Giustizia: detenuti morti a Catanzaro, Velletri, Reggio Emilia, Milano. Un bollettino di guerra Ristretti Orizzonti, 2 maggio 2013 “Un altro detenuto, l’ennesimo, ha deciso di evadere dalla vita nel pomeriggio odierno annodandosi una busta di plastica intorno al collo in una cella del reparto isolamento della Casa Circondariale di Catanzaro. N.S., extracomunitario di circa 40 anni, in carcere per reati comuni, è il 55° morto nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, il secondo in meno di un mese alla Casa Circondariale di Catanzaro”. A darne notizia, ancora una volta, è Gennarino De Fazio, segretario nazionale della Uil-Pa Penitenziari, che aggiunge: “Di nuovo un’auto-soppressione nelle carceri italiane che conferma la media dall’inizio dell’anno di circa 5 suicidi al mese, più di uno alla settimana. Come ho già detto in tristissime circostanze analoghe, ancor peggio di un bollettino di guerra. Tutto questo non può non essere anche una diretta conseguenza dello stato di profondo degrado e sostanziale abbandono in cui continuano versare le prigioni del Paese, nonostante le pur importanti ed apprezzabili iniziative connesse alla realizzazione dei circuiti penitenziari regionali differenziati, voluti dal Capo del Dap Tamburino, ma non ancora decollati in Calabria”. “Anche per questo - continua il sindacalista - e per contribuire a sollecitare la politica e il neo governo in carica a dare senso compiuto alle dichiarazioni rilasciate sia dal presidente Letta sia dal ministro Cancellieri sulla tematica carceraria e porre fine alla flagranza di illegalità che ha portato pure a condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ho di nuovo aderito al Satyagraha, con cinque giorni di sciopero della fame, promosso da Marco Pannella dal 26 al 30 aprile”. “La Casa Circondariale di Catanzaro - ribadisce in chiusura De Fazio - è peraltro fra quelle che verranno ampliate nei prossimi mesi, essendo interessata all’apertura di un nuovo padiglione per circa 300 posti detentivi, nonché alla messa in funzione del centro diagnostico terapeutico per ulteriori 47 posti. Tutto questo, sembrerebbe, secondo le intenzioni dell’Amministrazione, in assenza di cospicui rinforzi agli organici della Polizia penitenziaria e delle altre figure professionali. Ciò, se confermato, anche a prescindere da moderni ed auspicabili modelli di sorveglianza connessi alla realizzazione del circuito penitenziario regionale differenziato, rischierebbe di vanificare gli effetti dell’ampliamento, se non addirittura di peggiorare la situazione complessiva in termini di operatività e offerte trattamentali”. Sappe: un bollettino di guerra Un giovane di origine magrebina si è suicidato oggi pomeriggio nel carcere di Catanzaro. “Secondo i primi accertamenti - riferiscono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto Sappe, e Damiano Bellucci, segretario nazionale - l’uomo sarebbe morto per asfissia, dopo essersi messo un sacchetto in testa. Sono ancora in corso gli accertamenti. È l’ennesimo, grave episodio che si verifica nelle carceri italiane, sempre più invivibili e indegne di un paese civile, sia per i detenuti, sia per gli operatori, in primis la polizia penitenziaria che sta a contatto 24 ore su 24 con i detenuti, riuscendo, così, ad evitare, che ogni anno circa 1100 di loro muoiano, tentando il suicidio”. “Negli ultimi 20 anni - aggiungono i due sindacalisti - sono stati salvati circa 17.000 detenuti. Le notizie dal carcere sono sempre più un bollettino di guerra. Nell’ultima settimana un giovane di 25 anni si è suicidato nella Casa di lavoro di Castelfranco Emilia, a Modena, un agente nell’istituto minorile di Lecce, uno ha tentato il suicidio a Modena e uno è appena morto anche nell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia. Cosa deve ancora succedere nelle carceri perché la politica faccia qualcosa? A Catanzaro ci sono circa 600 detenuti, per una capienza di circa 400 posti. C’è un nuovo padiglione che potrebbe ospitare oltre 200 detenuti, ma resta chiuso per mancanza di personale. In Italia - concludono gli esponenti del Sappe - mancano circa 7.500 unità”. Detenuto muore a Velletri. Il Garante “è emergenza” Un detenuto di 53 anni, Claudio T., è morto per un malore nel carcere di Velletri, dove era recluso dallo scorso mese di marzo. Lo rende noto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Il decesso è avvenuto la notte fra il 30 aprile ed il 1 maggio. È il quarto decesso registrato nelle carceri del Lazio dall’inizio del 2013; il secondo in poco meno di un mese a Velletri dopo quello del 27 marzo di un marocchino di 27 anni, Mohamed Saadaoui, le cui cause sono ancora in fase di accertamento. “Sarebbe un errore rubricare morte per malattia il decesso di quest’uomo - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - perché il problema è il contesto in cui è avvenuta. A Velletri sono presenti 635 detenuti a fronte di 444 posti. La metà di loro assume psicofarmaci e in 240 sono in carico al Sert. Circa 80 detenuti sono sottoposti a grande o grandissima sorveglianza. Il paradosso è che il nuovo padiglione, aperto di recente, è sottoutilizzato perché ha una impostazione di regime aperto ma, per quanto appena detto, la stragrande maggioranza dei detenuti presenti è incompatibile con un regime di bassa sorveglianza. Il personale di polizia penitenziaria è, poi, drammaticamente sotto organico: attualmente sono in 209 per 635 presenti quando la norma imporrebbe un rapporto agente/detenuto pari a 0,80. In queste condizioni - conclude Marroni - è davvero difficile che in carcere possa essere garantita non solo l’applicazione dell’art. 27 della Costituzione, ma anche un efficace diritto alla salute per i reclusi”. Piazzoni (Sel): dopo decesso Velletri affrontare dramma detenuti Ho appreso con grande rammarico dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni la notizia di un nuovo decesso, nel carcere di Velletri. La morte, seppure avvenuta per un malore, non ci esime da una riflessione sull’urgenza di affrontare il dramma degli istituti di pena. La presenza nella struttura di Velletri di 635 detenuti a fronte di 444 posti, di cui oltre la metà in carico al Sert, e molti sotto massima sorveglianza, l’impropria utilizzazione degli spazi disponibili, la sotto dotazione dell’organico della polizia penitenziaria sono tutte condizioni che acuiscono la drammaticità del clima carcerario. In queste condizioni mi chiedo in quale misura possa essere tutelato il diritto alla salute. Il Gruppo parlamentare di Sinistra Ecologia e Libertà ha presentato recentemente tre proposte di legge: sull’introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano, sull’abolizione di quello di immigrazione clandestina, sul ripristino della disciplina sulla recidiva e sulla prescrizione del reato antecedente alla legge Cirielli del 2005. È tuttavia urgente mettere in campo misure concrete (economiche, strutturali, giuridiche e organizzative) per garantire un trattamento dignitoso e rispettoso della persona in regime carcerario, poiché la detenzione non può prescindere da percorsi di rieducazione, anche e soprattutto nei periodi di crisi, quando si tende a porre in sordina situazioni di particolare disagio sociale come il sovraffollamento e le condizioni sanitarie nelle carceri. Intendo impegnarmi a tenere alta l’attenzione sul tema della qualità del trattamento intramurario dei detenuti”. Reggio Emilia: internato dell’Opg ritrovato morto in cella Un internato di circa 50 anni è stato trovato morto dal personale medico ieri pomeriggio nell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, all’interno del reparto dove era sottoposto alla misura di sicurezza. Lo rende noto il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, spiegando che non è la prima volta che si verificano episodi di questo tipo, dovuti, molto probabilmente, alle precarie condizioni di salute degli internati. L’uomo, di origine veneta, era nato a Verona: sarebbe morto per arresto cardio circolatorio. Il sindacato rende noto che già dal 2010 è stato firmato un protocollo d’intesa tra amministrazione penitenziaria e regione, per la dismissione dell’ospedale psichiatrico giudiziario e la costruzione di una nuova struttura che dovrebbe ospitare gli internati dell’Emilia Romagna. Attualmente - sottolinea il Sappe - a Reggio Emilia ci sono circa 210 internati, di cui circa 50 sono all’esterno in licenza. L’attuale struttura potrebbe essere riconvertita in casa circondariale o di reclusione, in modo da avere circa 300 posti detentivi in più in regione, salvaguardando anche la posizione lavorativa di tutti i dipendenti, in modo particolare il personale di polizia penitenziaria che costituisce la maggioranza. Milano: la Garante; 4 morti in un mese e mezzo, magistratura faccia luce Il caso del detenuto 78enne gravemente malato, morto nel carcere di San Vittore a Milano, “non è l’unico registrato nelle ultime settimane”. A dirlo è Alessandra Naldi, garante per il Comune di Milano dei diritti delle persone private della libertà. “Non posso fare a meno di manifestare la mia preoccupazione e la mia rabbia per il senso di impotenza che è inevitabile provare di fronte a queste notizie”, sottolinea in una nota, elencando altri tre decessi che si sono verificati nel giro di un mese e mezzo in due istituti di pena milanesi. “Sempre nel carcere di San Vittore, nel III reparto, a metà marzo è morto un giovane tossicodipendente - spiega Naldi - Pare che stesse male già durante il giorno e che sia deceduto durante la notte. All’inizio di aprile, nello stesso reparto, è morto un altro giovane detenuto. Entrambi i decessi sembrerebbero imputabili a cause naturali, ma i compagni di detenzione riferiscono di una lunga attesa prima dell’intervento dei sanitari, fatto normale in un carcere in cui di notte un solo agente deve controllare più piani. Inoltre, in uno di questi due casi, sembra ci fosse stata una caduta dal letto a castello qualche ora prima del decesso”. Un’altra morte, “catalogata come suicidio - riferisce Naldi - è stata registrata a metà marzo nel reparto di massima sicurezza del carcere di Opera. Quattro morti in un mese e mezzo sono francamente troppi. Chiedo che la Magistratura faccia piena luce su questi casi, individuando eventuali responsabilità. Ma chiedo anche che si faccia tutto il possibile perché casi simili non si debbano più ripetere”. “Nel corso dei primi mesi della mia attività - prosegue il Garante - ho ricevuto molte segnalazioni di persone detenute nonostante una situazione di palese incompatibilità con le condizioni detentive. Persone anziane, invalide o gravemente malate sono