Giustizia: la strage delle donne e i negazionisti di buona volontà di Adriano Sofri La Repubblica, 31 maggio 2013 C’è una vera ragione di allarme sulle donne uccise, o c’è un allarmismo colposo o doloso? Si è andata ampliando la reazione negatrice, fino a diventare una campagna. Lo scandalo sul femminicidio è montato lentamente e tardissimo. Ha da subito eccitato dissensi troppo aspri e ottusi per non essere rivelatori. C’è stato anche chi ammoniva che gli uomini uccisi sono più numerosi delle donne uccise: vero, salvo che il confronto va fatto fra le donne uccise da uomini e gli uomini uccisi da donne, e allora diventa irrisorio. Strada facendo, le obiezioni si sono irrobustite, valendosi anche di una (effettiva) carenza di statistiche esatte. All’ingrosso, si è negato che le uccisioni di donne siano cresciute in numeri assoluti, e si è sottolineato che la crescita - impressionante - nella loro quota relativa rispetto al totale degli omicidi è dovuta solo alla riduzione degli altri omicidi, soprattutto quelli di mafia. Prima di motivare i dubbi sulla prima affermazione - il numero di femminicidi che resta sostanzialmente stabile nel tempo e nei luoghi - sbrighiamo la seconda: se nel complesso degli omicidi c’è una rilevante riduzione, e quelli contro donne restano inalterati, vuol dire che la nostra convivenza migliora tranne che nei rapporti fra uomini e donne. A questa allarmante constatazione si aggiunge l’altra. Abbiamo alle spalle (recenti) un mondo patriarcale e un codice penale che giudicavano con sfrenata indulgenza, o con malcelata simpatia, gli uomini che ammazzavano le “loro” donne; e ora ci illudiamo di vivere in un mondo più affrancato dai pregiudizi e più libero per tutti. Anzi, un altro dato, secondo cui le uccisioni di donne sono molto più frequenti al nord che al sud, segnala una relazione complicata se non inversa fra liberazione dei costumi e insofferenza maschile. Rinvio, per una replica generale, al blog di Loredana Lipperini (“Il fact-screwing dei negazionisti”, 27 maggio). Per parte mia, faccio alcune obiezioni peculiari. Nella discussione “specialista” al neologismo “femminicidio” si è aggiunto da tempo l’altro “femicidio” (sono latinismi passati attraverso aggiustamenti anglofoni): il primo alludendo alle vessazioni che le donne subiscono da parte di uomini, il secondo all’assassinio. Il binomio mi sembra privo di senso e comunque di utilità, e tengo fermo il solo termine di femminicidio come, alla lettera, uccisione di donne. Gli obiettori all’esistenza di una “emergenza di femminicidi” hanno capito che la categoria riguardi le donne uccise da loro mariti e amanti e fidanzati o ex-mariti, ex-amanti, ex-fidanzati (e padri e fratelli…), dunque “dal loro partner”. Questa delimitazione è frutto di un significativo fraintendimento. È vero, e raccapricciante, che la gran parte delle violenze e delle stesse uccisioni di donne è perpetrata dentro le mura domestiche, dove i panni andavano lavati, cioè sporcati, al riparo da sguardi estranei. Ma questa selezione statistica toglie altre circostanze in cui donne vengono uccise “perché donne”. Addito le prostitute assassinate. Piuttosto: non “le prostitute”, ma le donne che si prostituiscono; correzione essenziale, se appena riflettiate alla differenza, di spazio e di emozione, fra i titoli che dicono “donna uccisa” o “prostituta uccisa”. Gli assassinii di prostitute sono molti e orrendi. Gran parte dei detenuti per omicidio di un carcere non speciale hanno ammazzato la “loro” donna, o una, o più, prostitute. Non è femminicidio? Per bassezza di rango? O perché le prostitute non hanno padre, coniuge, fidanzato, e gli assassini non sono i loro “partner”? Ma lo sono senz’altro. Nel caso delle prostitute, l’assassino è “il loro partner”. Basta a renderlo tale la cifra che sborsa o promette per il prossimo quarto d’ora, o il loro stare su un marciapiede a disposizione di chi le voglia e prenda a nolo. La nudità esposta delle prostitute da strada - le più allo sbaraglio - è per loro un modo di aderire, per la durata della loro fatica, all’alienazione di sé, di sospendere la propria identità salvo rientrarvi a nottata passata; per gli uomini, è la manifestazione denudata dunque resa astratta e universale - come la moneta, corpo che sta per tutti i corpi - del piacere che può loro venire, della loro indigente questua di badanti sessuali. La gelosia maschile è così diversa da quella femminile (come attesta la sproporzione di botte e coltellate, salvo che la si riduca alla differente muscolatura) perché noi uomini intuiamo e temiamo una superiorità sessuale femminile, una disposizione al piacere che nessuna presunzione amorosa può del tutto addomesticare. Lo sapevano gli antichi, e ne avevano confidato al mito la memoria anche dopo aver ridotto le donne in cattività, prime fra gli animali domestici. Ne hanno ereditato la nozione, pur non sapendo più spiegarla né spiegarsela, e dandola falsamente come una prescrizione religiosa, le società che si dedicano scrupolosamente a mutilare le bambine degli organi sessuali, mutando in strumenti di dolore e anche di morte una fonte di piacere renitente al comando. (Ricordiamo il catalogo: “Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie di lui, né il suo schiavo e la sua schiava, né il suo bue né il suo asino…”). Alle donne che fanno le prostitute gli uomini prendono a basso costo e basso rischio un surrogato alla violenza casalinga e amorosa: come le bambole sulle quali i medici cinesi visitavano le loro pazienti vestite, le prostitute sono le fidanzate momentanee e traditrici su cui infierire. “Non era che una puttana”. Romena, russa, bielorussa, nigeriana: “Uccisa una nigeriana”. Titoli in corpo piccolo (si chiama così la statura delle lettere a stampa, corpo), al di sotto del femminicidio consacrato. Vuoi mettere, si dirà, una nigeriana uccisa con la ragazza quindicenne che ci ha spezzato il cuore? Certo che no. Eppure sì. È affare di noi uomini. Le donne che fanno le prostitute e partono ogni sera per la più asimmetrica delle guerre civili la sanno lunga, su noi, che esitiamo a seguire il filo dei pensieri fino al punto in cui fa il nodo. È seccante rileggere i più bei frutti della nostra creatività letteraria e artistica per scorgervi la rovina del Grande Delinquente che ha ucciso la puttana perché l’amava e la voleva solo per sé. I volontari della campagna anti-scandalismo sul femminicidio protestano che una morte vale un’altra: la ragazza massacrata vale il pensionato rapinato (qualcuno si spinge a confrontare le uccisioni di donne con le vittime degli incidenti stradali!). Che si distingua chi perseguiti o uccida qualcuna o qualcuno perché è donna - o perché è gay, o perché è ebreo, o nero - sembra loro un’insensibilità costituzionale. Il paragone con le minoranze è improprio: le donne sono la sola maggioranza brutalizzata. Le leggi, dicono, valgono per tutti. È vero, e riconoscono aggravanti particolari. Come spiegano Lipperini e Murgia - e tante altre - occorre a un capo l’impegno culturale e all’altro capo il sostegno materiale ai centri antiviolenza. Aggravare le pene è il riflesso condizionato di legislatori di testa leggera e mano pesante. Di una sola misura c’è bisogno, più efficace a impedire di nuocere a chi ha minacciato, picchiato e molestato abbastanza da annunciare l’esito assassino. Qui è il punto penale: solo in apparenza