezzata eufemisticamente Forcible Cell Extraction: estrazione energica…/ ha fatto irruzione. Mi hanno legato mani e piedi al letto e inserito a forza una flebo nella mano. Ho passato 26 ore in questo stato, legato al letto. Non sono potuto neanche andare in bagno. Mi hanno messo un catetere, un’azione dolorosa, degradante e non necessaria. Non mi è stato permesso neanche di pregare... Durante una nutrizione forzata l’infermiera ha spinto sbrigativamente il tubo in profondità dentro il mio stomaco. Ho pregato di sospendere, si è rifiutata. Stavano finendo, quando un pò di quel ‘cibò si rovesciò sul mio abito. Chiesi di cambiarlo, ma la guardia mi negò questo estremo appiglio di dignità”. La cosa di cui si sta parlando è la nutrizione forzata. (Quella, mutatis mutandis, cui una legge di Stato avrebbe voluto assoggettare anche tutti i cittadini liberi del nostro paese). Avrete letto i racconti sui viaggi nei vagoni piombati, sull’umiliazione terribile dei bisogni corporali. Parlai con molti vecchi ceceni che avevano subito la deportazione staliniana in Kazakistan o in Siberia. Non sono cose che si possano dire, rispondevano. Abbassavano la testa e sussurravano che molte persone si facevano morire sui treni per la vergogna. Dice una mia amica: “Ho letto che il New York Times ha pagato l’articolo al detenuto yemenita (la tariffa standard: 150 dollari) e che quei soldi saranno spediti alla sua famiglia nello Yemen. Confesso che ho pensato, sentendomi poi molto in colpa: chissà cosa ne sarà di quei soldi, ci compreranno il cibo per i bimbi o ci costruiranno una bomba come quella che é scoppiata a Boston, che costa 100 dollari?” Già. Il dilemma breve della mia amica serve a ricordarsi, oltre che dei principii, della differenza fra prevenzione e repressione. Coi detenuti senza imputazioni di Guantánamo, supposti pericolosi e resi pericolosi, la differenza è bruciata. La repressione vuol essere preventiva. Ma il cibo per i bimbi non è, a chi pensi così, una vera alternativa: nutrite i bambini a Gaza o in Libano o in Pakistan, e forse qualcuno di loro, senza nemmeno aspettare d’esser cresciuto abbastanza, si metterà addosso una cintura esplosiva e si farà scoppiare in mezzo a una folla di “nemici”. Ma non possiamo affamare preventivamente mezzo mondo - e più. È già affamato abbastanza di suo. Non possiamo affamarne nemmeno uno solo, abbastanza da rimandarlo al Creatore. Intanto, però, ricordiamoci del mondo in cui viviamo ordinariamente, del nostro angolo di pianeta. Nel cantone di Zurigo, il 16 aprile, un carcerato comune, cittadino svizzero di 32 anni, condannato nel 2009 per tentato omicidio, è morto nell’ospedale in cui era stato trasferito dopo uno sciopero della fame iniziato nello scorso gennaio. Aveva rifiutato ogni intervento medico, e la sua volontà è stata riconosciuta legittima e rispettata. Il 30 aprile, negli Stati Uniti, mentre il presidente Obama tornava a dichiarare il proprio desiderio di chiudere Guantánamo, il presidente dell’American Medical Association protestava contro la nutrizione forzata: “Ogni paziente ha diritto di rifiutarla anche se ne dipenda la sua vita”. Il 21 aprile è stato l’Independent a pubblicare il testo di un altro detenuto di Guantánamo, Shaker Ameer, saudita, 45 anni. Anche lui è lì da undici anni, è stato prosciolto da ogni accusa nel 2007. Scrive fra l’altro: “La Grande menzogna orwelliana è l’idea che tenere 166 prigionieri a Cuba serva a tenere l’America al sicuro dall’estremismo… Su 779 detenuti dal 2001, 613 sono stati rimandati a casa, e gli Stati Uniti hanno prosciolto 86 dei prigionieri che sono ancora buttati qui dentro. Complessivamente, più del 90 per cento del totale, che gli stessi americani ammettono di aver detenuto calunniosamente”. Perché Obama si è rassegnato a una sconfitta come la mancata chiusura di Guantánamo? Ha forse temuto l’impopolarità, o ha ceduto alle pressioni degli specialisti dell’antiterrorismo -anche a un Presidente americano si può dire: Ragazzo, lasciaci lavorare. C’è una spiegazione più forte: la paura che qualcuno dei prigionieri, liberato, possa compiere attentati cruenti contro cittadini americani. (Una specifica moratoria alla riconsegna di detenuti yemeniti è stata decisa da Obama). Una simile eventualità gli costerebbe carissima. Si può anche considerare un versante umano, non strumentale, della decisione. Se per suo ordine venissero liberati prigionieri, e divenissero autori di attentati contro cittadini americani (o del mondo), gliene cadrebbe addosso una responsabilità grave da portare. Suggerisco di confrontare questo dilemma con la routine dei nostri magistrati di sorveglianza, che (con eccezioni anche rilevanti) sono spaventosamente restii ad applicare le leggi che li autorizzano, e le circolari ministeriali che li sollecitano, a concedere ai detenuti misure come i permessi, il lavoro esterno, la detenzione a domicilio. Le statistiche mostrano inequivocabilmente come queste misure riducano in proporzione assai maggiore le recidive. Ma la burocrazia dei magistrati di sorveglianza, adoratrice della pigrizia e però vanitosa, è soprattutto attenta a sventare la cattiva stampa. Un detenuto in semilibertà che commetta un delitto capace di suscitare indignazione e raccapriccio costa caro. Anche nel nostro caso, il giudice, o la giudice, dai quali dipende la libertà piena o relativa dei detenuti, possono essere frenati dalla preoccupazione sincera per il rischio di azioni gravi di cui porterebbero la responsabilità e il rimorso, anche se le statistiche dichiarino irrilevanti gli episodi di trasgressione. Non c’è paragone fra il potere, e la responsabilità, del presidente degli Stati Uniti e dei nostri magistrati di sorveglianza: tuttavia il meccanismo psicologico è simile. C’è un’altra, essenziale differenza. Che i nostri magistrati hanno a che fare, almeno formalmente, con detenuti di cui è stato accertato un reato. Obama decide di persone detenute senza imputazioni né processo regolare, e in alcuni casi di accertata non colpevolezza, benché se ne dichiari una pericolosità. Nel caso di Guantánamo, la durata e le condizioni di detenzione sono così brutali che basterebbero da sole a fare di chi le subisce, fosse anche la più innocente delle persone, un pericoloso vendicatore. Si può dire che questo è un caso esemplare di una violenza che si vuole legale ed eccita una violenza opposta, al punto di vietare a se stessa ogni ritirata. Un sequestro di persona che impedisce la liberazione del sequestrato, anche quando sia diventato un ingombro, perché la sua libertà è una minaccia. È un circolo vizioso, dal quale si potrebbe uscire solo se le pressioni di opinione per la chiusura di Guantánamo diventassero più forti delle pressioni dei poteri per tenerla aperta. Ipotesi remota. Ma ecco che la paradossale casistica antiterrorista offre un’altra spettacolare contraddizione. L’amministrazione di Guantánamo tiene forzatamente in vita persone che considera nemiche, impedisce violentemente loro di morire. Alla rovescia che nella pena di morte, li condanna alla pena di vita, per così dire. Morti, la danneggerebbero più che da vivi. All’origine di questa ondata di scioperi della fame -quasi cento- sta un ennesimo sequestro di Corani, e forse la