costrette a vivere nelle celle chiuse per la maggior parte della giornata, in condizioni detentive e con un’assistenza sanitaria inadeguate. Per fare un esempio, nel Centro clinico di San Vittore, dove sono detenute diverse persone cardiopatiche o a rischio per le loro patologie, le celle non sono neanche dotate di un campanello per richiedere aiuto di notte. E, comunque, in vari reparti del carcere, un solo agente di notte deve controllare più piani, e quindi i tempi di intervento in caso di urgenza sono ovviamente troppo lunghi. Così la carenza di personale e di risorse all’interno del carcere impediscono spesso di intervenire in tempo per salvare vite umane. Molte morti in carcere si potrebbero, e si devono, evitare”. Torino: agente evita suicidio detenuto Un giovane agente di polizia penitenziaria ha evitato il suicidio di un detenuto nel Padiglione C del carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino. Lo rende noto Roberto Streva, segretario regionale dell’Ugl polizia penitenziaria. “L’agente - dice Streva - ha dato prova di ineccepibile professionalità, ma c’è da chiedersi se avrebbe dovuto discolparsi nel caso non fosse riuscito a salvare il suicida. In Italia lavorano 38mila poliziotti penitenziari in difficilissime condizioni per il sovraffollamento delle strutture penitenziarie che ormai non sono più in grado di contenere l’enorme numero di detenuti”. Giustizia: la ministra Cancellieri “avrò grande attenzione ai bisogni dei detenuti” Agi, 2 maggio 2013 “Mi impegnerò per rendere sempre più civili le condizioni di vita dei detenuti. Avrò grande attenzioni ai loro bisogni e alle loro condizioni”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, al termine della visita nel carcere romano di Regina Coeli dove ha incontrato una rappresentanza di reclusi. “Abbiamo inaugurato un nuovo reparto - ha spiegato il ministro - per il momento abbiamo dato soltanto un’occhiata veloce, sono sempre luoghi di detenzione che ti emozionano. Il bilancio di oggi - ha aggiunto il Guardasigilli - è che bisogna lavorare molto e tutti insieme per fare veramente qualcosa di utile. Nelle carceri lavorano persone straordinarie e con grande dedizione. Credo che ci sia molta gente che abbia voglia di lavorare seriamente”. Prima di incontrare una rappresentanza di detenuti, il ministro Cancellieri ha ringraziato gli agenti di polizia penitenziaria e il persone in servizio nell’istituto: “Voi svolgete un lavoro delicato e importante - ha detto - e per questo vi ringrazio. Vediamo quello che si può fare per agevolare voi nel vostro lavoro e gli ospiti che possano uscire da questi luoghi di sofferenza come persone migliori, come è giusto che sia e come questo Paese deve fare. Ricordiamo che siamo la culla della civiltà giuridica e non dobbiamo tralasciare nessuno sforzo per dare dignità a delle persona che espiano la loro pena e che ne escano migliorate”. Morti tema delicato da affrontare con determinazione “Ho voluto rendere omaggio ai caduti della polizia penitenziaria per cominciare ad affrontare un tema che ritengo delicato e di grande valore”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, arrivando al carcere romano di Regina Coeli, sua prima visita ufficiale dalla nomina, dopo essere stata al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, dove ha deposto una corona presso la lapide in memoria degli agenti morti in servizio. “Voglio cominciare già qui - ha aggiunto Cancellieri - è un impegno serio che voglio affrontare con determinazione , e quindi prima di tutto occorre conoscere bene la situazione”. Fns-Cisl: gesto cancellieri di grande sensibilità “La visita a Regina Coeli, la prima in un istituto penitenziario dal suo insediamento, è un segnale che dimostra un gesto, non comune, di grande sensibilità e attenzione del ministro Cancellieri alle varie problematiche delle carceri e del personale del Corpo di Polizia penitenziaria mai riscontrate così con immediatezza”. Lo afferma, in una nota, il segretario regionale della Federazione Nazionale della Sicurezza Cisl, Massimo Costantino, secondo cui “la situazione delle carceri del Lazio e italiane è drammatica”. Per Costantino, “in un sistema penitenziario sempre più” in affanno, con le carceri sovraffollate, il personale di Polizia penitenziaria, pur sotto organico, garantisce un prezioso apporto all’effettività della giustizia, nonostante le mille difficoltà che quotidianamente si trova ad affrontare”. Per questo la Fns Cisl Lazio si augura “interventi del ministro atti a risolvere molte questioni esistenti sia nel carcere romano di Regina Coeli, così anche in quelli della Regione e non solo, legate alle gravi difficoltà dovute alla carenza degli organici”. Giustizia: Bernardini (Ri); amnistia “contra personam” del Fatto Quotidiano e Liana Milella Agenparl, 2 maggio 2013 “Quando si pronuncia la parola Amnistia diversi giornalisti e testate la associano immediatamente a Berlusconi e ai suoi numerosi processi. È un riflesso, una “fissazione”. Quasi quasi sarebbero pure disposti ad accettarla per i “poveri” carcerati, l’importante è che la si faccia “contra personam” cioè contro Berlusconi, escludendo solo lui. A leggere i loro articoli o interventi nei blog, non si trova nemmeno un passaggio riguardante le ragioni per le quali (per esempio) Marco Pannella sta portando avanti la sua costante azione nonviolenta - il Satyagraha - per far uscire lo Stato italiano dalla condizione letteralmente criminale per la quale dal 1980 è ininterrottamente condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione di numerosi articoli della Convenzione e, in particolare, dell’art. 3 “trattamenti inumani e degradanti” nelle nostre carceri, e dell’art. 6 “irragionevole durata dei processi”, sia penali che civili. Il Fatto lo ha scritto il 29 aprile con Marco Palombi: “Amnistia e indulto, grimaldelli per salvare Berlusconi da carcere e interdizione”. Liana Milella, lo dice oggi nel suo blog: l’Amnistia la vorrebbe pure, ma deve essere “pulita” e “trasparente”, fatta nella “logica e nello spirito di favorire i poveracci che stanno in galera”. Se di mezzo c’è Berlusconi, allora no, non la si deve dare a nessuno, non fa niente se nelle nostre duecento carceri, come sentenzia la Corte Europea, siano in corso trattamenti inumani e degradanti (=tortura). Figuriamoci poi cosa ce ne può fregare delle decine di milioni di italiani in attesa di un processo penale o civile”. Questo si legge da una nota diffusa oggi da rita Bernardini, ex deputata, già segretaria dei Radicali Italiani. Giustizia: Enzo Tortora, l’innocente di Carlo Verdelli www.repubblica.it, 2 maggio 2013 Qualsiasi cosa ci sia dopo, il niente o Dio, è molto probabile che Enzo Tortora non riposi in pace. La vicenda che l’ha spezzato in due, anche se ormai lontana, non lascia in pace neanche la nostra di coscienza. E non solo per l’enormità del sopruso ai danni di un uomo (che fosse famoso, conta parecchio ma importa pochissimo), arrestato e condannato senza prove come spacciatore e sodale di Cutolo. La cosa che rende impossibile archiviare “il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese” (Giorgio Bocca) è il fatto che nessuno abbia pagato per quel che è successo. Anzi, i giudici coinvolti hanno fatto un’ottima carriera e i pentiti, i falsi pentiti, si sono garantiti una serena vecchiaia, e uno di loro, il primo untore, persino il premio della libertà. Non fosse stato per i radicali (da Pannella al neo ministro Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo. Non fosse stato per Enzo Biagi che proprio su Repubblica, a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell’opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora (da Giovanni Arpino, “tempi durissimi per gli strappalacrime”, a Camilla Cederna, “se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto”) con un editoriale controcorrente: “E se Tortora fosse innocente?”. Non fosse stato per l’amore e la fiducia incrollabile delle figlie (tre) e delle compagne (da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell’ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall’Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale. Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l’inizio del calvario di Enzo Tortora (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all’Hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8, tre camere più servizi), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima. Paradossali i destini dei nomi impressi sulla tenaglia che ha stritolato Tortora, uno dei volti più noti di quando lo schermo era piccolo. Immaginiamo le due ganasce. Su una stanno gli accusatori, almeno i tre principali, tutti galeotti. (segue dalla copertina) Il capo cordata è Giovanni Pandico, ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ci ha provato senza successo anche con padre, madree fidanzata, “schizoidee paranoico” per i medici, diventa lo scrivano di Cutolo ed è lui a mettere nel calderone Tortora e a condizionare con la sua versione e la sua perversione molti altri affiliati: dal 2012 è un libero cittadino. Poi ci sono Pasquale Barra, detto “o ‘nimale”, killer dei penitenziari, 67 omicidi in carriera tra cui lo sbudellamento di Francis Turatello: è ancora dentro, ma gode di uno speciale programma di protezione. Lo stesso di Gianni Melluso, detto “il bello” o “cha cha cha”, uscito di galera e rientrato nel luglio scorso, ma per sfruttamento della prostituzione: durante i beati anni della delazione contro Tortora, usufruì di trattamenti di particolare favore, come gli incontri molto privati con Raffaella, che resterà incinta e diverrà sua moglie in un memorabile matrimonio penitenziario con lo sposo vestito Valentino. Va detto che Melluso fu l’unico di tutta la compagnia, magistrati compresi, a chiedere perdono ai familiari di Tortora, in un’intervista all’ Espresso del 2010: “Lui non c’entrava nulla, di nulla, di nulla. L’ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l’unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie”. Risposta di Gaia, la terzogenita: “Resti pure in piedi”. Stupirà, forse, che nel tiro a Tortora non compaia mai il nome di Raffaele Cutolo, il capo di quella Nuova camorra organizzata che aveva messo a ferro e fuoco la Campania per prenderne il controllo e contro cui venne organizzato il grande blitz del 1983. Tempo dopo, i due, Cutolo e Tortora, che intanto era diventato presidente del Partito Radicale, si incontreranno nel carcere dell’Asinara, dove “don Raffaé” albergava all’ergastolo. Il boss fu anche spiritoso: “Dunque, io sarei il suo luogotenente”. Poi allungò la destra: “Sono onorato di stringere la mano