Giustizia: la situazione delle carceri mette in gioco il prestigio e l’onore dell’Italia di Franco Petraglia Affari Italiani, 30 maggio 2013 Un vero “j’accuse”, chiaro e forte, quello del ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, intervenendo all’Aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo: “Le nostre carceri non sono degne di uno Stato civile. Va ripensato il sistema delle pene: i detenuti devono avere la possibilità di poter studiare o lavorare. Cambiare è un’impresa titanica, ma ci proveremo”. A queste dichiarazioni hanno fatto seguito quelle del presidente Giorgio Napolitano: “Sulle carceri la situazione è gravissima. Sono in gioco, debbo dire nella mia responsabilità di presidente, il prestigio e l’onore dell’Italia”. Intanto, ad inizio gennaio 2013, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato il nostro Paese per trattamento inumano e degradante di 7 carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza. La Corte ha inoltre condannato l’Italia a pagare ai sette detenuti un ammontare totale di 100mila euro per danni morali e ha dato al nostro Paese un anno di tempo per rimediare alla situazione carceraria. Puntuale (a suo tempo) il commento da parte di Napolitano: “La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo rappresenta un nuovo grave richiamo per l’Italia ed è una “mortificante conferma” dell’incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esenzione di pena”. Dopo Serbia e Grecia, è l’Italia il Paese del Consiglio d’Europa con il maggiore sovraffollamento nelle carceri, dove per ogni 100 posti ci sono 147 detenuti. Si calcola che i detenuti vivono in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati. La mia mente mi riporta, per analogia, a quell’intervento - visita che feci anni addietro, nella mia veste di interprete-traduttore, alla casa circondariale di Poggioreale (Na). Lo spettacolo che si presentò ai miei occhi fu squallido e deludente: carcerati ammassati nelle celle che protestavano vibratamente contro le loro condizioni pietose. Dobbiamo convenire tutti che la situazione delle nostre carceri è davvero drammatica ed esplosiva: strutture fatiscenti, condizioni igienico-sanitarie disperate, cibo stomachevole e chi più ne ha più ne metta. Ma la cosa più sconcertante è che ci sono stati 93 detenuti morti nel 2012. Per non parlare delle atroci sofferenze a cui vengono sottoposti i condannati detenuti malati di mente. La reclusione, secondo il mio modesto osservatorio, non deve, o meglio, non dovrebbe essere una punizione ma un’occasione offerta al detenuto per capire l’errore e porvi rimedio così da poter iniziare una vita diversa una volta scontata la pena. E per questo che l’opinione pubblica deve far sentire più forte la sua voce. Deve esercitare una pressione costante sui responsabili, perchè le condizioni attuali dei nostri detenuti, già drammatiche, non continuino a peggiorare, provocando ancora traumi psicologici e perdite di vite umane. Non trovando una soluzione a questi problemi angoscianti, allora sarebbe veramente l’inizio tragico della fine violenta della nostra fragile ma preziosa e insostituibile democrazia. Ricordiamoci che la civiltà di un popolo si misura dal rispetto e dall’attenzione che riesce a dedicare a chi è meno fortunato. Concludo con una citazione di Friedrich August Von Hayek (economista e filosofo austriaco): “La libertà è essenziale per far posto all’imprevedibile e all’impredicibile; ne abbiamo bisogno perchè, come abbiamo imparato, da essa nascono le occasioni per raggiungere molti dei nostri obiettivi”. Giustizia: le carceri che verranno…. viaggio nel futuro degli istituti di pena italiani di Fabio Sanvitale www.cronaca.it, 30 maggio 2013 Non occorrono nuove carceri, ristrutturando si possono ottenere bei risultati. Naturalmente, a questo andrebbe abbinata una politica di depenalizzazioni: ne abbiamo molto bisogno. Qui il discorso va sul sistema penale, sulle “sezioni transito” che fanno perdere tempo, quelle in cui stanno per un’ora extracomunitari da identificare e rimettere fuori, facendo perder tempo ed occupando inutilmente celle. Secondo i dati diffusi da Antigone, alla base dei problemi c’è infatti un sistema penale in cui il 50% dei detenuti resta dentro poche ore ed il 25% ha un residuo pena di un anno. Per tutti questi non sarebbe meglio trovare altre soluzioni che non siano il carcere? Per forza che, così come sono adesso, scoppiano. Ma per rimettere il nostro sistema carcerario nei limiti della vivibilità bisogna anche fare altro. Cosa? I detenuti sono cresciuti molto, negli ultimi anni, soprattutto a causa dei tanti arresti tra la criminalità organizzata: oggi sono 9000 i detenuti di questo tipo. Poi ci sono gli extracomunitari, che fanno il 35% del totale. Ma da noi c’è il carcere anche per illeciti che in altri paesi sono punti con sanzioni amministrative. Anche se chi commette questi reati più leggeri non finisce materialmente dentro, certo poi sarà difficile applicargli delle attenuanti o concedergli la sospensione condizionale, se verrà ripreso. Per sgonfiare le carceri ci sarebbero anche le misure alternative, certo, ma non vengono concesse così frequentemente come si crede e raramente ad extracomunitari. E infine ci sono stati casi di delitti commessi da detenuti in permesso: le polemiche sono state così ampie, che oggi la magistratura di sorveglianza va giustamente coi piedi di piombo. Va bene, depenalizziamo: ormai sono in molti a suggerire questa strada. Non tutti i reati meritano il carcere, d’accordo. Ma non sarà certo solo questo a risolvere il problema del disagio in carcere, dei suicidi, delle malattie, dell’autolesionismo dei detenuti. In realtà, gran parte del disagio nasce dal fatto di stare 22 ore in cella, tranne le poche ore in qualche aula scolastica, al passeggio, nelle stanze della socialità, o in qualche corso, se il detenuto lo frequenta. In Italia usiamo ancora un regime carcerario chiuso, sostanzialmente. Ma oggi pian piano si sta passando ad un regime aperto per tutti i detenuti a media sicurezza: che significa farli rimanere fuori dalla cella tutto il giorno, tranne che per dormire. Anche questo servirà. Un nuovo modello di gestione del tempo in carcere è dunque parte della risposta. Ma ci sono anche altre idee. Un dato di fatto, ad esempio, è che, se manca la possibilità del lavoro in carcere, la recidiva è sempre più alta (qui si sono contratti i fondi del Ministero - e di molto). Un altro dato di fatto è che si svuoterebbero celle usando, per chi ha i domiciliari, i braccialetti elettronici di ultima generazione (non quelli che stanno attualmente nei magazzini del Ministero, che usano una tecnologia superata…). E comunque, qualcosa che funziona c’è. Carceri modello? Bollate, Padova Reclusione, Rebibbia Nuovo Complesso, Fossano, Orvieto. Queste sono quelle dove oggi si stanno ottenendo i risultati migliori. Le potenzialità, i progetti, le energie ci sono, per voltare pagina. La politica saprà capire tutto questo? Giustizia: Cancellieri; le carceri non saranno più motivo di vergogna per l’Italia… Agi, 30 maggio 2013 “È bene che si sappia che le carceri non saranno più motivo di vergogna per l’Italia”. È quanto ha annunciato il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, inaugurando, a Roma, un progetto sociale per i detenuti dell’isola di Gorgona impegnati nella produzione di vino. Il ministro ha spiegato di puntare sul “lavoro per i detenuti nelle carceri” per assicurare a questi ultimi un futuro anche al termine della detenzione. “Occorre dare l’opportunità al carcerato di lavorare - ha detto il guardasigilli - le statistiche ci dicono che i carcerati che non lavorano hanno una recidiva all’uscita dal carcere dell’80%”. “A seconda delle tipologie dei detenuti e delle carceri - ha spiegato il ministro - si possono individuare delle opportunità di lavoro compatibili con il regime detentivo. In alcune carceri che stiamo inaugurando, ad esempio, tutto l’arredamento e i mobili sono stati costruiti dagli stessi carcerati”. Allo studio pene alternative “Il nostro programma per le carceri è un programma a 360 gradi che prevede un aspetto logistico e un altro giuridico”. È quanto ha annunciato oggi il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, a margine della presentazione, a Roma, di un progetto sociale per i detenuti sull’isola di Gorgona impegnati nella produzione di vino. “L’aspetto logistico - ha spiegato Cancellieri - prevede lavori nelle strutture carcerarie per renderle più adatte alle esigenze del detenuto. L’aspetto giuridico è quello della deflazione agendo sul tipo di pene alternative”. Il ministro della Giustizia ha precisato che su quest’ultimo versante ci sarà “un lavoro molto impegnativo poichè dovranno essere affrontati molti scogli”. Tema amnistia riguarda il parlamento “Il tema dell’amnistia riguarda esclusivamente il Parlamento”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, a margine della presentazione di un progetto sociale per i detenuti dell’isola di Gorgona. “Se il Parlamento farà questa valutazione - ha aggiunto - noi ci adegueremo alla sua volontà”. Di Giovan Paolo (Pd): dopo impegno governo presto i fatti “È importante l’impegno del governo sul fronte delle carceri. Mi auguro però che seguano i fatti, ponendo massima attenzione, in tempi brevi, alle misure alternative alla detenzione in carcere. Non c’è da inventare molto, basta vedere quello che succede negli altri Paesi europei”. Lo afferma il senatore Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per la Sanità Penitenziaria. “Altrettanta sollecitudine mi aspetto per gli Opg - continua Di Giovan Paolo. L’approvazione del decreto era cosa scontata, ma serve che ora le regioni rispettino alla lettera i tempi per la chiusura, delineando percorsi di cura per le persone che sono in queste strutture”. Rossomando (Pd): ddl per ridurre custodia cautelare Ridurre l’applicazione della custodia cautelare in carcere il più possibile, in modo che la detenzione senza una condanna definitiva sia un’extrema ratio e non una sorta di espiazione preventiva della pena. È l’obiettivo che si pone un disegno di legge a prima firma della presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, di cui è relatrice la deputata del Pd Anna Rossomando. Nella relazione, svolta oggi, Rossomando ha sottolineato che la proposta mira a limitare la discrezionalità del giudice sia nella valutazione del pericolo di fuga, sia in quella di reiterazione del reato: in entrambi i casi sarà necessario verificare, oltre alla concretezza, anche l’attualità del pericolo. Le nuove norme confermano il carattere residuale della custodia cautelare, specificando che essa può essere disposta “soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive (il codice dice attualmente “ogni altra misura”) risultino inadeguate. Queste norme rispondono all’esigenza di trovare un punto di equilibrio tra il diritto fondamentale alla libertà individuale e le esigenze di giustizia a tutela della collettività”, ha spiegato Rossomando. “È una strada per contribuire ad attenuare il sovraffollamento delle carceri, un problema gravissimo che va tuttavia affrontato anche con altri strumenti come ad esempio le pene alternative”, ha concluso la deputata del Pd. Giustizia: Bernardini (Radicali); il ministro sottovaluta sconfitta diritti umani nelle carceri Dire, 30 maggio 2013 “Dispiace dover constatare che anche il nuovo guardasigilli, con le sue dichiarazioni, dimostri di sottovalutare la débâcle dei diritti umani in corso da molto (troppo) tempo nelle carceri italiane”. Così l’esponente radicale Rita Bernardini, che aggiunge: “Le prese di posizione che leggo ora sui lanci di agenzia sono sconfortanti, troppo simili alle lagne e ai buoni propositi a buon mercato che così a lungo hanno accompagnato l’inerzia dei governi che si sono succeduti nella precedente legislatura”. “Quello che dovrebbe essere chiaro - prosegue Bernardini - è che le giornate sono scandite dall’orribile accettazione da parte dello Stato dei trattamenti inumani e degradanti per decine di migliaia di ristretti nei nostri istituti penitenziari. Tutti sappiamo, e il ministro Cancellieri non può non sapere, che la nostra Costituzione e le nostre stesse leggi - per non parlare della Carta europea dei diritti dell’uomo - sono violate minuto dopo minuto. Con chiarezza umiliante per l’Italia, lo ha certificato la Corte di Strasburgo l’8 gennaio scorso”. Continua l’esponente radicale: “Dispiace dover ascoltare la stanca cantilena che l’amnistia o l’indulto sono decisi dal Parlamento. Ma va? E il Governo che fa per porre il Parlamento di fronte alle proprie responsabilità. Dagli ultimi dati risulta che nelle nostre carceri ci sono 30.000 detenuti in più rispetto ai posti disponibili: in Francia stanno pensando a provvedimenti di clemenza perchè c’è un esubero di 10.000 carcerati. Per non parlare della necessità di affrontare la mole dei procedimenti penali pendenti che incombono sulle scrivanie dei magistrati. Signora ministra Cancellieri - conclude Bernardini - si informi, non sono un milione e mezzo come lei ha affermato alcuni giorni fa nel corso dell’audizione al Senato, ma ben oltre i 5 milioni come è scritto nero su bianco dal Servizio studi del Senato. Anche per questo, in Europa, siamo sorvegliati speciali, non lo dimentichi”. Sappe: bene Cancellieri, sì a lavoro fuori da istituti pena “Ogni iniziativa finalizzata a rendere davvero rieducativa la pena attraverso il lavoro dei detenuti è sempre una buona iniziativa, anche perchè riduce notevolmente la tensione detentiva di chi oggi sta in cella 20/22 ore al giorno”. Lo scrive in una nota Donato Capece, segretario generale del Sappe, commentando la presentazione a Roma del progetto Frescobaldi per Gorgona, che vedrà la produzione di una selezionata quantità di bottiglie della celebre casa vinicola ad opera dei detenuti del carcere di Gorgona. “Stare chiuso in cella 20 ore al giorno, senza