morte di un altro detenuto digiunatore, yemenita anche lui, il 6 febbraio. Io conosco una galera, è ripugnante, feroce, normale. Il mio solo vantaggio è che sono più di un altro spinto a immaginare come possa essere Guantánamo. “ Siamo in tanti a digiunare ora, che non ci sono abbastanza operatori dello staff medico qualificati per eseguire le nutrizioni forzate; niente avviene a intervalli regolari. Alimentano le persone in continuazione per tenergli dietro”. Poi leggiamo che a Guantánamo, essendo i digiunatori a oltranza arrivati al numero di 100 su 166 (secondo uno dei difensori, sono addirittura 136), sono stati fatti affluire 42 nuovi medici e infermieri per far fronte all’emergenza. Io chiudo gli occhi, e provo a vedere 92 celle con 92 corpi legati mani e piedi ai loro giacigli o alle loro sedie, e cinquanta medici e infermieri che corrono dall’uno all’altro a spingere a forza il sondino nei 92 nasi e a infilare l’ago nelle 92 mani, una catena di montaggio della sopravvivenza e di smontaggio della vita e dell’umanità. Non so se sia mai esistito qualcosa del genere. Di peggiore sì, di più brutale ancora, di più malvagio, di più. Ma una cosa così, no. E adesso completiamo l’impressione sulla contraddizione dei carcerieri che tengono forzatamente in vita i loro nemici giurati, se non altro perché li hanno catturati quando non era ancora arrivato il tempo dei droni, della eliminazione anonima e da lontano, senza l’odore dei corpi. I combattenti “kamikaze” avevano inventato su larga scala, a leve ininterrotte, l’arma della propria morte. Come si può intimidire e reprimere chi non ha paura di morire, e anzi vi aspira? È intervenuto qui un contrappasso al dannato culto americano per la pena di morte. Li si fa vivere a forza. No, non vivere, sopravvivere. L’alternativa di quei prigionieri senza processo non è fra la vita e la morte: è fra la morte e la sopravvivenza non voluta. Il suicidio è vietato loro, anche quel più disperato e tenace suicidio che consiste nel lasciarsi morire. Chi ritenga di avere un’obiezione insuperabile al diritto delle persone a suicidarsi, il diritto riconosciuto nel cantone di Zurigo al detenuto morto di inedia, ha qui un caso concreto col quale misurare la propria intransigenza. A Guantánamo si tengono persone, a tempo illimitato, in una condizione tale da far loro preferire la morte, e proibendo loro di morire. Postilla. Quello che succede nell’estremo infernale di Guantánamo, succede, più vicino e mortificato, anche in una comune galera nostra. Che si trattino i detenuti in modo tale da indurli a desiderare il suicidio - e infatti si suicidano. Dopo si protesta che bisognava impedirlo con una vigilanza più occhiuta. Una vigilanza occhiuta ed efficace, che impedisca a chi vuole suicidarsi di farlo, è impossibile: e se fosse possibile -cella nuda, detenuto nudo, pareti imbottite, occhio del sorvegliante o della telecamera sempre acceso- toglierebbe al sorvegliato qualunque desiderio che non fosse quello di ammazzarsi, o di essere ammazzato. Alla prima distrazione. Non penso che i nemici non esistano. Il Vecchio Testamento è tutto una storia di nemici. Quanto al Nuovo, dice che bisogna amarli, non dice che non esistono. Ci si può arrovellare senza fine attorno a questa aporia. L’altra guancia è una meravigliosa metafora, ma non riesce ad avere ragione della realtà: non per me, almeno. Non per esempio quando la prima guancia e la seconda non sono le tue, ma quelle di un’altra o un altro, e quegli altri ti sono affidati, o finiscono feriti sulla tua strada. Mi dico che un criterio -uno dei tanti, uno particolare, non universale, non risolutivo- è che non dovrai mai essere così duro col tuo nemico che la vergogna e la compassione suscitate dal tuo modo di trattarlo eccedano e quasi cancellino le sue malefatte, per enormi che siano. (A volte, quel trattamento è inflitto a un nemico senza malefatte -ulteriore incidente). Questo succede con i prigionieri di Guantánamo. E non invocherò un calcolo economico: Guantánamo che costerà, è già costata, agli Stati Uniti -e non solo a loro, “a noi”- più di una battaglia perduta, eccetera. Piuttosto la condizione umana, che non è, a differenza dall’economia, relativa. A Guantánamo sono detenuti all’infinito, senza il diritto a un processo giusto, 166 uomini. Stanno fuori dalla geografia degli Stati e del diritto, su un brandello di Cuba che è extraterritoriale e extralegale, un altro pianeta. Ma sono umani. In quella condizione estrema, a mani nude e corpi esausti, quei prigionieri si sono ribellati lo scorso 14 aprile contro un nuovo trasferimento da un dormitorio comune a celle separate. La ribellione è stata sedata a colpi di “proiettili non letali”. Mi sono arrovellato attorno alla tortura da quando ero ragazzo. Nella educazione dei ragazzi della mia generazione teneva una parte rilevante, difficile da immaginare oggi, l’aspettativa di una prova che misurasse il coraggio fisico, la lealtà, la fedeltà all’ideale e alla propria comunità. Almeno nel mio caso, prima che alla Resistenza e alla sinistra, quell’educazione era improntata al Risorgimento e all’irredentismo, e a modelli di abnegazione dal segno politico indeterminato: i ragazzi dei racconti mensili del libro Cuore (ancora) o i ragazzi della via Pal, per esempio. Si sarebbe stati coraggiosi di fronte al nemico? Si sarebbe stati dignitosi e fieri nelle mani del nemico? Si sarebbe avuta la forza di resistere, e di non tradire i propri compagni e la propria fede? Riassumo così il nocciolo di un’educazione maschile del dopoguerra, che poteva diventare una tensione intima dell’autoformazione personale. Su quell’idealismo generico e però sentito come un destino si innestavano poi le conoscenze contemporanee e le prime esperienze civili. Io avevo 16 anni quando uscì per Einaudi “La tortura” di Alleg. In quell’educazione - nel mio caso, almeno, ma non credo che fosse raro - prevaleva una dimensione “militante”, che avrebbe assunto forme diverse e via via più definite, ma serbando quel fondo, frutto di una guerra calda appena conclusa, di una guerra fredda virulenta, e di molte guerre locali scandalose in corso, coloniali, civili, partigiane. Era la premessa per un piccolo racconto personale: ho fatto un’esperienza, benché eccentrica, di tortura. Ho agonizzato a notte fonda in una cella di carcere, dopo che mi si era spezzato l’esofago. La mia cella era un cubicolo di due metri e mezzo per uno e mezzo, con un cesso alla turca separato dal cuscino della branda da un muricciolo di 30 centimetri. Su quel cesso sono restato a giacere, svenuto e poi incapace di muovermi, nel vomito, nel sangue, nelle feci e nell’urina. Assieme al dolore, mi batteva nella mente la frase: “Inter faeces et urinam nascimur”, e il suo complemento, inter faeces et urinam moriamo. Trovai la forza di battere alla parete, i miei vicini chiamarono al soccorso, fui trasportato all’ospedale. Ebbi pochi brevi momenti di lucidità prima d’essere operato d’urgenza e posto in coma indotto, e ci restai per molti giorni. Tre giorni dopo l’intervento, fui tracheostomizzato. Clinicamente, ero del tutto privo di conoscenza. Tuttavia, man mano che una specie di conoscenza distorta affiorava -non potetti parlare per un mese, e le mie