a un innocente”. E siamo all’altra ganascia della tenaglia, quella di quei magistrati che, senza neanche l’ombra di un controllo bancario, un pedinamento, un’intercettazione telefonica, basandosi solo sulle fonti orali di criminali di mestiere, sono riusciti nell’impresa di mettere in galera Tortora e condannarlo in primo grado a 10 anni di carcere più 50 milioni di multa. I due sostituti procuratori che a Napoli avviano l’impresa si chiamano Lucio Di Pietro, definito “il Maradona del diritto”, e Felice Di Persia. Sono loro a considerare Tortora la ciliegiona che da sola cambia l’immagine della torta, loro a convincere il giudice istruttore Giorgio Fontana ad avallare questo e gli altri 855 ordini di cattura, anche se incappano in 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (con l’appello, l’impalcatura accusatoria franerà un altro po’, con 114 assoluzioni su 191). Contraccolpi sul piano professionale? A parte il giudice Fontana, che infastidito da un’inchiesta del Csm sul suo operato si dimette sdegnato e ora fa l’avvocato, i due procuratori d’assalto spiccano il volo. Di Pietro (nessuna parentela con l’ex onorevole e onorato Tonino) è procuratore generale di Salerno, dopo aver sostituito Pier Luigi Vigna addirittura come procuratore nazionale antimafia. Non è andata malaccio neanche a Di Persia, oggi in pensione, ieri membro del Csm, l’organo di autocontrollo dei giudici (ma Cossiga presidente pare abbia rifiutato di stringergli la mano durante un plenum). Restano ancora due indimenticabili protagonisti del primo processo di Napoli, che inizia nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l’arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985, con il presentatore che subisce la condanna ma già da deputato radicale al Parlamento europeo: il presidente Luigi Sansone, che firma una corposa quanto friabile sentenza di2 mila pagine, in sei volumi, uno interamente dedicato a Tortora (con questa apoteosi: “L’imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui”), e il pubblico ministero Diego Marmo, arringa leggendaria la sua, con le bretelle rosse sotto la toga e una veemenza tale da fargli scendere la bava all’angolo sinistro della bocca, specie quando dipinge l’imputato come “un uomo della notte ben diverso da come appariva a Portobello” e quando erutta che i voti presi da Tortora alle Europee sono anche voti di camorristi. La conclusione, poi, è da pietra tombale sul diritto: “Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l’istruttoria”. Non cadrà, almeno in quei giorni, come non cadranno Luigi Sansone, che si consolerà con la presidenza della sesta sezione penale di Cassazione, né il focoso Marmo, in pensione dal novembre scorso dopo essere stato, tra l’altro, procuratore capo di Torre Annunziata. Nessuno dei delatori sbugiardati è stato incriminato per calunnia. Quanto ai magistrati, poco prima di morire, Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire la richiesta. Il Csm ha archiviato, risarcimento zero. Archiviato anche il referendum del 1987, nato proprio sulla spinta del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65 per cento, i sì sono l’80 per cento, poi arriva la legge Vassalli e di fatto ne annulla gli effetti. Quel che resta di Enzo Tortora (“Io non sono innocente. Io sono estraneo”, ripeteva come un mantra) non riposa in pace dentro una colonna di marmo con capitello corinzio al cimitero Monumentale di Milano. La colonna è interrotta a metà da un vetro. Infilata dall’esterno, un’immaginetta di un Cristo in croce con la scritta: “Uno che ti chiede scusa”. Dietro il vetro, c’è l’urna dorata con le ceneri e due date (1928-1988). Sotto, un’iscrizione abbastanza misteriosa: “Che non sia un’illusione”. La spiega Francesca Scopelliti, l’ultima compagna: “Enzo ha voluto farsi cremare insieme ai suoi occhiali, quelli che gli servivano per leggere e che perdeva di continuo, e a una copia della Storia della colonna infame del Manzoni, con la prefazione di Leonardo Sciascia, di cui era amico. Era venuto a trovarlo pochi giorni prima della fine. Ne scrisse subito dopo sul Corriere della sera, confidando parte di quello che Enzo gli aveva detto: speriamo che il mio sacrificio sia servito a questo Paese, e che la mia non sia un’illusione”. Venticinque anni dopo quel 18 maggio 1988, dubitare è lecito, specie in un’Italia che sembra avere nel proprio Dna la caccia al mostro quale che sia, proprio come nella cronaca del Manzoni. Siamo nel 1630, a Milano c’è la peste, vengono arrestati, sulla base della denuncia di alcune comari, due presunti untori accusati di spargere unguenti che propagano l’epidemia. Condannati sbrigativamente allo squartamento, sulle macerie della bottega di barbiere di uno dei due, incenerita a memento, viene eretta una colonna, a dannazione eterna dell’infame. L’accusa, “all’infame” di Portobello, piove sulla testa, come un pezzo di marmo caduto da un balcone, venerdì 17 giugno 1983. E da quel giorno, Enzo Claudio Marcello Tortora, figlio di un napoletano che faceva il rappresentante di cotone a Genova, giornalista e presentatore televisivo in gran spolvero, diventa all’improvviso “il caso Tortora”. Intanto sta nascendo a Napoli la prima bambina in provetta, la Fiat lancia la Uno, scompare Emanuela Orlandi, Federico Fellini firma la quart’ultima tappa del suo magistero con E la nave va, Vasco Rossi la prima: Vita spericolata. In televisione, spopola su RaiDue appunto Portobello, un mercatino alla londinese di varia umanità, dove si vendono e si comprano le cose più strane, dove tra le centraliniste, guidate da “sua soavità” Renée Longarini, spuntano le acerbe glorie di Paola Ferrari, Gabriella Carlucci, Eleonora Brigliadori, dove capitano tizi come quello che propone di abbattere il Turchino per risolvere il problema della nebbia in Val Padana, dove la valletta di colore si guadagna il soprannome di “Goccia di caffè” e dove Tortora, al massimo di se stesso, governa la platea come un lord inglese, esibisce un pappagallo che si chiama Portobello, chiude le trattative con una frase entrata nella piccola storia della televisione: “Il Big Ben ha detto stop”. Nella storia entrano anche i risultati del programma: 22 milioni di spettatori di media, con punte ineguagliate all’epoca di 28 milioni. “Tutta farina di Enzo. Una domenica, si era messo a leggere gli annunci sul giornale: vendo coccodrillo impagliato eccetera. Aveva cominciato a telefonare e aveva scoperto un mondo dietro quei trafiletti. Poi ci aggiunse il pappagallo, perché, mi diceva, un animale ci vuole, fa tenerezza ai bambini”. A ricordare è Gigliola Barbieri, storica assistente di Tortora, fin dai tempi (1969) della sua Domenica sportiva. Ora la “Barbi”, come la chiamava lui, è produttore esecutivo a Mediaset. “La mattina che venne arrestato, il primo che mi chiamò fu Berlusconi: signora, ha saputo? Stava trattando con Enzo il suo passaggio a Rete quattro. Dopo i funerali, mi ha ricontattato: signora, se vuole venire a lavorare da noi...”. Parla come una vedova, la Barbi, una vedova non consolata. “Enzo aveva tanti di quei difetti che ci metterei giorni a fare l’elenco. Ma con quella cosa non c’entrava. L’hanno rovinato gratis”. Il giovedì prima di quel venerdì 17 giugno 1983, che segna l’inizio della fine di Tortora, l’allora direttore del Giorno, Guglielmo Zucconi, chiamò un giovane cronista degli spettacoli, Paolo Martini, e gli rivelò di aver ricevuto una soffiata su una maxi retata imminente, che avrebbe riguardato anche un grosso nome dello spettacolo. Chi? “So solo che sta nelle ultime lettere dell’alfabeto”. Cominciarono a spulciare l’elenco dal fondo: Vianello, Tortora, Tognazzi. Martini si attaccò al telefono. Trovò Tortora a Roma: “Quando lo avvertii che circolava il suo nome tra i possibili implicati in un blitz di camorra, si mise a ridere. E in effetti, da quella mia chiamata all’arresto la notte successiva, non fece assolutamente niente, non chiamò il suo avvocato né qualche amico del Partito liberale in cui militava né della cerchia di Craxi, a cui pure aveva accesso. Tortora era il classico signore borghese di provincia, un bel po’ reazionario, lupo solitario assoluto. Non faceva serata, non beveva, aveva orrore per la delinquenza e la droga. L’unica cosa che tirava era un pò di tabacco da fiuto”. Ma la soffiata era giusta. All’alba, tre carabinieri irrompono in una stanza dell’Hotel Plaza di Roma, prologo di quel che per le cronache diventerà il “venerdì nero di Cutolo”: 856 ordini di cattura. Tra questi, un nome che da solo dà sensoe ribalta all’operazione (non a caso battezzata in codice “Portobello”): Enzo Tortora, indicato dal pentito Giovanni Pandico come camorrista ad “honorém” (con l’accento sulla “e”, come dirà al primo interrogatorio), numero 60 di una lista che viene consegnata ai magistrati di Napoli e fa scattare la retata. Mentre lo portano via dal Plaza, Tortora è ancora convinto che si tratti di un caso di omonimia e che tutto si risolverà in poche ore. Sbagliato. Aspettando l’ora buona perché si ammassassero troupe televisive e fotografi, il re di Portobello viene fatto uscire dalla caserma dei carabinieri per essere trasferito a Regina Coeli, ammanettato e con la faccia sfatta. Sente i cameraman invocare “i polsi, i polsi!”, dalla follai primi verdetti: “Farabutto, pezzo di merda, ladro”. La vendetta sul “famoso” prenderà rapidamente le dimensioni della valanga. L’indimenticato “Tognazzi capo delle Br” brevettato dal Male di Sparagna & Vincino nel 1978 viene surclassato dalla cronaca: Tortora capo della camorra. I pentiti che l’accusano si moltiplicano come nella parabola dei pani e dei pesci: da uno diventano 19, complice la fresca legge Cossiga del 1982 che, pensata per sconfiggere il terrorismo, introduce sconti di pena per chiunque collabori a qualunque titolo. È una corsa folle a chi la spara e la scrive più grossa: Tortora ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell’Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Un tornado inarrestabile, con Il Messaggero che titola: “Tortora ha confessato”. Falso. Il garantismo di sinistra? Assente. Portobello è un programma da lista nera, e poi il suo conduttore, oltre ad essere un liberale di destra, è pure antipatico per il suo fare tra il lacrimoso e lo snob, e in più ha un passato da inviato della Nazione del petroliere Attilio Monti, non proprio un sincero democratico, durante il quale si è distinto per una campagna contro Valpreda e l’anarchia milanese quali responsabili della strage di piazza Fontana. Che la madre Silvia, quando andava in chiesa a pregare, trovasse spesso il foglietto lasciato da qualche anima buona con la scritta “tuo figlio spaccia la droga”, era il segno, uno dei tantissimi, che gli argini erano rotti e che poco si opponeva alla marea montante delle calunnie. Ma perché proprio Tortora, e non qualche altra star capace di attrarre la morbosa attenzione da spalti del Colosseo? Per una storia di centrini di seta. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, ne spedisce alcuni alla redazione di Portobello nella speranza che vengano messi all’incanto. Non vedendoli comparire (la trasmissione riceveva allora 2.500 lettere al giorno), Barbaro comincia a bombardare Tortora di lettere sempre più minacciose: essendo però analfabeta, gliele scrive il compagno di cella Pandico. Alla fine, esasperato, Tortora risponde pure, in tono secco, avvertendo che passerà la pratica all’ufficio legale della Rai (nel frattempo, i centrini sono andati persi), che infatti provvede a rimborsare il detenuto con un assegno di 800 mila lire. Caso chiuso? Al contrario: Pandico decide di vendicarsi di Tortora, spiega ai magistrati che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni, che il presentatore si sarebbe intascato fregandoi compari. È la prima prova d’accusa presentata ai legali del presentatore, che la smontano in un secondo esibendo la corrispondenza tra Barbaro e Portobello. Risposta: “Trattasi di altro Barbaro”. Ugualmente surreale la seconda prova “schiacciante”: trovato il nome di Tortora nell’agendina di Giuseppe Puca, detto “‘o giappone”, uno dei killer di Cutolo. Ci vorranno cinque mesi perché i magistrati si arrendano all’evidenza: l’agendina è della donna di Puca, il nome scritto a mano è “Tortosa” non “Tortora”, e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora. Il prefisso è 0823, “provate a chiamà, dottore...”. Finisce come era impossibile finisse: Tortora condannato per camorra e spaccio. Tortora, prima della sentenza, eletto a Strasburgo con i Radicali (“sono stato liberale perché ho studiato, sono diventato radicale perché ho capito”) con 451 mila preferenze (Alberto Moravia, candidato per il Pci, ne prese 130 mila). Tortora che si dimette da eurodeputato, rinuncia all’immunità e torna in Italia per farsi arrestare. Tortora che ricorre in appello, sfida la giuria prima del verdetto (“Io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi”)e il 15 settembre 1986 viene assolto da entrambe le accuse (dirà laconico il giudice a latere Michele Morello: “Facemmo giustizia”), cosa che si ripeterà in Cassazione. Tortora che, venerdì 20 febbraio 1987, ricompare in tv e apre la nuova edizione di Portobello con la stessa frase che disse Luigi Einaudi quando ripresea collaborare al Corriere della sera dopo il fascismo: “Heri dicebamus”. Dove eravamo rimasti. Silvia Tortora, la figlia di mezzo, la prima che Tortora chiama quando l’arrestano (“Silvia, non crederci, non crederci, tu conosci papà”), vive in un borgo antico alle porte di Roma. È giornalista, sposata dal 1990 con il turbolento e fascinoso attore Philippe Leroy, che le ha dedicato una meravigliosa frase d’amore: “Con Silvia sono tranquillo come una capra felice che gira intorno al suo palo”. Duei figli: Michelle, 17 anni, e Philippe, 21. Conserva due libri, che Enzo Tortora ha scritto per Mondadori ( Cara Italia, ti scrivo, 1984, dove racconta la sua vita da detenuto, e Se questa è Italia, 1987, sulla sua vita da imputato). Dice che non si trovano più. Tra tutte le cose che hanno dedicato a suo padre, strade, piazze, premi, quella che Silvia trova più giusta è una biblioteca, voluta da Walter Veltroni in una strada appena fuori Saxa Rubra. “I libri erano importanti per lui, erano lui, in qualche senso”. Rabbia ancora, Silvia? “Ricordo che Manganelli, il capo della Polizia appena morto, incontrandomi mi ha detto: quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia. Hanno fatto una commissione parlamentare su tutto, persino su Mitrokhin: su Tortora no. Eppure Portobello, che ai tempi mi sembrava una schifezza di show, rivisto dopo l’ho trovato bellissimo”. Giustizia: per Berlusconi né amnistia né grazia… il Cavaliere “prenota” l’avvocato Coppi di Giovanna Trinchella www.fattoquotidiano.it, 2 maggio 2013 I loro destini si sono soltanto un po’ sfiorati. Ora però potrebbero dover leggere insieme faldoni e faldoni di atti: quelli del processo Mediaset e magari quelli del processo Ruby. Ma solo “nell’ipotesi in cui ci sia l’esigenza di preparare ricorsi in Cassazione” dice al fattoquotidiano.it Franco Coppi, che difese e fece assolvere la segretaria di Silvio Berlusconi Marinella Brambilla dall’accusa di falsa testimonianza nel processo sulle tangenti alla Guardia di Finanza. L’avvocato è stato “precettato” in qualche modo “prenotato” dai legali storici del Cavaliere, Niccolò Ghedini e Piero Longo, per associarsi al collegio difensivo del leader del Pdl. Che, in concomitanza al governissimo Letta, probabilmente ha preso l’impegno sfilarsi i guantoni con cui di solito prende a pugni i magistrati. Coppi non è stato solo colui che ha tirato fuori da guai Giulio Andreotti, ma è un tecnico del diritto che può difendere imputati di pedofilia, come quelli di Rignano Flaminio, di omicidio, come Sabrina Misseri o Renato Busco per via Poma, o sequestro di persona, come Niccolò Pollari per il caso Abu Omar. Senza dimenticare le assoluzioni ottenute per l’ex ministero Luigi Gui nello scandalo Lockheed o per il generale Vito Miceli per il tentato golpe Borghese. Lo “scienziato del diritto” ha tutelato la vedova Calipari, ma anche l’ad della ThyssenKrupp. Ma sempre con la stessa efficacia e un dogma il low profile. E Berlusconi per lui sarebbe un cliente come un altro. Confermata l’indiscrezione del quotidiano La Stampa la mossa del Cavaliere potrebbe avere una sola lettura; quella di tentare di dimostrare in finale di partita con i giudici e gli elettori di Italia che può essere imputato modello e aspirare a guidare la futura Convenzione per le riforme. Con un solo cambio di toga quindi Berlusconi otterrebbe un doppio risultato: possibili assoluzioni in terzo grado quello più importante che un luminare del diritto come Coppi può conquistare e anche quel salvacondotto che invece non gli sarebbe garantito da altre ipotesi circolate e posizionabili nella categoria dell’impossibile o quasi: un’amnistia, la nomina a senatore, la grazia. Lo status giuridico di Silvio Berlusconi è, per ora, formalmente, da perfetto incensurato (le due condanne subite Mediaset e nastro Fassino-Consorte sono solo in primo grado) ma sull’ex presidente del Consiglio, complice le manovre dilatorie della sua quasi ex difesa, si abbatterà una tempesta perfetta di verdetti. E anche se dice di credere nella giustizia, millantando “la Cassazione mi ha sempre assolto” (i supremi giudici hanno in alcuni casi come All Iberian e Lodo Mondadori dovuto dichiarare l’intervenuta prescrizione volendo tralasciare i processi che si sono fermati prima di arrivare al terzo grado come Mills, ndr) il leader del Pdl comincia a provare timore di perdere lo scudo politico che lo ha difeso dal 1994 in poi. Teme il Cavaliere, per esempio, non la galera (decisamente improbabile anche in considerazione dell’età) ma la pena accessoria cui potrebbe essere condannato nel secondo grado del processo Mediaset (in primo grado all’ex premier sono stati inflitti 4 anni) ovvero l’interdizione per cinque anni dai pubblici uffici. Che in caso di sigillo da parte degli ermellini comporterebbe la sua ineleggibilità. Un avvocato come Coppi potrebbe negli atti trovare elementi a discapito dell’ipotesi accusatoria da proporre agli ermellini: Berlusconi non era più numero uno della società quando sarebbe stata commessa la frode e per questo ha già incassato due proscioglimenti a Milano e Roma nei processi gemelli. Amnistia. È lo stesso Berlusconi a rendersi conto che è una strada impraticabile. “Un’amnistia Non ne ho mai sentito parlare - aveva detto a La Repubblica un paio di settimane fa - Io, ormai, a questi patti non credo più. Il mio giudice a Berlino è la Corte di Cassazione che mi ha sempre assolto. È un’ipotesi di cui non ho mai discusso con nessuno … l’amnistia è indigesta a tutti. La gente non sarebbe d’accordo. Sarebbe un modo per far arrabbiare ancora di più i cittadini”. Senza contare che lo storico e tratti bizzoso alleato, la Lega, non accetterebbe mai: “I leghisti sono fermamente contrari a qualsiasi tipo di amnistia, indulto et cetera…”. Il provvedimento, che cancella il reato e che quindi risulta come se non fosse stato commesso, nella storia repubblicana è stato deciso diverse volte ma i reati “cancellati” avevano pene al massimo fino a 5 anni. Quelli di cui è accusato Berlusconi - la concussione e la prostituzione minorile - vanno da sei a dodici anni. Senza mettere in conto l’effetto mediatico della concessione di un provvedimento a lungo invocato da più parti - causa per esempio le condizioni inumane dei detenuti nelle carceri - ma che è stato sempre scartato anche in ipotesi proprio dal centrodestra. Senatore a vita. C’è chi pensava che Giorgio Napolitano, dopo essere intervenuto per permettere al Cavaliere - imputato nei processi Ruby, Mediaset e nastro Fassino-Consorte - di svolgere la sua attività politica, potesse nominare Berlusconi senatore a vita. Anche se, bisogna ricordarlo, Napolitano ha già nominato Mario Monti e ha dichiarato che non avrebbe esercitato ancora la sua prerogativa. Ma in caso di condanna definitiva (e i reati di cui è accusato Berlusconi prevedono come pena più di due anni, limite fissato dalla legge anti corruzione, ndr), considerando il senatore vita che esercita un diritto di voto in Parlamento è un pubblico ufficiale, sarebbe scattata comunque la decadenza dalla carica. Inoltre l’articolo 59 della Costituzione recita: “Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” e benché prerogativa esclusiva del Quirinale una nomina avviata a Palazzo Madama sarebbe apparsa inopportuna per un leader così discusso anche a livello europeo. Grazia. Anche la grazia è una prerogativa del capo dello Stato e viene concessa dal Presidente della Repubblica con atto controfirmato dal Ministro della Giustizia. Sarebbe l’ideale perché incide volendo su pena principale e pena accessoria. Ma il presupposto della grazia è il passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Nel caso del Cavaliere i processi sono diversi e in fasi differenti. E nel caso i verdetti fossero tutti di condanna quante grazie gli dovrebbero essere concesse? E che impatto avrebbe sull’opinione pubblica? Dal 1948 i provvedimenti di clemenza individuale emessi superano le 42mila unità ma tranne alcuni casi spinosi - l’ultimo riguarda il caso