far nulla, nell’ozio e nell’apatia, alimenta una tensione detentiva nelle sovraffollate celle molisane ed italiane fatta di risse, aggressioni, suicidi e tentativi suicidi, rivolte ed evasioni che genera condizioni di lavoro dure, difficili e stressanti per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria - afferma Capece. Noi riteniamo che si debba fare di più per far lavorare tutti i detenuti. Ad esempio impiegando quelli con pene brevi da scontare e con reati di minore allarme sociale in progetti per il recupero del patrimonio ambientale occupandosi della manutenzione e della pulizia dei parchi e delle ville comunali della città e della pulizia dei greti dei torrenti. Il Sappe - conclude la nota - è da sempre favorevole alle attività lavorative dei detenuti svolte fuori dalle mura carcerarie”. Moretti (Ugl): Cancellieri centra questione “Ancora una volta, il ministro Cancellieri ha centrato il nocciolo del problema: bisogna riformare il sistema delle pene con misure rieducative alternative alla detenzione ma senza compromettere la sicurezza del nostro Paese come accadrebbe promuovendo l’indulto o l’amnistia”. Così il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, commenta quanto dichiarato oggi dal ministro della Giustizia a margine della presentazione di un progetto di lavoro per i detenuti del carcere di Gorgona. “Come dichiariamo da tempo - aggiunge il sindacalista, siamo quindi favorevoli ad un processo di riforma del sistema penitenziari o a 360 gradi e a misure alternative alla detenzione, ma soprattutto riteniamo doveroso assumere un atteggiamento diverso nella difesa dei diritti umani delle persone detenute inaugurando una nuova fase in cui il sistema detentivo dell’Italia torni ad essere all’avanguardia come lo è stato dopo l’introduzione della legge 663/86, la cosiddetta Legge Gozzini”. “Un nuovo sistema - conclude il sindacalista - è urgente, non da ultimo, per ridare dignità al lavoro degli agenti di Polizia Penitenziaria, servitori dello Stato che non possono continuare ad essere impiegati in un contesto strutturale, strumentale e organizzativo che gli stessi rappresentanti delle istituzioni nazionali hanno più volte definito vergognoso”. Giustizia: Sabelli (Anm); ok a misure alternative valorizzare istituto di “messa alla prova” Adnkronos, 30 maggio 2013 “Abbiamo espresso parere assolutamente favorevole e pensiamo che l’istituto della messa alla prova vada valorizzato: si tratta di vedere se farlo immediatamente o se attendere una prima fase di sperimentazione”. Lo ha detto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, al termine dell’audizione in commissione Giustizia della Camera sulle misure alternative alla detenzione e sulla messa alla prova. Davanti alla commissione, Sabelli ha ribadito la sua opinione sul possibile ricorso ad amnistia o indulto per risolvere l’emergenza carceri. “Non ci piacciono le soluzioni di emergenza, pensiamo a interventi strutturali: ci sono lavori già fatti, come la relazione della Commissione Giostra e alcuni ddl in materia cautelare. Ora - ha sottolineato - bisogna che su questo ci sia una riflessione seria per arrivare a interventi che messi insieme producano effetti virtuosi. Vogliamo evitare che l’attenzione si concentri su paroline magiche come l’amnistia e l’indulto. Una soluzione di emergenza - ha ricordato - è già stata adottata nel 2006 con l’indulto ma proprio quell’esperienza dimostra che poi ci si ritrova punto e a capo”. Non è mancato, nel corso dell’audizione, un riferimento all’uso dei braccialetti elettronici per i detenuti. “In astratto è uno strumento utile. Ma bisogna vedere le modalità di attuazione concreta - ha sottolineato il presidente dell’Anm. Se si riesce a sviluppare può essere un ausilio. Ma prima dobbiamo confrontarci con un’esperienza più significativa di quanto fatta finora”. Giustizia: la gestione dei servizi ausiliari nelle carceri affidata ai privati? è possibile… Redattore Sociale, 30 maggio 2013 Sopravvitto, lavanderia, corsi professionali, ma anche bar e pay-tv: l’Italia guarda al “modello francese”. Sabella (Dap): “Sul piano del partenariato pubblico-privato l’Italia è praticamente a zero”. Una diversa gestione dei servizi nelle carceri è possibile? La risposta oggi nel seminario “Il partenariato pubblico-privato nella gestione dei servizi ausiliari penitenziari. L’esperienza del modello di gestione mista presente in Francia dalla seconda metà degli anni 80”, in corso nella casa di reclusione di Saluzzo. L’iniziativa nasce dalla consapevolezza che “sul piano del partenariato pubblico-privato l’Italia è praticamente a zero”, come ammette Alfonso Sabella, a capo della Direzione generale delle risorse materiali, beni e servizi del Dap. E quindi, guardare cosa avviene al di là delle Alpi può dare spunti utili per colmare il gap. L’esperienza francese si basa sul project financing per la costruzione di nuovi istituti, ma prevede anche la delega nella manutenzione dei nuovi complessi e l’affidamento di alcuni servizi, come la preparazione dei pasti, l’approvvigionamento delle materie prime, la gestione del sopravvitto, la mensa agenti, la caffetteria, la lavanderia, il servizio trasporti. Tutto ciò con l’impegno di garantire posti di lavoro alle persone detenute. Sabella mette subito alcuni paletti sulla possibilità di esportare in toto il modello, soprattutto in materia di project financing: “Sarebbe un’operazione poco conveniente per l’amministrazione penitenziaria, perchè il carcere non produce reddito, quindi l’esborso di spesa sarebbe insostenibile”. Diversa invece è la questione relativa ai servizi: “Far entrare i privati nelle carceri è possibile per quanto riguarda l’offerta dei servizi che i detenuti sono tenuti a pagare, come la telefonia, la lavanderia, il sopravvitto, la corrispondenza...”. In questi casi, per il referente del Dap, un partenariato potrebbe essere utile su due fronti: “Da un lato, permetterebbe di migliorare i servizi offerti. Si pensi, ad esempio, alla pay tv, a patto che sia adeguatamente controllata, o alla possibilità di introdurre giochi elettronici o al servizio di lavanderia a pagamento per gli abiti dei detenuti. Si pensi anche all’apertura di bar nei cortili di passeggio o all’attivazione di corsi professionali a pagamento. D’altro canto il Dap potrebbe risparmiare su alcune spese che ora deve sostenere: ad esempio, la gestione privata del sopravvitto eliminerebbe le spese a nostro carico sui controlli”. ‘Se il margine di manovra in questa direzione c’è, allora è utile guardare cosa accade nei paesi a noi vicini - aggiunge Enrico Sbriglia, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria del Piemonte e Valle d’Aosta. La Francia, assoggettata ai nostri stessi vincoli di bilancio in quanto membro dell’Ue, sta sperimentando un modello che sembra di qualità. È utile dunque chiedersi se siamo noi che gestiamo male le nostre risorse e se dobbiamo cambiare qualcosa. Sbriglia si dice convinto dell’importanza di un confronto di questo tipo: “Noi in Italia ci definiamo patria del diritto e poi scopriamo che abbiamo delle condizioni delle carceri così indegne da attirare sentenze di condanna a livello internazionale. Allora dobbiamo liberarci dal nostro atteggiamento provinciale, guardarci attorno e vedere se ci sono esempi per poter migliorare”. Giustizia: le carceri raccontate da chi le abita… operatori sociali, agenti e detenuti Agenparl, 30 maggio 2013 Patrizi (Psicologa Giuridica): superare esclusività pena detentiva “Sono, allo stato attuale, il principale strumento di reintegrazione attiva della persona condannata. Raccomandazioni e direttive europee le indicano come strumenti di contrasto alla recidiva. Esse realizzano il criterio di certezza della pena, coniugando la condanna detentiva inflitta con l’esigenza di una sua modulazione in funzione del reinserimento”. Così Patrizia Patrizi, professoressa ordinaria di Psicologia sociale e di Psicologia giuridica all’Università di Sassari, spiega all’Agenparl cosa sono le misure alternative note nel nostro sistema penitenziario come legge 354. Nascono nel 1975 e vengono perpetuate ed aggiornate dalla “legge 689/1981 - continua la prof.ssa Patrizi - che ha previsto la possibilità di sostituire, già al momento della pronuncia della sentenza di condanna, le pene detentive brevi con sanzioni quali la semidetenzione e la libertà controllata e successivamente, dalla legge Gozzini (L. 663/1986), che ha ampliato i margini di accesso alle misure alternative. Poi è la legge Simeone-Saraceni (L. 165/1998), ad incrementare le ipotesi di fruibilità delle misure alternative consentendone l’applicazione, in caso di condanne a pene brevi, direttamente dallo stato di libertà, nell’evidente obiettivo di non interrompere processi riabilitativi già avviati)”. Secondo la dott.ssa Patrizi “il piano carceri adottato dal nostro Paese ha continuato a privilegiare il criterio della reclusione: con la creazione di nuovi istituti penitenziari, l’adeguamento strutturale di quelli esistenti, l’incremento organico della custodia. È rimasto sospeso, invece, il filone delle riforme tese a ridurre la necessità del ricorso al carcere. A questo credo sia opportuno dedicare nuova e più costante attenzione”. Alla domanda su come impostare, allora, una revisione, la prof.ssa risponde: “Io inizierei a rivedere l’impianto sanzionatorio. Si tratterebbe, intanto, di superare l’esclusività della pena detentiva prevedendo, oltre alla depenalizzazione dei reati minori, misure coerenti con la finalità di un riequilibrio sociale realizzato attraverso formule riparative e conciliative. Probation processuale, lavoro in favore della comunità, mediazione, secondo quanto indicato anche dalle disposizioni internazionali in materia, estensione agli adulti della sospensione del processo e messa alla prova attualmente prevista nel settore minorile”: sono queste le misure che consiglia la Psicologa giuridica per migliorare l’urgente situazione carceraria attuale. “È necessaria, però, - ribadisce la prof.ssa - la consapevolezza che la misura sostitutiva o alternativa alla detenzione non ha in sé potere di ri-orientamento di percorsi di vita se non adeguatamente supportata con la sensibilizzazione e la preparazione sociale e del detenuto”. Non avrebbero pertanto privilegi a lungo termine le misure straordinarie di amnistia e indulto, in quanto tamponi per un sistema penitenziario che presenta cronicamente le stesse problematiche oramai da anni. In effetti, la stessa dott.ssa ricorda: “Se si pensa a indulto e amnistia come strumenti di risocializzazione, si corre un grave rischio, le cui conseguenze abbiamo già avuto modo di osservare in occasione dell’ultimo indulto, quando le persone nelle condizioni di fruirne sono state dimesse per pura applicazione della legge, senza che venisse consentito a quelle stesse persone e agli operatori di riferimento di predisporre le condizioni necessarie al ritorno in libertà, sia sotto il profilo psicologico, sia con riguardo alla situazione ambientale, familiare e al contesto sociale di appartenenza”. “I detenuti messi in libertà per effetto dell’indulto - conclude la prof.ssa Patrizi - sono stati oggetto del peggior ostracismo e l’eventuale reingresso in carcere è stato diffusamente interpretato come fallimento dell’ipotesi rieducativa, dimenticando però che la misura non aveva finalità rieducative, ma di puro sfollamento delle carceri”. Contro i suicidi occorre task force delle istituzioni Dall’inizio dell’anno fino ad oggi, si contano 21 suicidi nelle carceri italiane. Altri 55 nel 2012 e quasi 60 nel 2011. Sono i numeri che riporta il centro studi Ristretti Orizzonti, che ogni giorno registra la contabilità del dolore all’interno delle carceri italiane. “Il suicidio produce in noi pesanti vissuti di impotenza, quella stessa impotenza che la persona ha espresso nella scelta di togliersi la vita. In ogni caso, ne va evidenziata la natura comunicati va: rinuncia, grido d’allarme, amplificazione di quei segnali che non sono stati accolti, che forse non è stato possibile recepire”. Lo spiega Patrizia Patrizi, Professoressa ordinaria di Psicologia Sociale e Psicologia Giuridica all’Università di Sassari. “Il maggior numero di suicidi si verifica in passaggi critici per il condannato, come possono esserlo l’arresto e l’entrata in carcere. Ma critici sono anche i momenti dell’attesa di giudizio, la condanna e persino l’uscita dal carcere con le connesse pesanti sfide provenienti da un ambiente esterno divenuto estraneo, frequentemente diffidente quando non oppositivo”. Ma come prevenire questo problema urgente? “Intanto imponendoci di uscire dall’urgenza e dall’emergenza - spiega la prof.ssa Patrizi. “Sembra necessario, preliminarmente, apportare delle modifiche normative che riducano la carcerazione ai casi strettamente necessari; per tutti gli altri, interventi esterni di inclusione. Ciò avrebbe effetti positivi anche sull’ambiente penitenziario. Soprattutto è importante sostenere la persona rispetto alla prospettiva futura e alla costruzione di alternative - aggiunge la professoressa- favorire occasioni di previsione e controllo degli eventi quotidiani come strumento per contenere l’esperienza destrutturante della carcerazione; un contenimento che sappia circoscrivere il tempo della detenzione, impedire che esso si trasformi in una rappresentazione della propria storia e delle progettualità di vita, fino alla rinuncia a una vita priva di progettualità. A questo è funzionale la proposta di attività che consentano al detenuto un posizionamento attivo, coinvolgimento diretto nella loro definizione attuazione, assunzione di responsabilità”. Nonostante i numeri siano alti, spesso i decessi che si nascondono dietro di essi non sono poi così interessanti per il resto della società. Fanno poco rumore i suicidi all’interno delle carceri, forse la gente li percepisce meno gravemente perché chi è in carcere ha già subito una condanna