Giustizia: banditi a Milano… di Gad Lerner La Repubblica, 25 maggio 2013 Centauri muscolosi nerovestiti di non so quale polizia privata ci squadrano in cagnesco lungo via Montenapoleone, appollaiati sulle loro moto di grossa cilindrata. Scrutano i passanti fra cui potrebbe celarsi la Milano criminale che va all’assalto della ricchezza impugnando l’arma bianca al posto delle pistole. Comparsa d’improvviso fra le periferie popolari e le vetrine del benessere, terzo incomodo fra le due Milano che il sindaco Pisapia vorrebbe ricucire come città solidale, la nuova Milano criminale spacca e uccide con asce, spranghe, mazze, picconi, punteruoli, molotov. Rivelando una furia misteriosa d’impronta medievale che non ha bisogno della polvere da sparo per inseguire il flusso del denaro, anche perché ormai gode di un radicamento diffuso nel territorio urbano. Certo i banditi sono altra cosa dalle mafie che si sono intrufolate nella borghesia degli affari grazie al riciclaggio; e la follia individuale resta la punta estrema della sofferenza urbana che già ha spinto più di un milanese su dieci a fare uso di psicofarmaci. Sarebbe una forzatura mettere nello stesso mucchio i rapinatori che martedì hanno saccheggiato la boutique d’orologi Franck Muller in via della Spiga e lo spiantato Ivan Gallo che a marzo ha spaccato la testa dell’orefice Giovanni Veronesi in via dell’Orso, dietro alla Scala. Poi c’è la barbarie insensata del piccone tre volte omicida brandito dal ghanese Mada Kabobo vagabondo a Niguarda; e prima ancora ricordiamo i malavitosi del quartiere Antonini che massacrarono di botte il tassista Luca Massari, colpevole di aver investito il cane di una loro congiunta; mentre al pugile Oleg Fedchenko erano bastati pochi pugni per togliere la vita, in viale Abruzzi, alla colf filippina Emlou Arvesu. Arma bianca, mani nude: sete di guadagno, rancore, dominio territoriale, malattia mentale. Sono spiegazioni insufficienti perché non fanno i conti con una Milano che nel precipitare della crisi ha subito una metamorfosi del suo tessuto metropolitano, concedendo uno spazio inusitato alla nuova presenza inattesa dell’economia illegale. C’è una logica in questa follia che alimenta la “cattiveria” dei milanesi, per dirla con le parole del sindaco. Se prima i rapporti sulla città evidenziavano la piaga di un’assoluta ignoranza reciproca fra i suoi quartieri - da una parte la povertà invisibile relegata nella solitudine delle periferie, dall’altra la finanza, la moda e le professioni blindate nell’opulenza delle zone residenziali - ora facciamo i conti con il corpo estraneo della terza Milano. Mi basta scendere sotto casa per non riconoscerla più, una Milano spaccata in tre dalla crisi. In viale Abruzzi, quartiere di mezzo, né centro né periferia, siamo abituati da sempre alle povere ragazzine da marciapiede che di notte, quando chiudono il bar Basso e il cinema Plinius, vengono soppiantate da trans assai nerboruti e seminudi. Avevamo accolto con simpatia l’inaugurazione dell’Hammam delle Rose, bagno turco per signore. Ma ci eravamo chiesti, in seguito, come mai fiorissero d’un colpo a decine ben altri centri estetici orientali con massaggiatrici dall’aria peccaminosa, e poi gli empori di merci d’importazione low-price altrettanto loschi. Fino a che quest’anno viale Abruzzi s’è disseminato di locali per il gioco d’azzardo (non bastavano i malati di ludopatia ospiti fissi nelle tabaccherie) aperti tutta la notte col permesso di fumare. Mentre di fianco comparivano inspiegabilmente numerosi locali per la vendita delle sigarette elettroniche, o ancora bar con i tavolini bene appostati. Tra i residenti che non ci mettono piede sussurriamo per induzione, senza prove, che è arrivata la ‘ndrangheta o chissà quale altra mafia esotica, non spiegandoci altrimenti questo ricambio di negozi sempre vuoti e quasi sempre disadorni, provvisori. Il criminologo Adolfo Ceretti, che ha appena dato alle stampe con Roberto Cornelli il saggio “Oltre la paura” (Feltrinelli), conferma la sostanza di queste impressioni: “Ci siamo illusi che la presenza della criminalità organizzata a Milano fosse di natura liquida, limitata al riciclaggio del denaro sporco e allo spaccio di droga. Invece sta penetrando nella rete commerciale e più ancora nel profondo delle relazioni personali”. Anche il cittadino milanese qualsiasi incontra per strada e nei negozi l’universo parallelo delle mafie, italiane o con gli occhi a mandorla. Le persone vulnerabili possono divenirne preda nella vita quotidiana. La favola di una ‘ndrangheta asserragliata solo nei comuni dell’hinterland non regge più. Occupa le strade di Milano, e si rivela falso anche il luogo comune leghista che indicava nei quartieri a forte immigrazione come Chinatown o via Padova le roccaforti di un radicamento mafioso che ha invece tutto l’interesse a spalmarsi ovunque la crisi abbia messo in ginocchio e svuotato i vecchi esercizi commerciali. Torno nel quadrilatero della moda funestato dal commando dei rapinatori col passamontagna nero e armati di spranga. Le moto della polizia presidiano la scuola elementare all’angolo fra via della Spiga e via Borgospesso, di fianco alle mamme che aspettano l’uscita degli alunni. Le maniglie a serpente di Roberto Cavalli luccicano al sole di primavera. La rom inginocchiata continua a chiedere l’elemosina mentre l’ambulante nordafricano tenta invano di piazzare i suoi libri improbabili. La gioielleria Tiffany, proprio lì di fianco alle tende abbassate col simbolo violato