Abu Omar - non hanno scatenato polemiche. E una serie di attimi di clemenza sarebbero un precedente unico nella storia delle democrazie moderne. Invece dal Quirinale non è arrivato nessun atto, nessun salva condotto formale in cambio della formazione necessaria e urgente del governo, ma più probabilmente un’indicazione precisa e inevitabile: difendersi nei processi e non dai processi. Roma: Garante Lazio; nulla condanna minorenne in cella con adulti Agenparl, 2 maggio 2013 È nulla la condanna ad 8 mesi di carcere che ha portato, nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso, un minorenne tunisino di 17 anni. Ad affermarlo, il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni che per primo, ieri, ha denunciato il caso dell’adolescente che sta scontando da oltre due mesi una condanna come adulto a Rebibbia, nonostante i documenti dimostrino la sua minore età. Secondo Marroni, infatti, la condannato per detenzione di stupefacenti è stata comminata da un Tribunale ordinario e non, come doveva essere visto l’età dell’imputato, da un giudice minorile. Ragion per cui, l’intero procedimento e la relativa sentenza, sarebbero nulli. Su questo punto l’articolo 25 della Costituzione e l’art. 67 del cpp sono chiarissimi: la Costituzione “nessuno può essere distolto dal giudice naturale”. Il codice, da parte sua, precisa che quando vi è ragione di ritenere che l’imputato sia un minorenne il giudice deve trasmettere gli atti alla Procura dei Minori e questo comporta l’annullamento della condanna. Amir (nome di fantasia) del giovane tunisino classe 1996 era arrivato a Lampedusa da solo, a 15 anni, per contribuire al sostentamento della famiglia. Dopo pochi mesi dal suo arrivo, era stato arrestato per reati di minima entità legati alla detenzione di hashish e alla ricettazione di un vecchio motorino. Circa due mesi fa Amir è stato di nuovo arrestato per detenzione di stupefacenti e condannato a 8 mesi. Dopo la condanna, è stato trasferito come adulto a Rebibbia nonostante la sua minore età fosse certificata sia dalla documentazione anagrafica prodotta dalla Questura di Udine che, negli ultimi giorni, anche dal certificato di nascita prodotto dal consolato tunisino di Roma e dal comune di nascita. “Spero che i giudici decidano al più presto, anche alla luce della nullità della sentenza di condanna - ha concluso Marroni - Amir ha bisogno di essere seguito con attenzione. Quello che ha vissuto, e la sua attuale condizione fra gli adulti di Rebibbia, lo stanno esponendo a rischi di ogni genere, intollerabili per un giovane di quella età”. Reggio Calabria: Costantino (Cids); Governo provveda per riapertura carcere Laureana www.reggiotv.it, 2 maggio 2013 Sul carcere ritenuto modello “Luigi Daga” di Laureana di Borrello vi sono state, prima delle elezioni per il rinnovo del Parlamento, importanti dichiarazioni sulle prospettive della struttura carceraria, effettuate visite, assunto impegni da parte di numerosi rappresentanti istituzionali, forze politiche e soggetti vari espressione di categorie e, più complessivamente, della società civile. Ma se ciò è stato, senza alcun dubbio, positivo e utile per tenere alta l’attenzione sul problema per pervenire alle soluzioni tanto attese, ora è il momento, svolte le elezioni e formato il Governo, di agire. Sarebbe, perciò, un gravissimo errore se non ci fosse stessa, grande attenzione e doverosa coerenza con le dichiarazioni spesso ascoltate. Alle parole è giusto far seguire i fatti dimostrando così che esiste davvero volontà politica per accogliere istanze avanzate da più parti. E, per evitare rischi e silenzi, bisognerebbe esercitare una forte e unitaria iniziativa ed essere determinati nell’incalzare quanti preposti a prendere tempestive decisioni. Il giudizio comune é che questa struttura carceraria moderna sia fondamentale per la rieducazione del carcerato e per creare le condizioni necessarie per il suo inserimento nella società. Perciò, il funzionamento di questo carcere rappresenterebbe anche un significativo esempio sulla possibilità di utilizzare tutti i mezzi per tentare di attenuare il drammatico problema del sovraffollamento delle carceri evitando sofferenze per le intollerabili condizioni igienico-sanitarie nelle quali i detenuti sono costretti , con profondo disagio, a vivere. Il carcere a custodia attenuata ha quindi un ruolo decisivo per la rieducazione da svolgere Per questo chiediamo che il nuovo Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri - che conosce bene la situazione anche perché chiamata in causa quando era , nel precedente Governo Monti, Ministro dell’Interno , dica con chiarezza cosa il Governo intenda fare e quali sono gli orientamenti e i tempi necessari per sbloccare la situazione; come la Regione Calabria, che pure era stata presente anche con la visita al carcere di un suo assessore assumendo impegni, intenda attivarsi; quali passi intendano fare i Parlamentari della Calabria per evitare che, attenuandosi l’attenzione, cali il silenzio e ci si dimentica del problema; quali iniziative possibili - sollecitate frequentemente dallo stesso operoso Avv. Domenico Ceravolo che presiede il Comitato per la difesa del carcere - da svolgere affinché si intervenga decidendo definitivamente per risolvere il problema e tranquillizzare anche l’opinione pubblica. Firenze: Cisl e Uil; troppi pericoli per gli agenti dell’Opg di Montelupo Fiorentino Il Tirreno, 2 maggio 2013 Poca sicurezza per i lavoratori all’Opg di Montelupo. I sindacati protestano dopo l’incendio avvenuto all’alba di domenica scorsa e appiccato da un internato. “Il reparto - spiegano Cisl, Uil e Fsa per i lavoratori della polizia penitenziaria - consegnato solo sei mesi fa dopo lunghi e dispendiosi lavori di ristrutturazione oggi è completamente annerito dal fumo, i soffitti in legno bruciati, le telecamere sono fuori uso e si respira un odore acre. Ad evitare la tragedia ci hanno pensato i quattro colleghi in servizio di notte che con grande lucidità e professionalità hanno spento le fiamme e fatto evacuare all’aperto tutti i 100 internati ospiti”. “L’episodio ha riacceso l’annoso problema sulla difficoltà di gestione di certi soggetti che non possono essere curati in strutture come quella di Montelupo, dove i reparti detentivi presentano una pericolosa promiscuità di individui con esigenze sanitarie e di sicurezza estremamente diverse - vanno avanti - e dove non esiste uno spazio idoneo destinato alla contenzione, strumento sanitario che viene praticato al l’ospedale civile di Empoli”. “Già un anno fa avevamo dibattuto sulla questione chiedendo a gran voce l’individuazione all’interno della struttura di uno spazio sanitario protetto dove curare per il tempo necessario i pazienti più scompensati ma nulla si è mosso in tal senso - vanno avanti i sindacati. Pare invece che i sanitari e la direzione siano concordi sul dirottare presso l’ospedale civile tali soggetti, con aggravio del carico di lavoro per il personale penitenziario ed un dispendio non indifferente di uomini”. “L’internato - spiegano - non sarebbe dovuto entrare, il personale sanitario avrebbe dovuto accertare immediatamente l’incompatibilità della struttura di Montelupo con il soggetto e prevedere il suo immediato ricovero altrove senza aspettare che mettesse a repentaglio la vita di qualcuno e la sicurezza della struttura. Non ci sembra corretto criminalizzare il fatto che gli fosse stato consentito di tenere l’accendino, questo perché trovandosi in un reparto a regime aperto, chiunque avrebbe potuto darglielo e nemmeno la tipologia della stanza in cui era ristretto, considerato che era l’unica cella singola disponibile”. Anche dall’ex direttore Ugo Catola parte una critica a difesa della contenzione fisica fatta in locale adeguati (e non come quelli sequestrati di recente dalla commissione parlamentare). “Ho sempre sostenuto la necessità di intervenire con tempestività e fermezza in casi del genere nell’interesse del paziente e per garantire la sicurezza degli operatori e della struttura stessa”. Mantova: nel piano per l’Opg il salvataggio dei 215 dipendenti Castiglione delle Stiviere di Francesco Romani La Gazzetta di Mantova, 2 maggio 2013 Un piano per salvare tutti i dipendenti dell’Opg, sulla cui permanenza a Castiglione gravano le ombre del piano di riorganizzazione e la chiusura dell’ospedale già prevista per il prossimo marzo. È quanto sta studiando la direzione dell’ospedale psichiatrico giudiziario, d’intesa con l’azienda Poma in base alle indicazioni regionali. Il piano prevedrebbe di mantenere i dipendenti (oggi 215) anche con numero di pazienti ridotto, grazie alla distribuzione diversa del layout interno dei reparti e ad una diversa intensità della qualità di cura e assistenza. I tempi stringono perché la Regione deve decidere come spendere i 32 milioni messi a disposizione dallo Stato entro metà maggio. Il piano regionale al momento prevede 6 mini strutture da 20 posti a Castiglione ed altre 5-6 sparse nella Regione (2 a Desenzano) per accogliere i circa 220-240 pazienti psichiatrici dei quali la Lombardia si deve fare carico. Attualmente tutti i ricoverati psichiatrici giudiziari sono concentrati a Castiglione che ospita 205 maschi di Lombardia, Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta e 80 femmine, queste ultime provenienti da tutta Italia. i reati contestati sono per il 60% contro la persone e di questi il 25% è omicidio. Facciamo un passo indietro. Un anno e mezzo fa, nel febbraio 2012, la legge 9 stabiliva il superamento degli Opg italiani, sostituiti da mini strutture da 20 posti letto ciascuna distribuite sui territori regionali d’appartenenza. La scaletta dei tempi era velocissima: stop ai nuovi ingressi in Opg da febbraio 2013 e chiusura il 31 marzo successivo. A pochi giorni dal D day è giunta l’attesa proroga di un anno, che sarà comunque insufficiente, calendario alla mano, per la creazione concreta delle nuove strutture. Solo nel febbraio scorso, infatti, si è giunti a ripartire i fondi nazionali. Alla Lombardia spetterà il 18% del totale nazionale. La scelta su come utilizzare quei soldi deve essere completato dalla Regione entro metà maggio, quindi ritornerà al nuovo Governo per il via libera. La previsione più ottimistica indica l’avvio delle gare entro fine anno ed i cantieri dal 2014. Castiglione, unico Opg dei sei italiani totalmente sanitarizzati, dove cioè non esistono le guardie carcerarie e le regole sono quelle degli ospedali, dalla sua ha una carta in più, che il direttore Ettore Straticò sta giocando al tavolo regionale. Sono i numeri che raccontano del buon funzionamento della struttura che accoglie