mani avevano disimparato a scrivere - l’effetto degli anestetici possenti che avevo ricevuto, specialmente il curaro, credo, avevano indotto in me una spaventosa paranoia. Mi trovavo nel luogo di un sequestro, nelle mani di torturatori segreti. Essi non sapevano che mi accorgessi della loro presenza e delle loro manovre. Più tardi avrei scherzato con loro di quel terribile delirio. Il capo della mia rianimazione, una giovane persona meravigliosa con una gran barba nera, era per me Verchovenskij. Lo scopo di quella banda era di torturarmi, umiliarmi e costringermi a tradire me stesso. In un sotterraneo adiacente alla mia camera di tortura erano sepolti vivi i miei compagni di carcere, obbligati a stare ammassati nei loro escrementi. Per solidarietà con loro, io dovevo riuscire a rifiutarmi di defecare e urinare, come si pretendeva invece da me per umiliarmi. Sentivo che se avessi saputo resistere, sarebbero tornati a uccidermi. Arrivai a credere che i miei famigliari fossero, perché ingannati o perché corrotti, complici della persecuzione. Muto com’ero, ero certo di raccontare loro tutti i dettagli della congiura contro me e i miei compagni, e non potevo rassegnarmi alla loro inerzia. C’era un infermiere anziano che veniva regolarmente a malmenarmi, e chiedevo a mio figlio di comprare dei gamberoni per corromperlo e salvarmi dalle sue brutalità. (In carcere i gamberoni erano la posta prediletta delle partite di calcio o di carte: un giorno alla settimana si potevano ordinare alla spesa). Quel delirio era così vivido -mai nella vita, affatto alieno come sempre fui a ogni droga, ho sperimentato una simile lucidità- che ancora stasera mi pare che mio figlio mi abbia salvato in cambio dei gamberoni. Da allora (sono passati più di sette anni) ho un’idea precisa, terribile e affascinata della paranoia. Ma anche della tortura. In quei primi giorni doveva essere escluso che avessi qualunque percezione della realtà esterna, e tuttavia io fui aggredito da uomini bianchi che mi immobilizzarono e vollero sgozzarmi, e solo in extremis, con una sovrumana ribellione, riuscii a difendermi con un braccio (i miei arti e tutto il mio corpo erano immobili) e a deviare una pugnalata alla mia gola. Fu, credo, il mio modo di percepire la tracheostomia e di battermi contro di essa. La lunga vicenda clinica che attraversai (fui fuori pericolo di vita solo a mesi di distanza e altri interventi) fu per me, per tutto quel primo periodo, una orribile esperienza di tortura: ed era una cura mirabile per dedizione e per bravura di tante persone. In questo mio modo, provo a stare nella pelle nuda di un torturato. Di uno che non delira, che ha ragione di aspettare in ogni istante del giorno e della notte un persecutore spietato e arbitrario. Di un corpo in totale balia d’altri, che giocano col suo dolore e la sua mortificazione, che lo spingono fino alla soglia della morte per negargliela e tornarne indietro, così da non rinunciare al proprio gioco. Il gioco degli aguzzini si addestra nel rapporto che gli umani, a volte anche i bambini, instaurano con gli animali catturati e tormentati. Non riesco a credere che la tortura sia un mezzo, magari penoso e angoscioso, per un fine superiore, per avere notizie, per salvare vite minacciate. Io credo che la tortura sia il compiacimento che prende la mano di chi ha in proprio potere pieno un corpo altrui, un altro ridotto a nudo corpo. È come quando si avverte a non lasciare che il proprio animale da preda prenda gusto al sangue, perché non si riuscirà più a farlo tornare indietro. Il torturatore che abbia infierito, da solo o più probabilmente in gruppo, sul proprio ostaggio, non potrà più accettare che esso torni alla vita. Non potrà sopportare che cammini nel mondo qualcuno che conosca un simile segreto di lui. È per questo che in certi stupri di banda le torture più efferate prendono il sopravvento sulla stessa bruta soddisfazione sessuale e si concludono con l’assassinio della vittima. D’altra parte nella tortura il fantasma della sessualità entra sempre violentemente. E ora torniamo a Guantánamo. Lo Human Rights Report 2012 del Dipartimento di Stato Usa sull’Italia -pubblicato lo scorso 19 aprile- è un documento molto interessante. È ampio e dettagliato. Limitiamoci qui all’iniziale indice ragionato. “I problemi maggiori riguardo ai diritti umani comprendono la costante incarcerazione dei detenuti in attesa di giudizio con i criminali condannati, le condizioni di vita al di sotto della soglia accettabile in carceri sovraffollate e centri di detenzione per immigranti privi di documenti, e il pregiudizio generale che diventa in alcune situazioni locali maltrattamento dei Rom, esasperando la loro esclusione sociale e riducendo il loro accesso all’educazione, alle cure sanitarie, all’occupazione e ad altri servizi sociali. Altri problemi per i diritti umani comprendono un impiego eccessivo e abusivo della forza da parte della polizia in alcuni episodi, un sistema giudiziario inefficiente che non offre sempre una giustizia rapida, la corruzione governativa, la violenza e le molestie contro le donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, e il vandalismo antisemita. Ci sono casi di traffico per lo sfruttamento sessuale e del lavoro. Gli osservatori hanno riferito anche di casi di violenza contro persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (lgbt) e di discriminazione della forza lavoro fondate sull’orientamento sessuale. Il lavoro minorile e lo sfruttamento di lavoratori irregolari costituiscono anch’essi un problema, specialmente nel sud”. Nel Rapporto si sottolinea altresì l’assenza nel codice italiano del reato di tortura “e di altri trattamenti o punizioni crudeli, inumane o degradanti”. Si legge tutto ciò con attenzione e apprezzamento. Imputati in attesa di giudizio trattati come i condannati, condizioni carcerarie indegne, lentezza dei processi, assenza del reato di tortura… D’un tratto però la memoria di chi legge inciampa in quel nome: Guantánamo. Dal pulpito di Guantánamo. Ecco un esempio dello scotto che gli Stati Uniti pagano alla supposta convenienza di quel carcere extraterritoriale ed extralegale. Dal punto di vista dell’Italia, è poco più di un paragone che toglie credibilità alla fonte americana, e reciprocamente offre un alibi alle malefatte della giustizia italiana. Ma proviamo a immaginare la portata del paragone in Yemen, o in Afghanistan, o in Pakistan (quanto alla Cina, pubblica da 15 anni per ritorsione un suo “Human Rights Record of the United States”, affare di propaganda ufficiale: il cui pezzo forte sono naturalmente Guantánamo Bay e le strutture di detenzione della Cia). Guardata dai luoghi del mondo in cui cova il terrorismo islamista, Guantánamo costa lo scandalo dei cuori, già più di una battaglia perduta. Valle d’Aosta: ultima riunione della legislatura per l’osservatorio sulle carceri Agenparl, 3 maggio 2013 Si è svolta oggi a Palazzo regionale l’ultima riunione, nell’attuale XIII Legislatura, dell’Osservatorio sulle carceri. L’incontro, presieduto dal Presidente della Regione, è stata l’occasione per fare il punto con tutti i presenti su quanto è stato realizzato in questi anni e sui progetti ancora in cantiere. A partire dalla riunione