di Franck Muller, ha rinforzato la vigilanza. L’elenco delle sue filiali è una mappa della ridislocazione della ricchezza planetaria: Geneve, Aspen, Hong Kong, Milan, Moscow, Nagayc, New York, Osaka, Tokyo, Yerevan. Lì accanto, il flusso di cassa nei monumentali negozi degli stilisti continua a registrare la variazione che li ha indotti a reclutare venditrici di madre lingua russa e cinese: tanti acquisti d’importo elevato non passano per la strisciata della carta di credito; più spesso il compratore estrae un rotolo di banconote di grosso taglio e si mette a contare per migliaia di euro. Siamo sicuri che sia tutto denaro proveniente dall’estero, o non avrà invece a che fare anche con l’inesplorata terza Milano criminale? I portavoce del lusso milanese rivendicano legittimamente il diritto a essere presidiati, si vivono come un’enclave patrimoniale meritevole di speciale attenzione, mal sopportano un sindaco che punta alla giustizia sociale quasi che ciò l’avesse distratto dalla cura per la sicurezza pubblica. Spiega il criminologo Ceretti che questa ondata di violenza urbana, per fortuna, resta ben distinta dagli episodi di conflitto sociale, tutto sommato sporadici se rapportati alla povertà dilagante. I centri giovanili come lo Zam (Zona autonoma Milano) di via Olgiati, che mercoledì ha assediato Palazzo Marino, cercano magari lo scontro di piazza, manifestano delusione nei confronti di un sindaco come Pisapia che sentivano vicino e oggi invece difende la legalità, ma la guerriglia urbana degli Anni Settanta, col suo arsenale di spranghe, chiavi inglesi e molotov, non sembra una minaccia alle porte. La sofferenza urbana piuttosto che nel conflitto sociale si manifesta sotto forma di nevrosi e depressione, se è vero che si moltiplicano le richieste di cura mentale, tanto che i sindacati e le associazioni degli imprenditori allestiscono presidi di supporto psicologico per chi va in crisi da abbandono. Mentre i centri di accoglienza e le carceri devono fronteggiare una vera e propria emergenza psichiatrica. Peccato che l’assessore ai Servizi Sociali, Pierfrancesco Majorino, sia costretto dai tagli di bilancio a bloccare i ricoveri gratuiti di anziani nelle case di riposo e i sussidi al reddito per le famiglie in difficoltà. Una situazione che produce anche schegge impazzite, queste sì pericolose per la pubblica sicurezza. Majorino sta pensando di chiedere aiuto ai privati per integrare il fabbisogno di protezione sociale: un inedito appello emergenziale alla borghesia milanese perché la filantropia non si disperda nei mille rivoli dell’iniziativa privata, quando anche le principali istituzioni d’accoglienza, come la Casa della Carità, si ritrovano con l’acqua alla gola. Il movimento arancione che aveva trascinato nel 2011 Giuliano Pisapia a sconfiggere la destra, cambiando di segno l’amministrazione comunale, mise a tacere una campagna forsennata contro la sinistra fautrice di “Zingaropoli” e di una “città a misura di gay”. Oggi la destra ci riprova, cavalcando la denuncia della criminalità che spadroneggia. Poco importa il netto calo del numero di omicidi, il cui tasso è il più basso d’Europa. I reati contro il patrimonio tornano a intasare il Tribunale, magari solo per il furto di cinque buste di prosciutto al supermercato. E quando a essere strappati dalle vetrine sono orologi di pregio per il valor di un milione di euro, è anche l’élite cittadina a rilanciare l’allarme. Pisapia corre ai ripari ammettendo l’impiego dell’esercito, ma solo nei presidi fissi. Spera di rintuzzare la demagogia delle soluzioni immaginarie, dalle ronde alla caccia all’immigrato. Ma intanto nei salotti del centro la conversazione a cena si distoglie dagli argomenti più in voga - la tormentata nomina dei vertici della Scala, la maxi - multa che rischia di mettere in ginocchio la società degli aeroporti, il pericolo di crack alla Rcs - perché un brivido corre lungo la schiena delle signore habitué dello shopping. Non è un capriccio. Se la violenza criminale torna a serpeggiare fra le periferie e il centro, per quanto mossa dall’avidità di ricchezza anziché dall’ideologia politica, a Milano si rivivono gli incubi di un passato funesto. Il guaio è che stavolta non basterà smantellare qualche cellula estremista: c’è cresciuta in casa un’economia illegale ramificata, assai più difficile da bonificare. Troppo a lungo la classe dirigente meneghina, per malinteso orgoglio o per convenienza, ha fatto finta di non accorgersene. Giustizia: Comuni, la sicurezza nell’urna di Susanna Marietti (Associazione Antigone) Il Manifesto, 25 maggio 2013 Dopodomani si vota a Roma e in molte altre città. Sembrava che il tema della sicurezza non fosse il cuore della campagna elettorale. Invece è prepotentemente tornato, senza che ce ne fosse il minimo bisogno, al centro delle polemiche tra le forze politiche. A Milano a ogni fatto di cronaca la destra attacca Pisapia, come se la colpa di qualsiasi incidente, rapina, impazzimento o femminicidio fosse la sua. Ci si rinfaccia reciprocamente l’aumento dei crimini, a seconda se si è in maggioranza o all’opposizione. Alemanno - che sulla sicurezza, e sulla debolezza di Rutelli, vinse nel 2008 - deve ora rispondere a chi nel Partito Democratico gli rinfaccia l’aumento dei reati nella Capitale. Errori speculari. Anche nel campo del centro - sinistra si tenta, strumentalmente e colpevolmente, di rincorrere i sentimenti di insicurezza delle persone. Il fantasma della sicurezza nelle città ha visto evocare, a destra