morale da parte della società. Ma se, come la stessa prof.ssa Patrizi afferma, il suicidio è una forma di comunicazione di un grido rimasto inascoltato, forse sarebbe il caso che fosse la legge e lo Stato ad occuparsi di questi casi, magari fornendo dei provvedimenti normativi di prevenzione che possano dirottare questo dramma che ciclicamente si ripresenta. “Forse una nuova norma attuativa che sancisca un numero di operatori (educatori, psicologi, assistenti sociali) adeguato a realizzare l’individualizzazione del trattamento sia all’interno del carcere sia nelle misure alternative sarebbe necessario. Ma in realtà la nostra carenza fondamentale credo non sia nelle leggi ma nella loro interpretazione e attuazione. Una norma che varrebbe la pena introdurre riguarda il supporto nel corso delle misure alternative. Intanto, ritengo assolutamente inadeguato il solo intervento del servizio sociale e sarebbe anche opportuno sancire che la misura alternativa venga seguita in termini di continuità dagli operatori che hanno accompagna to la persona durante la detenzione (educatori e psicologi). “Ma questo - conclude la prof.ssa Patrizi - risulterebbe ancora insufficiente al di fuori di un più mirato investimento in termini di politiche sociali e di risorse necessarie a realizzare un sistema integrato di servizi che favorisca, sostenga e ratifichi progettualità integrate fra giustizia, enti locali, terzo settore e volontariato, a partire dal riconoscimento di buone pratiche già attive che, adeguatamente sostenute, potrebbero essere estese, uscendo dal piano dell’eccezionalità”. Marroni (Garante detenuti Lazio): l’agenda politica italiana ha altre priorità “La situazione del sistema penitenziario regionale è impressionante e lo testimoniano anche i 14 decessi di detenuti registrati nel 2012 nella regione: 5 sono le morti per malattia e 4 per suicidio mentre per altre 5 morti le cause sono ancora in fase di accertamento”. Il Garante dei Detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, descrive così all’Agenparl la situazione carceraria regionale. “Nel 2012 si è registrato un tasso di sovraffollamento effettivo del 46%. La metà degli istituti ha un sovraffollamento superiore al 50%. Le percentuali più alte si registrano al Nuovo Complesso di Civitavecchia con l’88%, a Latina con l’85% e a Cassino con il 73%. Il carcere con più detenuti è Rebibbia Nuovo Complesso con circa 1.800 presente a fronte di 1.218 posti disponibili (45%). Il 93% dei detenuti sono uomini; il 40% non è un cittadino italiano. Il 44% dei reclusi è in attesa di giudizio definitivo. In carcere, oltre ai 7.000 detenuti, ci sono anche 17 bambini di età inferiore ai 3 anni, figli di detenute madri”. Il Lazio presenta nei suoi 14 istituti penitenziari una popolazione carceraria pari a 7.171 detenuti per una capienza regolamentale di 4.834 posti letto. Immaginare quali possano essere le condizioni di vita delle migliaia di detenuti resta una sensazione a dir poco raccapricciante. Il 35% dei detenuti è tossicodipendente; circa il 50% assume psicofarmaci e solo il 10% può contare su un sostegno psicologico. Fra i detenuti, anche 25 minorati psichici ed oltre 150 internati provenienti dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Stando a quanto riporta il Garante Marroni, l’ambito più delicato è quello del diritto alla salute. “In questo settore, -spiega - le carenze riguardano, soprattutto, l’assenza di una politica regionale per la sanità penitenziaria a 5 anni dal trasferimento delle competenze dal Ministero di Giustizia alle Asl (Dpcm 1/4/08), che causa una disomogeneità dei servizi erogati. La mappa dei disagi comprende l’assenza di assistenza sanitaria notturna nel carcere di Rieti, l’assistenza a singhiozzo negli istituti per la carenza di personale, lunghe liste d’attesa per le visite esterne. Molte problematiche sono legate al deficit della sanità regionale, che causa ritardi nella redazione dei piani per la salute mentale in carcere, la contrazione dei percorsi terapeutici per i tossicodipendenti e dei programmi in comunità terapeutiche. I mancati pagamenti da parte della Regione hanno causato anche l’interruzione del servizio di Telemedicina in carcere”. “Il costante incremento dei detenuti - dice ancora - le strutture fatiscenti, le carenze di personale, il taglio di ingenti risorse economiche e, non da ultimo, la latitanza della politica”: sono queste le concause denunciate che hanno permesso al Lazio di sfociare in questo drammatico tunnel di criticità. Rocco Duca: il punto di vista di un agente di polizia penitenziaria “Siamo soli ad affrontare situazioni e fatti che chi vive all’esterno di questo contesto neanche immagina”. Rocco Duca, agente di polizia penitenziaria nella Casa Circondariale di Rebibbia, racconta all’Agenparl la situazione delle carceri italiane da un altro punto di vista. Spesso, infatti, ci si scorda di uomini che in contesti delicati e duri da vivere, come quelli delle galere, si potrebbero definire dei “secondi abitanti del carcere”, per il loro ruolo e le loro mansioni. “L’organico dei nostri istituti, o almeno in quello dove io svolgo servizio, è al di sotto del 50% e il rapporto agenti - detenuti e di 1:100 circa. Le mansioni che svolgiamo sono molteplici. Spesso facciamo diversi servizi tutti insieme, perché qualche benpensante che non aveva granché da fare ha clonato il termine “lavoro dinamico”. Così si sopperisce alla mancanza di personale a discapito della sicurezza”. In queste prigioni dove risulta difficile distinguere i veri reclusi, chiunque metta piede viene inglobato in un tunnel senza uscita dove la problematicità e i disagi hanno ormai raggiunto soglie sul punto di non ritorno. “Qui dentro - continua l’agente - ci sono operatori o poliziotti che lavorano da 30, 40 anni. E si può affermare con tristezza che anch’essi hanno scontato il loro personale ergastolo. Siamo come detenuti in semilibertà, anche mettendo il piede fuori dall’istituto, dopo l’orario di lavoro, i problemi nati dentro non muoiono fuori. Lo Stato non aiuta le forze dell’ordine oltre alla carenza della benzina nelle auto. Non abbiamo vestiario, spesso non viene pagato lo straordinario che si è costretti a fare per mancanza di personale a discapito della propria famiglia. Ma (lo Stato) si ricorda che esistiamo quando c’è da consegnare una medaglia alla memoria perché qualche poliziotto ha sacrificato la propria vita facendo il suo dovere per la collettività. Ma nel quotidiano, nessuno, e dico nessuno, ti dà una parola di conforto. I poliziotti penitenziari fanno un lavoro delicatissimo, e noi… e di questo ne vado fiero ed orgoglioso… riusciamo giorno per giorno da soli a trovare quelle gratificazioni che ci aiutano a continuare a svolgere il nostro delicato lavoro nel migliore dei modi”. Rocco racconta come sia difficile tenere a bada gli equilibri all’interno delle celle, che tra l’altro, spiega che non si chiamano più così, ma camere detentive. “Come se, per qualcuno, cambiando la dicitura cambiasse la situazione. Situazione che è drammatica. In alcuni cosiddetti cameroni sono ammassati 10 detenuti. Quel che è peggio è che spesso si ritrovano a dover convivere 10 realtà e culture diverse, dal colore della pelle, alla religione, al modo di pensare. E non far degenerare il tutto spesso è molto complicato”. Stando ai dati, tra il numero di suicidi in carcere, si contano sempre più vittime anche tra gli operatori e gli agenti di polizia penitenziaria. E questo, spiega ancora l’agente,” è dovuto sicuramente al duro lavoro o alla pressione che giornalmente subiamo. Questa determina poi un crollo psicologico. Mi dispiace doverlo ammettere, ma molti di noi non sono nemmeno preparati ad affrontare queste pressioni, perché nessuno ci insegna come affrontarle e come affrontare anche la sofferenza e la disperazione dei detenuti che spesso facciamo nostre”. “Se noi abbiamo questa situazione - conclude Rocco Duca - è perché in realtà non c’è mai la certezza della pena. Spesso gli stessi detenuti affermano (per fortuna sono pochi):” Ci conviene delinquere piuttosto che lavorare. Si ha quel che si desidera, e anche se poi ci arrestano poco dopo si torna fuori. Tanto la legge non funziona e con qualche cavillo burocratico di galera se ne fa poca. Per tutto questo, quindi, dissento con tutte le alternative tirate fuori dal cilindro negli ultimi anni. È vero, svuoteranno le carceri, ma per quanto tempo? E soprattutto, a che costo? E della credibilità dello Stato in tutto ciò e della sua debolezza, ne vogliamo parlare?” Il racconto di Buccafusca… la vita in semi-libertà “Chi non è mai entrato in un istituto penitenziario, non può avere mai la percezione di quello che realmente è. Lo dice uno che ci ha vissuto, la situazione non è bella. In stanze in cui dovrebbero vivere 4 persone ce ne sono 6, addirittura 8. Ed un solo bagno, un solo lavandino, vicino alla cucina. Se uno si lava un altro non può cucinare. E viceversa. Questa è la situazione”. Savatore Buccafusca, detenuto in semilibertà da 3 anni del Carcere di Rebibbia, racconta ad Agenparl la sua storia. Esce la mattina alle 7 e rientra alle 22. Lavora. Dirige 2 società che operano nel settore dell’edilizia e finalmente si sente realizzato. Ha studiato per diventare un attore e ora nel tempo libero recita e gira l’Italia con la compagnia del Carcere di Rebibbia, guidata dal dott. Antonio Turco. Salvatore si scontra quotidianamente con i pregiudizi e le paure della società che lo continua ad etichettare come “detenuto” e non come un “semplice” cittadino. “Prima ero un succube del denaro. Non vedevo altro che soldi e i modi e le maniere per ottenerli: droga, riciclaggio - dice Salvatore. Chiaramente vivevo in un contesto sociale dove era facile operare tutto ciò, ma non voglio dare le colpe a nessuno. Ognuno di noi è responsabile di ciò che decide di fare della sua vita. Dopo varie vicende giudiziarie decido di costituirmi per pagare il mio debito con la giustizia e in quel momento nasce in me la consapevolezza di aver commesso degli errori. E allora, sembra un paradosso, ma finalmente mi sento libero seppur recluso in un carcere”. Secondo Salvatore, infatti, “dentro al carcere c’è chi è libero e c’è chi è prigioniero. La differenza è che si è prigionieri finché si rimane intrappolati nel passato. Allora tutto è contro di sè. Se invece si raggiunge la consapevolezza di aver commesso un errore, in quel momento si diventa liberi, e liberi anche di vivere il carcere”. “Il carcere è solitudine, il carcere è frustrazione. Il carcere è un macello di cose che non si possono elencare. Non tutti hanno la forza sufficiente, un supporto familiare alle spalle, quelle piccole basi culturali per poter affrontare il carcere in maniera diversa. C’è gente che non ha nessuno. Fanno rabbia tutti quei politici che rilasciano solo dichiarazioni e che non conoscono la realtà vera - dice Buccafusca - non si vanno mai a confrontare con delle persone che hanno chiara l’effettiva realtà del carcere. Poi ci si sorprende dei suicidi, dell’autolesionismo… È normale! Ti ritrovi completamente abbandonato a te stesso”. E quando si ha il privilegio di uscire fuori, la situazione sembra diventare ancora più drammatica. “Paradossalmente un uomo recluso non ha i problemi che incontrerebbe se mettesse i piedi fuori. Quando si è dentro, bene o male si sopravvive, ma fuori si ritrova rimmerso nei problemi che aveva prima, quando commetteva reati. Non c’è un vero e proprio organismo che ti prende per mano e ti conduce verso un’assistenza, un posto di lavoro. Non esiste!”. Un uomo che commette un reato è un delinquente. Un uomo che ha scontato la sua pena resta sempre un delinquente e in quanto tale ricominciare da zero e ricostruirsi una nuova vita resta a quanto pare una vera utopia. Salvatore, a tal proposito, ha un’idea semplice: un protocollo d’intesa col Comune di Roma. “Tu, Sindaco, che hai dato la licenza a queste aziende. Mi assumi 2 ex detenuti per favore? Solo 2!’ Mi viene risposto che non c’è posto nemmeno per gli “altri”, i “normali cittadini”. E noi? Che siamo?!. Bisogna traghettare la gente che ha sbagliato e rimetterla sulla giusta via? Ma datele un’opportunità lavorativa”. Questo chiede Salvatore Buccafusca alle autorità. “Per carità la bacchetta magica non ce l’ha nessuno - conclude Salvatore - ma c’è bisogno di un pronto intervento fuori dal carcere. Se poi si dà l’opportunità e non viene accetterà è un altro discorso. Ma fuori dal carcere occorre un punto di riferimento. Io per fortuna avevo la mia famiglia alle spalle, il mio lavoro da riprendere. Mi sono rimesso in gioco e sto bene. Ma gli altri?” Giustizia: disabilità e carceri, sono più di 200 i detenuti portatori di handicap in Italia Agenparl, 30 maggio 2013 La situazione delle carceri italiani “è costantemente sotto la lente mani carcere d’ingrandimento dello “Sportello dei Diritti”, da anni impegnato anche per un miglioramento delle condizioni della popolazione carceraria e per la tutela dei diritti di chi si trova a scontare una pena o è in attesa di giudizio, troppo spesso in condizioni disumane e sicuramente non all’altezza di un Paese che assume di essere “civile”. Questa volta siamo costretti a segnalare chi tra gli ultimi e forse ancora più ultimo, ci si conceda questa licenza, se siamo a parlare degli oltre 200 detenuti disabili presenti negli istituti penitenziari italiani secondo una recente ricerca condotta dalla ricercatrice Catia Ferrieri per l’Università degli studi di Perugia nell’ambito del “Por Umbria Fse 2007-2013” dall’eloquente titolo “Carcere e disabilità: analisi di una realtà complessa” che è bene divulgare per non far cadere nel dimenticatoio un ulteriore problematica che riguarda i nostri istituti di detenzione”. “Lo studio in questione ha preso in esame solo 84 dei 210 casi “ufficiali” in collaborazione con l’ufficio Detenuti e Trattamento del provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. Tale numero è dovuto al fatto che su un totale di 416 istituti penitenziari italiani, solo 14 hanno risposto al questionario, inviato a tutti gli assessorati regionali alla sanità delle regioni a statuto ordinario e, previa autorizzazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ai direttori delle case circondariali e di reclusione nelle regioni a statuto speciale. L’indagine si è basata, quindi, sugli 84 detenuti di cui si sono ricevuti i questionari ed ha riguardato sia la presa in carico da parte delle Asl di competenza, sia la compatibilità delle sezioni e reparti detentivi che ospitano detenuti disabili con le norme sull’abbattimento delle barriere architettoniche. La carenza di risposte da parte di alcune istituzioni delle varie regioni ha fornito solo dati parziali, ed in particolari quelli rivenienti dalle 10 regioni che hanno risposto al questionario: in particolare Umbria, Piemonte, Liguria, Calabria, Campania, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Valle d’Aosta, Lombardia e Veneto. I dati in questione sono aggiornati a luglio 2012. Per brevità mettiamo in evidenza solo i principali”. “Per ciò che concerne le presenze, la regione (tra quelle che hanno risposto) con il maggior numero di detenuti disabili è la Liguria, con 44 presenze tra la casa circondariale di Genova (40) e quella di Sanremo (4). A seguire la Calabria - con 19 presenze tra Castrovillari e Reggio Calabria e la Campania, con 7 detenuti disabili. Quanto alle differenze per sesso, età, stato civile, il 79,3% dei detenuti disabili è di sesso maschile. Il 35,7% ha un età compresa tra i 40-50 anni, il 20,2% tra i 50-60 anni, il 15,4% tra i 30 e i 40, il 5,9% ha più di 70 anni. Il 40,4% è celibe, mentre il 41,6% è coniugato, il 7,1% è separato o divorziato. Circa la metà dei detenuti disabili ha figli. Anche altre differenze sono state prese in considerazione e tra queste la cittadinanza, l’istruzione, e la formazione. I detenuti disabili sono in gran parte italiani (92,8%), circa la metà ha un diploma di scuola media inferiore, il 21,4% ha la licenza elementare, il 14,2% è diplomato alla scuola superiore, il 7,14% è laureato. Il 61,9% non ha seguito corsi di formazione né prima dell’ingresso nell’istituto penitenziario, né durante l’attuale detenzione”. “Per ciò che riguarda la tipologia di detenzione e di reparto: il 51,1% dei detenuti disabili presi in considerazione è sottoposto ad esecuzione penale, mentre il 27,3% è in custodia cautelare. Per il 19% il dato risulta addirittura sconosciuto. Quasi la metà, in particolare il 47,6% è attualmente assegnato a reparti ordinari, a fronte del 14,2% assegnati a reparti specifici. Un elemento importante da evidenziare è anche la tipologia di disabilità: il 79,7% dei detenuti è affetto da una disabilità fisica, mentre l’11,9% ha una disabilità sia fisica che psichica. Anche in questo caso, per il 3,5% il dato non è conosciuto. Il 19% dei soggetti ha una disabilità legata a una patologia immunitaria, il17,8% è affetto da problemi legati all’apparato cardiocircolatorio, il 17,8%, ha una disabilità legata all’apparato nervoso centrale. Uno spazio da porre all’attenzione riguarda gli aspetti delle indennità e del lavoro. Circa il 50% dei detenuti usufruisce attualmente di una indennità di disabilità erogata dall’Inps o da altri enti, mentre il 38% non ne usufruisce. Pochissimi, ossia solo il 96,4%, non è inserito in una attività all’interno del carcere. Da segnalare come esempio isolato e positivo è quello della Casa Circondariale di Reggio Calabria, dove i detenuti disabili sono inseriti nell’attività di lavanderia e di lavoro all’esterno dell’istituto”. “Quando si parla di handicap e disabilità non bisogna mai accantonare l’aspetto dell’accessibilità. La ricerca in questo senso evidenzia che il 55,9% dei detenuti disabili è ospitato in sezioni o reparti detentivi con ridotte barriere architettoniche, mentre il 44% in reparti o sezioni aventi barriere architettoniche. Il 42,8% dei detenuti disabili monitorati utilizza ausili per la deambulazione, mentre il 57,1% non ne utilizza. Tra gli ausili, prevalgono la sedia a ruote (16,6%) e i bastoni canadesi (11,9%). Un ultimo dato su cui riflettere riguarda le pene espiate e le pene residue. La pena residua più lunga è di 28 anni, mentre la più breve è di 8 giorni a fronte di una media 1527,78 giorni ossia a 4 anni, 2 mesi e 7 giorni. La pena espiata più lunga è di 19 anni, la più breve è di 16 giorni, mentre la media del tempo in cui il soggetto è in stato detentivo è di 1057,41 giorni, ossia 3 anni e 57 giorni. Alla luce di tali dati, Giovanni D’Agata presidente e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, rileva la complessità della situazione invitando i familiari dei detenuti disabili o tutti quelli che hanno conosciuto esperienze simili a segnalarle all’associazione specie per tutti quei casi che hanno riguardato circostanze che sono ritenute come lesive dei propri o altrui diritti”. Giustizia: un articolo giornalistico non vale il carcere, la riforma è urgente di Caterina Malavenda Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2013 Se il numero di persone, direttamente interessate ad una legge, servisse ad accelerarne l’iter, quello per modificare le norme sulla diffamazione non partirebbe neppure. Anzi, considerata dai più un problema della “casta” dei giornalisti e da molti - comprese le migliaia di diffamati o presunti tali - un modo per godere di maggiore impunità, è estremamente probabile che, ancora una volta, la richiesta di interventi radicali rimanga inascoltata. Pure, come accade sempre, quando la condanna alla reclusione riguarda un giornalista di spicco, ma questa volta con minor vigore, l’indignazione e le sollecitazioni a far qualcosa non sono mancate. Ma non è solo Giorgio Mulè - o, in precedenza, Alessandro Sallusti - a dover temere i rigori di una cella, se la sentenza che lo ha condannato alla reclusione, con i colleghi Andrea Marcenaro e Riccardo Arena, venisse confermata. Prima di lui, ad una giornalista di Palermo, a due giornalisti di Bolzano ed a tre giornalisti di Chieti - rimanendo a quel che si trova su internet- era toccata la stessa sorte, nel sostanziale silenzio dei colleghi; e chissà a quanti altri è capitato e potrà capitare, non per l’ostinazione o, peggio, per il pregiudizio di un giudice, ma perché è la legge che lo consente ed a volte lo impone. Dunque, che fare? Si è detto e si è scritto più di quanto fosse necessario, si è proposto, fatto e disfatto più di quanto sembrasse possibile e siamo ancora al punto di partenza. Certo, mettere mano ad un sistema che finora ha funzionato, con il rischio che le cose peggiorino - e potrebbe accadere, a ricordare alcuni degli emendamenti, proposti un anno fa, da un Parlamento con le idee un pò confuse- è un azzardo, ma aspettare ancora non è più consentito. A chi ritiene che la previsione del carcere, sia pure per casi gravissimi, non possa esser cancellata, si oppone chi, invece, preferirebbe il ricorso alla sospensione dalla professione per diversi mesi o l’incremento dei risarcimenti, soluzioni forse peggiori del problema che dovrebbero risolvere e la politica non è stata ancora in grado di prendere una decisione. Intanto, qualche giorno fa, uno studio ha confermato come sia praticamente inutile cercare di far sparire definitivamente una notizia, una volta entrata in rete ed ha suggerito, quale rimedio più efficace, di postare una nuova notizia di segno contrario, che finirà per sostituire quella precedente. È la stessa filosofia della “vecchia” rettifica, per qualcuno una notizia data due volte, ma nel mondo caotico dell’informazione di oggi, il solo modo per ripristinare la verità e recuperare, forse non del tutto, la reputazione compromessa. Nell’attesa che chi deve decidere lo faccia, basterebbero, intanto, due mosse: abrogare l’art. 13 della legge sulla stampa, che per i soli giornalisti della carta stampata, in caso di diffamazione aggravata dall’attribuzione di uno specifico fatto disdicevole, prevede la reclusione da uno a sei anni, lasciando al giudice la facoltà di scegliere sempre fra la multa e la detenzione; e prevedere che non possa essere querelato chi ha pubblicato una rettifica, a richiesta o spontaneamente, purché con la necessaria evidenza. Ciò consentirebbe di rimettere la decisione sui danni residui al giudice civile ma, soprattutto, di azzerare il rischio di una condanna penale, disinnescando così quel dilemma - carcere sì, carcere no - che, come l’asino di Buridano, nell’indecisione perenne, rischia di far morire ogni velleità riformatrice. Giustizia: Cassazione; nessun risarcimento per ingiusta detenzione a Giulio Petrilli Adnkronos, 30 maggio 2013 Nessun risarcimento per ingiusta detenzione a Giulio Petrilli, assolto dopo 6 anni di carcere con l’accusa di partecipazione a banda armata per un suo presunto coinvolgimento nell’organizzazione Prima Linea. Detenuto ingiustamente per sei anni “in tredici carceri, da San Vittore ad Ascoli Piceno, sempre nel regime speciale riservato ai terroristi”, racconta lo stesso Petrilli, è stato assolto in appello. Un proscioglimento divenuto definitivo in Cassazione nel 1989. Petrilli oggi ha chiesto il risarcimento per ingiusta detenzione ma, come lui stesso spiega in una nota, la Suprema Corte, ha detto no al risarcimento per ingiusta detenzione. “La motivazione del non risarcimento è l’applicazione del comma 1 del 314 c.p., (dolo e colpa grave), cioè quello di aver avuto frequentazioni sbagliate - spiega lo stesso Petrilli in una nota. L’assoluzione non conta nulla, i giudici del risarcimento valutano non l’assoluzione o la condanna , ma i comportamenti: il giudizio morale”. Petrilli annuncia che ricorrerà alla Corte Europea di Strasburgo “per aperta violazione dell’art.3 della Costituzione e dell’art 6 della Convenzione Europea”. Petrilli fu accusato di partecipazione a banda armata a poi assolto “Il risarcimento per ingiusta detenzione è un diritto per chiunque sia stato assolto. Ora la riparazione può non essere riconosciuta se vengono contestate frequentazioni non idonee, che possano aver tratto in inganno gli inquirenti. Bisogna cambiare l’articolo 314 del codice di procedura penale: è una norma pericolosa che introduce nel nostro ordinamento il giudizio morale”. Giulio Petrilli, ha alle spalle sei anni di custodia cautelare subiti ingiustamente, perchè poi è stato assolto. Ha convocato associazioni parlamentari ed ex parlamentari davanti alla Cassazione, dove oggi la Quarta Sezione Penale discute il suo ricorso contro la decisione della Corte d’Appello di Milano che gli ha negato il risarcimento. La pioggia impedisce il sit-in, ma Petrilli distribuisce volantini in cui racconta la sua storia. Nell’80, aveva 21 anni, venne arrestato per partecipazione a banda armata. “Ho girato 13 carceri, da San Vittore ad Ascoli Piceno”, racconta. “Ero detenuto nel regime speciale riservato ai terroristi, perchè accusato di aver partecipato, da quando avevo 18 anni, a Prima Linea”. Petrilli ha passato sei anni in carcere per poi essere assolto in Appello. Un proscioglimento divenuto definito in Cassazione nell’89. La Cassazione deciderà oggi sul suo ricorso, ma il pg ha già dato parere contrario. “Nel caso di esito negativo faremo ricorso alla Corte Europea. E la mia sarà la causa pilota. Va limitato - dice l’avvocato Arturo Salerni, dell’associazione Progetto Diritti - il potere di intervento da parte del giudice della riparazione sulla vicenda che ha portato al proscioglimento. Non può essere che in questa sede si rimetta in discussione tutta la storia processuale”. In sostanza ora il giudice di ultima istanza potrebbe ritenere che l’errore giudiziario non sia imputabile a chi ha svolto le indagini: “Quindi vanno posti dei paletti all’articolo 314. Ogni qualvolta c’è un’ingiusta detenzione - aggiunge Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone - ci dovrebbe essere una riparazione del danno, per ridare giustizia a chi ha subito una grave violazione dei diritti umani”. Giustizia: processo morte Stefano Cucchi; chiusa fase dibattimentale, 5 giugno la sentenza Ansa, 30 maggio 2013 Quello per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo all’ospedale “Sandro Pertini”, è stato un “processo isterico, infarcito di polemiche, di rappresentazioni parziali, con molta voglia di protagonismo di qualcuno che ha obnubilato i giudizi della Corte”. È partito da qui l’avvocato Gaetano Scalise nella sua arringa in difesa del prof. Aldo Fierro, primario del Pertini e uno dei sei medici imputati (per lui i pm hanno chiesto la condanna a 6 anni e 8 mesi). Con l’arringa di Scalise si è chiuso il processo, il 5 giugno, eventuali repliche e la camera di consiglio per la sentenza. Sotto processo, anche tre infermieri e tre agenti penitenziari; tutti, a vario titolo e a seconda delle posizioni, accusati di abbandono di incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni ed abuso d’autorità. “Per contestare reati come quelli dei capi d’imputazione - ha detto Scalise - sarebbe stato necessario avere la prova che Fierro abbia agito dolosamente. E non è così; senza dimostrare l’esistenza del filo del dolo che lega tutte le imputazioni, non è possibile condannare nessuno”. In merito al grave reato di abbandono d’incapace contestato il messaggio è stato chiaro: “Cucchi era capace d’intendere e volere, la sua era solo una incapacità derivata dal fatto che era detenuto. Ma non basta che un paziente sia detenuto per configurare l’ipotesi di abbandono”. La chiusura, con quello che lo stesso Scalise ha definito “un colpo di teatro”, con la lettura di una parte del rapporto della Commissione d’inchiesta istituita dall’Ordine dei medici di Roma per verificare eventuali violazioni deontologiche dei medici imputati. “Non hanno responsabilità - ha letto il difensore dalle pagine del rapporto - e insieme al detenuto sono le vittime di una legislazione che meriterebbe maggiore armonizzazione”. La