chi compie reati, ma è incapace di intendere e di volere. Il codice penale, che non è stato cambiato, obbliga a tutt’oggi ad accogliere queste persone in strutture che garantiscano la sicurezza ed al contempo la cura psichiatrica. Che a Castiglione è prevalente e dà ottimi risultati. Nel triennio 2010-2012, infatti, i dimessi sono stati 380. Tre quarti di questi esce dall’Opg in regime di semilibertà/esperimento. Resta cioè in carico all’ospedale castiglionese che ne segue il percorso di reinserimento sociale graduale. Il restante esce in libertà vigilata, formula che fa passare i pazienti sotto il controllo dei magistrati locali. Il forte ricambio, che significa successo nella cura psichiatrica si legge anche dal bilancio del 2012 nel quale sono entrate 182 persone, esattamente quante ne sono uscite. Popolazione stabile, dunque, con tempi di degenza che si riducono sempre più: oggi sono di 1, 7 anni per gli uomini e 2,3 per le donne, che provenendo da ogni parte d’Italia hanno meno contatti con le strutture psichiatriche territoriali dei luoghi d’origine. Il forte ricambio comporta l’abbassamento dell’età media, passata da 57 a 42 anni nell’ultimo decennio e un altissimo tasso di sostituzione. La maggioranza assoluta dei ricoverati è entrata in Opg da poco tempo e solo 70 persone oggi sono “in proroga”, ovvero presenti da più anni. Ma l’80% di questi hanno comunque avuto una possibilità di uscire, poi sfumata poiché una volta fuori, hanno commesso nuovi reati. Si tratta dei cosiddetti “rientri” che colpiscono il 23% di coloro che sono usciti dall’Opg, molto spesso più a causa delle carenze delle strutture psichiatriche territoriali e della rigidità della legge. Basta il furto di una biro, come già successo in passato, per essere rispedito in Opg. Il piano di mantenimento dei dipendenti punta a consolidare questi risultati raggiunti che parlano di soli tre suicidi dal 2000 al 2013 risolvendo il grave problema del sovraffollamento, che fa schizzare le ore di infortunio degli operatori, che qui gestiscono oltre al versante sanitario, anche quello della sicurezza. Che, sembra strano dirlo, è garantita anche occupando i pazienti in attività come la piscina o l’atelier di pittura, oggi nel mirino dei tagli alla spesa. Insomma per garantire l’efficacia terapeutica con un “comfort” ospedaliero-alberghiero le professionalità dell’Opg non vanno disperse. E la battaglia per mantenere gli stessi dipendenti calando i degenti è già iniziata. Cagliari: “giustizia lumaca”, in carcere per bancarotta 21 anni dopo aver commesso il reato Ristretti Orizzonti, 2 maggio 2013 “Sono trascorsi 21 anni da quando ha commesso il reato di bancarotta. Ora, dopo la condanna definitiva della Cassazione, è ristretto nel carcere di Buoncammino per scontare la pena inflittagli di 3 anni. Una situazione paradossale dovuta a una giustizia che procede a passo di lumaca compromettendo, come in questo caso, la riabilitazione e il reinserimento sociale. L’uomo, che sta per diventare padre, non ha infatti più commesso reati”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con riferimento “all’amara, emblematica, vicenda di Giuseppe Orrù, 49 anni, di Monserrato, ennesimo esempio di un sistema incapace di rivalutare a distanza di tempo le situazioni”. “È evidente, né lo si può negare - rileva Caligaris - che Giuseppe Orrù ha commesso un reato. È stato infatti riconosciuto responsabile, insieme al fratello, di truffa e bancarotta semplice nel 1992. Per la truffa è stato condannato a un anno di reclusione che ha scontato nel 2000. Per la bancarotta invece ha affrontato tre gradi di giudizio. L’Appello si è concluso nel 2002 e, infine, la sentenza della Cassazione è arrivata nelle scorse settimane cancellando le sue speranze alimentate da un lavoro e da una nuova famiglia”. “C’è da domandarsi se, in casi come questo, non sia più utile pensare a una modalità alternativa per scontare una pena, peraltro relativamente leggera, effettuando un’indagine per valutare il comportamento sociale della persona condannata nel periodo successivo al reato imponendo, per esempio, la firma quotidiana in Caserma. Si potrebbe inoltre permettere al condannato di continuare a lavorare e entrare in cella solo la notte. È assurdo invece - conclude la presidente di SdR - che il sistema giudiziario, finalizzato al reintegro sociale e al recupero di chi ha commesso un reato, agisca in questi casi in senso contrario impedendo non solo a una persona di rifarsi una vita ma, com’è avvenuto per Giuseppe Orrù, frantumando quanto di positivo ha realizzato negli anni. Insomma viene totalmente ignorato il senso di umanità”. Firenze: il “Cantico delle Creature” di Ugo De Vita, uno spettacolo benefico per il carcere Ristretti Orizzonti, 2 maggio 2013 Presentazione del cd “Cantico delle Creature” (stampato in esemplari fuori commercio) per farne dono a Papa Francesco e dell’Anteprima del recital “Francesco” di e con Ugo De Vita. Con la partecipazione del maestro Giovanni Rosina. Partecipano le autorità cittadine e personalità della cultura e dello spettacolo. Ingresso ad Inviti. Ugo De Vita, autore e attore di prosa tra i più noti in Italia, promotore del progetto “Parole oltre le sbarre”, torna alla Pergola di Firenze dopo tanti allestimenti di teatro civile (si ricordano Welby, Cucchi e Bianzino) recitando, il “Cantico delle Creature” di Francesco di Assisi e una scelta dai “Fioretti” in Umbro volgare del XIV secolo, scritture che raccolgono i motivi fondamentali della poesia e della prosa italiana delle origini. Un classico per un interprete che su voce e musicalità ha fondato il suo essere attore, passando dal doppiaggio alla radio, a molto teatro di parola. Scriveva Mario Luzi già nel 2004 in occasione della lettura di canti scelti della “Divina Commedia” dell’Alighieri: “La voce di De Vita da delicatissime sommità discende al colore grave in mille fioriture tonali. Voce che somiglia a tutte le voci e a nessuna, voce di nessuno di noi”. Saranno presentati dunque a Firenze il cd e l’ anteprima del recital che avrà edizione in inglese, francese, spagnolo e toccherà Santuari della Cristianità, da Assisi a Gerusalemme in Settembre. Con l’occasione Ugo De Vita coinvolgendo la associazione “Ristretti Orizzonti” destinerà attraverso questa iniziativa un tablet alla redazione di “Ristretti” la rivista realizzata dai detenuti del carcere “Due Palazzi” di Padova. Gli inviti fino ad esaurimento posti possono essere ritirati presso il botteghino del Teatro. Roma: musica e parole a sostegno del reinserimento sociale di detenuti ed ex detenuti Agenparl, 2 maggio 2013 Oggi, Giovedì 2 maggio dalle ore 20,30, il Teatro Palladium di Roma (Piazza Bartolomeo Romano, 8 Garbatella) ospiterà lo spettacolo “Note Galeotte 4” promosso dall’associazione “Il Viandante” con la collaborazione del Municipio Roma XI. Lo spettacolo sarà l’occasione per presentare le attività della associazion e “Il Viandante” ed i risultati dello “Sportello Rebibbia”: giunto al quarto anno di attività, è un progetto di volontariato sociale finalizzato al reinserimento lavorativo e sociale delle persone detenute, ex detenute o in esecuzione penale esterna residenti nel Municipio XI, svolto in collaborazione con il Municipio Roma XI, gli Istituti penitenziari Rebibbia Nuovo Complesso e Rebibbia Femminile e con il patrocinio del Garante dei detenuti della Regione Lazio. Dopo la presentazione del Presidente del Municipio Roma XI Andrea Catarci e l’Assessore alla cultura Carla Di Veroli, lo spettacolo si articolerà negli interventi di Erri De Luca, nelle letture dell’autrice del libro “Sempre e Comunque” Nerina Marchioni e nelle rime taglienti di artisti rap come Amir, Primo (Cor Veleno), Mezzosangue, Sace, Alessandro Ray, White Boy e Dj Danny Beatz: diversi linguaggi per raccontare una realtà, quella carceraria, di cui nessuno parla e si preferisce pensare lontana, altra, senza prenderne in considerazione gli aspetti sociali, economici e civili che riguardano l’intera collettività. Cuneo: i detenuti del carcere di Saluzzo sul palco del Teatro Milanollo di Savigliano www.targatocn.it, 2 maggio 2013 Domani sera, venerdì 3 maggio appuntamento presso il Teatro Milanollo di Savigliano, lo spettacolo teatrale “Volevo la luna” con gli attori detenuti della casa di reclusione di Saluzzo, coreografie di Marco Mucaria, regia di Grazia Isoardi e luci di Lucio Diana. “Fare l’attore di teatro in Italia è impresa assai ardua, tanto più per i giovani artisti che hanno bisogno di far conoscere il proprio talento e lavoro. Nonostante la situazione critica l’Associazione Voci Erranti continua a credere che vincere la tentazione di chiudere i progetti sia un modo per resistere alla crisi e al disconoscimento del valore della cultura. Con questo spirito il gruppo persegue da anni l’obiettivo di offrire possibilità di formazione attraverso laboratori, seminari, i corsi della scuola di teatro oltre ai momenti di allestimento delle proprie produzioni e quelle di altre compagnie”. La sede dell’Associazione, la Casa di Eugenio, a Racconigi, è officina di lavoro molto viva, luogo di incontro e confronto tra tanti formatori ed artisti, il Teatro Milanollo con altri spazi cittadini sono le sedi in cui pubblico e giovani possono assistere e sperimentare nuove forme di teatro. Due le novità dell’edizione Sorgenti 2013: tutti gli spettacoli verranno rappresentati al Teatro Milanollo e in secondo luogo il Progetto comprende oltre al sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, al patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Savigliano anche il partenariato con la Fondazione Piemonte dal Vivo. Questa nuova collaborazione nasce dal desiderio di unire risorse e competenze al fine di poter crescere in qualità e servizio per il territorio. Il programma comprende due produzioni di Voci Erranti che aprono e chiudono la Rassegna: venerdì lo spettacolo teatrale dei detenuti del carcere si Saluzzo in “Volevo la luna” e “Condominium vitae” con gli allievi della Scuola Teatrale Milanollo, diretti dal regista Riccardo Maffiotti. Il calendario segue con la presenza della Compagnia Goghi & Goghi di Trento con lo spettacolo “ Divise”, con gli attori di Quartiatri di Palermo in “ Dove le stesse mani” e con Yuri Ferrero in “ Resistenza outbound” della Compagnia Balletto Civile. L’appuntamento è per tutti i venerdì del mese di Maggio, alle ore 21, al Teatro Milanollo. Non si effettua prevendita, né prenotazione per i biglietti. Le informazioni presso l’Ufficio Cultura del Comune (tel. 0172-710235, cultura@comune.savigliano.cn.it ) o segreteria Voci Erranti tel. 340. 