preventivo, perché quelle minacce e molestie e violenze, quando siano accertate, sono già sufficienti alla repressione che il femminicidio attuato renderà postuma. La minimizzazione del femminicidio si presenta come un’obiezione al sensazionalismo. Si potrà dire almeno che ha avuto una gran fretta. Si sono ammazzate donne per qualche migliaio di anni, per avidità amorosa e per futili motivi: da qualche anno si protesta ad alta voce, e già non se ne può più? Giustizia: l’Italia continua a ignorare l’emergenza carceri, nonostante l’ennesima condanna di Eleonora Mongelli www.libertiamo.it, 31 maggio 2013 L’Italia non ha più scuse, entro un anno dovrà risolvere il problema del sovraffollamento carcerario e rientrare nella legalità che da oltre vent’anni viola. Così ha confermato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, rigettando il ricorso del Governo Monti sulla sentenza dello scorso gennaio la quale chiedeva all’Italia, oltre al risarcimento a sette detenuti per il trattamento inumano e degradante a cui sono stati sottoposti, di porre rimedio con urgenza a quella realtà carceraria che ci umilia in Europa e nel mondo. Eppure, di quel sovraffollamento strutturale di cui parla la Cedu, la classe politica italiana ne era al corrente da anni. Da anni si denunciano gli spazi angusti per cui a volte i detenuti devono fare i turni nelle celle per stare in piedi, le condizioni igienico-sanitarie disastrose, l’assenza di privacy, anche durante l’utilizzo del water, la poca luce che filtra dalle finestre bloccate, l’assenza di attività ricreative a causa del personale penitenziario sotto organico, costretto a lavorare in situazioni sempre più critiche. Ciò non è bastato. Non è bastata neanche l’umiliazione di avere atteso un’altra condanna della Corte Europea per far sì che la politica si assumesse le sue responsabilità. Anzi, come da prassi per il nostro Paese, invece di trovare una soluzione al problema, ci si ingegna per trovare un modo che permetta di procrastinare i termini di scadenza entro cui si è esortati a porre rimedio al problema. Così è stato anche questa volta. Se la sentenza Torreggiani arriva in un momento storico in cui la sistematica violazione dell’art. 3 della Convenzione Cedu non poteva più essere ignorata, se non ha sorpreso più di tanto né Napolitano, che commentò la notizia come “una mortificante conferma dell’incapacità del nostro Stato a garantire i diritti dei reclusi”, né l’allora Ministro Severino che si disse “avvilita ma non stupita”, si è preferito ricorrere comunque ad un escamotage che permettesse di guadagnare qualche mese al fine di scaricare il tutto al governo successivo. Ed è così che, tra mortificanti conferme e mancati stupori, il ministro della giustizia dello scorso governo Monti ha deciso di rispondere alle sue responsabilità con un ricorso dall’intento chiaramente dilatorio. Non sorprende nessuno, infatti, che la Cedu abbia rigettato quel ricorso i cui motivi erano visibilmente pretestuosi e che abbia richiamato l’Italia nuovamente alle sue responsabilità, ricordando che quando lo Stato non è in grado di garantire a ciascun detenuto condizioni detentive conformi all’articolo 3 della Convenzione, è esortato ad agire in modo da ridurre il numero di persone incarcerate, applicando misure punitive non privative della libertà e riducendo al minimo il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Queste raccomandazioni sono purtroppo rimaste sulla carta e, mentre l’Italia guadagnava tempo, ventidue suicidi di detenuti si sono consumati nelle nostre carceri dall’inizio dell’anno. Intanto, c’è ancora chi pretende di risolvere la questione tramite progetti di edilizia carceraria, come se il sovraffollamento non riguardasse anche quel 40% di detenuti nelle nostre carceri in attesa di giudizio. Per l’Italia però è finito il tempo di fare finta che non esista un’emergenza carceraria. Non si può più negare che quella della giustizia non sia l’urgenza del Paese. La verità che emerge da questa condanna è che ogni giorno che passa, lo Stato italiano è responsabile di quei trattamenti inumani e degradanti a danno di migliaia di persone. Non c’è più tempo per i discorsi pieni di buoni propositi, per i finti provvedimenti, che nel susseguirsi delle varie legislature si sono rivelati strutturalmente ininfluenti ed hanno aggravato la situazione. È il momento di avanzare proposte efficaci, come può essere quella di un’amnistia, alla quale dovrà seguire una riforma organica della giustizia. Il conto alla rovescia per il Governo e per il Parlamento è già iniziato, resta meno di un anno per restituire dignità e legalità alla nostra giustizia e a tutto il Paese. Giustizia: un anno per ripristinare la legalità. 82 anni, tre tumori, che ci sta a fare in cella? di Valter Vecellio Notizie Radicali, 31 maggio 2013 La notizia è importante. Per questo è sostanzialmente ignorata? La notizia è questa: la Corte europea dei diritti dell’uomo ha definitivamente accolto il ricorso presentato da sette detenuti di Busto Arsizio e Piacenza contro il sovraffollamento carcerario. L’Italia è condannata per trattamento inumano e degradante: ha un anno di tempo per trovare una soluzione al sovraffollamento e risarcire i detenuti che ne sono vittime. È una sentenza che costituisce precedente: praticamente tutti i detenuti delle carceri italiane possono presentare richieste di risarcimento alla corte di Strasburgo, e ottenere analoga soddisfazione. Il precedente Governo Monti aveva presentato ricorso, tentativo evidente di guadagnare tempo e fermare le lancette dell’orologio. Ma la Corte europea ha respinto il ricorso, e ora quelle lancette si sono rimesse in moto: a maggio del 2014, ci dice l’Europa, la questione dovrà essere risolta. Una disperata corsa contro il tempo. I radicali una road map per la giustizia, cosa fare, da dove cominciare lo dicono e lo sanno. Chi è contrario e si oppone all’amnistia, oltre al patetico pio pio e bla bla di queste settimane, che cosa offrono e propongono? Attualmente, dice il Dap, in Italia ci sono circa 47mila posti-carcere. Sulla carta però. Se si tiene conto dei molti padiglioni definiti inagibili, i posti si riducono a 40-41mila reali. E sono oltre 60mila le persone che vi vengono stipate. Questa la situazione, e, come abbiamo detto, abbiamo appena un anno di tempo per porvi rimedio. Il segretario della Uil Penitenziaria, Eugenio Sarno dice: “Il preventivato rigetto del ricorso presentato avverso la sentenza della Cedu impone all’Italia di trovare quelle soluzioni che non sono state trovate da cinquant’anni. Ne sovviene che per regolarizzare, sebbene temporaneamente, la situazione all’interno delle carceri il Governo e il Parlamento non hanno alternativa dal promulgare un provvedimento di indulto e amnistia”. Di questo è andato a parlare l’altro giorno con il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri; che fedele al suo costume, ha diligentemente preso nota, non ha detto SI, ma neppure NO. Ma risposte andranno date con urgenza. Lo impone l’Europa, lo impone un elementare senso di umanità che non dovrebbe abbandonarci neppure di fronte ai casi più efferati e laceranti. Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, per esempio, segnala il caso di un detenuto di 82 anni, malato di tumore alla prostata, alla vescica e alla gola, rinchiuso nel carcere romano di Rebibbia. Per un reato commesso nel 2004 deve scontare una pena di tre anni. La legge è legge; ma ha senso tenere in carcere una persona come questo detenuto? Perché nel suo caso non si applica la pur prevista misura alternativa alla detenzione in carcere? Tanto più che il detenuto, a causa del sovraffollamento del penitenziario, è “ospitato” in quella che era sala per il ping pong, trasformata da tempo in una cella per 15 detenuti e con un solo bagno alla turca a disposizione. Giustizia: la ricerca infermieristica entra in carcere, studio su aderenza cure diabete Adnkronos, 31 maggio 2013 Per la prima volta la ricerca infermieristica entra nelle carceri italiane grazie ad uno studio sperimentale multicentrico avviato in questi giorni dal Centro di eccellenza per la cultura e la ricerca infermieristica (Cecri) promosso dal Collegio Ipasvi di Roma. La ricerca coinvolge diversi istituti penitenziari e almeno 50 pazienti diabetici detenuti. L’obiettivo scientifico è quello di misurare il livello di educazione terapeutica del detenuto affetto da malattia cronica e di migliorarne l’adesione alle cure prescritte. “Le condizioni di reclusione sempre più critiche nelle carceri italiane e il bisogno di salute che cresce nella popolazione detenuta - avverte il Collegio Ipasvi - necessitano di uno sforzo ulteriore nella prevenzione e nel trattamento delle patologie. Fra le malattie croniche il diabete rappresenta una delle patologie più diffuse nella popolazione detenuta”. L’infermiere opportunamente formato riconosce i bisogni assistenziali, individua le priorità, eroga la necessaria assistenza e fornisce informazioni corrette al paziente detenuto diabetico. Lo studio, partito nei giorni scorsi con il primo evento formativo svolto a Roma e terminerà fra un anno con la presentazione dei risultati, punta a fornire agli infermieri che operano in ambito penitenziario competenze specifiche dell’educazione terapeutica e nella metodologia della ricerca. Attraverso una serie di eventi formativi presso gli istituti di pena partecipanti al progetto, gli infermieri vengono addestrati all’uso del protocollo di ricerca e ad analizzarne l’impatto sul miglioramento delle condizioni di salute dei detenuti diabetici. Lo studio punta a fornire agli infermieri che operano in ambito penitenziario competenze specifiche dell’educazione terapeutica e nella metodologia della ricerca. Attraverso una serie di eventi formativi (tutti accreditati Ecm) presso gli istituti di pena partecipanti al progetto, gli infermieri vengono addestrati all’uso del protocollo di ricerca e ad analizzarne l’impatto sul miglioramento delle condizioni di salute dei detenuti diabetici. “La ricerca si inserisce perfettamente nelle linee strategiche del Centro di eccellenza - sottolinea il presidente del Collegio degli infermieri di Roma e direttore del Cecri, Gennaro Rocco - per i suoi possibili effetti sulle aree di maggiore fragilità sociale come quella delle comunità confinate. In questo campo l’impegno del Collegio è massimo e non ci stancheremo di sostenere programmi di lavoro che valorizzino gli aspetti umani, relazionali e deontologici della professione infermieristica”. Il nuovo progetto di ricerca del Cecri prevede cinque fasi, coinvolge gli infermieri delle aree sanitarie delle carceri interessate nella raccolta dei dati e si articola in modo fortemente interattivo in un fitto programma di lezioni magistrali, esercitazioni in aula, discussione di casi clinici e role playing. Lo studio è partito nei giorni scorsi con il primo evento formativo svolto a Roma e terminerà fra un anno con la presentazione dei risultati. Lombardia: lavori di ampliamento delle carceri, da settembre i posti in più saranno 700 www.igoweb.it, 31 maggio 2013 Sempre piene zeppe, vi stiamo parlando del carcere presente in Lombardia. Oltre ai diversi problemi economici, per l’ amministrazione penitenziaria c’è anche da sudare per assicurare ai detenuti i servizi, come quelli educativi, anche se secondo questo aspetto manca molto personale, visto che per riabilitare i disabili non c’ è praticamente nessuno, inoltre, la sezione dedicata a tutto ciò è già ferma da 6 anni. Il provveditore Aldo Fabozzi nella giornata di ieri ha fatto sapere come nella maggior parte delle Carceri in Italia si abbiano gli stessi identici problemi, sicuramente bisognerebbe prendere le giuste precauzioni. Un’ interessante notizie c’ è, infatti, sono iniziati ufficialmente i lavori per riuscire ad ampliare nel migliore dei modi tutti i carceri, che nel giro di qualche anno potranno garantire 700 e passa posti in più, parlo in generale, prosegue Fabozzi. Sempre Fabozzi ha inoltre voluto sottolineare la vicenda dello scandalo successa nel carcere della città di Varese: è stato sicuramente un decreto di chiusura rimasto lettera morta, è un’ edificio che non rispetta assolutamente i regolamenti verso i detenuti, veramente inguardabile, ha commentato il consigliere Pd Fabio Pizzul, entro qualche giorno la commissione farà visita alle carceri di Varese, una cosa è sicura, l’ Italia ha bisogno di nuovi innesti in tutti i carceri. Liguria: chiusura degli Opg, pronto progetto per residenza detenuti con problemi psichici Ansa, 31 maggio 2013 È stato già inviato al ministero il programma della Regione per ospitare 20 pazienti psichiatrici autori di reato, a seguito del passaggio della salute penitenziaria dalla Giustizia alla Sanità che prevede il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, con i conseguenti accordi con le Regioni per ospitare i pazienti interessati. La Liguria, come ha riferito questa mattina in Giunta l’Assessore alla salute, Claudio Montaldo, ospiterà 20 pazienti psichiatrici autori di reato in una struttura residenziale per l’esecuzione delle misure di sicurezza a Calice al Cornoviglio, in provincia della Spezia, dove lavoreranno a regime infermieri, operatori socio-sanitari, terapisti della riabilitazione psichiatrica, assistenti sociali, psichiatri e psicologi. “Il programma - ha riferito Montaldo - ha già avuto una prima approvazione dal Ministero della Salute e quando sarà definita la parte economica, verranno assegnati alla Liguria, dal Ministero della salute, i 6 milioni previsti con cui far partire i lavori di ristrutturazione che consentiranno di creare una struttura sanitaria ad alta sicurezza”. Varese: la Regione in visita al carcere dei Miogni…. e torna l’ipotesi della chiusura www.varesenews.it, 31 maggio 2013 Incontro in commissione speciale Carceri con il provveditore regionale Aldo Fabozzi. Sul tavolo anche il tema del reparto per disabili di Busto pronto dal 2007, ma fermo. L’ipotesi della chiusura dei Miogni torna a farsi strada. Nella seduta della commissione speciali Carceri in Regione, i consiglieri regionali ne hanno discusso con il provveditore regionale del dipartimento di Amministrazione penitenziaria Aldo Fabozzi. Proprio Fabozzi qualche mese fa aveva parlato dell’ipotesi di chiudere la struttura di Varese e di trasferire le persone detenute - a seguito di un ampliamento - nella Casa circondariale di Busto Arsizio. “Quella di Varese - ha dichiarato Fabozzi - è una struttura inadeguata che è anche oggetto di un decreto nazionale di chiusura che è rimasto lettera morta. È un edificio totalmente in contrasto con le norme che regolamentano la vita dei detenuti, dove non sono pensabili interventi massicci anche di ampliamento vista la posizione