ma anche a sinistra (lo ha fatto anche il candidato sindaco a Roma Alfio Marchini), la politica anti - sociale della tolleranza zero di Rudolph Giuliani. Negli scorsi anni i Comuni hanno prodotto ordinanze tanto creative quanto illegittime. Hanno proposto e condotto la guerra ai writers, ai senza casa, alle prostitute, ai rom, ai poveri. Si sono lette cose buffe e pericolose allo stesso tempo, come nell’ordinanza che vietava a tre persone di sedere su una panchina contemporaneamente. Per fortuna la Corte Costituzionale ha smantellato tale architettura illiberale, che trasformava il sindaco in uno sceriffo e la polizia municipale nella sua mano armata. La Polizia di Roma Capitale, come oggi si chiama, ha di recente deciso di fare il volto truce contro alcuni ragazzi immigrati che vivono in centri per minori non accompagnati. Il 28 marzo scorso tre ragazzi minori del Bangladesh sono stati portati in quel posto indegno che è il Cie di Ponte Galeria. Nonostante si sia ottenuto per vie legali il loro rilascio, il Comune ci ha riprovato. E così il 13 maggio i ragazzi sono stati condotti nuovamente a Ponte Galeria. In questo modo, con la regia di funzionari e vigili, la giunta di Alemanno e qualche suo assessore penserà di prendere una manciata di voti in più, sulla pelle di giovanissimi senza colpe e violando palesemente le norme Onu sui diritti dell’infanzia. Sarebbe quasi meglio tornare allo Stato centrale borbonico, nel quale non avrebbe spazio una polizia locale armata… Uno Stato centralizzato, dove i vigili tornerebbero a regolamentare il traffico, cosa di cui tanto ci sarebbe bisogno. Oggi, non più ossessionati dal mito federalista - padano, potremmo finalmente mettere la parola fine alle sciocchezze federaliste sulla sicurezza e alle stupidaggini secessioniste. I leghisti auspicavano la creazione di polizie regionali. Fortunatamente non se ne fece nulla. Ma nella Roma di Alemanno la polizia locale è stata usata per fare paura a chi vive nella marginalità e nel bisogno. Forse, viste anche le necessità di razionalizzazione della spesa, piuttosto che moltiplicare le polizie sarebbe invece arrivato il momento di proporre la grande riforma della pubblica amministrazione italiana: unificare Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza. Si risparmierebbero varie centinaia di milioni di euro l’anno e si avrebbe un sistema investigativo più efficace di quello attuale. Quei tre pachidermici corpi, che svolgono più o meno analoghe mansioni, costituiscono un autentico spreco. Uno Stato in crisi, disposto ad ammazzare ogni angolo di welfare per far fronte alla drammaticità dei conti pubblici, non può permettersi tre polizie con compiti sovrapposti. Senza rinunciare a un solo operatore di polizia, si risparmierebbero i costi della triplicazione delle strutture sui territori, nonché si razionalizzerebbe l’intervento di prevenzione e controllo territoriale. A tutto ciò non rimane estraneo il tema del carcere e della campagna per le tre leggi di iniziativa popolare. Ogni intervento sociale inclusivo nelle periferie delle grandi metropoli si traduce infatti anche in probabili utenti in meno nel sistema della giustizia penale e delle carceri italiane. Con un bel risparmio di spesa. Un detenuto costa 130 euro al giorno. Il sostegno sociale a una persona in difficoltà costa tre volte di meno. Giustizia: ossigeno alle nostre carceri; amnistia non solo per riportare l’Italia nella legalità di Laura Borselli Tempi, 25 maggio 2013 Le sentenze che certificano lo scandaloso sovraffollamento delle nostre carceri, l’ipotesi di strutture “a bassa sicurezza”. Poche settimane fa il nuovo assessore alla Cultura del comune di Milano ha bloccato il progetto fortemente voluto dal suo predecessore Stefano Boeri: non ci sono i soldi, ha detto Filippo Del Corno, per portare la Pietà Rondanini di Michelangelo nell’androne del carcere di San Vittore. In quel fatto di cronaca milanese, archiviato senza nemmeno troppo rumore tra le istanze dell’austerity e le scaramucce della politica, c’è una triste analogia con quel che accade nelle patrie prigioni: nessuna Pietà per San Vittore, nessuna pietà per le carceri italiane, ripetutamente condannate da organismi internazionali per le condizioni inumane in cui il sovraffollamento costringe i detenuti. Eppure in queste ultime settimane qualcosa è sembrato muoversi. La settimana scorsa il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri ha visitato il carcere romano di Rebibbia. Il tema del sovraffollamento delle carceri è stato toccato anche dal premier delle larghe intese Enrico Letta nel suo discorso di insediamento. La commissione Giustizia del Senato, presieduta dal pdl Nitto Palma, ha da poco avviato un’indagine conoscitiva sul tema. Lo stesso Palma, rispondendo alle domande di Tempi, riconosce che, come ha scritto la settimana scorsa sul Corriere Luigi Ferrarella, più che di indagini le carceri hanno bisogno di decisioni coraggiose, ma rivendica l’importanza di un momento conoscitivo che possa fornire una base solida a quello operativo. Più scettico il senatore Luigi Manconi (Pd), anch’egli membro della commissione giustizia di Palazzo Madama e da anni in prima linea per far tornare il sistema carcerario italiano alla legalità. “I dati in base a cui agire ci sono già - dice a Tempi. Io stesso, con una semplice telefonata al Dap (Dipartimento affari penitenziari) ho raccolto un’informazione significativa: ad oggi ci sono circa 15 mila detenuti al di sotto della soglia dei 18 mesi, prevista