del 5 dicembre 2008, l’Osservato rio si è riunito regolarmente ogni sei mesi, in un confronto che ha coinvolto i rappresentanti dei diversi settori interessati dall’attività e dallo sviluppo della Casa circondariale di Brissogne. Come ha sottolineato il Presidente, malgrado i quasi cinque anni trascorsi siano stati anni difficili sia per la crisi economica, con le sue ricadute sociali, sia per i continui mutamenti e le incertezze nel Governo italiano che non hanno agevolato la ricerca di soluzioni ai problemi, l’Osservatorio ha comunque posto una grande attenzione alla situazione carceraria nella regione, anche nell’ambito del Protocollo di intesa sottoscritto con il Ministero della Giustizia. Tra gli elementi di maggiore soddisfazione è stato evidenziato come la Casa circondariale di Brissogne possa contare oggi, rispetto al 2008, su una direzione stabile, grazie al Provveditorato e al direttore Minervini, una condizione questa nettamente migliorativa per i detenuti come per la Polizia penitenziaria, per i Comuni e la Regione. E soddisfazione è stata anche espressa per il bilancio delle attività di formazione e professionalizzazione dei detenuti, realizzate con la collaborazione del Dipartimento Politiche del Lavoro e della Formazione e grazie al contributo fondamentale offerto dal volontariato. Le iniziative cofinanziate dal Fse e rivolte alla popolazione detenuta hanno coinvolto, nell’ultimo quinquennio , 328 soggetti, impegnati in vari tipi di progetti, dai laboratori espressivi e artistici, ai progetti di formazione per cuochi, per camerieri di sala, per addetti alle aree verdi, per giardinieri vivaisti, e altri ancora. Tra le iniziative, il Presidente ha ricordato il progetto della lavanderia, ormai vera e propria realtà produttiva, che impiega 7 detenuti. È invece in cantiere un altro progetto, “Brutti e buoni”, per la realizzazione di un laboratorio di panificazione, all’interno dell’Istituto carcerario, per il quale saranno formati 10 detenuti, mentre la Direzione della Casa Circondariale sta provvedendo all’allestimento dei locali per la nuova attività. Accanto ai corsi di formazione, hanno avuto grande importanza anche i corsi di alfabetizzazione linguistica e informatica, grazie alla collaborazione tra la Sovrintendenza agli Studi, il Direttore Minervini e il personale educativo dell’Istituto penitenziario: nei cinque anni hanno partecipato ai corsi di alfabetizzazione per la lingua italiana 142 allievi, mentre ai corsi di informatica, avviati dal 2009, hanno aderito 91 detenuti. Il Presidente ha ricordato poi le iniziative intraprese nell’ambito del progetto Percorso di legalità: tempi e spazi di legalità, che hanno riscosso l’interesse degli studenti e degli stessi detenuti attraverso incontri e visite didattiche presso la Casa circondariale, in un’ottica di dialogo e scambio reciproco. In ultimo, ma non meno significativa, è stata l’istituzione in Valle d’Aosta del Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, competenza che la legge regionale 1° agosto 2011, n. 19, ha attribuito al Difensore civico, che già dallo scorso dicembre ha sottoscritto un Protocollo d’Intesa con la Direzione della Casa circondariale di Brissogne. Accanto a questi risultati più che soddisfacenti, è stata sottolineato invece, con rammarico, come resti ancora da attuare il trasferimento alla Regione, da parte dello Stato, delle competenze in materia di medicina e sanità penitenziaria, ambito per il quale, tuttavia, il sistema regionale non ha mai mancato di intervenire. A questo proposito, il Presidente ha però informato i presenti di aver ricevuto assicurazioni per una soluzione della questione in tempi brevi. Per concludere, dopo un rapido accenno al fatto che la Presidenza della Regione sta valutando la possibilità di sostenere la realizzazione di un campetto sportivo in erba sintetica all’interno dell’Istituto penitenziario, il Presidente ha ringraziato tutti i presenti per la fattiva collaborazione prestata in questi anni, sottolineando come i risultati raggiunti siano il frutto dell’impegno congiunto e dello sforzo prestato da tutti, Istituzioni, Casa circondariale, operatori e mondo del volontariato. Brescia: tubercolosi e sovraffollamento, il dramma del carcere di Canton Mombello Brescia Oggi, 3 maggio 2013 Il dramma del carcere bresciano. Un sovraffollamento che viola l'idea stessa di dignità umana. Detenuti ammassati, poca igiene, letti a castello che arrivano al soffitto e non permettono nemmeno di aprire le finestre. Caterina Pagani: "Un dramma che continua da troppo tempo". Ieri pomeriggio, nella sede di Radio Onda d’Urto è stata presentata l’interrogazione parlamentare sulla situazione sanitaria a Canton Mombello. Il rappresentante del comitato “Chiudiamo il carcere lager di Canton Mombello”, Giuseppe Corioni, ha introdotto parlando dell’esposto presentato il 10 Aprile scorso al procuratore della Repubblica di Brescia, al Ministro della Giustizia, al Prefetto e al Sindaco Paroli, alla Direttrice del carcere e alla Corte Europea dei diritti dell’uomo: “Volevamo denunciare una situazione intollerabile sotto ogni profilo”, soprattutto per le condizioni igienico-sanitarie in cui i detenuti sono costretti a vivere. Recentemente è stato riscontrato in un detenuto un caso di Tubercolosi. Da qui l’urgenza di trovare soluzioni a pessime condizioni di vita, anche per evitare che si verifichi un contagio: “Perché non si diffonda la Tubercolosi, c’è bisogno di areazione e a Canton Mombello il continuo ammassamento di letti a castello non consente neanche di aprire le finestre”. Luigi Lacquaniti, deputato di Sinistra Ecologia e Libertà e autore dell’interrogazione parlamentare, ha visitato personalmente le carceri e ha potuto vedere con i propri occhi le condizioni in cui versano i detenuti: “Quello che ho visto è inimmaginabile. Nelle celle ognuno ha a disposizione circa 1 m/q ed è necessario fare i turni per stare in piedi. Le ore d’aria sono ridotte a 2, il resto del tempo lo si passa stipati nella cella”. L’esposto, presentato in Parlamento, ha superato il vaglio dell’Ufficio di Presidenza delle Camere. Al ministero si chiede chiarezza rispetto al caso del ragazzo malato di TBC attiva: “Avrebbe contratto la malattia in Africa, ma vogliamo sapere se ci sono stati altri casi in carcere. Chiediamo delle garanzie sulle condizioni sanitarie a Canton Mombello e che siano adottate misure concrete per superare questa situazione fortemente critica”. Uno dei problemi più gravi riguarda il sovraffollamento delle carceri. I posti a disposizione sono 208, ma oggi sono stipati nella struttura circa 600 detenuti. Le leggi che avrebbero causato questa insostenibile situazione sono principalmente tre: la legge Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti, l’ex Cirielli e la Bossi-Fini con la creazione del reato di clandestinità. “In carcere ci sono tante persone che non dovrebbero starci - spiega ancora Lacquaniti. Ci sarebbe bisogno di pene alternative, che purtroppo il Tribunale bresciano continua ad essere restio a proporre. Spesso queste pene alternative non sono prese in considerazione per mancanza di domicilio del detenuto. In molte città si è ovviato fornendo alloggi a queste persone, sfruttando