richiesta finale è stata l’assoluzione del primario del Pertini. Giustizia: Gianni Florido… uno dei tanti detenuti in attesa di giudizio di Riccardo Arena www.ilpost.it, 30 maggio 2013 È noto l’eccessivo ricorso alla misura cautelare in carcere, la galera prima del processo. Sono circa 14 mila le persone detenute che oggi attendono un primo giudizio. Meno evidenti, meno raccontate, sono le singole vicende giudiziarie che compongono queste statistiche. Meno raccontate sono le persone dietro i numeri. Persone le cui vicende processuali rendono ancor più evidente, per non dire drammatica, la patologia procedurale. Una di queste vicende è quella che ha coinvolto Gianni Florido, ormai ex Presidente della provincia di Taranto. Una vicenda, una misura cautelare in carcere, facile da sintetizzare perché durata solo 8 giorni. Ecco i fatti. Il 27 aprile 2012 i Pm di Taranto chiedono al gip l’applicazione della misura cautelare in carcere per il Presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido. Secondo i Pm, Florido, che è indagato dal 1 dicembre del 2012, deve essere sottoposto a misura cautelare in carcere perché su di lui ci sono gravi indizi in merito al reato di concussione. E infatti, secondo l’accusa, Gianni Florido avrebbe commesso diverse condotte concussive per aver costretto alcuni dirigenti della Provincia di Taranto ad avere un atteggiamento di generale favore nei confronti dell’Ilva e a rilasciare autorizzazioni per una discarica. È bene precisare che dall’indagine non è emerso che Gianni Florido abbia percepito denaro per tale condotta. Neanche un euro gli viene trovato per tali presunte concussioni. Il 14 maggio, il Gip di Taranto Patrizia Todisco accoglie la richiesta dei Pm ed emette un’ordinanza di misura cautelare in carcere nei confronti di Florido. Un documento lungo ben 102 pagine. Nella lunghissima ordinanza, il Gip Todisco non ha dubbi: Gianni Florido deve essere per forza sottoposto alla misura cautelare più severa: il carcere. Una scelta imposta dalle esigenze cautelari. Per il Gip le accuse sono gravi e la pericolosità di Gianni Florido, la spregiudicatezza con cui ha commesso dei reati e la sua notevole capacità a inquinare le prove non consentono di applicare una misura cautelare diversa da quella carceraria. Il 15 maggio, all’alba, Gianni Florido viene portato nel carcere di Taranto. L’arresto del Presidente della provincia di Taranto conquista subito giornali e televisioni. La notizia è sparata a gran voce. La gogna mediatica si è messa in moto. Lo sputtanamento è totale e parla chiaro: Gianni Florido, pur essendo indagato, pur essendo presunto non colpevole è già condannato dai mass media, prima che dal giudice. Un arresto e una gogna mediatoca che produce subito un effetto rilevante: il 16 maggio, Gianni Florido, con una lettera scritta dal carcere, si dimette da Presidente della provincia di Taranto. Il 17 maggio Gianni Florido viene interrogato dal Gip e nega ogni addebito. Il 18 maggio i difensori presentano un’istanza per la concessione degli arresti domiciliari. I Pm danno parere favorevole e il Gip, in data 22 maggio, consente che Florido esca dal carcere per essere ristretto nella sua abitazione. Morale: otto giorni di misura cautelare in carcere senza senso. Otto giorni di misura cautelare in carcere che, stranamente, sono bastati per far scomparire d’un tratto quelle esigenze cautelari che, secondo il Gip, erano così gravi da imporre che Florido fosse detenuto in carcere e non agli arresti domiciliari. Domando: cosa è cambiato dopo solo otto giorni? Come mai esigenze cautelari così importanti da tutelare, tipiche di un pericoloso criminale, sono svanite nel nulla ed in così poco tempo? Ed infine, se erano necessarie le dimissioni di Florido, perchè, invece di portare in carcere l’amministratore di un’importante provincia, non è stata applicata una misura interdittiva (come prevede l’art. 289 c.p.p.)? Difficile, davvero difficile capirlo. Come difficile è orientarsi in un processo penale che ha smarrito qualsiasi ragionevolezza e qualsiasi capacità di dare una risposta di giustizia. Resta un punto. Oltre a Florido, sappiamo che sono 14 mila i detenuti in attesa di un primo giudizio. Ma, al di là del dato numerico, non sappiamo molto di più. Manca una questione essenziale: tra loro, quanti sono i cittadini senza nome e senza fama calpestati da una giustizia insensata? La verità è che vicende giudiziarie come quella che ha riguardato Gianni Florido, suscitano una preoccupazione che va ben oltre le cifre e le statistiche sulla misura cautelare in carcere. È la preoccupazione relativa alle persone e non ai numeri. È la preoccupazione per tutti quei cittadini senza fama e senza nome che oggi sono detenuti in attesa di giudizio nelle patrie galere e che sono spesso vittime di una giustizia insensata. Già, le persone. Emilia-Romagna: dalla Regione destinate alle carceri risorse per 1 milione di euro Redattore Sociale, 30 maggio 2013 I dati presentati in Commissione regionale: 345 mila euro dal sociale. In calo il numero dei detenuti: erano 3.469 a fine 2012. Aumentano i detenuti che lavorano, anche se i numeri sono molto bassi. Superano il milione di euro le risorse destinate dalla Regione Emilia-Romagna al carcere (1.038.687,05) nel 2011. Dall’assessorato alle Politiche sociali stanziati 345 mila euro per il Programma Carcere di cui il 70% per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti e lo sportello informativo e il 30% per il reinserimento sociale, l’accoglienza e l’accompagnamento sociale e lavorativo delle persone coinvolte in area penale. Per raggiungere il totale dell’impegno economico regionale per il carcere, vanno aggiunti anche poco più di 138 mila euro derivanti da altri fondi regionali, 230 mila euro del Fondo sociale europeo (destinati al Progetto Acero), quasi 153 mila euro del Terzo settore e 172 mila euro che arrivano dalla compartecipazione dei Comuni sedi di carceri. I dati sono stati presentati in Commissione regionale insieme al report 2012 sulla situazione penitenziaria in Emilia-Romagna. “Da parte nostra, cerchiamo di rinforzare gli interventi per migliorare le condizioni di vita dei detenuti in carcere da una parte e il reinserimento sociale e lavorativo dall’altra”, ha detto l’assessore regionale alle Politiche sociali, Teresa Marzocchi. In particolare, l’assessorato alle Politiche sociali ha lavorato per potenziare gli sportelli informativi, per la valorizzazione del volontariato penitenziario (oltre 400 i volontari che operano nelle carceri regionali), attraverso il progetto “Cittadini sempre” (finanziato con 80 mila euro in 3 anni), la rete Teatro Carcere (dal 2011 un impegno annuale di 30 mila euro) e il lavoro (651 i detenuti che lavorano sul totale di 3.469). “I numeri sono ancora molto bassi ma quella del lavoro è un’opportunità che va percorsa - dice Marzocchi - Basta guardare all’esempio della Dozza dove un gruppo formato da 3 aziende ha creato un’officina interna in cui i corsi di formazione ai detenuti sono tenuti da operai specializzati in pensione”. L’obiettivo, dunque, è il lavoro perchè, spiega l’assessore, “è uno degli strumenti per migliorare le condizioni di vita all’interno del carcere e per facilitare il reinserimento una volta usciti”. Tra i progetti sostenuti dalla Regione c’è anche “Acero”, finanziato attraverso i fondi di Cassa Ammende, e volto all’accoglienza e all’accompagnamento sociale e lavorativo dei detenuti. In particolare, per quanto riguarda l’accoglienza sono 45 i posti per persone dimesse dal carcere per la fruizione di misure alternative presso residenze riabilitative collettive che assicurano una struttura abitativa e la presenza del volontariato. Attualmente sono 20 le persone presenti in struttura (9 alla Papa Giovanni XXIII di Rimini, 9 all’Ovile di Reggio Emilia e 2 a Viale K di Ferrara). Le condizioni di vita dei detenuti sono allarmanti anche se da 3 anni le presenze nelle carceri sono in costante calo: si è passati dai 4.373 detenuti del 2010 ai 3.469 del 2012. I suicidi sono diminuiti passando da 6 a 3 in un anno. E le misure alternative sono in crescita: nel 2012 sono state concesse in 1.524 casi (100 in più rispetto al 2011). Gli istituti penitenziari con maggiore livello di sovraffollamento sono Ravenna (198,3 presenze su 100 posti); Bologna (185,9), Parma (178,1), Piacenza (177,5). Sul totale dei detenuti in regione, più del 51% sono stranieri (1.776), con punte del 60% in alcuni istituti (Parma, Reggio Emilia, Bologna e Ravenna). Il 75% dei detenuti ha meno di 45 anni, percentuale che sale al 90% per gli stranieri. Meno della metà ha una relazione affettiva in corso o ha figli, anche in questo caso il numero aumenta per gli stranieri. Oltre il 70% dei detenuti ha un titolo di studio non superiore alla licenza media. Il 45% dei detenuti stranieri ha una condanna definitiva. Le persone in attesa del primo giudizio sono il 18%, di cui il 66% stranieri. In linea con i dati del 2011 nelle carceri regionali si contano principalmente per reati contro il patrimonio, contro la persona e contro la legge sulla droga, questi ultimi commessi principalmente da stranieri. La situazione penitenziaria in Emilia-Romagna Gli assessori Carlo Lusenti e Teresa Marzocchi - in ottemperanza a quanto prevede la Legge regionale 3/2008 - hanno illustrato i dati più significativi della situazione nelle carceri dell’Emilia-Romagna, alla presenza del Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Pietro Buffa, e della Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Desi Bruno. Sono intervenuti nel dibattito i consiglieri Gianguido Naldi (Sel-Verdi), Roberto Montanari (Pd), Andrea Pollastri (Pdl) e Monica Donini (Fds). All’unanimità, i componenti della commissione “Statuto e regolamento” hanno approvato la relazione sulla clausola valutativa della L.R. 3/2008. All’ordine del giorno dell’Assemblea, lunedì 3 giugno, è prevista la relazione annuale del Garante dei detenuti. Al 31 dicembre 2012, negli Istituti penitenziari erano presenti 3.469 detenuti, rispetto ai 4.000 di un anno prima; il sovraffollamento si sta allineando alla media nazionale (144,8 presenze su 100 posti in Emilia-Romagna; 139,7 in Italia); Le carceri di Ravenna (198,3) e Bologna (185,9) rappresentano le situazioni più critiche. Il flusso di ingresso nel 2012 è stato pari a 4.011 unità: erano stati 5.121 nel 2011; il dato è significativo in relazione alle procedure sanitarie previste per tutti i detenuti al primo ingresso (visita medica entro le 24 ore) e ai protocolli di screening della fase di accoglienza (entro le prime due settimane). Nonostante si registri un lieve calo percentuale, la presenza di stranieri negli Istituti penitenziari rimane alta, rappresentando il 51,2% della popolazione carceraria (erano il 52,6% al 31 dicembre 2009); i valori più elevati, superiori al 60%, si riscontrano nelle case circondariali di Parma, Modena e Ravenna. In Emilia-Romagna il 75% dei detenuti ha meno di 45 anni; meno del 50% dei detenuti ha una relazione affettiva in corso o ha dei figli (la percentuale si eleva notevolmente per gli stranieri); oltre il 70% dei detenuti ha a disposizione un titolo di studio non superiore alla licenza di scuola media. Il sovraffollamento, l’alto tasso di popolazione detenuta in custodia cautelare (oltre il 39%), l’alta presenza di detenuti stranieri (35,8%) e di tossicodipendenti (circa 30%) sono i problemi principali delle carceri italiane evidenziati anche dalla recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (il cosiddetto Caso Torreggiani). L’Italia ha un anno di tempo per evitare le sanzioni previste dalla Corte. Le condizioni di vita in carcere rimangono allarmanti anche se da tre anni la presenza della popolazione detenuta mostra un lento ma costante calo. Negli istituti penitenziari della regione il lavoro per i detenuti è aumentato (ma si parla di numeri ancora esigui: 651 persone, di questi circa la metà stranieri). I suicidi nelle carceri regionali sono diminuiti: da 6 a 3 detenuti in un anno (il dato nazionale è diminuito rispetto al 2011 da 63 a 56 suicidi). Quanto alle tipologie di reato, in linea con i dati del 2011, negli istituti penali della regione sono rinchiusi condannati principalmente per reati contro il patrimonio, contro la persona e per la legge sulla droga. Negli istituti della nostra regione, circa il 45% dei detenuti stranieri ha una condanna definitiva (questa percentuale aumenta di dieci punti percentuali a livello nazionale); le persone in attesa del primo giudizio, sia a livello nazionale che regionale, si attestano poco al di sotto del 36%. A fronte di una media nazionale intorno al 36%, gli stranieri rinchiusi negli istituti emiliano-romagnoli sono più del 51% (1.776), e in alcuni casi superano il 60% (Parma, Reggio-Emilia, Bologna, Ravenna). Nel 2012, hanno lavorato alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria 651 persone (poco meno del 20% dell’intera popolazione carceraria), di cui 301 stranieri. Si tratta, in larga parte, di lavori di manutenzione ordinaria dei fabbricati, servizi di istituto, lavorazioni interne (vivai e tenute agricole). I detenuti lavoranti non alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria rappresentano poco più del 3% della popolazione. I soggetti sani costituiscono circa il 30-40% dei detenuti. È stata calcolata la Dose Giornaliera Media di consumo di farmaci per detenuto e per categoria di farmaci. La spesa pro-capite e la spesa complessiva rispetto alla spesa pro-capite per i cittadini della Regione Emilia Romagna risulta essere maggiore del 100%. Costante ed elevato in percentuale, in particolare, il consumo di psicofarmaci e di farmaci per l’apparato gastro-intestinale. In regione oltre il 29% dei detenuti presenta una specifica diagnosi di tossicodipendenza (la media nazionale si attesta al 19,4%). Lusenti e Marzocchi hanno tenuto a valorizzare l’ampia rete di volontariato che opera nell’area penale, in