per usufruire della detenzione domiciliare”. Si tratta della norma che consente ai detenuti che hanno meno di 18 mesi di pena residui di scontarli ai domiciliari, contenuta nel decreto svuota carceri dell’ex guardasigilli Paola Severino e in scadenza a settembre. “Personalmente - riprende Manconi - auspico una proroga del decreto Severino e un innalzamento della soglia anche a 20 - 24 mesi. Ridurre il numero delle condizioni ostative alla detenzione domiciliare darebbe ossigeno alle nostre carceri”. Parlare di ossigeno non è fuori luogo. Al 31 luglio 2012 la popolazione detenuta era di 66.009 detenuti contro una capienza complessiva di 45.588 persone. La legge prescrive che ogni detenuto debba avere circa 9 metri quadrati a testa a disposizione, ma sono oltre 400 i ricorsi per detenzione in uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati. Poche settimane fa è stato diffuso il rapporto del Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria nei 47 stati membri, fotografata al settembre 2011. Dopo Serbia e Grecia l’Italia è il paese del Consiglio d’Europa con il maggior sovraffollamento nelle carceri, dove per ogni 100 posti ci sono 147 detenuti. Siamo anche al terzo posto per numero assoluto di detenuti in attesa di giudizio, dopo Ucraina e Turchia. Oltre ai numeri pesano anche le condanne. Particolarmente significativa quella dell’8 gennaio scorso, emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel caso Torreggiani e altri lo Stato italiano è stato condannato per sistematica violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea ovvero la proibizione di trattamenti inumani e degradanti. E il governo Monti prese tempo Il “peso” di quella condanna è ben sintetizzato da Andrea Pugiotto, ordinario di diritto costituzionale a Ferrara e firmatario, insieme a 136 tra giuristi e garanti dei detenuti, di una lettera sullo stato allarmante della giustizia e delle carceri al capo dello Stato. “Si tratta - spiega a Tempi - di una sentenza pilota che accerta che le carceri italiane sono strutturalmente lesive della dignità dei detenuti e che concede all’Italia un anno di tempo, da quando la sentenza diventa definitiva, per mettere in atto una serie di misure per risolvere il problema del sovraffollamento e risarcire coloro che ne sono stati danneggiati”. Contro quella sentenza il governo Monti ha fatto ricorso, “con evidente intento dilatorio”, osserva Pugiotto mettendo sul piatto un’altra “cambiale” in scadenza. “Presto infatti la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi su una delle leggi più “carcerogene” del nostro ordinamento, la Fini - Giovanardi in tema di stupefacenti, nata dall’inserimento delle sue norme nel decreto legge sui Giochi invernali di Torino. La sua disomogeneità tematica e l’assenza dei presupposti di straordinarietà, necessità e urgenza richiesti dalla Costituzione, la rendono un testo illegittimo. Bene hanno fatto la III sezione della Corte d’Appello di Roma e, ora, la Cassazione ad impugnarla alla Consulta”. Il ritornello della mancanza di soldi non funziona come scusa, neanche per il governo delle larghe intese che deve inventarsi la formula per far convivere rigore e crescita. “Chi non riesce a cogliere la violazione di legalità in atto - riprende il professor Pugiotto - si ponga almeno il problema dal punto di vista economico: nel solo 2012 l’Italia è stata condannata a pagare circa 120 milioni di euro per non aver adeguato i propri standard giuridici ai livelli imposti dalla Convenzione Europea dei diritti umani, non solo in ambito carcerario”. Ma parlare di emergenza carceri significa anche parlare di amnistia, un termine che anche il magistrato di sorveglianza di Milano, Guido Brambilla, ha evocato (cfr. servizio precedente) come una misura che “potrebbe favorire un clima di pacificazione in questo momento storico”. “Non so se si possa parlare di pacificazione nazionale - osserva il senatore Manconi. Ma carcere e giustizia vivono una condizione di eccezione, richiedono dunque provvedimenti di eccezione per ripristinare quella normalità che consenta poi di agire per risolvere il problema alla radice. Oggi la situazione è troppo congestionata”. “È evidente - interviene il vicedirettore del Dap Pagano - che l’amnistia crea uno spazio di cui le nostre carceri hanno drammaticamente bisogno, però credo che tecnicamente debba essere l’inizio o il termine di un percorso, non un episodio isolato. Nel 2006 con l’indulto sono usciti trentamila detenuti ed era giusto che accadesse. Però da allora è mancato un progetto che evitasse di ritrovarsi nella stessa situazione”. La necessità di un percorso che eviti uno svuotamento solo temporaneo delle carceri è sottolineata anche dal professor Pugiotto (“la clemenza collettiva è una scelta politica imposta dalla necessità di recuperare la Repubblica al rispetto della sua stessa legalità, interna e internazionale”, sottolinea) e dal Senatore Palma: “Personalmente credo che l’amnistia sia un formidabile strumento di deflazione dei carichi giudiziari e solo in parte (e non so in che misura) può incidere sul sovraffollamento carcerario. Ma parlare di amnistia fuori da un sistema di interventi più ampio significa porre in essere un intervento non decisivo, che si presta a strumentalizzazioni politiche di chi paventa rischi per la sicurezza dei cittadini”. Tenere conto della pericolosità Il tema della sicurezza, tuttavia, va affrontato in un’ottica più ampia e di certo meno strumentale di quella che mira a suscitare paure