strutture disabitate. Invece, a Brescia non succede quasi mai". A detta del Comitato, inoltre, il sindaco Paroli sembra completamente disinteressato all'argomento, e i tanti appelli avanzati sono rimasti lettera morta. “La costruzione di nuovi carceri, oltre al costo troppo elevato, non ha senso. C’è bisogno di strutture da utilizzare per il recupero e la rieducazione dei carcerati”, sottolinea Caterina Pagani, rappresentante del “Comitato famigliari”, da tempo desidera un intervento della Chiesa bresciana, auspicandosi “che dia un aiuto concreto, fornendo degli spazi adeguati per le pene alternative. Il carcere dovrebbe diventare una realtà viva della città e la popolazione non può rimanere indifferente di fronte a questo dramma che continua ormai da troppo tempo”. Napoli: a Poggioreale i detenuti ristrutturano le celle… ecco l’umanità del carcere di Giulio Sensi www.volontariatoggi.info, 3 maggio 2013 Suor Lidia fa volontariato in carcere da più di 35 anni. Ha visto crescere e mutare gli istituti di pena partenopei, come Secondigliano e Poggio Reale, quest’ultimo, in particolare, uno dei più difficili ed affollati del nostro Paese. Volontaria del carcere, si è sperimentata anche come curatrice di un libro importante uscito nel 2005 intitolato “Nostalgie di innocenza”, che raccoglie le sue corrispondenze con le storie di vita di varie generazioni di detenuti. Suor Lidia, è cambiato negli anni il volontariato in carcere? È cambiato molto perché il carcere è diventato una scatola trasparente, non si riesce più a mascherare nulla all’interno ed è cambiato anche il senso di attenzione. Sembra che non sia successo nulla, ma fra leggi e provvedimenti la società ha camminato anche nei confronti del carcere. In proporzione a tanti bei discorsi e probabile che non sia eccessivo il cambiamento, ma cammina. Succede anche qualcosa di positivo oltre ai problemi che si leggono ogni giorno sui giornali? C’è più attenzione, perché in carcere ci stanno entrando anche persone “importanti” che portano fuori la voce. A Poggio Reale, ad esempio, per mancanza di fondi si sta ristrutturando un padiglione in economia, spostando di stanza i stanza i detenuti i quali partecipano ai lavori e danno un loro contributo. Aiutano come possono. Questo accade anche grazie all’impegno della direttrice Teresa Abate, la quale, avendo poco denaro a disposizione ha trovato una soluzione alternativa. Come funzionano i lavori? Si vuota una cella, si stringono in altre celle i detenuti, si ristruttura, cercando di aggiungere qualche impianto in più per fare in modo che la vita sia più dignitosa. I detenuti sono più partecipi e più soddisfatti. Hanno un beneficio di pulizia e funzionalità. Ad esempio diversi di loro oggi possono fare la doccia in camera. E questo accade in uno dei padiglioni più problematici del carcere, il padiglione Napoli. Le porte del carcere sono aperte al volontariato? A Poggiò Reale e Secondigliano ci sono molti volontari che entrano, soprattutto quando fanno parte di un gruppo e di un’associazione, ci sono anche volontari singoli. Negli anno ‘80 erano peggiori le condizioni, c’è stata un umanizzazione interna, anche fra gli agenti, che collaborano molto di più e ci segnaliamo i casi con delicatezza. Certo, l’ambiente non aiuta, i problemi sono molti. La mancanza d’aria e il cemento davanti alla porta mandano in crisi le persone. Si potrebbe fare anche di più, con più volontari, ma già si fa tanto. Roma: tra Prap, Asl e Garante riparte il tavolo tecnico sulla sanità penitenziaria www.romatoday.it, 3 maggio 2013 Il Tavolo coinvolge l’azienda Roma F, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria del Lazio, i vertici degli istituti penitenziari di Civitavecchia e i rappresentanti dell’Autorità Garante per i detenuti della Regione Lazio. Riprendono gli incontri periodici nell’ambito del tavolo tecnico tra l’azienda Roma F, il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria del Lazio, i vertici degli istituti penitenziari di Civitavecchia e i rappresentanti dell’Autorità Garante per i detenuti della Regione Lazio. Alla riunione di martedì scorso, voluta dal commissario della Asl Roma F Giuseppe Quintavalle, si è fatto il punto sullo stato delle varie iniziative messe in campo già dagli anni scorsi dalla Asl Roma F sul piano dell’assistenza sanitaria per i detenuti nei penitenziari situati nel territorio di competenza. Nell’incontro, in particolar modo, si sono esaminate alcune recenti normative regionali che, in attuazione della riforma nazionale del 2008, prevedono l’effettuazione di una ricognizione particolareggiata degli ambienti destinati all’erogazione di prestazioni ambulatoriali e supporti specialistici, che analogamente a quello già avvenuto per le competenze sanitarie, entreranno quanto prima nella giurisdizione completa dell’azienda sanitaria, ottenendo l’accreditamento regionale. È stato inoltre comunicata l’individuazione di percorsi riservati ai detenuti nelle attività ordinarie della chirurgia dell’ospedale San Paolo, per dare risposte immediate e di rapida dimissione e alcune patologie urgenti. Il commissario dell’azienda sanitaria ha inoltre informato i presenti di una serie di ulteriori iniziative in sinergia con il Comune di Civitavecchia, che saranno volte all’inserimento di reclusi in attività produttive nella logica della delocalizzazione e dell’inserimento a pieno titolo delle problematiche dei detenuti tra quelle dei cittadini del comprensorio. Ma non solo. Il commissario straordinario della Asl Roma F ha proposto anche l’organizzazione di un workshop dedicato interamente al miglioramento ulteriore e alla integrazione organizzativa delle pratiche sanitarie e delle terapie di supporto psicologico, attività assistenziali (in questi casi primarie) destinate a quella particolare tipologia di cittadini posti temporaneamente in stato di restrizione della libertà. Sulmona (Aq): i detenuti realizzano modulo abitativo in legno grazie al corso del Cescot www.rete5.tv, 3 maggio 2013 Il Cescot Abruzzo - Officina dei sapori - dona al carcere di Sulmona il “modulo abitativo in legno” realizzato dagli allievi del “corso di qualifica per falegnami” nell’ambito del progetto sfide - sistema integrato di formazione per detenuti ed ex detenuti. L’iniziativa rientra tra quelle finanziate dalla Regione Abruzzo - Fse 2007/2013 - Piano Operativo 2009-2010-2011 - Progetto Speciale Multiasse “Programma di inclusione sociale” - Asse 2 Occupabilità, Asse 3 Inclusione Sociale - Linea di intervento 4 Detenuti e Ex Detenuti. Grazie soprattutto alla fattiva collaborazione con l’Istituto di Pena di Sulmona, si è conclusa con successo la Prima Fase del Progetto Sfide i cui obiettivi sono l’inserimento e/o il reinserimento di detenuti ed ex detenuti. Lo fa sapere il direttore del Cescot, Angelo Pellegrino. Nel corso delle Attività Pratiche relative al “Corso di Qualifica per Falegnami”, gli internati ed i detenuti iscritti, hanno realizzato “Modulo Abitativo in Legno”. Si tratta di un’opera di valore sociale notevole, soprattutto perché realizzato da soggetti che hanno dovuto acquisire e/o implementare le proprie conoscenze e competenze nel campo della falegnameria, in pochi mesi e con notevoli difficoltà oggettive. Il