3732192/ 392 9020814 oppure il mercoledì tel. 0172- 89893 - info@vocierranti.org Immigrazione; i migranti sfruttati nelle terre della vergogna di Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 2 maggio 2013 Nelle campagne pontine, nel Basso Lazio, lavorano 25mila sikh arrivati in Italia con la tratta dei migranti. Sono partiti dal Punjab pagando un prezzo molto alto, che comprende anche la percentuale per il caporale. Nel casertano la terra e gli allevamenti delle bufale sono nelle mani di migliaia di africani e rumeni sfruttati, sottopagati. Nella loro freddezza, i numeri possono fornire un adeguato contesto ma non riescono a spiegare tutto. Non riescono a descrivere, ad esempio, come si sente un indiano del Punjab quando si sveglia all’alba per andare a raccogliere zucchine o cocomeri in una campagna per lui straniera, o cosa prova quando il padrone non rispetta i patti e tarda a pagargli il salario. Ci dicono però che, nei periodi di punta, tra Borgo Sabotino e Borgo Grappa lavorano nelle terre non desertificate dall’espansione industriale fino a 25 mila immigrati, il che fa di questo pezzo di Basso Lazio una “piccola India” di casa nostra. È un proletariato delle campagne che si mostra solo in occasione delle colorate feste religiose sikh. Ma, come il campesino Garabombo di Manuel Scorza, per quanti turbanti indossi non riesce mai a rendersi davvero visibile. Fatta eccezione per i periodi di punta, la Cgil stima in 12 mila persone la presenza stabile degli indiani nell’area pontina. A partire dai primi arrivi, negli anni 80, è stata una continua crescita, e ogni anno dei 20 mila sikh che dall’India emigrano verso l’Europa - in gran parte con regolari permessi di lavoro - una fetta finisce nelle campagne del Basso Lazio bonificate da Mussolini. La loro vita professionale, secondo un dossier dell’associazione In Migrazione, è caratterizzata da cinque P: i loro lavori sono pesanti, pericolosi, precari, poco pagati e penalizzati socialmente. È stato così fin dall’inizio, e ancora oggi la comunità indiana vive isolata e separata dagli italiani, soffre della mancanza di servizi loro dedicati - di insegnamento dell’italiano o di mediazione culturale, ad esempio - è tuttora vittima di ripetuti e spiacevoli episodi di razzismo, e non riesce a inserirsi nel mondo del lavoro oltre quello nei campi o negli allevamenti di bufale, dove è regolarmente sfruttata e spesso lavora in condizioni di vera e propria schiavitù. Eppure senza di essa l’agricoltura locale rimarrebbe letteralmente senza braccia. Quella degli indiani nel sud pontino e nell’area del Parco Nazionale del Circeo è “una presenza silenziosa e operosa”, come la definisce il rapporto di In Migrazione. I sikh si possono incontrare la mattina o alla sera quando rientrano dal lavoro, in bicicletta con le inconfondibili barbe e i colorati turbanti lungo strade iper trafficate e senza marciapiedi. Difficilmente, però, si assiste a scene come quelle che ogni notte accadono poco più a sud, lungo la Domiziana o nelle piazze di Villa Literno e Cancello Arnone, dove al far di ogni mattina, tra le 5 e le 7, si può assistere al più grande mercato informale di braccia d’Italia. I caporali indiani non vanno in giro con i pullmini a raccattare gli immigrati contrattando la prestazione volta per volta, come accade nella little Africa casertana. Di solito la mediazione avviene in Punjab, prima della partenza, e nel prezzo pagato per arrivare in Europa è compresa anche la percentuale per il caporale. “Ho pagato più di 10 mila euro. Tanti soldi miei e della mia famiglia per venire qua a lavorare. Il viaggio è durato sei mesi, siamo passati dalla Russia, dalla Germania e dalla Francia. Sono morte donne e bambini, i cadaveri sono stati buttati via per paura. Io non volevo, ma un uomo grande, forse russo, mi minacciava e mi diceva di stare zitto”, racconta a In Migrazione Sukirat, un operaio trentenne da cinque anni in Italia. Di solito, quando si parla della tratta dei migranti, si pensa ai barconi che solcano il Mediterraneo per approdare a Lampedusa o sulle coste siciliane - ma è capitato persino che qualcuno si spingesse fin quassù sul litorale pontino, qualche anno fa il ministro dell’Interno Maroni ne fece respingere uno senza nemmeno appurare se a bordo ci fossero perseguitati politici cui concedere asilo, nel silenzio generale e con l’unica voce di denuncia di Amnesty International. Invece esistono anche altre tratte minori, con scafisti non meno privi di scrupoli e altrettanti procacciatori, mediatori e mercanti di braccia. Oggi, nonostante la recessione, gli immigrati servono non meno di prima. Ma è su di loro - i più deboli e indifesi, come sempre - che i padroni scaricano i costi della crisi. A Villa Literno, nel casertano, riesco a scambiare quattro chiacchiere con una donna rumena in attesa del caporale, all’alba di una mattina come tante altre nella piazza con al centro una statua del generale Giuseppe Garibaldi - ridotto al rango di vigile urbano - attorno alla quale ogni mattina, dalle 5 alle 7, va in scena la più gigantesca, incredibile compravendita di moderni schiavi d’Italia, mentre il resto del paese dorme. È giovane, minuta. Il volto scuro, abbronzato, indurito dal sole le aggiunge probabilmente qualche anno a quelli che realmente ha. Mi spiega che le cose sono andate via via peggiorando a partire dal 2007: “I padroni hanno cominciato a dichiarare sempre meno giornate di lavoro. Quest’anno non me ne hanno certificato neppure una, e così io non posso avere l’assistenza statale per i miei figli”. Quando le chiedo quanto guadagna al giorno, la donna rimane in silenzio. Fa finta di non capire, non vuole dirlo. Ha paura. Allo stesso modo si comporta un altro gruppo di lavoratori rumeni: si mettono persino in posa per uno scatto, ma alla prima domanda cambiano atteggiamento. Molti di loro si ritraggono per timore che nessuno li prenda più a lavorare. Secondo la Flai-Cgil i compensi si sono ridotti a una ventina di euro al giorno, per dieci-dodici ore di lavoro massacrante alle quali vanno aggiunte almeno un altro paio di mercanteggiamento mattutino e per il trasporto. È così che la crisi viene scaricata ancora una volta sugli anelli più deboli della catena. A questo ennesimo effetto collaterale della Grande Recessione si va ad aggiungere la concorrenza al ribasso che si è instaurata tra rumeni e africani. I primi sono comunitari e dunque non soggetti al ricatto della clandestinità, ma più disponibili ad accettare compensi più bassi poiché di solito a trasferirsi in Italia e a lavorare sono in due, marito e moglie, il che consente di proteggersi a vicenda. Gli africani invece, quasi tutti provenienti dal Burkina Faso, sopravvissuti al Sahara e al Canale di Sicilia e in genere molto giovani, devono provvedere da soli alle spese di affitto e di sostentamento, e per questo non possono accettare paghe eccessivamente basse. “Veniamo qui tutte le mattine, alle volte andiamo di nascosto nei campi, soprattutto negli allevamenti bufalini dove lavorano gli indiani. Se riusciamo a risolvere anche un piccolo problema, poi sono loro a venire a cercarci anche per l’assistenza sanitaria o per iscrivere i figli a scuola”, mi spiega Tammaro Della Corte, un giovane attivista della locale Camera del lavoro intitolata a Jerry Esslan Masslo, la cui morte, proprio qui a Villa Literno nel 1989, fece scoprire all’Italia la presenza degli immigrati e fu la scintilla che portò alla nascita del primo movimento antirazzista e della prima legge sull’immigrazione del nostro Paese: la legge Martelli. Masslo, un giovane mite e colto, fu uno dei primi africani ad arrivare a Villa Literno. Fuggiva dall’apartheid in Sudafrica e finì vittima di un abborracciato Ku Klux Klan di casa nostra, una banda di ragazzini che si divertiva ad andare a caccia di immigrati per spaventarli o rapinarli, per sport come nell’Alabama schiavista degli anni bui. Per fortuna oggi episodi del genere non sono più all’ordine del giorno e gli immigrati vivono in abitazioni più decenti, anche se non sono passati molti anni da quella notte di San Gennaro del 2008 quando un commando di killer della camorra, guidati dal boss emergente Giuseppe Setola, sterminò sei africani in una sartoria di Castel Volturno. Ed è qui, in questo avamposto maledetto d’Africa italiana, che il 9 novembre 2008 morirà “Mama Africa” Miriam Makeba, poche ore dopo aver fatto ballare, struggersi di nostalgia e divertire alcune migliaia di sopravvissuti alle stragi di camorra, ai Ku Klux Klan locali e a tutti gli altri pericoli che questa terra dissemina lungo la loro strada, più numerosi di ciò che riesce a offrire. Ad occuparsi degli immigrati, in Terra di Lavoro, ci sono solo organizzazioni di frontiera, né più né meno che in un qualsiasi slum africano: i missionari comboniani, un centro sociale occupato. La Cgil va di nascosto nei campi o negli allevamenti bufalini per avvicinare lavoratori che altrimenti sarebbero in balìa del mercato più selvaggio, che da queste parti assume le sembianze di una vera e propria schiavitù. La politica fa la parte dello struzzo - spesso per convenienza più che per ideologia - l’opinione pubblica è disinformata o non vuole accorgersi dell’esistenza di un Terzo mondo interno - come lo definirebbe lo storico Alessandro Portelli - anche qui da noi, e chi fa affari con gli immigrati ha interesse a che non venga introdotta alcuna regola. E la mancanza di regole fa sì che l’occasione e la mancanza di alternative rendano ladro anche la persona onesta. “L’agricoltura è per forza di cose flessibile, legata alla stagionalità, almeno nei paesi mediterranei dove le colture in serra non sono molto diffuse. Con questo bisogna fare i conti, ma in Italia esiste una deregulation completa. Se non ci sono luoghi in cui possano incontrarsi la domanda e l’offerta di lavoro, anche un agricoltore onesto non sa a chi rivolgersi. I caporali in fondo non hanno fatto altro che inventare il lavoro interinale prima dei governi”, spiega Davide Fiatti della Flai-Cgil. Non si pensi che si tratta di un fenomeno marginale: su un milione e centomila lavoratori nell’agricoltura in Italia, ben un milione sono stagionali. Secondo l’Istat, il 43 per cento del lavoro in agricoltura è sommerso, per un’evasione contributiva stimata in 420 milioni all’anno. Il che vuol dire che 400 mila persone in tutta Italia lavorano al nero, senza diritti e tutele. Di questi, almeno 100 mila sono costretti a subire forme di ricatto lavorativo e a vivere in abitazioni fatiscenti. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di migranti. Il copione che si rispetta fedelmente tutte le notti nella “piazza degli schiavi” di Villa Literno - e in egual misura a Castel Volturno, a Parete e lungo tutta la Domiziana - e che coinvolge, a seconda delle stagioni, un numero di immigrati che può arrivare anche a 15-20 mila persone, è sempre lo stesso: i caporali accostano, tirano giù il finestrino e contrattano prezzo e condizioni, poi se l’affare va in porto i lavoratori salgono a bordo, spesso stipandosi all’inverosimile. Di solito non sanno nemmeno dove andranno a lavorare. I caporali un tempo erano italiani, oggi sono sempre più spesso della stessa nazionalità dei lavoratori. È un fenomeno cominciato come una sorta di mutualità etnica - chi era arrivato da più tempo aiutava i connazionali a sistemarsi, è accaduto anche per l’emigrazione italiana nelle Americhe - ma con il tempo si è trasformato in un piccolo business: i mediatori prendono 5 euro per il trasporto, 3,5 per il panino e 1,5 per una bottiglietta d’acqua. La contrattazione dura al massimo qualche minuto e la stessa scena si ripete in centinaia di punti per un paio d’ore. Al termine, nella piazza semideserta rimarranno solo gli sfortunati che nessuno ha voluto e ai quali non rimarrà altro che ciondolare per il paese in attesa della notte successiva. Quando i cittadini si risvegliano, non troveranno traccia di quanto accaduto. I Garabombo di Villa Literno, come strani esseri animati della notte, alle prime luci del giorno tornano invisibili. Viene in mente il “mercato degli schiavi” di Benevento raccontato nel 1953 da Corrado Alvaro: migliaia di giovani che i padri mettevano in vendita nella centralissima piazza del Duomo, il 15 agosto di ogni anno, come garzoni - “gualani”, in dialetto - al servizio di ricchi possidenti o allevatori. Erano italiani, e questo può in parte spiegare, forse, l’indifferenza con cui un mercato di siffatte proporzioni continui a essere accettato con tanta naturalezza. Le piazze dei paesi del Sud Italia sono sempre state una sorta di agenzie interinali ante litteram, cui attingevano compagnie del Nord per reclutare “musi neri” per le miniere, latifondisti e medi proprietari terrieri in cerca di braccia per l’agricoltura. In buona sostanza, a cercare lavoro nella “piazza degli schiavi” di Villa Literno, fino a qualche decennio fa, c’erano i casalesi e non gli africani. Nel Basso Lazio non si vedono scene del genere. I sikh sanno già dove andranno a lavorare e non hanno bisogno di mediatori in loco. Ma non per questo sono meno sfruttati. Il sociologo Marco Omizzolo, che la scorsa estate si è “infiltrato” nella comunità indiana allo scopo di raccontarne usi e costumi, ha raccolto diverse testimonianze. “Io lavoro in campagna. Vado in macchina con un amico dalle 6 alle 17-18. Dipende dal padrone: io non ho orario. Carico tutto il giorno camion con zucchine o verdura. Lavoro senza mai ferie, ma non mi pagano: il padrone mi dà soldi una volta ogni 4-5 mesi. Così è difficile vivere”, dice Madanjeet, un ragazzo che da due anni è in Italia. “Lavoro dieci giorni al mese, prima lavoravo tutti i giorni. Guadagnavo cinque euro l’ora con contratto regolare e con un bravo padrone. Ora guadagno 2 euro l’ora”, racconta Sukirat, 45 anni e una famiglia in India a cui mandare i risparmi. “La globalizzazione ha prodotto una contrazione dei prezzi di produzione, spostando verso il basso, e quindi verso la manodopera, il contenimento dei costi”, spiega il segretario della Flai- Cgil Sergio Siracusa. Nell’area pontina si arriva al massimo ai 4 euro all’ora, contro gli otto previsti dal contratto nazionale. Eppure, se non ci fossero i sikh del Punjab, l’agricoltura locale rimarrebbe senza braccia e così alla crisi industriale ci troveremmo costretti a registrare anche il collasso della produzione alimentare. Lo hanno dimostrato gli africani di Villa Literno nell’ottobre del 2010 quando incrociarono le braccia tutti insieme in quello che sarà ricordato come lo “sciopero delle rotonde” e gli indiani di Latina che, alla fine di maggio del 2010, scesero in piazza per reclamare i loro diritti e che ora fanno capolino dalle pareti dell’ufficio del segretario della Camera del Lavoro di Latina Giovanni Gioia. “Fu una manifestazione epica, è stata la prima e unica volta che siamo riusciti a portare in piazza un migliaio di sikh”, dice. Ma, nonostante le proteste e l’impegno di sindacati e associazioni antirazziste, molto poco è cambiato nella coscienza civile del nostro Paese. Dall’introduzione del reato specifico, nel 2011, solo 42 caporali sono stati arrestati o denunciati, segno di una forte connivenza tra lavoratori e mediatori. Mentre nel solo 2012 sono state arrestate 435 persone per riduzione in schiavitù, tratta e commercio, alienazione e acquisto di schiavi. Garabombo è rimasto invisibile, e tutto lascia pensare che lo resterà ancora per molto. Pakistan: “spia” indiana muore in carcere, sale la tensione con Nuova Delhi Adnkronos, 2 maggio 2013 La morte nel carcere di Kot Lakhpat a Lahore di Sarabjit Singh, detenuto indiano accusato di spionaggio a favore di Nuova Delhi, riaccende le tensioni tra Pakistan e India. Vittima di un assalto in cella il 26 aprile e deceduto oggi per le ferite riportate, Singh era stato condannato a 16 anni di carcere. Il primo ministro indiano Manmohan Singh ha chiesto che Islamabad faccia giustizia per la morte dell’uomo. “I criminali responsabili dell’attacco barbaro e omicida di Sarabjit Singh devono essere consegnati alla giustizia”, ha detto il premier indiano su Twitter. Anche il portavoce del ministero degli Esteri indiano Syed Akbaruddin ha chiesto che il Pakistan conduca un’indagine sull’assalto all’uomo, che aveva 49 anni. “L’attacco scioccante sottolinea la necessità che il Pakistan attui azioni concrete per tutelare i detenuti indiani”, ha detto Akbaruddin all’agenzia di stampa indiana Ani. Il ministero degli Esteri pakistano ha intanto garantito che il corpo di Sarabjit Singh sarà consegnato a funzionari dell’Alta Commissione indiana il prima possibile. In un comunicato, la diplomazia di Islamabad spiega che il detenuto era in coma e ha ricevuto le cure migliori dallo staff medico dell’ospedale di Jinnah. “Nonostante questo non è stato possibile salvarlo e Sarabjit Singh è morto per un arresto cardiaco”, prosegue il comunicato. Singh aveva trascorso 21 anni di carcere in Pakistan dopo essere stato accusato di spionaggio a favore dell’India e di coinvolgimento in una serie di attentati dinamitardi nel 1990 nei quali furono uccise 14 persone. Il governo indiano e la sua famiglia avevano chiesto che fosse rilasciato per “motivi umanitari”. La famiglia aveva di recente denunciato che Singh aveva ricevuto minacce e accusato le autorità penitenziarie di non garantirgli l’adeguata sicurezza. Stati Uniti: Obama valuta la nomina di un diplomatico per chiusura carcere Guantánamo Tm News, 2 maggio 2013 Il Presidente americano Barack Obama sta valutando l’ipotesi di nominare un alto diplomatico del Dipartimento di Stato per gestire il trasferimento dei detenuti di Guantánamo e arrivare così alla chiusura del carcere americano a Cuba. Lo ha fatto sapere la Casa Bianca, sottolineando però l’impossibilità di arrivare alla chiusura del penitenziario a fronte della continua opposizione del Congresso. “Ci sono diverse cose che possiamo fare - ha detto il portavoce della Casa Bianca Jay Carney - una delle opzioni possibili è la nomina di un alto funzionario del Dipartimento di Stato per tornare a concentrarci sul rimpatrio o il trasferimento dei detenuti che stabiliremo possano tornare nel loro Paese o in un Paese terzo”. All’inizio dell’anno, il Dipartimento di Stato ha assegnato un nuovo incarico a Daniel Fried, fino ad allora inviato speciale per la chiusura di Guantánamo, senza poi sostituirlo. Con 100 detenuti, su 166, in sciopero della fame, Obama è tornato a ribadire la sua intenzione di chiudere il carcere, sottolineando come non rientri più negli interessi per la sicurezza nazionale. Obama ci riprova: Chiuderò Guantánamo (La Repubblica) Barack Obama rilancia la chiusura di Guantánamo, un obiettivo che aveva proclamato tra le priorità del suo primo mandato, e sul quale era stato costretto a fare marcia indietro per le resistenze del Congresso. Ora l’occasione gli viene fornita dal lungo sciopero della fame e altre forme di lotta ad oltranza da parte dei prigionieri del super carcere militare. “Non è sostenibile - ha dichiarato ieri il presidente - l’idea di mantenere cento individui in una terra di nessuno. Tutti noi dobbiamo riflettere sul perché lo stiamo facendo”. La “terra di nessuno” si riferisce al limbo giuridico dei detenuti in un carcere militare, mai formalmente incriminati davanti alla giustizia. Nel frattempo sull’isola sono arrivati “rinforzi medici”, 40 infermieri militari per fare fronte alla protesta. Obama ha elencato tra le ragioni per chiudere Guantánamo le alte spese e i “costi di politica estera” cioè il danno all’immagine degli Stati Uniti. Nel suo primo mandato il presidente aveva tentato di trasferire i detenuti verso delle carceri di massima sicurezza sul territorio continentale degli Stati Uniti. Ieri per la prima volta ha messo in discussione anche il loro status di “prigionieri di guerra a tempo indefinito”, che non si giustifica in un’America che sta concludendo le sue guerre in Iraq e Afghanistan. “L’idea di tenere prigionieri per sempre degli individui che non sono stati processati è contraria a quel che noi siamo, è contraria ai nostri interessi, e deve finire”, ha detto il presidente. Obama si è detto favorevole all’alimentazione forzata perché “non voglio vederli morire”. Nella stessa conferenza stampa Obama è tornata sull’uso delle armi chimiche in Siria, con la consueta cautela. Memore delle bugie di George Bush sull’Iraq, Obama vuole “prove certe” sull’uso di armi chimiche da parte di Assad. Al Congresso si moltiplicano le richieste di una no-fly zone e forniture di armi agli insorti, ma la Casa Bianca teme che gli aiuti finiscano nelle mani di Al Qaeda. Libia: 111 detenuti evasi dal carcere di Sebha Nova, 2 maggio 2013 Un gruppo di 111 detenuti sono evasi ieri dal carcere di Sebha, nel sud della Libia, data l’assenza di un sistema di sicurezza adeguato nel centro di detenzione della città del sud della Libia. Secondo quanto ha reso noto l’agenzia di stampa libica “Lana”, con questa nuova evasione di massa sale a 324 il numero dei detenuti fuggiti negli ultimi mesi dal carcere di Sebha. Secondo il direttore del penitenziario, Shuban bin Naser, “le frequenti evasioni sono dovute alla scarsa presenza di guardie e di sistemi di sicurezza oltre ai problemi di trasporto dei detenuti. Lo scorso aprile sono evasi 64 detenuti, mentre a marzo 61 e 88 a dicembre”.