nei cittadini. Perché se è vero, come scrive il giudice di sorveglianza Brambilla, che la quota dei detenuti socialmente pericolosi è molto bassa, è allora necessario pensare a strutture che tengano conto del livello di pericolosità. Può trattarsi di strutture in cui lo Stato delega, almeno in parte, la gestione a quelle associazioni del privato sociale che già operano con successo in tante carceri italiane? “Assolutamente sì - risponde Pagano. Noi come Dap stiamo facendo molto per i detenuti a media sicurezza e per le cosiddette pene alternative. Il carcere deve essere l’extrema ratio. Le strutture a bassa soglia di pericolosità, tuttavia, più che altro devono finire nelle pene alternative”. Molto più cauto il senatore Manconi, che, pur ribadendo l’importanza delle pene alternative, avverte che “se parliamo di strutture alternative il privato sociale può entrare, ma se si parla di custodia no: della custodia deve occuparsene lo Stato. Laddove dovesse essere necessario esercitare l’uso della forza ci deve essere solo lo Stato”. D’accordo anche Nitto Palma per cui “la parte di sicurezza e ordine deve rientrare nelle competenze dello Stato”. “Le pene alternative e la collaborazione con il privato sociale - conclude il professor Andrea Pugiotto - sono da valorizzare, ma il momento della custodia e dell’esecuzione della pena non va in alcun modo privatizzato. Il varco aperto dal meccanismo del project financing previsto nella scorsa finanziaria andrà per questo attentamente monitorato, per evitare questa deriva”. Giustizia: la Cancellieri e Amnesty accusano… il magistrato Brambilla rilancia l’amnistia Tempi, 25 maggio 2013 Si torna a parlare di prigioni sovraffollate e trattamento disumano dei detenuti. Su Tempi interviene il giudice Guido Brambilla e rispondono, tra gli altri, Cosimo Ferri, Nitto Palma, Luigi Manconi Si torna a parlare dell’emergenza carceri. Lo ha fatto oggi il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri intervenendo al carcere Ucciardone a Palermo per la commemorazione di Giovanni Falcone nell’anniversario della strage di Capaci. “Le nostre carceri non sono degne di un paese civile e della nazione di Cesare Beccaria”, ha detto il ministro. Per questo “serve un’azione molto vasta”. E non basterà costruire “nuove e moderne carceri, con spazi decenti”: bisogna “ripensare il sistema delle pene, valutando se non ci siano spazi ulteriori per quelle alternative, pensando che l’obiettivo è certo far sì che si paghino gli errori, ma al contempo che i reclusi ne escano migliori”. Ma il ministro Cancellieri non è stata la sola a rimettere a tema quella che il presidente Napolitano ha definito una “prepotente urgenza” del nostro paese. Anche Amnesty International, nel Rapporto annuale 2013, reso pubblico proprio oggi, parla di “condizioni disumane” negli istituti penitenziari italiani: “Le condizioni di detenzione e il trattamento dei detenuti in molti istituti di pena e altri centri detentivi sono state disumane e hanno violato i diritti dei detenuti, compreso il diritto alla salute”. L’associazione per la tutela dei diritti umani nel mondo denuncia in particolare il “grave sovraffollamento” delle nostre prigioni e “l’incapacità di tutelare il rispetto della dignità umana e di altri obblighi internazionali”. E sempre di emergenza carceri si occupa il settimanale Tempi in un ampio servizio pubblicato nel numero in edicola da oggi. Il servizio si apre con l’intervento di Guido Brambilla, giudice del Tribunale di Sorveglianza di Milano e autore di numerosi articoli sul tema dell’esecuzione penale, che invoca “l’amnistia” come “importante istituto che potrebbe favorire un clima di pacificazione in questo momento storico”. Secondo Brambilla infatti un provvedimento di clemenza “non avrebbe solo lo scopo di deflazionare l’insopportabile sovraffollamento carcerario, che ha raggiunto ormai livelli “sudamericani” con numerose sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte di giustizia europea, ma anche quello “simbolico” di far respirare il rovente agone giudiziario introducendo quella serenità necessaria per por mano alle nuove sfide che la riforma della giustizia impone”. E la prima tra le riforme necessarie, sempre secondo il magistrato milanese, sarebbe appunto il potenziamento delle pene alternative alla detenzione in cella, se necessario anche affidandosi a iniziative private in un’ottica di sussidiarietà: “Il carcere - scrive Brambilla - dovrebbe costituire “l’extrema ratio” dell’intervento punitivo. In tale logica, lo Stato, dopo (o con) una terapeutica amnistia, dovrebbe potenziare le misure alternative (affidamento in prova, affidamento terapeutico, le varie forme di detenzione domiciliare eccetera), rendendole visibili alla collettività come vere e proprie sanzioni tese al reinserimento più che come forme di assistenzialismo sociale, con una contestuale semplificazione delle stesse”. Cosimo Ferri e le alternative al carcere “La pena detentiva sia riservata ai casi più gravi (delitti di allarme sociale) e quella pena deve essere certa ed effettiva”, risponde nello stesso servizio di Tempi Cosimo Maria Ferri, sottosegretario alla Giustizia. Che spiega: “Per arrivare a questo risultato occorre sviluppare, oltre ad un massiccio sfoltimento delle fattispecie di rilievo penale, il ricorso ampio a pene pecuniarie per i reati di scarso allarme sociale”. Ferri ricorda che proposte di legge in materia di pene alternative sono già all’esame del Parlamento e del governo e sostiene che è “necessario sviluppare anche lo strumento dell’espulsione”, visto che “il problema del sovraffollamento è legato soprattutto all’alta percentuale di detenuti stranieri che non hanno risorse all’esterno e quindi non possono fruire di misure alternative”. Si dicono favorevoli a provvedimenti di clemenza, sebbene con distinguo, tutte le voci interpellate da Tempi sulla proposta del giudice Brambilla. In particolare il presidente della commissione Giustizia del Senato, Nitto Palma (Pdl) crede che “l’amnistia sia un formidabile strumento di deflazione dei carichi giudiziari e solo in parte (e non so in che misura) può incidere sul sovraffollamento carcerario. Ma parlare di amnistia fuori da un sistema di interventi più ampio significa porre in essere un intervento non decisivo, che si presta a strumentalizzazioni politiche di chi paventa rischi per la sicurezza dei cittadini”. E Luigi Manconi (Pd), membro a sua volta della commissione Giustizia di Palazzo Madama e da anni in prima linea per far tornare il sistema carcerario italiano alla legalità, concorda sul fatto che “carcere e giustizia vivono una condizione di eccezione” e dunque “richiedono provvedimenti di eccezione per ripristinare quella normalità che consenta poi di agire per risolvere il problema alla radice”. Giustizia: “braccialetto elettronico” per Lavitola, un giorno per trovarne uno funzionante www.lettera43.it, 25 maggio 2013 Quando 10 anni fa venne introdotto il braccialetto elettronico per il controllo a distanza dei detenuti agli arresti domiciliari furono in molti a salutare l’evento come un momento decisivo della lotta al crimine. L’aggeggio avrebbe infatti consentito un più efficace controllo dei delinquenti o presunti tali e avrebbe contribuito a svuotare le carceri. Il fallimento di quella iniziativa appare ora rappresentato plasticamente anche dal sofferto viaggio verso casa di Valter Lavitola, finito in carcere nell’aprile 2012 e che ha ottenuto il 23 maggio gli arresti domiciliari. Sì, perché solo dalla sera del 24 maggio è stato possibile dare corso alla scarcerazione e ciò a causa di una serie di intoppi: la ricerca nei depositi del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) di un braccialetto funzionante, la messa a punto di tutti gli accorgimenti tecnici per consentire il collegamento con le centrali delle forze dell’ordine, oltre ovviamente alle solite procedure burocratiche che sempre si propongono quando un recluso deve lasciare il penitenziario. Al Dap era stata trasmessa anche una sollecitazione di Francesco Cananzi, il giudice che aveva firmato il provvedimento con il quale si permetteva all’ex direttore dell’Avanti di far ritorno a casa purché sorvegliato a distanza. “Lavitola si trova in una situazione paradossale: per la giurisdizione dovrebbe trovarsi già a casa, ma l’adempimento amministrativo non è stato ancora completato”, aveva dichiarato l’avvocato Gateano Balice, legale di Lavitola, prima che si sbloccasse il caso. Fu lo stesso difensore di Lavitola, nelle scorse settimane, a manifestare al giudice la disponibilità dell’indagato a indossare il braccialetto, una misura che avrebbe consentito di fargli lasciare il carcere e prevenire così quel pericolo di fuga che i magistrati hanno ritenuto sempre concreto alla luce della lunga latitanza trascorsa dal giornalista tra Panama, Brasile e Argentina (i magistrati ritengono, tra l’altro, che all’epoca abbia tagliato la corda dopo una fuga di notizie sull’imminente ordine di arresto). L’applicazione della misura destò sorpresa negli ambienti giudiziari, visto che il sistema appariva ormai di fatto “abrogato” per desuetudine. Lo scorso anno il vicecapo della polizia annunciò sconfortato che erano solo otto i detenuti ai domiciliari in Italia controllati con il braccialetto. Sembra che all’origine del fallimento del sistema vi siano i tanti casi di cattivo funzionamento, che talvolta costringeva per i falsi allarmi le pattuglie di polizia e carabinieri a percorrere la città a sirene spiegate per inutili controlli. Nel pomeriggio del 24 maggio, stando alle indiscrezioni raccolte, il braccialetto funzionante è stato reperito, ma si è dovuto provvedere al collegamento elettronico, circostanza che ha fatto slittare l’uscita dal carcere di Secondigliano: solo in serata Lavitola ha potuto raggiungere la casa della moglie, scelta per i domiciliari. Non prima di essere però passato dai carabinieri della stazione di Ponte Milvio per munirsi dell’agognato braccialetto elettronico. Il provvedimento era stato disposto nell’ambito dell’inchiesta sui fondi all’editoria, una delle tante vicende giudiziarie in cui è coinvolto l’ex direttore di quello che fu lo storico giornale dei socialisti. Ma per alcune settimane Lavitola è restato in carcere in base a un’altra ordinanza cautelare, relativa al tentativo di estorsione ai danni di Silvio Berlusconi (per il quale è stato condannato in primi grado a 2 anni e 8 mesi). Il 24 maggio, anche in relazione a quest’ultima vicenda, il tribunale del Riesame ha concesso i domiciliari all’imputato e pertanto Lavitola avrebbe dovuto entro poche ore, una volta conclusi gli adempimenti burocratici nel carcere di Secondigliano, ritornare nella sua abitazione a Roma. È cominciato invece solo allora un nuovo caso dai toni tragici e grotteschi. Giustizia: 11mln l’anno alla Telecom per 2mila bracciali elettronici, in uso solo una decina Ansa, 25 maggio 2013 Gli ultimi dati disponibili parlano di meno di una decina di dispositivi in uso da quando, a inizio 