Modulo è stato progettato dai Docenti Architetti Gianfranco Conti, Giuliano Di Menna, Danila Ferrari e Lucia Secondo, con l’assistenza tecnica del maestro Costantino Pace. Il CE.S.CO.T. Abruzzo ritiene opportuno che il manufatto realizzato rimanga nella disponibilità del Carcere di Sulmona, destinandolo preferibilmente all’uso diretto, all’esterno dell’Istituto, dei familiari degli internati e detenuti, soprattutto nella fase di attesa di incontrare i loro congiunti ristretti. In questi giorni, gli otto allievi, assistiti dal Maestro falegname Costantino Pace, stanno provvedendo all’installazione del “Modulo abitativo in legno” i cui pezzi sono stati realizzati nell’attività pratica svolta nel Laboratorio posto all’interno del carcere. Tutta l’attività di cui al progetto Sfide, è stata resa possibile grazie alla collaborazione del Direttore del Carcere di Sulmona, Dottor Massimo Di Rienzo, della Dottoressa Fiorella Ranalli, responsabile dell’Area educativa dello stesso Istituto e di tutto il Corpo della Polizia Penitenziaria. Nei prossimi giorni verrà definita la data e i dettagli della cerimonia ufficiale di consegna del Modulo in legno. Gli otto internati/detenuti sono: Hichman Hichi, Giuseppe Longo, Maurizio Picchio, Mohamed Samir, Antonio Vitiello, Angelo Corradino, Raffaele Afeltra, Francesco Gucciardo, Antonio Grimaldi. Firenze: Sappe; agente di Polizia penitenziaria muore d’infarto a Sollicciano Adnkronos, 3 maggio 2013 Un assistente capo di Polizia Penitenziaria di 49 anni è improvvisamente morto in servizio a causa di un infarto nel carcere di Firenze Sollicciano. “È una notizia tremenda, che ha sconvolto tutti noi e in particolare i colleghi di Firenze”, commenta Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe. “L’assistente capo era di turno al block house di Sollicciano. Si tratta di un posto di servizio di grande responsabilità, che svolge il primo filtro all’accesso alla struttura penitenziaria - sottolinea Capece. Il collega lavorava lì da molti anni proprio per la sua grande professionalità, le sue capacità e per il suo attaccamento al servizio. Benvoluto da tutti i colleghi per la sua simpatia, la sua umanità e la sua serietà, era anche un iscritto di lunga data del Sappe. La tragedia nella tragedia è che la moglie è incinta: il collega sarebbe infatti diventato papà tra pochi mesi. E ciò rende, per quanto possibile, ancora più straziante questa ingiusta ed improvvisa tragica scomparsa”. Roma: l’8 maggio presentazione Progetto “Sigillo”, imprenditorialità delle donne detenute Agenparl, 3 maggio 2013 Mercoledì 8 maggio, alle ore 11, a Roma, presso la sede del Museo Criminologico, via del Gonfalone, 29, conferenza stampa di presentazione del Progetto Sigillo, la prima agenzia nazionale di coordinamento dell’imprenditorialità delle donne detenute, un nuovo modello di economia sostenibile. Obiettivo dell’agenzia, prima nel suo genere in Italia e in Europa, è quello di curare le strategie di prodotto, comunicazione e posizionamento sul mercato di quanto realizzato dalle donne detenute nei laboratori sartoriali avviati in alcuni dei più a affollati istituti penitenziari italiani. Attorno alle cooperative sociali protagoniste del progetto i rappresentanti del “socially made in Italy”, di quell’eccellenza italiana che sa abbinare alla massima qualità di tessuti, stile e prodotto, l’attenzione al bene comune dentro e fuori le mura delle proprie aziende. È questa la produttività di cui Sigillo vuole essere l’emblema. Le best practice invitate al tavolo indetto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono realtà del mondo no profit. Un segnale di disponibilità e di volontà di iniziare nuove forme di dialogo tra un mondo, quello carcerario, che ha mani e tempo da spendere in attività lavorative e le eccellenze dell’imprenditorialità italiana, capaci di innovare il modo di essere prima e il modo di fare poi. Così in una nota il Ministero della Giustizia. Varese: M5S in visita alle carceri varesine; ai Miogni abbiamo visto un degrado assoluto www.varesenews.it, 3 maggio 2013 La senatrice Laura Bignami e la consigliera regionale Paola Macchi: “A Busto c’è un padiglione nuovo e mai utilizzato: che senso ha se intanto l’altra struttura ha così tanti problemi?” Si torna nuovamente a parlare della situazione molto difficile delle carceri in provincia di Varese. L’occasione è la visita di due esponenti del Movimento 5 Stelle - la senatrice Laura Bignami e la consigliera regionale Paola Macchi - alle due case circondariali: quella dei Miogni a Varese e quella di Busto Arsizio. Il quadro descritto non varia rispetto a quello che purtroppo abbiamo imparato a conoscere bene negli ultimi anni. “Ai Miogni c’è veramente una situazione di degrado assoluto - spiega Macchi, membro in Consiglio regionale fa parte della commissione speciale sulla carceri - che impatta sia sulla vita delle persone detenute che degli operatori”. Situazione difficile, ma meno “drammatica”, a Busto dove comunque vive il doppio della popolazione carceraria teorica. “Qui però abbiamo visitato un’ala nuova, completa, destinata a persone disabili, e mai utilizzata - continua la consigliera -. È strano pensare che da una parte c’è una situazione di sovraffollamento e degrado inaccettabili e dall’altra uno spazio così. Ci chiediamo perché nessuno abbia pensato di utilizzarlo”. Sembra, ci spiega Macchi, che ci sia un “problema burocratico all’origine, ma porterò il problema in commissione per approfondire la questione”. Per quanto riguarda Varese, da architetto, Macchi ritiene che “ristrutturare l’edificio sia molto difficile. Anche l’ampliamento, data la sua posizione in centro, non mi sembra una via praticabile”. L’obiettivo ora è quello di visitare anche le altre carceri lombarde e studiare bene la situazione nella commissione regionale. “Fare proposte - conclude Macchi - è il motivo per cui si fa parte di una commissione”. Genova: Sappe; al carcere di Marassi due risse, brevi ma violente, tra detenuti www.primocanale.it, 3 maggio 2013 Giornata ad alta tensione, quella di ieri, nel carcere genovese di Marassi. Due gruppi distinti di detenuti si sono fronteggiati in poche ore in due distinte risse, per fortuna senza gravi conseguenze. “In una delle due si sono contrapposti detenuti italiani e sudamericani”, spiega Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Le risse, brevi ma violente, solo per il pronto intervento degli Agenti di Polizia Penitenziaria non hanno avuto peggiori conseguenze in una struttura sovraffollata come il carcere genovese di Marassi, nel quale considerevole è anche la carenza di poliziotti rispetto agli organici previsti”. Il Sappe auspica infine che il Governo Letta “arrivi lì dove i precedenti Esecutivi hanno fatto poco: e cioè riesca a trovare accordi affinché gli stranieri scontino la pena nei Paesi d’origine, a cominciare da quelli dai quali provengono maggiormente i detenuti stranieri: Romania, Tunisia, Marocco, Algeria, Albania, Nigeria. Un detenuto - ricorda Martinelli - costa in media circa 200 euro al giorno allo Stato italiano, soldi che quasi mai vengono rimborsati nelle casse statali”. Siracusa: prende il via al carcere di Brucoli la “Casetta sportiva dei bambini” www.insulareport.it, 