nel centro cittadino”. L’ipotesi continua ad essere quella del trasferimento a Busto: il provveditore ha parlato di un intervento di ristrutturazione di un’ala attualmente vuota. A seguito dell’intervento del Provveditore regionale, la Commissione ha quindi fissato una visita ufficiale al carcere di Varese (in programma settimana prossima) e di conseguenza la firma di una risoluzione all’unanimità da portare in Aula consiliare. “I dati emersi oggi in Commissione - ha detto il presidente Fabio Angelo Fanetti - sono importanti perché c’è la volontà concreta di affrontare la questione del sovraffollamento delle carceri con l’ampliamento di alcuni istituti e anche di portare avanti progetti che introducono una visione diversa dal carcere non esclusivamente luogo di detenzione e pena”. Sul tavolo della discussione è arrivato anche il tema del reparto di Busto dedicato ai detenuti disabili completamente fermo e vuoto. Un altro problema, infatti oltre al reperimento di risorse per fronteggiare le spese correnti, riguarda gli educatori (mancherebbe all’appello il 50% del personale necessario) e gli operatori sanitari necessari ad avviare l’attività del reparto di riabilitazione per disabili a Busto Arsizio. Fabozzi ha ricordato infatti che questa sezione esiste dal 2007 ma a tutt’oggi resta inattiva per mancanza del personale medico, che la Asl dovrebbe fornire. Proprio su questo la commissione ha chiesto di incontrate l’assessore alla Sanità Mantovani. L’incontro è stata anche l’occasione per fare nuovamente il punto sui numeri - sempre più preoccupanti - del sovraffollamento con le due critictà maggiori: a Milano 1687 detenuti contro 1100 circa di tollerabilità e a Busto Arsizio 408 carcerati contro un limite di tollerabilità di 297 presenze. Livorno: la Gorgona da isola-carcere a vigneto; dai detenuti 2.700 bottiglie di bianco doc di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 31 maggio 2013 Progetto della cantina Frescobaldi. Il vino prodotto, a base di Vermentino e Ansonica, venduto nelle enoteche di tutta Italia. L’ultima isola carcere dell’arcipelago toscano; una famiglia nobilissima; vino sopraffino. E detenuti (che in quell’isola si muovono liberi) capaci di diventare dei viticoltori di qualità. Si chiama “Frescobaldi per Gorgona” il progetto presentato ieri a Roma dal ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri e in pochi anni potrebbe trasformare il volto dello “scoglio”, una frazione del comune di Livorno, lunga tre chilometri, larga due e distante trentasette chilometri dalla costa toscana. Nell’isola sono residenti una settantina di persone che da sempre vivono accanto ai carcerati (oggi una cinquantina) della colonia penale, una prigione a cielo aperto, dove sono stati sperimentati progetti all’avanguardia (soprattutto quando direttore è stato Carlo Mazerbo, un grande innovatore) di allevamento e di itticoltura. Ma adesso, con la scesa in campo dei marchesi Frescobaldi e della loro sapienza vinicola, l’isola carcere potrebbe trasformarsi in un paradiso enologico e allo stesso tempo dare una possibilità in più di recupero per i detenuti. “È una bella iniziativa: la moltiplicheremo come i pani e i pesci”, ha detto ieri la ministra Cancellieri presentando il progetto finanziato dalla Cassa Ammende del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e realizzato con la collaborazione tra la direzione della casa di reclusione di Gorgona e “Marchesi dè Frescobaldi”, l’azienda di vini toscana con oltre 700 anni di storia. I Frescobaldi sono proprietari sull’isola diversi ettari. Il carcere di Gorgona può inoltre contare su un’azienda agricola con circa 400 capi di bestiame e che produce anche olio e formaggio. Il vino “Gorgona”, prodotto in collaborazione con i detenuti è un bianco a base di Vermentino e Ansonica e da giugno le 2.700 bottiglie prodotte per ora saranno presenti nei migliori ristoranti ed enoteche italiane. Anche il sindacato della polizia penitenziaria Sappe ha valutato positivamente l’iniziativa. “Ogni progetto finalizzato a rendere rieducativa la pena attraverso il lavoro dei detenuti è sempre una buona notizia perché diminuisce notevolmente la tensione detentiva di chi oggi sta in cella anche 22 ore al giorno”, ha scritto in una nota Donato Capece, segretario generale del Sappe. Che però sprona l’amministrazione a fare di più per “per far lavorare tutti i detenuti, impiegando i soggetti con pene brevi di minore allarme sociale in progetti per il recupero del patrimonio ambientale, come la manutenzione e della pulizia dei parchi e delle ville comunali della città e della pulizia dei greti dei torrenti”. Firenze: prima tappa della mobilitazione contro il sovraffollamento nel carcere Sollicciano di Riccardo Chiari Il Manifesto, 31 maggio 2013 Sarà quello fiorentino di Sollicciano il primo carcere italiano dove domani si raccoglieranno anche fra i detenuti le firme della campagna “Tre leggi per la giustizia e i diritti. Tortura, carceri, droghe”. Una mobilitazione che in due mesi ha già portato a raccogliere più di 20mila firme fra i cittadini liberi. E punta a 50mila entro luglio, per promuovere le proposte di legge di iniziativa popolare già depositate in Cassazione. Un obiettivo da raggiungere anche con il contributo di chi è costretto a stare dietro le sbarre. “Firenze sarà la prima tappa - spiega Franco Corleone - poi toccherà alle carceri di Milano, di Roma e di molte altre città”. L’iniziativa annunciata dal garante fiorentino dei detenuti arriva dopo la recentissima decisione della Corte di Strasburgo di respingere il ricorso italiano, confermando l’obbligo di risolvere il sempre più drammatico problema del sovraffollamento nelle carceri della penisola. Se entro un anno governo e parlamento non saranno intervenuti, scatteranno le multe. “Senza misure che portino a diminuire di 10,15mila unità la popolazione carceraria - osserva Corleone -così come ha di fatto chiesto la Corte europea dei diritti dell’uomo, i detenuti potranno chiedere di essere rimborsati, come vittime di una gestione degli istituti di pena lesiva dei più elementari diritti umani. Il sovraffollamento non si misura solo con la mancanza dei metri quadri per ciascun detenuto, riguarda anche le condizioni generali di vita in carcere”. Condizioni che continuano a peggiorare: a tre anni dalla dichiarazione dello “stato di emergenza nazionale” a causa del sovraffollamento, i detenuti sono ulteriormente aumentati e gli spazi diminuiti; e sono stati tagliati senza pietà i già scarsi fondi per la quotidiana gestione delle strutture. Solo a Sollicciano sono ammassati ormai stabilmente un migliaio di detenuti, a fronte di una capienza di 450. In questo terribile contesto è partita la raccolta di firme. Con il supporto di oltre 30 associazioni, dalla Cgil all’Arci, da Antigone all’Unione delle camere penali. E con gli obiettivi di ridurre il sovraffollamento, introducendo una sorta di numero chiuso oltre il quale non si può andare. E di modificare le disposizioni della criminogena legge Fini-Giovanardi sulle droghe e inserire nel codice penale il reato di tortura. Che ancora manca, nonostante l’Italia abbia firmato specifici trattati internazionali. “Il 26 giugno - annuncia Corleone - in occasione della giornata mondiale indetta dall’Onu contro la tortura, ci sarà una maxi raccolta di sottoscrizioni per la proposta di legge, con 500 banchetti