2012, è stata rinnovata la convenzione. Non è mai stato un gran successo l’impiego del braccialetto elettronico come misura da applicare in tandem coi domiciliari al posto del carcere. Dubbi per problemi tecnici, interrogazioni parlamentari e critiche non sono mancate negli anni e oggi l’ultimo caso riguarda Walter Lavitola: il suo legale ha fatto sapere che doveva restare in cella perché mancava il braccialetto. Poi nel giro di qualche ora la questione è rientrata: il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha reperito lo strumento di controllo. L’introduzione del braccialetto si deve a una legge del 2001 e a un contratto tra il ministero dell’Interno e Telecom. La convenzione riguardava tutti i servizi di telefonia del Viminale e nel 2003 venne implementata con un capitolo sui braccialetti, per un canone complessivo di circa 11 milioni annui (di cui 9 per i bracciali) fino al 2011 e la possibilità di noleggiare fino a 400 dispositivi. Ma solo una quindicina sano stati effettivamente usati, secondo quanto rese noto nell’ottobre 2012 la Corte dei Conti, che rilevò “una notevole sproporzione tra gli elevati costi e il numero veramente esiguo” dei bracciali utilizzati. A scadenza la convenzione è stata rinnovata per altri 7 anni e duemila bracciali, come rese noto l’allora ministro dell’Interno Cancellieri, che oggi guida la Giustizia. Nel gennaio 2012 nel corso di un’audizione alla Camera, il vice capo della polizia Francesco Cirillo disse però che erano attivi solo 8 dispositivi. “Sei - dice Donato Capece, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Sappe - sono stati adottai tutti su disposizione dell’autorità giudiziaria di Campobasso, grazie al Presidente del Tribunale, Vincenzo Di Giacomo e al procuratore Armando D’Alterio, che quando era al Dap ha studiato il braccialetto elettronico. Questa è la storia di uno spreco - aggiunge Capece - anche perché mentre un detenuto costa 170-200 euro al giorno, un braccialetto ha costi tra i 30 e massimo i 90 euro”. Sardegna: presidente Cappellacci; no a trasferimento di 300 mafiosi nelle carceri dell’isola Ansa, 25 maggio 2013 Coro di no al possibile trasferimento nelle carceri della Sardegna di 300 mafiosi, fra cui capi del calibro di Riina e Provenzano. Levata di scudi del presidente della Regione, Ugo Cappellacci, per il quale l’isola non vuol diventare la “Cayenna d’Italia” per questo “ci opporremo all’inquinamento sociale che deriverebbe dallo sbarco di detenuti mafiosi”. In offensiva anche il parlamentare Mauro Pili (Pdl), che si dice “pronto alle barricate e ad ogni azione pur di scongiurare questo attacco frontale alla società sarda” e che ha chiesto un urgente incontro al ministro della Giustizia. “È inaccettabile che uno Stato perennemente smemorato si ricordi che la Sardegna è in Italia solo per decidere dove depositare le sue scorie o i delinquenti mafiosi - ha detto il governatore Cappellacci - l’isola è nota per il suo straordinario patrimonio ambientale, paesaggistico, culturale e per i suoi valori. Non intendiamo subire il marchio indelebile di Cayenna d’Italia, già affibbiato in passato ad alcuni dei nostri angoli più incantevoli. Il ruolo cui aspiriamo è molto diverso ed è quello di scrigno di ciò che il nostro Paese ha di più prezioso: dalle bellezze naturalistiche a quelle culturali e identitarie. Per questo ci opporremo”. “Siamo pronti alle barricate - ha aggiunto Pili - i mafiosi non li vogliamo. Il ministro Cancellieri blocchi questo demenziale piano di trasferire in Sardegna quasi 300 capi mafia in regime di 41 bis o altrimenti siamo pronti ad ogni azione. La sola ipotesi che personaggi come Riina o Provenzano e tutti i loro affiliati più diretti possano mettere dimora in Sardegna con tanto di carovane di familiari e accoliti al seguito fa semplicemente rabbrividire. Dopo la scoperta di affari mafiosi in Costa Smeralda e nel Nord Sardegna, con serio pericolo di infiltrazioni sia nel business dell’eolico che immobiliari, lo sbarco della mafia potrebbe prendere di mira importanti opere pubbliche”. Pili ha anche definito folle il piano che prevede di inviare nell’isola oltre il 50% dei 41 bis delle carceri italiane: “I dati il Ministero li ha confermati in conferenza stampa. Con l’ammissione dei trasferimenti a Cagliari e Sassari, ai quali si aggiungono quelli già in essere a Nuoro. Si ha la conferma di quello che da due anni denuncio. A Cagliari si stanno allestendo dalle 90/100 celle per detenuti in regime 41 bis (capimafia), 100/120 a Sassari e 80/90 a Nuoro. Con la decisione, poi, di trasformare Tempio e Oristano in carceri di alta sicurezza”. Cagliari: lettera-denuncia dei detenuti “sciopero della fame, contro condizioni disumane” L’Unione Sarda, 25 maggio 2013 Un documento firmato da trecento detenuti del carcere di Buoncammino denuncia la condizione “disumana” che si vive nel penitenziario cagliaritano. Hanno firmato in trecento la lettera, annunciando lo sciopero del carrello: i detenuti del carcere di Buoncammino dal 25 maggio rinunceranno al vitto fornito dall’amministrazione penitenziaria. Una protesta, fanno sapere i carcerati, che proseguirà “fino a quando riusciremo ad andare avanti”. La lotta scatterà in concomitanza con la giornata in cui si terrà la manifestazione nazionale contro il carcere, il 41 bis, la differenziazione e l’isolamento. “Vogliamo far sapere a tutto il mondo esterno”, scrivono i detenuti (tra le trecento firme quelle di carcerati sardi, della Penisola e stranieri in una battaglia comune), “la