3 maggio 2013 Si aprirà lunedì 6 maggio alle ore11.00 con la conferenza stampa, l’iniziativa benefica “Casetta sportiva dei Bambini”, che rientra nel progetto C.O.N.I. Sicilia “Sport è vita” nel Carcere di Brucoli (Siracusa). “Agevolare i colloqui tra genitori e figli senza barriere divisorie, l’inserimento di giochi e piccole attrezzature sportive per favorire l’approccio dei figli di detenuti attraverso un incontro privilegiato in cui spazio e tempo siano adattati ed adeguati ad accogliere i minori, sono i temi del progetto che vuole il genitore protagonista nei giochi con il bambino in linea con lo scopo della “Casetta sportiva dei bambini”. È questa la mission del progetto, come spiega Paola Cortese, Responsabile del Coni Sicilia per i rapporti con le Carceri, che si è concretizzato grazie anche alla generosa partecipazione della Fondazione “Siracusa è Giustizia” e di altri illustri donatori come Sasol Italy, nonché all’impegno diretto del presidente del Coni Sicilia, Giovanni Caramazza e del Presidente della Fondazione “Giustizia è Siracusa”, Paolo Ezechia Reale. L’iniziativa è stata fortemente voluta e accolta dal Direttore del Carcere di Brucoli, dott. Antonio Gelardi, e rientra tra le attività trattamentali a favore della rieducazione e del reinserimento nella società del detenuto che vedrà una fortissima collaborazione del corpo di polizia penitenziaria. Alla conferenza stampa sarà presente l’on Salvo Fleres, Garante dei diritti dei detenuti siciliani. “La casetta sportiva dei bambini prevede l’allestimento, per i bambini che si recano in carcere a far visita al genitore, di un ambiente strutturato e attrezzato, tale da attenuare, almeno in parte, l’impatto con la struttura penitenziaria e dove la valenza del gioco potrà contribuire direttamente alla crescita del proprio figlio trasformando il detenuto in un ruolo attivo. È prevista prevede anche un’area esterna, luogo in cui allentare e allietare le tensioni dell’attesa del genitore. Una occasione di incontro di sport e di gioco che possa favorire il dialogo tra genitore e figlio. Una importante occasione - conclude Paola Cortese - per attivare un percorso di riflessione tra i detenuti, tra solidarietà emotiva ed istintiva ed una partecipazione attiva, matura e responsabile a favore dell’infanzia dei propri figli”. Libri: la redenzione oltre l’abisso dell’orrore in “Il male ero io”, di Pietro Maso di Isabella Spagnoli Gazzetta di Parma, 3 maggio 2013 È la storia di un assassino, la storia di un uomo, di un pentito che in tanti anni di carcere ha saputo allontanare il lato oscuro ritrovando la fede religiosa, quella raccontata da Pietro Maso, con l’aiuto della giornalista Raffaella Regoli, nel libro “Il male ero io”. “In ogni momento della mia vita penso a quello che ho fatto. E in ogni momento con uno sforzo carico di dolore, vado a caccia di quei frammenti e guardo in faccia la realtà, senza alibi. Non è stato per niente facile. Ci sono voluti vent’anni di carcere e quasi altrettanti di preghiera”. È il 17 aprile del 1991 quando Pietro Maso, un ragazzo di paese come tanti, orrendamente uccide i suoi genitori con l’aiuto di tre amici. Pietro vive a Montecchia di Crosara e immagina un futuro diverso da quello di mamma e papà. Guarda la televisione e sogna belle macchine, soldi in abbondanza, donne affascinanti. Maso sogna la ribellione, non vuole diventare un contadino, mira a una vita da star “...una vita di successo. Oltre oceano gli uomini avevano bicipiti abbronzati e scolpiti, e non anonime braccia votate alla fatica. Dicevi Miami e tutti sapevano dov’era. Dicevi Montecchia di Crosara e non riuscivi a trovarla neppure sulla cartina. Anonimo il paese, anonime le vite che lo abitavano. Appartenevano a una generazione che non si riconosceva più nei nonni, nei padri”. La soluzione più facile gli sembra uccidere, per denaro e per il miraggio di un’esistenza diversa; ma quel crimine infinitamente atroce segna l’esistenza di Pietro che viene condannato a trent’anni di carcere (con l’indulto e gli sconti di pena per buona condotta sono diventati ventidue). Da poche settimane Maso è un uomo libero, un uomo diverso che, attraverso le pagine crude di questo suo memoriale, racconta il travaglio passato, i sensi di colpa, la durezza della reclusione e infine il conforto della preghiera, la salvezza trovata nella fede. Una testimonianza aspra, folle e al tempo stesso lucidissima che induce il lettore a diverse riflessioni. Dinnanzi alla descrizione del Male, che in Pietro ha preso vita in molteplice forme, viene da chiedersi il perché, e l’attenzione va alla frase di Bertolt Brecht che appare all’inizio della prefazione di Raffaella Regoli: “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”. Il male ero io Mondadori, pag. 189, € 17,00 Stati Uniti: cosa succede a Guantánamo Il Post, 3 maggio 2013 Perché se ne riparla: più di 100 detenuti sono in sciopero della fame, Obama ha detto di nuovo che il carcere va chiuso ma non ci sono soluzioni semplici Da settimane si è tornati a parlare con insistenza del carcere di Guantánamo, a oltre dieci anni da quando, l’11 gennaio 2002, i primi venti detenuti accusati di terrorismo arrivarono alla prigione militare di massima sicurezza allestita dagli Stati Uniti a Cuba dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Secondo fonti ufficiali americane oggi a Guantánamo ci sarebbero circa 100 detenuti in sciopero della fame. Gli avvocati dei prigionieri sostengono che il numero è ancora maggiore, circa 130 su 166 detenuti totali. A fronte del peggioramento delle condizioni dei prigionieri e delle loro manifestazioni di protesta, il 30 aprile Obama è tornato a parlare della chiusura del carcere - che ha più volte promesso, ma non ha ancora ottenuto - sostenendo che quello che sta accadendo nel carcere a Cuba danneggia l’immagine e la posizione internazionale degli Stati Uniti. Fin dalla sua istituzione, il carcere di Guantánamo diventò uno dei simboli della politica estera dell’amministrazione George W. Bush e della gestione emergenziale e poco rispettosa dei diritti dei prigionieri. Di Guantánamo si parla a fasi intermittenti da allora: seguendo la richiesta di molte organizzazioni umanitarie e di difesa dei diritti umani, Barack Obama fece della chiusura di Guantánamo uno dei punti centrali della sua campagna elettorale del 2008. Uno dei suoi primi atti da presidente fu proprio la firma su un ordine esecutivo di chiusura del carcere, ma la proposta venne bocciata dal Congresso: Guantánamo restò aperta. Cosa è successo negli ultimi tre mesi a Guantánamo Le condizioni dei detenuti sono peggiorate molto rapidamente, soprattutto a causa degli scioperi della fame. I primi scioperi sono iniziati nel febbraio 2013, ma erano stati negati dalle autorità carcerarie. Lunedì 14 aprile il New York Times ha pubblicato la trascrizione di una telefonata fatta da Samir Naji al Hasan Moqbel, cittadino yemenita detenuto nella prigione di Guantánamo dal 2002, ai suoi avvocati dell’organizzazione no-profit “Reprieve”. Moqbel, uno dei detenuti che avevano iniziato lo sciopero della fame a Guantánamo a marzo, spiegava le conseguenze della sua scelta, raccontando con molti particolari le condizioni di alimentazione forzata a cui