attivati in collaborazione con i Radicali. E una grande manifestazione a Roma, con un corteo che si snoderà probabilmente tra il carcere di Regina Coeli e il ministero della giustizia”. Sassari: apertura del nuovo carcere di Bancali, comincia il conto alla rovescia di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 31 maggio 2013 Oggi saranno consegnate le chiavi di un padiglione dell’istituto penitenziario, entro l’estate il trasferimento dei detenuti. “Il carcere di Bancali è un albergo a cinque stelle”. Cecilia Sechi, garante dei detenuti, lo scorso gennaio aveva definito così il nuovo istituto di pena sassarese che sorge a una pochi chilometri dalla città e che dovrebbe aprire le porte ai detenuti entro Testate. Una definizione incoraggiante per un progetto che oggi, finalmente, comincia a prendere forma. Concretamente. Stamattina, infatti, sarà aperta un’ala dell’istituto penitenziario, presumibilmente quella che ospiterà gli uffici dell’amministrazione. I dettagli, come è comprensibile, non abbondano ma di certo la consegna delle chiavi - anche se provvisoria perché forse servirà a sistemare gli ultimi arredi - assume un significato ben preciso: questa volta la scadenza (tra luglio e agosto) annunciata per l’apertura definitiva del carcere di Bancali verrà rispettata. Gli anni di ritardo accumulati sono due, si era parlato in un primo momento di giugno 2011, poi gennaio 2012, poi la primavera del 2013. Insomma un continuo rinvio che ha scoraggiato per lungo tempo gli operatori e gli stessi detenuti costretti a vivere in un carcere, come quello di San Sebastiano, del quale più volte e da più parti erano state denunciate le condizioni di degrado e invivibilità. Ora si può davvero cominciare il conto alla rovescia. L’istituto di Bancali - come a suo tempo aveva detto la Sechi nella relazione alla quinta commissione Problemi sociali del consiglio comunale, presieduta da Sergio Scavio - avrà celle a due letti con bagno in camera, palestre, cinema-teatro, molto verde, laboratori e anche un nido per i bambini. Già a gennaio la garante aveva spiegato come i lavori fossero praticamente conclusi. Quella a pochi chilometri da Sassari sarà una costruzione con spazi comuni ampi, cucine moderne, una chiesa e zone che consentiranno di praticare altri culti. Tutto studiato nell’ottica dell’integrazione sociale e di una convivenza il più possibile dignitosa. Le donne staranno in un padiglione a parte dove sono previsti spazi per attività riabilitative e il nido per i piccoli. A marzo una squadra di detenuti in regime di articolo 21 (lavoro esterno) ha sistemato alcuni arredi aiutando a montare i mobili da piazzare nelle celle. Il carcere comprende poi un padiglione destinato ai boss della criminalità organizzata (articolo 41 bis, massima sicurezza) che, si dice, ospiterà circa novanta persone. Lasciare il carcere di San Sebastiano, definito una delle prigioni più disastrate d’Italia, sarà una grande conquista. Per tutti. Basti pensare che attualmente i detenuti sono stipati in celle che arrivano a contenere fino a otto persone. Gli spazi sono praticamente inesistenti, c’è freddo d’inverno e caldo d’estate. Manca persino l’acqua per lavarsi. La struttura sanitaria, l’unica cosa buona ed efficiente di San Sebastiano, verrà trasferita in blocco nell’istituto di Bancali. Quindici ettari per 500 reclusi Il carcere di Bancali si estende su un’area di quindici ettari ed è costato 85 milioni di euro. Nella nuova struttura penitenziaria saranno ospitati un centinaio di detenuti in regime di 41bis (i boss della mafia) e tra i 400 e i 500 detenuti cosiddetti “ordinari”. In queste ultime settimane la futura direttrice dell’istituto, Patrizia Incollu, il personale di polizia penitenziaria e altri funzionari sono andati diverse volte al cantiere per rendersi conto in prima persona dello stato dell’arte. Più volte è stato detto che si tratta di una vera e propria corsa contro il tempo considerati i gravi problemi che interessano San Sebastiano. Uno fra tanti è l’emergenza idrica. Con l’estate alle porte non si può che auspicare un trasferimento imminente. Parma: evasione due detenuti albanesi in diretta sui monitor, scattò l’allarme ma fu spento di Georgia Azzali Gazzetta di Parma, 31 maggio 2013 Erano stati immortalati mentre davano la scalata al muro di cinta, Valentin Frrokaj e Taulant Toma. Immagini riprese dalla telecamera vicina alla garitta e rimandate in presa diretta dai monitor della sala regia del carcere, ma chi sedeva lì davanti non diede l’allarme. È l’aspetto più sconcertante che emerge nell’avviso di conclusione delle indagini fatto recapitare nei giorni scorsi a cinque assistenti capo, a un vice sovrintendente e due ispettori, oltre che all’ex comandante di via Burla e al direttore reggente. I reati contestati? Gli indagati devono rispondere, a vario titolo, di omissione d’atti d’ufficio, falsità materiale e ideologica aggravata in atti pubblici, colpa del custode (il reato di chi cagiona per colpa un’evasione) e procurata evasione. “In merito alle notizie riguardanti i reati contestati al personale in servizio a Parma, indagati per l’evasione di due detenuti, non possiamo che attendere con fiducia l’esito del lavoro dei magistrati. Siamo comunque convinti, fino a prova contraria, della buona fede dei colleghi coinvolti, rispetto all’evento dell’evasione, maturato in un contesto nel quale la sicurezza, probabilmente, era tenuta in minore considerazione rispetto a prima”. Lo dice Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto Sappe, sulla vicenda degli agenti indagati per i due detenuti fuggiti a febbraio dal carcere di Parma. Secondo quanto riportato negli avvisi di garanzia la fuga venne ripresa dalla telecamera vicina alla garitta e le immagini arrivarono in presa diretta sui monitor della sala regia del carcere, ma chi era lì non dette l’allarme. Sappe: se c’è errore umano va inquadrato in un sistema deficitario “La magistratura farà il suo corso, ha in mano cose che noi non possiamo certo visionare, non sappiamo esattamente come stanno le cose. Ma sono fiducioso sugli esiti delle indagini, ciò che mi sento di affermare con certezza è che se c’è stato un errore umano, va inquadrato all’interno di un sistema deficitario con carenze strutturali nel quale il personale a Parma e non solo è costretto a lavorare”. Queste le parole del Segretario Generale Aggiunto del Sappe Giovanni Battista Durante a ParmaToday a seguito della notizia di un presunto video nel quale si vedrebbero Valentin Frokkaj e Taulant Toma evadere dal carcere di via Burla il 2 febbraio scorso”. “Ho visitato il carcere di Parma a seguito della vicenda per rendermi conto personalmente della situazione, sono entrato anche nella sala regia dalla quale è possibile vedere l’esterno attraverso i monitor. Ho potuto rendermi conto del fatto che non si tratta certo di condizioni ottimali di lavoro per gli addetti alla sicurezza, dato che non tutti i monitor sono funzionanti e inoltre, in via Burla, i sistemi di puntamento automatici non sono funzionanti, ma occorre azionarli manualmente, ciò comporta una serie di difficoltà in più ad avere un controllo pieno della situazione”. Altro aspetto sottolineato dal Segretario Generale Durante, le cattive condizioni meteo di quel 2 febbraio: “Nel corso del sopralluogo che effettuai assieme al segretario generale Capece alcuni agenti mi riferirono