collaborazione con le istituzioni regionali e locali. Il Provveditore Buffa, che ha assunto questo incarico nel luglio 2012, ha parlato dell’esigenza di diversificare i regimi carcerari, considerando la diversa pericolosità dei detenuti e il diverso livello di sicurezza che ne deriva. Rispetto all’ormai famosa sentenza europea - il citato Caso Torreggiani - ha detto che non è solo un problema di sovraffollamento e di metri quadrati, ma dell’insieme del regime penitenziario, dunque della quantità di ore passate fuori dalla cella, delle attività lavorative o formative effettivamente disponibili. Va perciò introdotta una maggiore razionalità nella gestione degli istituti di pena, all’interno di una logica di sistema che preveda, per esempio, di concentrare in poche sedi i detenuti per reati sessuali. Desi Bruno, infine, ha ricordato che la prima richiesta delle persone detenute è sempre la stessa: poter lavorare. E nonostante i limiti oggettivi, dovuti all’alta percentuale di stranieri e di detenuti tossicodipendenti, ha sostenuto vi sia una fascia di popolazione carceraria che potrebbe beneficiare di misure restrittive alternative al carcere. Lombardia: il Provveditore; per le carceri della Regione mancanza di metà degli educatori Ansa, 30 maggio 2013 Nelle carceri della Lombardia, oltre al reperimento delle risorse per fronteggiare le spese correnti, c’è un problema che riguarda gli educatori: all’appello manca il 50% del personale necessario. Inoltre, mancano operatori sanitari per avviare l’attività del reparto di riabilitazione di disabili a Busto Arsizio (Varese) creato nel 2007 ma ancora inattivo per mancanza di personale medico che la Asl dovrebbe fornire. Sono alcune delle criticità che Aldo Fabozzi, provveditore lombardo alle carceri, ha evidenziato in una audizione alla commissione speciale Carceri del Consiglio regionale, come riporta una nota del Pirellone. Fabozzi ha anche affrontato il problema del sovraffollamento degli istituti di pena in Lombardia (in cui attualmente ci sono 9.390 detenuti, di cui 26% tossicodipendenti e 45% stranieri)e ha confermato che da settembre ci saranno complessivamente 700 posti in più. Il carcere milanese di San Vittore, che ospita 1.687 detenuti contro 1.100 circa di tollerabilità, avrà 500 posti nuovi, mentre gli altri 200 saranno fra Pavia, Voghera e Cremona. Caso limite, ha ricordato il provveditore, quello di Varese, “una struttura inadeguata che è anche oggetto di un decreto nazionale di chiusura rimasto lettera morta: è una struttura totalmente in contrasto con le norme che regolano la vita dei detenuti”. Da parte della commissione consiliare, ha detto il presidente Fabio Angelo Fanetti, “c’è la volontà concreta di affrontare la questione del sovraffollamento delle carceri, con l’ampliamento di alcuni istituti e anche progetti che introducono una visione diversa del carcere non esclusivamente luogo di detenzione e di pena”. Roma: detenuto 82enne malato di tumore, dorme in saletta ping-pong per mancanza celle Ristretti Orizzonti, 30 maggio 2013 Il garante dei detenuti Marroni: svolgete al più presto le verifiche per una misura alternativa alla reclusione. Ad 82 anni di età, in precarie condizioni di salute a causa di tumori alla prostata, alla vescica e alla gola, è rinchiuso nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso per scontare una pena di tre anni per un reato commesso nel 2004. È questo il caso segnalato, con un telegramma, dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni al Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma. Nella sua segnalazione, Marroni ha evidenziato la necessità di svolgere, “al più presto”, le opportune verifiche anche al fine di valutare “la possibilità di applicare, a quest’uomo, R.M. di 82 anni una misura alternativa alla detenzione in carcere”. La vicenda è stata scoperta nei giorni scorsi dai collaboratori del Garante che quotidianamente visitano il carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. “Oltre all’età e alle patologie - ha detto Marroni - mi ha colpito la circostanza che quest’uomo è ospitato in quella che era sala per il ping pong che, visto il sovraffollamento, è stata trasformata da tempo in una cella per 15 detenuti e con un solo bagno alla turca a disposizione. Quella che si sta vivendo nelle carceri è una situazione disperata, confermata anche dal pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha rigettato il ricorso dell’Italia contro la sentenza dell’8 gennaio per il trattamento inumano e degradante a 7 detenuti del carcere di Busto Arsizio e di Piacenza. In base a questa sentenza l’Italia ha un anno di tempo per trovare una soluzione al sovraffollamento. Ora spetta alla politica porre in evidenza, nella propria agenda, il problema delle carceri. Lo ha detto anche il Ministro della Giustizia Cancellieri che non servono nuove carceri ma occorre ripensare il sistema delle pene. Il caso del detenuto di Rebibbia che denunciamo oggi è l’ennesimo emblema del fallimento di una linea improntata alla “tolleranza zero” che non ha risolto i problemi di sicurezza del Paese ed ha di fatto cancellato l’art. 27 della Costituzione”. Bologna: “Fare Impresa Dozza”, una società che seleziona, forma ed assume detenuti Redattore Sociale, 30 maggio 2013 Il caso-scuola della società “Fare Impresa Dozza (Fid)” che seleziona, forma ed assume detenuti, per poi ricollocarli una volta usciti dal carcere. Minguzzi: “Va sottolineata la valenza sociale e umana. Non è un progetto assistenziale, ma imprenditoriale”. Lunedì scorso Giorgio Minguzzi, presidente della società “Fare impresa Dozza” (Fid) ha ricevuto un invito per una festa di compleanno. Il festeggiato, al suo 40esimo, era un ex detenuto del carcere bolognese che, finito di scontare la pena, è riuscito a trovare lavoro in un’azienda e ricominciare a vivere dopo il periodo di reclusione. Si può partire da qui per raccontare che cosa è Fid, azienda meccanica che insegna il mestiere ai carcerati della Dozza direttamente in officina. Una società che nasce grazie all’impegno di tre imprese bolognesi (Gd, Ima e Marchesini group), che ne detengono ciascuna il 30%, e con la collaborazione della Fondazione Aldini-Valeriani, che possiede il restante 10%. Nell’officina, ricavata proprio dentro le mura della Dozza, inizialmente sono stati assunti 12 detenuti con condanna definitiva, che a breve diventeranno 16. I dipendenti vengono prima selezionati all’interno del carcere, poi formati e accompagnati nel loro percorso da tutor competenti, e infine assunti con contratti a tempo indeterminato, definiti con accordo sindacale, che partono dal giorno in cui finiscono di scontare la pena. Lavorano in officina 6 ore al giorno per 5 giorni alla settimana. Non solo: una volta usciti dal carcere, i lavoratori vengono anche ricollocati altrove, avendo nel frattempo acquisito le competenze necessarie per avere un curriculum di tutto rispetto. L’iniziativa “non va letta solo nell’interesse del carcerato - ha spiegato questa mattina Minguzzi durante un’udienza conoscitiva in Comune a Bologna - ma della società nel suo complesso”. Anche perchè le parti coinvolte sono molte: dall’amministrazione del carcere, alle imprese che partecipano, a pensionati ed ex lavoratori del settore, che si mettono a disposizione per insegnare ai detenuti il mestiere. I tutor, infatti, sono ex dipendenti di Gd, Ima e Marchesini group, che passano almeno una mezza giornata a settimana all’interno della Dozza. “E tra tutti quelli che si sono resi disponibili - prosegue Minguzzi - alla Dozza ce ne sono almeno un paio tutti i giorni, spesso anche di più”. L’esperienza viene considerata d’eccellenza nel panorama nazionale anche dall’assessore provinciale al Lavoro, Giuseppe De Biasi, e da Amelia Frascaroli, assessore comunale alle Politiche sociali. Ma ovviamente anche Fid non è esente da criticità: ad esempio, Massimo Ziccone, responsabile dell’area educativa della Dozza, spiega in commissione che “non è sempre facile trovare i detenuti adatti a partecipare al progetto, soprattutto perchè solo il 10% tra loro deve scontare una pena superiore ad un anno”. E formare professionalmente delle persone in un anno “non è possibile”. Dunque si deve guardare tra gli altri, quelli con pene più lunghe. Inoltre, “più o meno il 60% dei reclusi sono stranieri e ciò rende ancor più complicato il lavoro”. Tuttavia, tra i circa 100 detenuti che attualmente rispondono alle caratteristiche per questo tipo di formazione, “c’è una vera e propria corsa all’assegnazione dei posti”. Palermo: l’Unicredit organizza lezioni di educazione bancaria per i detenuti del Malaspina Italpress, 30 maggio 2013 Si sono conclusi due incontri formativi condotti con i ragazzi detenuti nel Carcere minorile “Malaspina” di Palermo nell’ambito di “In-formati”, il programma formativo di UniCredit volto ad accrescere la capacità dei cittadini di realizzare scelte economiche consapevoli e sostenibili. I ragazzi detenuti, circa 30, sono stati intrattenuti dagli specialisti commerciali di UniCredit - Ivana Battaglia, Laura Fortunato, Patrizia Vaccaro e Fabio Vazzana - sul tema delle start up, della nuova imprenditoria e dei finanziamenti agevolati per iniziare un’attività artigianale o imprenditoriale. Agli incontri, organizzati con la collaborazione della Cooperativa Al Reves, hanno partecipato anche l’imprenditore Francesco Belvisi e la professionista Gabriella Licari. “Sin qui i nostri specialisti commerciali - ha sottolineato Vincenzo Tumminello, Responsabile Settore Pubblico e Rapporti con il Territorio Sicilia di UniCredit - hanno dedicato tantissime ore di formazione, gratuitamente e senza alcuna finalità commerciale, a giovani delle scuole superiori e studenti universitari, ad anziani e immigrati, ad associazioni di categoria, imprese e organizzazioni non profit. Come già era avvenuto nei mesi di gennaio e marzo è stato emozionante rivolgersi ai giovani del Malaspina perchè speriamo di avere fornito un piccolo contributo per un loro successivo reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. Il nostro impegno formativo proseguirà nei prossimi mesi con convinzione. In Sicilia, in due anni, UniCredit ha erogato più di 180 corsi di educazione bancaria e finanziaria ad oltre 6.000 partecipanti, di cui il 90% non clienti o non bancarizzati”. Napoli: sit-in di Radicali e Sappe; detenuti con pene sotto i tre anni dovrebbero stare fuori di Umberto Ciarlo Cronache di Napoli, 30 maggio 2013 Non solo agenti. Ieri mattina insieme con il sindacato Sappe fuori il carcere di Poggioreale c’era anche l’esponente radicale, nonché presidente della cellula napoletana di Nessuno tocchi Caino, Luigi Mazzotta, e l’onorevole Paolo Russo (Pdl), giunto per ascoltare i motivi della protesta. “Poliziotti e radicali uniti per una vera riforma della giustizia”, recitava il cartellone indossato da Mazzotta, la realtà dei fatti ha dimostrato vera la frase. Ridurre il numero dei detenuti, questo l’imperativo sia del sindacalista che dei due politici. Il fine identico, i modi con qualche sfumatura. Donato Capece si è detto contrario ad indulto o amnistia e vede la diminuzione del numero dei detenuti passare attraverso un maggior ricorso alle misure alternative alla detenzione in carcere. “In Italia ci sono ventimila detenuti con pene sotto i tre anni che in carcere non ci dovrebbero stare - ha spiegato il capo del Sappe. C’è bisogno di una revisione del sistema sanzionatorio che permetta l’espiazione dei delitti minori sul territorio, il carcere deve essere considerato l’extrema ratio per i casi più pericolosi, non una discarica sociale. Altrimenti in carcere si morirà sempre. Gli agenti sono costretti a stress estremi, basti pensare che un solo agente si trova a dover vigilare anche su 100 detenuti, ed i detenuti si trovano a scontare pene dolorose alle quali nessuno li ha mai condannati poiché l’unica pena loro inflitta consiste nella mancanza di libertà personale”. Per Luigi Mazzotta invece amnistia e indulto devono essere la premessa ad un riforma del sistema sanzionatorio e della giustizia in toto. “C’è’ necessità - ha affermato il parlamentare Pdl - di mettere mano alla sicurezza nelle carceri. C’è un’attenzione sempre ridotta nei confronti di chi è detenuto e del tutto assente per chi in questo mondo opera per la tutela dei diritti dei detenuti e di chi è fuori”. Russo ha assicurato il suo sostegno in parlamento per cercare “pene alternative da una parte ma anche che evitino gli sprechi che, a cominciare dal braccialetto elettronico, mi sembra siano stati tanti. Quello delle carceri è un mondo dimenticato che va reso civile con chi opera perché la vita dei detenuti possa portarli alla redenzione”. Anche Donato Capece si è soffermato sulla questione dei braccialetti elettronici: “Nel 2001 il governo ha formato un contratto esclusivo con la Telecom per dieci anni, un contratto costato milioni e che ha portato solo una mezza dozzina di detenuti ad avere il braccialetto elettronico. Da quest’anno c’è un nuovo contratto, sempre con la Telecom, ed aggi ci sono solo 7 detenuti che ne beneficiano”. Parma: 60% detenuti straniero, condizioni di vita difficili, ma il lavoro carcerario aumenta La Repubblica, 30 maggio 2013 La città ducale ben superiore alla media regionale che si attesta al 50% circa. Nel rapporto della Regione si evidenzia una riduzione dei suicidi. Condizioni di vita difficili, ma i detenuti sono in calo e il lavoro aumenta. Si parla sempre meno italiano nel penitenziario di via Burla. Il rapporto regionale sulle carceri dell’Emilia Romagna evidenzia per l’istituto ducale una presenza di stranieri superiore al 60%. Insieme a Modena e Ravenna si tratta di un valore ben superiore alla media regionale, attestata attorno al 51%. Rimangono drammatiche le condizioni di vita, ma si evidenzia qualche segnale positivo, come la riduzione della popolazione carceraria e un maggior accesso al lavoro da parte dei detenuti. Calano anche i