è stato sottoposto: raccontava in particolare il dolore di farsi infilare forzatamente il tubo dell’alimentazione giù per il naso, e altri episodi di soprusi, tra cui la decisione delle autorità del carcere di dare ai detenuti in sciopero solo acqua non potabile, per farli desistere. Martedì 30 aprile Rupert Colville, il portavoce dell’Onu per i diritti umani, aveva detto che l’alimentazione forzata che si sta verificando a Guantánamo è anche una probabile violazione dei diritti umani: “Se l’alimentazione forzata avviene contro la volontà di chi la subisce, allora secondo la World Medical Association e secondo noi, questa pratica dovrebbe essere considerata un trattamento crudele, inumano e degradante che non è permesso dal diritto internazionale”. Il presidente dell’American World Association, il dottor Jeremy Lazzaro, aveva espresso posizioni simili in una lettera mandata il 25 aprile al segretario della Difesa americano Chuck Hagel: “Qualsiasi paziente nelle sue piene facoltà mentali ha il diritto di rifiutare l’intervento medico, inclusi quelli di sostegno vitale”. Obama, di nuovo: chiudiamo Guantánamo Il 30 aprile, dopo avere deciso di inviare una quarantina di infermiere e altro personale specializzato a Guantánamo per curare i detenuti in gravi condizioni di salute, Obama è tornato a parlare di una possibile chiusura del carcere: “Non voglio che queste persone muoiano. Ovviamente il Pentagono sta cercando di gestire la situazione al meglio, ma penso che tutti noi dovremmo riflettere sull’esatto motivo per cui stiamo facendo questo. Perché stiamo facendo questo” Le dichiarazioni del presidente riprendono quanto fatto da Obama il 22 gennaio 2009: due giorni dopo il giuramento da presidente degli Stati Uniti, Obama firmò un ordine esecutivo che imponeva la chiusura di Guantánamo entro un anno. Una commissione avrebbe riconsiderato la situazione di ciascuna delle 241 persone allora detenute e avrebbe deciso quali avrebbero affrontato un processo e quali invece sarebbero state trasferite in strutture statunitensi. Ad aprile 2009 la commissione concluse che solo per venti o trenta persone si sarebbe potuto istruire un processo mentre per tutte le altre i servizi segreti possedevano del materiale, ma niente o quasi che potesse essere usato davanti a una corte. Il 20 maggio del 2009 il Senato bocciò con 90 voti contro 6 la proposta di stanziare 80 milioni di dollari per chiudere Guantánamo e di trasferire i prigionieri in un carcere di massima sicurezza dell’Illinois. La votazione fu un colpo molto duro per il governo, e il fatto che anche quasi tutti i senatori democratici avessero votato contro la chiusura dimostrava che la retorica repubblicana stava colpendo nel segno: i repubblicani insistevano e non volevano sul suolo americano “alcuni degli uomini più pericolosi del mondo”. Obama avrebbe potuto comunque autorizzare i trasferimenti grazie ai cosiddetti “waiver powers”, ovvero una specie di potere di delega di cui dispone il Presidente su alcune questioni. Decise di non farlo, probabilmente perché tra le tante battaglie che si apprestava a dover fare con il Congresso, Guantánamo era un tema su cui non pensava fosse necessario insistere. Favorevoli e contrari alla chiusura di Guantánamo La situazione a Guantánamo è oggi di completo stallo. Le recenti dichiarazioni di Obama sembrano andare in direzione contraria rispetto a quanto deciso solo pochi mesi fa, a gennaio 2013, quando l’amministrazione rimosse Daniel Fried dal suo incarico di inviato speciale per la chiusura della prigione, senza assegnarlo a qualcun altro. All’interno degli stessi Stati Uniti le posizioni su Guantánamo sono molto diverse. Il 16 aprile scorso un gruppo indipendente americano aveva presentato un rapporto in cui si definivano le condizioni dei prigionieri “ripugnanti e intollerabili” e si auspicava la chiusura del carcere entro la fine del 2014, ovvero in coincidenza della fine della missione NATO in Afghanistan. La chiusura del carcere è sostenuta anche da chi ritiene eccessiva la spesa necessaria a mantenerlo aperto - che è superiore a quella prevista per qualsiasi centro detentivo ordinario. Le opposizioni arrivano soprattutto dal Congresso. Dopo le dichiarazioni di Obama, Howard McKeon, presidente repubblicano della Commissione della Camera per i servizi armati, ha ribadito che esiste un’opposizione bipartisan a Obama sul tema della chiusura di Guantánamo. Secondo McKeon, Obama sarebbe rimasto ambiguo rispetto a uno dei problemi più grandi relativi alla chiusura del carcere, cioè cosa fare dei molti detenuti che sembra sia troppo rischioso rilasciare ma che allo stesso tempo non è possibile perseguire. Non esisterebbero alternative valide nemmeno riguardo ai terroristi che potrebbero essere catturati in futuro. Ricapitolando. Rilasciare i detenuti è complicato perché spesso i loro paesi originari non sono disposti ad accoglierli, e ci sarebbero pesantissime conseguenze politiche se uno di questi dovesse fare un attentato dopo essere stato rilasciato. Anche processarli è complicato e costoso: i procedimenti durerebbero anni, la loro protezione richiederebbe centinaia di milioni di dollari. In tutto questo il Congresso americano ha deciso di non decidere, e il carcere di Guantánamo rimane esattamente com’era, congelato, con 166 persone dentro. Pakistan: rappresaglia in india per morte “spia”, in coma detenuto Reuters, 3 maggio 2013 All’indomani del decesso in ospedale a Lahore di un detenuto indiano, in carcere da diciassette anni per spionaggio e picchiato selvaggiamente il giorno prima da due compagni di prigionia pakistani, in India è scattata la rappresaglia: nel penitenziario di Jammu, capitale invernale dello Stato conteso del Kashmir, è stato assalito da un prigioniero locale un recluso originario del Pakistan, condannato per omicidio, che ora si trova ricoverato in coma e lotta per la vita dopo aver subito gravissime lesioni alla testa. L’apparente ritorsione, a quanto sembra originata da una lite sui fatti di Lahore, è inevitabilmente destinata a far inasprire ulteriormente la sempre latente tensione tra i due Paesi, tradizionali rivali per la supremazia regionale. Indonesia: madre coraggio francese diventa angelo dei detenuti Tm News, 3 maggio 2013 Quando suo figlio è stato arrestato a Bali per spaccio di droga, Hélène Le Touzey ha lasciato tutto, lavoro, casa e famiglia ed è partita per l’Indonesia. Dopo 12 anni suo figlio è ancora in prigione, condannato all’ergastolo, e lei si è trasformata in un angelo anche per tutti gli altri detenuti di cui ha cominciato a prendersi cura prima sporadicamente e poi sempre più frequentemente. “All’interno della prigione Michael mi diceva, sai mamma ci sono ci sono prigionieri che tu potresti aiutare, per la spesa ad esempio visto che le guardie raddoppiano i prezzi”. Così Hélène ha cominciato a dare una mano agli altri detenuti, non solo dal punto di vista economico. “Io vedo qualcuno che ha un problema e cerco di portare il mio piccolo contributo, un sorriso, di fargli capire che non è solo e che può contare su qualcuno”. Un aiuto apprezzato dai detenuti come l’olandese Josh Bensen. “C’è una sola cosa che manca ad Hélène - dice - ed è un’aureola d’angelo sopra la testa”.