che quel giorno c’era molta nebbia e non era possibile avere una visuale adeguata dai monitor”. I malfunzionamenti e le anomalie riscontrati non solo nell’istituto penitenziario di Parma ma anche in altre carceri nel corso di ispezioni da parte del segretario Sappe, hanno messo in luce una realtà difficile dal punto di vista della sicurezza. Ci sarebbero, secondo quanto sottolineato da Durante, alcuni istituti penitenziari privi di monitor funzionanti. Per questo, anche in questa occasione il Sappe per voce del suo segretario Durante, rinnova con forza le accuse nei confronti dell’amministrazione penitenziaria: “Non è accettabile che in un grande numero di carceri i sistemi di sicurezza non funzionino o siano largamente carenti. Chiediamo all’Amministrazione un monitoraggio costante per garantire la messa in sicurezza di tutti gli istituti penitenziari. La politica adottata dall’Amministrazione va sempre più verso la riduzione del numero di agenti nell’ottica di una sorta di sicurezza dinamica, anche a causa del fatto che a livello nazionale si registra una notevole carenza di personale penitenziario. Tutto questo però va a discapito della sicurezza interna. Solo a Parma si parla di una carenza di 170 agenti, è inaccettabile”. Rovigo: essere immigrati nelle carceri, primo incontro serie “I luoghi della differenza” Rovigo Oggi, 31 maggio 2013 È iniziato ieri mattina alla casa Sant’Andrea della Caritas di Rovigo il primo incontro della serie “I luoghi della differenza”, organizzato da Polesine Solidale nell’ambito del progetto Fei, fondo europeo per l’integrazione dei cittadini dei Paesi terzi di cui la Provincia di Rovigo è capofila. Il calendario di incontro è rivolto ai mediatori interculturali, a quanti operano nelle politiche sociali e con gli immigrati in restrizione di libertà. “In questi anni - osserva Donatella Traniello di Polesine Solidale - non abbiamo mai avuto l’opportunità di affrontare il tema del carcere dove la differenza culturale risulta particolarmente faticosa da gestire. Con la ricerca svolta dal professor Rhazzali abbiamo ideato questo ciclo dando risalto al tema dell’Islam partendo dal fatto che la religione diventa un motivo di identificazione in un luogo dove non c’è spazio”. Tutti gli incontri sono tenuti da Khalid M. Rhazzali, dottore di ricerca in Sociologia dei processi comunicativi e interculturali all’università di Padova e autore del libro: “L’Islam in carcere, l’esperienza religiosa dei giovani musulmani nelle prigioni italiane”. Il primo appuntamento “Cultura, Intercultura e politiche dell’identità” si è aperto coi saluti dell’assessore all’Immigrazione Leonardo Raito. Si proseguirà il 6 giugno con “Stato sociale e gestione della diversità culturale. Esperienze di ricerca e progetti innovativi”, il 19 con “Processi migratori e pluralismo religioso. Il caso dei musulmani in Italia” ed infine il 26 giugno si discuterà sul tema “La prigione e gli spazi per la preghiera. I detenuti musulmani alla ricerca della moschea impossibile”. Bari: “Dal carcere al territorio ricomincio da te”, favole per bambini scritte dai detenuti www.puglialive.net, 31 maggio 2013 Nell’ambito del ciclo “Dal carcere al territorio ricomincio da te” promosso dal Comune di Bari d’intesa con la Direzione della Casa Circondariale di Bari e il Garante dei detenuti, lunedì 3 giugno, alle ore 10.30, presso l’Istituto Comprensivo Massari Galilei di Bari, si terrà la presentazione del libro “Quando te le racconterò” realizzato dai detenuti della Casa Circondariale di Bari. L’iniziativa rientra nel progetto “Voci di dentro: favole e testi per bambini”, finanziato dai fondi Dpr 309/90 destinati dal Provveditorato all’Amministrazione Penitenziaria di Puglia. Il laboratorio creativo, tenuto dai Criminologi clinici Maria Alessandra Caputi, Maria Milella e Michele Massimo Laforgia, ha avuto come obiettivo, nell’ambito del trattamento rieducativo, la realizzazione di un piccolo volume contenente favole create ed illustrate dai detenuti e rivolto ai bambini delle scuole primarie e secondarie. Le tematiche descritte nelle favole hanno come finalità lo sviluppo di una consapevolezza critica nei detenuti circa la propria condotta. La favola rappresenta un efficace veicolo comunicativo per il raggiungimento di questi obiettivi, grazie al suo linguaggio semplice e sintetico, impersonale, che tende all’individuazione di una morale profonda, spesso soffocata. Gli studenti delle prime classi della scuola secondaria di primo grado, in occasione dell’evento, saranno coinvolti attivamente nella lettura e discussione delle favole autobiografiche. Infatti il progetto, nato in collaborazione con l’Area Educativa del Carcere di Bari, sin dalla sua impostazione tendeva a realizzare metodiche di riflessione nei detenuti partecipanti insieme a spinte di riflessione nei ragazzi, convinti che la cultura della legalità debba crescere in tutti, nei giovani in particolare. All’evento interverranno: Fabio Losito (Assessore alle Politiche Educative e Giovanili Accoglienza e Pace del Comune di Bari), Maria Giuseppina D’Addetta (Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bari), Matteo Soave (Magistrato di Sorveglianza di Bari), Piero Rossi (Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale), Rosy Paparella (Garante dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza), Angelo Pansini e Stefano Fumarulo (Agenzia per la Lotta non repressiva alla criminalità organizzata del Comune di Bari), Lidia De Leonardis (Direttore della Casa Circondariale di Bari) e Tommaso Minervini (Responsabile dell’area educativa e trattamentale della Casa Circondariale di Bari). Vibo Valentia: tenta suicidio in carcere, detenuto salvato dalla polizia penitenziaria www.ilquotidianoweb.it, 31 maggio 2013 Gli agenti della polizia penitenziaria hanno salvato un detenuto che aveva tentato di suicidarsi nel carcere di Vibo Valentia. A darne notizia il sindacato di categoria della Uil che rimarca ancora una volta come a Vibo, e nel resto d’Italia, vi è “un acclarato deficit di personale” che rende difficoltose le attività interne. Gli agenti della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Vibo Valentia hanno sventato il suicidio di un detenuto che ha tentato di impiccarsi. Lo ha reso noto Gennarino De Fazio, segretario nazionale della Uil-Pa Penitenziari. “Verso le 19.45 - ha sostenuto - un detenuto italiano che già l’altro ieri aveva inscenato una protesta ha tentato di impiccarsi mediante l’utilizzo di una maglietta che ha legato alle inferriate della finestra della propria camera detentiva. Solo il tempestivo intervento degli uomini del commissario Domenico Montauro e, successivamente, degli operatori sanitari che hanno prestato le cure del caso ha evitato il peggio”. “Ancora una prova di efficienza e di efficacia delle donne e degli uomini del reparto di polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Vibo Valentia - ha aggiunto - che dimostrano di riuscire a sopperire con il loro impegno ed instancabile sacrificio anche personale alle diffuse inefficienze dell’Amministrazione penitenziaria. E così è stata di nuovo la Polizia penitenziaria, che solo due settimane addietro sempre a Vibo aveva sventato un analogo tentativo di auto soppressione, a metterci una pezza scongiurando che il triste bollettino delle morti in carcere ormai arrivato a livelli esorbitanti dovesse essere