suicidi. Allarme per l’elevato numero di tossicodipendenti. Al 31 dicembre 2012, negli istituti penitenziari erano presenti 3.469 detenuti, rispetto ai 4mila di un anno prima; il sovraffollamento si sta allineando alla media nazionale (144,8 presenze su 100 posti in Emilia-Romagna; 139,7 in Italia); Le carceri di Ravenna (198,3) e Bologna (185,9) rappresentano le situazioni più critiche. Il flusso di ingresso nel 2012 è stato pari a 4.011 unità: erano stati 5.121 nel 2011; il dato è significativo in relazione alle procedure sanitarie previste per tutti i detenuti al primo ingresso (visita medica entro le 24 ore) e ai protocolli di screening della fase di accoglienza (entro le prime due settimane). Nonostante si registri un lieve calo percentuale, la presenza di stranieri negli istituti penitenziari rimane alta, rappresentando il 51,2% della popolazione carceraria (erano il 52,6% al 31 dicembre 2009); i valori più elevati, superiori al 60%, si riscontrano nelle case circondariali di Parma, Modena e Ravenna. In Emilia-Romagna il 75% dei detenuti ha meno di 45 anni; meno del 50% dei detenuti ha una relazione affettiva in corso o ha dei figli (la percentuale si eleva notevolmente per gli stranieri); oltre il 70% dei detenuti ha a disposizione un titolo di studio non superiore alla licenza di scuola media. Il sovraffollamento, l’alto tasso di popolazione detenuta in custodia cautelare (oltre il 39%), l’alta presenza di detenuti stranieri (35,8%) e di tossicodipendenti (circa 30%) sono i problemi principali delle carceri italiane evidenziati anche dalla recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (il cosiddetto Caso Torreggiani). L’Italia ha un anno di tempo per evitare le sanzioni previste dalla Corte. Le condizioni di vita in carcere rimangono allarmanti anche se da tre anni la presenza della popolazione detenuta mostra un lento ma costante calo. Negli istituti penitenziari della regione il lavoro per i detenuti è aumentato (ma si parla di numeri ancora esigui: 651 persone, di questi circa la metà stranieri). I suicidi nelle carceri regionali sono diminuiti: da 6 a 3 detenuti in un anno (il dato nazionale è diminuito rispetto al 2011 da 63 a 56 suicidi). Quanto alle tipologie di reato, in linea con i dati del 2011, negli istituti penali della regione sono rinchiusi condannati principalmente per reati contro il patrimonio, contro la persona e per la legge sulla droga. Negli istituti della nostra regione, circa il 45% dei detenuti stranieri ha una condanna definitiva (questa percentuale aumenta di dieci punti percentuali a livello nazionale); le persone in attesa del primo giudizio, sia a livello nazionale che regionale, si attestano poco al di sotto del 36%. A fronte di una media nazionale intorno al 36%, gli stranieri rinchiusi negli istituti emiliano-romagnoli sono più del 51% (1.776), e in alcuni casi superano il 60% (Parma, Reggio-Emilia, Bologna, Ravenna). Nel 2012, hanno lavorato alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria 651 persone (poco meno del 20% dell’intera popolazione carceraria), di cui 301 stranieri. Si tratta, in larga parte, di lavori di manutenzione ordinaria dei fabbricati, servizi di istituto, lavorazioni interne (vivai e tenute agricole). I detenuti lavoranti non alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria rappresentano poco più del 3% della popolazione. I soggetti sani costituiscono circa il 30-40% dei detenuti. È stata calcolata la dose giornaliera media di consumo di farmaci per detenuto e per categoria di farmaci. La spesa pro-capite e la spesa complessiva rispetto alla spesa pro-capite per i cittadini della Regione Emilia Romagna risulta essere maggiore del 100%. Costante ed elevato in percentuale, in particolare, il consumo di psicofarmaci e di farmaci per l’apparato gastro-intestinale. In regione oltre il 29% dei detenuti presenta una specifica diagnosi di tossicodipendenza. San Gimignano (Si); appello detenuto, un diritto vedere il mio cane Ansa, 30 maggio 2013 Un detenuto a Ranza: “Voglio vedere il mio cane”. Il provveditore: “Complicato anche per l’accesso dei familiari”. Carmelo Cantone: “Resta il problema della logistica: pensare, in caso, al necessario allestimento di apposite aree attrezzate nei penitenziari”. Dopo il via libera ai cani negli ospedali per andare a trovare i proprietari ammalati, è possibile pensare anche ai migliori amici dell’uomo “in visita” nelle carceri per portare conforto ai loro padroni detenuti? “È già abbastanza difficile, viste le condizioni dei penitenziari, riuscire a garantire gli incontri con i familiari, figurarsi quelli con gli animali domestici”. È la riflessione del provveditore delle strutture di reclusione della Toscana, Carmelo Cantone, dopo che oggi il quotidiano Il Tirreno si è occupato di un recluso del carcere di San Gimignano che impossibilitato a vedere il suo cane, ha lanciato un appello affinché essere visitati dai propri animali domestici diventi possibile anche a chi si trova dietro le sbarre. “Nel vuoto normativo sull’argomento - ha spiegato Cantone - nulla toglie che questa strada sia in certi casi percorribile, e quella di poter vedere il proprio cane è senz’altro una richiesta legittima da parte di un recluso. Ma resta il problema della logistica: pensare, in caso, al necessario allestimento di apposite aree attrezzate per cani all’interno dei penitenziari, quando gli stessi hanno in larga parte enormi legati al sovraffollamento degli ospiti umani, e non solo, rende questa proposta allo stato impraticabile per moltissimi istituti. Bisogna comunque riconoscere che talvolta, visite del genere sono avvenute, sia pure in casi isolati”. Uno di questi, alcuni anni fa, è avvenuto proprio in Toscana. Lo ricorda il garante dei detenuti del carcere di Firenze, dove questo è avvenuto: “si trattava di un noto calciante, Roberto Guadagnolo - racconta Corleone, che è anche coordinatore nazionale dei Garanti per i diritti dei detenuti - pose il problema dell’accesso degli animali in carcere a titolo affettivo proprio perché desiderava rivedere il suo cane; i vertici del penitenziario valutarono la richiesta, e poiché non esistevano impedimenti legali affinché ciò potesse avvenire, consentirono la visita”. Il vuoto normativo però permane, e, come rammenta sempre Corleone, l’unica volta in cui qualcuno provò a colmarlo “fu nel 1996, quando della questione iniziò ad occuparsi Michele Coiro, allora capo del Dipartimento penitenziario. Ma dopo alcuni mesi Coiro morì, e da allora nessuno ha più affrontato il tema”. Firenze: a Sollicciano si raccoglieranno le firme per una legge contro il sovraffollamento Ansa, 30 maggio 2013 Sarà Sollicciano il primo carcere italiano dove si raccoglieranno le firme per una legge d’iniziativa popolare promossa da circa 30 associazioni con tre obiettivi: ridurre il sovraffollamento all’interno dei penitenziari introducendo una sorta di numero chiuso all’esaurirsi della capienza regolamentare; inserire nel codice penale il reato di tortura, ancora mancante, anche in funzione anti sovraffollamento carcerario; modificare in senso meno restrittivo la legge Fini-Giovanardi sulle droghe. A dare l’annuncio dell’iniziativa di sabato prossimo è stato oggi il Garante dei detenuti di Firenze, Franco Corleone, ricordando che proprio a Sollicciano, omologato per circa 400 presenze, i detenuti si aggirano cronicamente intorno alle 1.000 unità. “La campagna, avviata nei mesi scorsi in tutta Italia, ha già visto il raggiungimento di oltre 20mila sottoscrizioni - ha detto il Garante - l’obiettivo è arrivare alle 50mila richieste per la presentazione della legge entro luglio, e quindi presentare la proposta alla Camera. Finora le firme sono state raccolte con presidi di fronte ai tribunali o nell’ambito di altre iniziative destinate ai cittadini liberi. “Ma coinvolgere i reclusi è fondamentale - ha aggiunto Corleone - e Firenze sarà solo la prima tappa di questa parte della campagna, che toccherà anche i penitenziari di Milano, Roma e inoltre altre città italiane. Il 26 giugno, in occasione della giornata mondiale indetta dall’Onu contro la tortura, ci sarà una maxi raccolta di sottoscrizioni per la proposta di legge, con 500 banchetti attivati in tutta Italia in collaborazione con i Radicali. E, sempre lo stesso giorno, una grande manifestazione nella Capitale il cui percorso, spiega ancora Corleone, si snoderà probabilmente tra il carcere di Regina Coeli alla sede del Ministero della Giustizia. Reggio Calabria: Longo (Prc); carcere Laureana chiuso da 7 mesi, quando la riapertura? Asca, 30 maggio 2013 Sono trascorsi sette mesi da quando è stato chiuso l’istituto penitenziario “Luigi Daga” di Laureana di Borrello e da allora grazie soprattutto al comitato cittadino nato spontaneamente per difendere un patrimonio di civiltà, sono state intraprese diverse iniziative anche di natura istituzionale per chiederne l’immediata riapertura. Fallito il tentativo di consegnare la struttura all’Asp per il ricovero di malati mentali gravi, non vorremmo che i colpevoli della sua chiusura stiano studiando un piano alternativo per boicottarne la riapertura. Lo afferma Giuseppe Longo (Prc), consigliere provinciale di Reggio Calabria. “Lo scorso 30 aprile si sarebbe dovuto riaprire il L. Daga, ma il sospetto iniziale che la sua chiusura sia stata frutto di un disegno politico, dettato da motivi oscuri e non certamente da carenze di organico - afferma Longo - trova conferma nell’atteggiamento inaccettabile del Provveditorato regionale che continua a non voler procedere alla sua riapertura nonostante le disposizioni ufficiali del Dipartimento della Giustizia”. Novara: sabato inaugurazione tensostruttura per le attività dei detenuti in via Sforzesca Corriere di Novara, 30 maggio 2013 Sarà inaugurata sabato primo giugno, alle 18,30, nell’area esterna del carcere di Novara, la tensostruttura utile ad accogliere attività ricreative e formative di primaria importanza nell’ottica del recupero dei detenuti. Un progetto di cui si è iniziato a parlare nell’ottobre del 2010. L’iniziativa, promossa dall’associazione “Compagnia dell’Olmo” presieduta da Pietro Pesare, aveva trovato da subito l’appoggio della Provincia di Novara e, naturalmente, della direzione e degli operatori della Casa Circondariale. “Non è stato facile reperire le risorse - ha spiegato Pesare, in conferenza stampa a Palazzo Natta, sede dell’Ente provinciale - ma grazie all’aiuto della Provincia e delle Fondazioni novaresi oggi siamo alla vigilia dell’inaugurazione. Non ci siamo mai persi d’animo”. Si tratta di una struttura di oltre 150 metri quadrati, alta fino a 5 metri, con tanto di impianto elettrico e riscaldamento. “Quest’operazione conferma e rinnova il rapporto avviato con il carcere e la sua Direzione - ha commentato l’assessore alle Politiche Sociali, Annamaria Mellone - che confidiamo di proseguire nell’ambito di una politica a sostegno del volontariato e della sussidiarietà”. “Un risultato significativo”, ha aggiunto il presidente Diego Sozzani. “Dopo la tipografia inaugurata da poco - spiega Rosalia Marino, direttrice del carcere - oggi andiamo a porre un altro importante tassello che muove nel segno della rieducazione. La tensostruttura sarà usata per una scuola di teatro, ma anche per corsi professionali e convegni”. Soddisfazione anche dalle fondazioni con Gianluca Vacchini (per la Fondazione Comunità del Novarese) e Gigi Santoro (Fondazione Banca Popolare di Novara per il territorio). Asti: Osapp; telefonino nascosto in bomboletta gas, trovato durante una perquisizione Ansa, 30 maggio 2013 Un telefono cellulare nascosto in un’intercapedine ricavata in una bomboletta di gas, usata per il fornelletto in dotazione ai detenuti, è stata trovata oggi dalla polizia penitenziaria nel corso di una perquisizione straordinaria nel carcere di Asti. Lo rende noto Leo Beneduci, segretario generale Osapp, che parla di “un ulteriore risultato del lavoro della polizia penitenziaria” e invita il ministro Cancellieri “ad avviare urgenti iniziative perchè non si perdano i risultati ottenuti”. Il cellulare nascosto nella bomboletta del gas si trovava in una cella occupata da detenuti albanesi. Secondo quanto si apprende, era perfettamente funzionante. “I reparti di polizia penitenziaria siano dotati di adeguata strumentazione tecnologica per contrastare l’indebito uso di telefoni cellulari o altra strumentazione elettronica da parte dei detenuti nei penitenziari italiani”, è la richiesta di Donato Capece, segretario generale del Sappe. Torino: in torneo detenuti contro studenti, così il volley fa incontrare due mondi lontani Redattore Sociale, 30 maggio 2013 Due mondi che domani si incontreranno nella casa circondariale Lorusso e Cutugno (Torino), per la diciassettesima edizione del torneo annuale di pallavolo tra detenuti e studenti delle scuole superiori della provincia Lo sport, con il suo portato di vitalità, lealtà e spirito di squadra, può diventare un’asse di comunicazione tra realtà distanti, come lo sono il carcere e la scuola. Due mondi che domani si incontreranno ancora una volta nella casa circondariale Lorusso e Cutugno (Torino), per la diciassettesima edizione del torneo annuale di pallavolo tra detenuti e studenti delle scuole superiori della provincia di Torino. Organizzato dall’associazione sportiva socioculturale “Iride” di Grugliasco, dal Servizio dipendenze area penale dell’Asl Torino 2 e dall’Amministrazione penitenziaria, il torneo vedrà gli alunni di quattro istituti superiori (Majorana, Natta, Peano e Des Ambrois) sfidarsi in una serie di eliminatorie contro una rappresentanza di detenuti con problemi di tossicodipendenza, inseriti nei programmi di recupero della struttura a custodia attenuata “Arcobaleno”. L’iniziativa risponde a una doppia finalità - spiega Enrico Teta, responsabile del Servizio dipendenze Asl To 2. In primo luogo, mette in contatto la realtà del carcere con la comunità esterna per favorire il