aggiornato. E ciò nonostante a Vibo Valentia, come nel resto del Paese, vi sia un acclarato deficit organico a cui peraltro l’Amministrazione risponde non retribuendo parte del lavoro straordinario che gli operatori sono costretti a prestare e, per di più, non fornendo riscontri alle note che la Uil-Pa Penitenziari scrive sul tema, disattendendo persino elementari regole di trasparenza e di informazione”. Bologna: nel carcere della Dozza detenuto tenta di accoltellare un agente penitenziario www.bolognatoday.it, 31 maggio 2013 Aggressioni in carcere: detenuto tenta di accoltellare Agente di Polizia Penitenziaria nel carcere della Dozza di Bologna. Un agente della Polizia Penitenziaria è stato aggredito ieri pomeriggio da un detenuto italiano di circa 30 anni all’interno del carcere della Dozza. L’uomo, con un rudimentale coltello, ha tentato di ferire l’agente che però è riuscito a schivarlo, ma nella colluttazione successiva ha riportato contusioni guaribili in 15 giorni. Lo rende noto il sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe. L’episodio si aggiunge a quello avvenuto sempre ieri a Ravenna e pochi giorni prima a Piacenza, dove due agenti sono stati feriti con una lametta. “Sono circa 5.000 - commenta il segretario generale aggiunto, Giovanni Battista Durante - gli episodi di aggressioni, risse, gesti di autolesionismo che ogni anno si verificano nelle carceri italiane e, il più delle volte, ne sono vittime proprio gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria. A Bologna mancano circa 170 agenti, i detenuti registrano un sovraffollamento di oltre il 180 per cento”. Napoli: agenti accusati di truffa, allungavano tempi missioni per avere maggiori compensi www.voceditalia.it, 31 maggio 2013 Quarantacinque agenti addetti alla scorta di detenuti sono sotto inchiesta per truffa. Secondo la Procura di Napoli , che sta indagando sul conto dei 45 uomini, avrebbero infatti allungato i tempi delle missioni per ricavarne maggiori compensi. Gli agenti avrebbero inoltre dichiarato pasti non consumati e alterato documenti di viaggio per ottenere rimborsi più alti. Le prime prove sembrano non lasciar dubbi sulla truffa messa in atto dagli agenti: i Telepass e i registri delle carceri confermano i primi sospetti. Bari: arrestato ieri il detenuto evaso dall’ospedale il 10 novembre dell’anno scorso Adnkronos, 31 maggio 2013 Era evaso il 10 novembre dell’anno scorso dal reparto di chirurgia d’urgenza dell’ospedale civile di Foggia dove si trovava momentaneamente ricoverato: Francesco Rizzi, 32 anni, è stato arrestato nelle prime ore di ieri a Manerba sul Garda, in provincia di Brescia, la Squadra Mobile di Bari ed il Commissariato di Bitonto, coadiuvati da personale della Squadra Mobile di Brescia, dal Servizio Centrale Operativo e dal Servizio Polizia Scientifica. L’uomo era recluso nel carcere del capoluogo dauno dovendo scontare una pena definitiva fino al maggio 2017. Rizzi è stato rintracciato, a seguito di numerose intercettazioni telefoniche, in un’abitazione utilizzata da un uomo di 58 anni di Bisceglie, con precedenti di polizia, e dalla sua compagna, entrambi indagati in stato di libertà per favoreggiamento personale. Nella stessa circostanza, gli è stata notificata un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del Tribunale di Bari, sempre su richiesta della Procura della Repubblica, perché ritenuto responsabile di ricettazione di un’auto e resistenza a pubblico ufficiale, così come emerso dalle attività investigative svolte dal Commissariato di Pubblica sicurezza di Bitonto a seguito dell’evasione. Rizzi, oltre ad essere inserito in gruppi criminali che operano a Bitonto, ha numerosi precedenti di polizia e si è reso più volte responsabile di evasione, sia dagli arresti domiciliari, sia da un’aula del Tribunale di Bari in occasione di un’udienza. Torino: torneo di volley in carcere, le schiacciate dell’amicizia tra studenti e detenuti La Stampa, 31 maggio 2013 Il torneo in programma oggi è per i carcerati un momento importante nel percorso che deve portare al reinserimento nella società. I ragazzi delle superiori oggi in campo al Lorusso Cutugno. I pregiudizi restano fuori dal campo. L’agonismo fa mettere da parte per il tempo di una partita le idee preconcette che un adolescente può avere su un detenuto. Si gioca, e quando si gioca il resto non conta. Il set di una partita di pallavolo apre un varco verso la conoscenza reciproca. E la rete in mezzo al campo non è più un elemento che separa, ma le maglie attraverso cui osservare con sguardo nuovo chi ti sta di fronte. Al carcere Lorusso e Cutugno oggi si gioca il torneo di volley tra detenuti tossicodipendenti e studenti di istituti scolastici superiori di Torino e provincia, organizzato dall’associazione sportiva socio-culturale Iride di Grugliasco, in collaborazione con il servizio dipendenze Area-Penale dell’Asl To2 e l’Amministrazione Penitenziaria. È la diciassettesima edizione. Un successo che va ben al di là del valore sportivo e centra due obiettivi: mettere in contatto la realtà del carcere con la comunità esterna, per favorire il reinserimento sociale dei detenuti tossicodipendenti, e sensibilizzare i ragazzi sull’abuso di droghe. Terzo tempo “Ricordo un ragazzo, D., che ebbe la prima esperienza con la droga a 15 anni. Era una sostanza che gli diede una dipendenza immediata. La sera stessa andò a vendersi il braccialetto per comprarsi altre dosi”. I detenuti raccontano le loro storie ai ragazzi nel “terzo tempo” del torneo: dopo le partite, si mangia tutti insieme, ci si conosce, si parla. A ricordare la storia di D. è Leo Zappalà, preparatore sportivo dei detenuti tossicodipendenti seguiti nell’ambito dei programmi terapeutico-riabilitativi della Struttura a custodia attenuata “Arcobaleno” all’interno del carcere. “Per i giovani - commenta Zappalà - ascoltare storie come questa e vedere di persona dove ti può portare anche solo una stupida curiosità, è più efficace di mille convegni e tante raccomandazioni”. Grandi risultati Zappalà segue i ragazzi da 18 anni. “Il progetto Arcobaleno rappresenta quello che il carcere dovrebbe essere: dà grandi risultati sotto l’aspetto della recidiva e della dipendenza”. Ed è una soddisfazione per lui vedere oggi uno dei suoi atleti uscito dal penitenziario che, grazie al percorso terapeutico, è riuscito a mettere a frutto le sue doti: oggi fa il restauratore. “Altri hanno aperto un’attività e molti hanno continuato a praticare sport a livello amatoriale. Io cerco di far provare molte discipline e d’estate facciamo anche i nostri Giochi Olimpici”. Storie difficili, di vite devastate. A volte anche di corpi drammaticamente segnati dagli abusi. E fa raggelare la storia di un ragazzo che invece era particolarmente portato per lo sport: “Avevo fatto provare il lancio del giavellotto. In realtà, il giavellotto in carcere non può entrare: si trattava del vortex, un attrezzo propedeutico a forma di missile. C’era un giovane che aveva un lancio strepitoso, lo mandava sempre al di là delle recinzioni. Gli chiesi come faceva a essere così allenato: era bosniaco, mi rispose che aveva combattuto contro i serbi ed era diventato bravo a forza di lanciare bombe”. Linguaggio comune In questo contesto, il torneo di pallavolo diventa un’occasione importante di contatto con l’esterno. Fondamentale, perché il fallimento della riabilitazione è