reinserimento dei detenuti tossicodipendenti; inoltre, sensibilizza le giovani generazioni, sui problemi legati all’abuso di sostanze stupefacenti e ai comportamenti devianti”. Istituita nel 1995, la struttura Arcobaleno è nata per seguire un gruppo di 40 tossicodipendenti del Lorusso e Cutugno. Oggi occupa un’intera palazzina, nel padiglione E, e può ospitare fino a 110 detenuti, tra uomini e donne; i quali seguono un percorso basato sulla salvaguardia dei valori di dignità, rispetto, salute e sicurezza, e sul rifiuto della violenza fisica, delle minacce e degli abusi. L’ingresso è volontario, ma riservato solo a individui fortemente motivati: al suo interno, si svolgono attività di tipo terapeutico, formativo e ricreativo. “La tossicodipendenza - prosegue Teta - è una patologia complessa, con implicazioni neurobiologiche, psicologiche e sociali. Se non opportunamente curata, tende a recidivare anche dopo un lungo periodo di astinenza, come può accadere dopo la carcerazione: secondo alcune ricerche internazionali, all’uscita dal carcere, in assenza di un trattamento specifico, oltre il 50 per cento dei soggetti con una storia di abuso di sostanze ha una ricaduta entro un mese dal rilascio”. “ I detenuti di “Arcobaleno”, infatti, vengono seguiti anche una volta fuori dal carcere, in un percorso di reinserimento sociale con base nella Casa di reinserimento di Torino. I programmi della struttura hanno due percorsi principali: “Aliante”, che agisce da ponte verso progetti di cura e reinserimento sociale esterni, ed è rivolto a soggetti con una situazione giudiziaria che consente l’elaborazione di progetti da iniziare in carcere e poi proseguire all’esterno in misura alternativa alla detenzione; e “Arcobaleno”, un programma di tipo comunitario, attuato all’interno del carcere e destinato a chi debba scontare un residuo di pena di almeno 2 o 3 anni, con l’obiettivo di attivare un cambiamento complessivo della persona. “La ricaduta nell’uso di sostanze e la recidiva del reato - conclude il dottor Teta - si combattono molto più efficacemente con la cura della dipendenza piuttosto che con l’inasprimento delle pene e delle condizioni di detenzione. Ma questa evidenza fatica ad affermarsi nella cultura generale. Circa un quarto dei soggetti detenuti nelle carceri italiane presenta un quadro di abuso da sostanze stupefacenti e/o alcool. E molti di loro non hanno mai ricevuto un trattamento specialistico”. Nuoro: Sdr; encomio da diretttrice Badu e Carros per detenuto inventore “Libri farfalla” Ristretti Orizzonti, 30 maggio 2013 “Una straordinaria ricompensa che riconosce il merito di avere seguito con particolare impegno e profitto i corsi scolastici e di addestramento professionale. L’encomio assegnato dalla dott.ssa Patrizia Incollu è un forte segnale nella strada dell’umanizzazione del carcere. Per Alessandro Bozza un personale successo”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso che la direttrice di Badu e Carros, prima di lasciare la Casa Circondariale di Nuoro per assumere l’incarico a San Sebastiano, ha voluto assegnare un encomio all’ideatore dei “Libri Farfalla”. Le originali produzioni di carta, che racchiudono tra ali colorate racconti, filastrocche e novelle scritte dai detenuti dell’Alta Sicurezza per i bambini, erano state presentate a Nuoro e a Cagliari. L’encomio, che è stato trasmesso alla Direzione Generale dei Detenuti e Trattamento, al Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e al Magistrato di Sorveglianza di Nuoro, è stato assegnato considerati “i grandi miglioramenti dimostrati nel comportamento personale intramurario”. È stato inoltre evidenziato che il detenuto, 52 anni, originario di Ginosa (Taranto), si è “particolarmente distinto nell’ambito del laboratorio artigianale attualmente in corso nell’Istituto, attraverso la realizzazione di numerosi oggetti di varia natura, molti dei quali venduti all’esterno attraverso una mostra” Alessandro Bozza, ergastolano, in carcere da 20 anni, negli anni scorsi, sentitosi vittima di ingiustizia per avergli negato l’accesso al laboratorio si era cucito la bocca. Attualmente è impegnato, con il supporto della maestra Pasquina Ledda, oltre che alla costruzione di piccoli oggetti, nella produzione di racconti. Milano: l’8 giugno screening anti-glaucoma tra i detenuti di Bollate, iniziativa Lions Club Adnkronos, 30 maggio 2013 Prevenire la cecità, anche dietro le sbarre. È l’obiettivo di una giornata di screening per la prevenzione del glaucoma tra i detenuti del carcere di Bollate, promossa da Lions Club Bollate in collaborazione con l’Unità operativa di oculistica del presidio ospedaliero cittadino. L’iniziativa è in programma sabato 8 giugno, dalle 9 alle 12, nell’ambulatorio dell’istituto penitenziario. I detenuti di età compresa tra i 55 e i 65 anni - si legge in una nota dell’azienda ospedaliera Salvini di Garbagnate Milanese - verranno sottoposti a screening preventivi per il glaucoma sotto la guida di Mauro Cassinerio, direttore di Oculistica del presidio ospedaliero di Bollate. Ferrara: domani e sabato torna la “Cella in piazza”, iniziativa del Garante dei detenuti La Nuova Ferrara, 30 maggio 2013 Venerdì 31 maggio e sabato 1 giugno torna a Ferrara la “Cella in piazza”, su iniziativa del Garante dei diritti dei detenuti Marcello Marighelli nell’ambito della campagna per le 3 proposte di legge di iniziativa popolare su Tortura, Carceri e Droghe. In piazza Municipale sarà installata una riproduzione a grandezza naturale di una cella. I cittadini avranno la possibilità di entrare nel poco spazio in cui vivono quotidianamente sino a 4 detenuti: poco più di 11 mq nei quali i carcerati devono vivere anche 22 ore al giorno. È possibile organizzare visite telefonando allo 0532-419709. Sempre venerdì alle 17, presso la Sala dei Comuni del Castello, si terrà un seminario promosso dalla Camera Penale ferrarese e dedicato alla proposta di legge sulle carceri. Pavia: il vescovo incontra i detenuti “la società è indifferente ai vostri problemi…” di Anna Ghezzi La Provincia Pavese, 30 maggio 2013 Emozionati, sguardi attenti sul vescovo Giovanni Giudici che ieri pomeriggio si è fatto intervistare nell’aula del teatro di Torre del Gallo dai detenuti che compongono la redazione del giornale del carcere, Numero zero. Ivano, Domenico, Edgar, Ivan, Franco, Simon e Tariq sotto la guida dei volontari dell’associazione Vivere con lentezza e la supervisione del presidente Bruno Contigiani hanno preparato per mesi le domande da rivolgere al vescovo di Pavia. “Qui si lavora sul recupero della persona - comincia Contigiani - ma poi la società è pronta ad accogliere gli ex detenuti? Loro, quando sono qui, chiedono soprattutto di imparare qualcosa per poter vivere, dopo”. Ivano, stringendosi nella giacca della tuta e inforcando gli occhiali chiede ancora: “Perché la Curia tra le sue opere di carità non fa una cooperativa che aiuti i detenuti che escono?”. “Abbiamo fondato la cooperativa Il Convoglio: è solo una piccola risposta a un grande bisogno, che però ha bisogno del contributo di tutti - dice Giudici - per questo faccio un appello alla comunità pavese. Servirebbe molto altro, ma non è semplice trovare persone che riescano a dialogare con chi è appena uscito dal carcere, è più facile trovare sostegno per i bimbi, gli anziani, i disabili. Per aiutare detenuti ed ex detenuti serve una coscienza sveglia che riconosca le responsabilità individuali ma anche della società, e riconosca la necessità di dare a ciascuno un’altra possibilità: il passaggio più difficile è riuscire ad accogliere chi ha ferito altri, lo slancio del cuore non basta, occorre ragionare sulle opportunità che ciascuno ha avuto. E così si riesce ad avere una disposizione d’animo adatta per agire e lavorare con gli ex carcerati”. Il lavoro tiene banco tra le domande dei detenuti: “La diocesi ha una proposta per creare 5mila posti di lavoro trasformando il volontariato in impresa sociale - chiede Franco, occhialini, giacca blu e maglia rossa. Quali sono le prospettive di riuscita?”. “Abbiamo chiesto ascolto a Regione, Comuni, provincia - spiega Giudici - E l’assessore regionale Mario Melazzini ha garantito sostegno. In più ci sono sindaci che già stanno provando a fare delle cooperative sociali: coop di giardinaggio o agricole per impiegare i disoccupati, ci stiamo lavorando”. Il teatro è un’oasi all’interno del carcere: pareti verdine, porte azzurre, linoleum grigio per terra su cui qualche scarpa picchietta nervosa. C’è la statua della Madonna sulla destra, al centro del palco un dipinto di Gesù, ai lati pannelli di scenografia che mostrano il ponte Coperto, la cupola del Duomo, il Ticino. Il vescovo risponde ai detenuti sulla fede, su Giuda che ha tradito “ma che Gesù chiama comunque amico”, sulle dimissioni di Benedetto XVI e del nuovo Papa Francesco. Giudici parla di perdono (“Ognuno, anche chi mi ha ferito, è amato da Dio e ha un valore, dunque sarà Dio a garantire quella giustizia che da soli non potremmo rimettere in pari”, spiega), di donne nella società e nella chiesa. Clima rilassato, risate, battute. Tariq chiede “perché c’è tanta gente che non crede in Dio anche se dimostra il suo potere e fa miracoli”. Alla fine parla un detenuto del pubblico: “Bella iniziativa - dice - ma qui abbiamo un problema di convivenza, c’è disagio. Lei può fare qualcosa?”. “Possiamo sollecitare l’opinione pubblica - risponde Giudici - spiegare che il carcere non è solo pena, ma un “ospedale” in cui si aiutano le persone in un cammino di riabilitazione. Voi, però, ricordate che qui si può conservare la dignità e la libertà interiore”. Immigrazione: Zampa (Pd): Cie lager, non possiamo fare solo ciò che è ok per centrodestra Dire, 30 maggio 2013 I Centri di identificazione ed espulsione, più in breve Cie? “Definirli lager credo sia il termine più giusto”. Così Sandra Zampa, parlamentare del Pd, nel corso di un dibattito sull’immigrazione promosso dalla Cgil di Bologna. “Non possiamo far finta di non sapere cosa c’è a pochi metri dalle nostre case”, afferma la deputata, sottolineando come all’interno dei Cie si vive “una condizione molto peggiore di un carcere”. Per Zampa, “la cosa più allucinante è chi ci finisce dentro e il modo in cui ci sta, con la vita sospesa nel nulla” passando “24 ore su 24- afferma Zampa- a guardare un muro e a domandarsi quando potrai andartene e quando potrai rivedere la tua famiglia”. Una “assoluta negazione di libertà”, aggiunge la parlamentare democratica, affermando che proprio sull’immigrazione “abbiamo già sbagliato il primo colpo” nei rapporti con gli alleati di Governo. “Se ogni tema che poniamo noi diventa l’occasione per il centrodestra di dire che può cadere il Governo- è il messaggio inviato da Zampa- ci dobbiamo chiarire: non possiamo stare lì solo per fare quello che va bene a loro, perchè questo non può andare bene a noi”. Russia: sciopero fame centinaia detenuti in carcere Urali per percosse e violazione diritti Ansa, 30 maggio 2013 Diverse centinaia di detenuti, 400 secondo Itar-Tass, hanno iniziato oggi uno sciopero della fame nella prigione di Neviansk, nella regione di Sverdlovsk, sugli Urali. Motivo della protesta: la violazione dei loro diritti e presunte percosse da parte delle guardie. Alcuni di loro si sono barricati e hanno esposto dalle finestre striscioni in cui si dicono pronti a misure estreme. La polizia ha circondato il penitenziario mentre sono in corso trattative. India: mamma in carcere, figlio lavora da anni per pararle la cauzione Ansa, 30 maggio 2013 Se fosse vissuto ai nostri giorni Edmondo De Amicis gli avrebbe trovato un ruolo nel libro Cuore, ovviamente dalla parte dei “buoni”, come Garrone o Crossi. Ma dell’esistenza di Kanhaiya, un giovane indiano che ha lavorato sodo per pagare una cauzione e far uscire la mamma dal carcere, si è saputo solo da qualche settimana. La donna, Vijaya Kumari, è ritornata a casa dopo 19 anni dietro le sbarre, e visibilmente commossa ha detto ai giornalisti che le chiedevano quali fossero i suoi sentimenti: “Tutti dovrebbero avere un figlio come il mio”. Il fatto è che Kanhaiya era ancora nella pancia della mamma quando questa fu condannata all’ergastolo nel 1994 con l’accusa di omicidio di un bambino ed internata nel carcere di Lucknow, in Uttar Pradesh. L’anno dopo, con il neonato fra le braccia, Vijaya riuscì a farsi ascoltare in Corte d’Appello e fu convincente, perchè il giudice annullò la dura sentenza di primo grado, concedendole una libertà dietro il pagamento di una cauzione di 10.000 rupie (138 euro), che lei però non fu capace di pagare. “Fui lasciata sola - ha ricordato con tristezza - e né la mia famiglia, né i parenti e neppure mio marito mossero un dito per aiutarmi. Nei sette anni successivi lui venne a trovarmi una sola volta per dirmi che si era risposato”. Mamma e figlio vissero insieme fino a quando il piccolo Kanhaiya (uno dei nomi del Dio Krishna che vuol dire “Colui che ha visto la luce dietro le sbarre”) fu trasferito all’età di sei anni in una Casa-famiglia di Lucknow dove crebbe con un’idea fissa: trovare il modo per far uscire la madre dal carcere. Ormai adolescente il ragazzo ha cominciato a fare lavoretti di ogni genere, ma per anni la sua capacità di risparmio è stata vicina a zero, anche se almeno ogni due settimane tornava in carcere per incontrare la mamma. Finché lo scorso anno, ormai maggiorenne, si è presentato in una fabbrica di abbigliamento di Kanpur ed è stato assunto. Da quel momento, ha raccontato, “ogni rupia superflua finiva in un salvadanaio per accumulare la somma richiesta per la cauzione”, obiettivo raggiunto un mese fa. “Ed ora - ha assicurato - sono molto molto felice”. La storia di Vijaya Kumari ha avuto ampia eco sulla stampa, al punto che l’Alta Corte di Allahabad ha chiesto a tutti i tribunali locali di presentare al più presto la lista di tutti i detenuti che, avendo ottenuto la libertà dietro cauzione, non sono usciti per mancanza di risorse.