dovuto quasi sempre alla difficoltà del reinserimento sociale. Liberarsi dallo stigma che isola il detenuto a fine pena passa anche attraverso il contatto con i giovani. “Secondo alcune ricerche - spiega Enrico Teta, Responsabile Servizio dipendenze - Area Penale dell’Asl To2 - all’uscita dal carcere, senza un trattamento specifico, oltre il 50% dei soggetti con una storia di disturbo da uso di sostanze, ha una ricaduta entro un mese”. Questo, nonostante l’astensione forzata del periodo di detenzione. In campo, oggi, scenderanno le rappresentative del liceo scientifico Ettore Majorana e dell’Itis Giuseppe Peano di Torino, dell’Itis Giulio Natta di Rivoli e dell’Iiss Luigi Des Ambrois di Ulzio. E anche per loro è un momento importante. “Lo sport è la lingua comune che permette di rompere il ghiaccio - dice Zappalà, e poi è più facile parlarsi davvero. Ci sono addirittura ex studenti che tornano a giocare il torneo, anche se hanno già finito gli studi”. Irlanda: il 62% degli ex detenuti reiterano il crimine entro tre anni dalla scarcerazione Ansa, 31 maggio 2013 È quanto emerge da un rapporto congiunto dell’Irish Prison Service con il Central Statistical Office, secondo il quale il 62.3% di chi esce di prigione ritorna sulla cattiva strada entro tre anni e di questi ultimi l’80 % lo fa entro un anno. Lo studio ha preso in esame i detenuti scarcerati nel 2007 che hanno ricommesso il reato entro i tre anni successivi. I dati mostrano anche che il tasso di recidiva varia a seconda del genere (63% per gli uomini e 57% per le donne). Tra le 16 categorie di reato analizzate, il furto d’appartamento è quella col tasso più alto di reiterazione, mentre omicidi e abusi sessuali sono i crimini meno ripetuti. Siria: attivisti denunciano; 50 detenuti giustiziati dal regime nel carcere di Aleppo Aki, 31 maggio 2013 Le forze del regime siriano avrebbero giustiziato 50 detenuti nel carcere di Aleppo, nel nord del Paese. Lo hanno riferito gli attivisti dei Comitati di coordinamento locale sulla loro pagina Facebook, senza aggiungere per il momento ulteriori dettagli a riguardo. Da giorni, nei pressi del penitenziario si registrano combattimenti tra i ribelli siriani e le forze lealiste. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, un gruppo di opposizione con sede a Londra, almeno 15 detenuti sono morti negli scontri dello scorso week end. Circa 4mila detenuti, inclusi estremisti islamici e criminali comuni, sono rinchiusi nel carcere, situato alla periferia di Aleppo. Libia: Cpi chiede consegna Saif Al-Islam Gheddafi per processo crimini guerra Aki, 31 maggio 2013 La Corte penale internazionale dell’Aja ha chiesto alle autorità libiche di consegnare Saif al-Islam Gheddafi, figlio del defunto colonnello Muhammar Gheddafi, per poterlo processare per crimini contro l’umanità commessi durante la rivoluzione del 17 gennaio contro il regime di Tripoli. La Corte ha quindi respinto l’istanza presentata dalla Libia che chiedeva di poter giudicare Saif al-Islam, attualmente detenuto a Zintan, sottolineando che Tripoli è obbligata a consegnare il sospetto al Tribunale penale internazionale in quanto firmataria dello Statuto di Roma. La decisione di chiedere l’estradizione di Gheddafi Jr è stata motivata dalla Corte spiegando che non è stato sufficientemente dimostrato che l’inchiesta interna libica venga condotta sugli stessi elementi su cui indaga il Tribunale penale internazionale. Togo: prigionieri senza processo, in loro aiuto c’è Mama Africa onlus Famiglia Cristiana, 31 maggio 2013 Enzo Liguoro è il fondatore di Mama Africa onlus, associazione al fianco dei “dimenticati” che ha preso in carico 87 detenuti del carcere di Vogan. “Il momento magico è stato quando ho chiesto con determinazione e perentoriamente alle due guardie carcerarie di togliere le manette a Nenive. Lo avevano portato dal penitenziario di Vogan all’ospedale psichiatrico di Aneho con le catene ai polsi. Il mio “quasi ordine2 è stato eseguito all’istante e il ragazzo è stato liberato”. Enzo Liguoro è il fondatore di Mama Africa onlus, un ex professore di Scienze politiche che ha trovato nel volontariato il modo per cambiare la sua vita e, così si augura, quella degli altri. Gli ultimi, i dimenticati. Attualmente Mama Africa gestisce una casa-famiglia per bambini orfani di entrambi i genitori e ragazzi di strada, con annesso dormitorio e campo da coltivare; un dispensario frequentato prevalentemente da ammalati che non hanno accesso alle strutture sanitarie per questioni economiche; un pozzo, provvisto di pompa elettrica, per distribuire acqua potabile a tutti gli abitanti del villaggio di Togoville; la gestione di beni di prima necessità consegnati a una cinquantina di donne anziane sole; l’iscrizione e la frequenza scolastica per un centinaio di bambini delle elementare e una quarantina che frequentano medie e superiori; assistenza medica gratuita, farmacologica e ospedaliera, per 50 minori affetti da anemia falciforme; ricoveri e interventi chirurgici d’urgenza in regime “convenzionato” presso l’ospedale di Kouve, gestito dalle suore della Provvidenza. E infine, un progetto di assistenza sanitaria a un centinaio di detenuti nel carcere togolese di Vogan. Stiamo parlando di un villaggio pressoché isolato data la difficoltà di raggiungerlo attraverso strade proibitive, con un tasso di disoccupazione alle stelle, un servizio di energia elettrica che copre a stento e in modo irregolare il 10% della popolazione, l’accesso all’acqua potabile garantito a meno del 10%. Il salario medio per i fortunati che lavorano è di 30 euro al mese: ma tutte le spese mediche, farmaceutiche e ospedaliere sono a carico degli ammalati. L’assenza totale di ogni forma di assistenza medico-sanitaria nelle carceri del Togo da parte dello Stato aggrava le già misere condizioni dei detenuti, alcuni sono deceduti per una semplice dissenteria, malaria, tubercolosi o tifo, patologie curabili con farmaci reperibili in loco (a pagamento). La malnutrizione nelle prigioni è una concausa aggravante per l’aumento della mortalità a causa di altre malattie. Il Togo è uno dei paesi più poveri al mondo. L’aspettativa di vita al momento della nascita non supera i 53 anni. Il paese ha pochissime risorse naturali e la maggior parte dei suoi abitanti dipende dall’agricoltura di sussistenza e dal bestiame, fortemente condizionati dalle condizioni climatiche Il progetto prevede che due operatori sanitari, già cooperanti di Mama Africa e occupati presso il dispensario San Giuseppe Vesuviano localizzato nel vicino villaggio di Togoville e gestito dalla stessa associazione si rechino con frequenza settimanale presso la prigione di Vogan con un “kit” minimo per garantire la misurazione della tensione arteriosa, della glicemia, della febbre oltre all’attrezzatura infermieristica per curare e disinfettare piaghe e ferite, eventuali flebo e “ago e filo” per le suture più semplici. I farmaci vengono acquistati come principi attivi pressa la Caritas di Lomè. Nello stesso tempo il progetto prevede di affrontare il problema igienico-sanitario per educare i detenuti ad un rispetto costante delle norme igieniche onde evitare il propagarsi della scabbia, tifo, tubercolosi e aids. Per un biennio di servizi è stato calcolato che servono circa 9.800 euro: chi fosse interessato può dare il proprio contributo tramite bonifico con iban “IT53C0101040360100000002154”.