realtà della tortura istituzionale dell’apparato della giustizia che tutti i detenuti stanno subendo”. Una denuncia contro “il regime di tortura del 41 bis” da cui si può uscire solo “diventando collaboratore di giustizia con la logica del ricatto”. Poi scatta un lungo elenco dei tanti problemi specifici del carcere di Buoncammino: “sovraffollamento, malattie derivanti dalla detenzione, atti di autolesionismo e gli omicidi di stato (suicidi) conseguenza dell’oppressione penitenziaria”. “Ci tengono chiusi 21 ore al giorno senza far niente”, prosegue la lettera - denuncia, “con carenza igienico sanitarie mentre la struttura cade a pezzi come accaduto qualche giorno fa con il crollo di un pezzo di ballatoio al secondo piano del carcere”. Una protesta pacifica, spiegano i detenuti. Ma si riservano “di intraprendere altre forme di sciopero”. Ricordando che il Tribunale di Strasburgo ha “più volte sanzionato e definito le carceri italiane come luoghi di tortura”. Il comunicato è stato inviato a tutte le associazioni e gruppi che aiutano le battaglie dei detenuti, al presidente della Repubblica, al ministro della Giustizia, al provveditorato regionale e al sindaco di Cagliari. Firenze: ambulatori medici nei Reparti di Sollicciano, così l’Asl curerà da vicino i detenuti met.provincia.fi.it, 25 maggio 2013 Un ambulatorio di base in ognuno dei 5 reparti del carcere di Sollicciano e la ristrutturazione di un’ampia parte della zona sanitaria centralizzata. È la decisione presa, in accordo con il vicesindaco di Firenze, Stefania Saccardi, il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone e il direttore di Sollicciano Oreste Cacurri, dal direttore generale dell’Asl 10 Paolo Morello a seguito del sopralluogo nel penitenziario effettuato con il direttore sanitario Angiolo Baroni e i responsabili delle strutture impegnate a garantire la salute in carcere. Nei reparti dell’istituto di pena, (giudiziario, penale, femminile, transito e reparto assistiti) verranno predisposte 4 stanze ad uso sanitario, chiamate “modulo periferico di base” dove saranno curati i detenuti. Il modulo periferico di base sarà composto da una stanza per le visite del medico di base, una per gli infermieri, una dedicata alla salute mentale, una per le visite degli specialisti, oltre ad un bagno dedicato ed un archivio ad uso sanitario. Solo nel reparto femminile sarà mantenuto un congruo numero di locali in prossimità delle celle che qui non sono raggruppate in blocchi. Queste stanze saranno destinate all’attività di salute mentale, infermieristica e medica di carattere più urgente. La ristrutturazione di questo reparto prevede, eventualmente riducendo il numero di posti letto, una rivisitazione dei locali ad uso sanitario, un adeguamento igienico sanitario delle celle e una nuova fruizione degli spazi comuni per le attività ricreative, riabilitative e i trattamenti. La soluzione del modulo periferico di base rappresenta il punto di equilibrio tra l’esigenza sanitaria di accentramento degli spazi e dei servizi e quella carceraria di decentramento nelle sezioni detentive. Sarà così possibile migliorare gli spazi sanitari esistenti che non rispondono omogeneamente alle esigenze organizzative di cura e assistenza. Oltre agli ambulatori di base nei 5 reparti verrà ristrutturata e riorganizzata l’area sanitaria centralizzata che disporrà di un reparto accoglienza, uno di osservazione clinica, un pre-isolamento sanitario, un poliambulatorio multi specialistico, un deposito farmaci centralizzato e un locale per lo stoccaggio dei rifiuti speciali. Il reparto accoglienza troverà posto in un nuovo spazio dove verranno ospitati i detenuti che necessitano di visite e ricovero. Qui sarà operativa un’equipe sanitaria nell’arco delle 24 ore. Il reparto di osservazione clinica sarà predisposto ristrutturando due celle e potrà accogliere 8 pazienti che necessitano di approfondimenti diagnostici e più accurati monitoraggi clinici e assistenziali nel caso di problematiche sanitarie di tipo internistico/chirurgico compatibili con la permanenza in ambiente carcerario, sia che giungano dai reparti di detenzione sia che siano stati dimessi dopo un ricovero ospedaliero. Questo spazio sarà ricavato da un’area attualmente destinata all’osservazione psichiatrica maschile, che sarà presto dismessa e trasferita in altre strutture carcerarie. I ricoveri in questo reparto saranno decisi dal medico responsabile della sezione in stretto raccordo con l’Amministrazione penitenziaria. Alcuni posti letto destinati a pazienti con particolari problemi di salute mentale resteranno attivi in un’area attigua a questa zona. Due stanze con posto letto singolo e dotate di bagno, costituiranno il pre-isolamento sanitario, destinato a pazienti con sospetta patologia infettiva in fase di accertamento diagnostico. Nell’aria già destinata a poliambulatorio, opportunamente ristrutturata, resteranno le attività specialistiche che necessitano di specifica strumentazione diagnostico - terapeutica: radiologia, ecografia, ambulatorio oculistico, ecocardiologia, crioterapia dermatologica, riabilitazione, saletta chirurgica per suture, uno dei tre studi odontoiatrico dotati di riunito con trapano, spruzzatore d’acqua, aspiratore, ecc. Gli altri due studi odontoiatrici resteranno nel reparto femminile e in quello giudiziario. Le attività sanitarie all’interno del carcere sono di competenza della Asl dal 2008 che impegna nel penitenziario 6 medici di base, 15 medici di continuità assistenziale, 10 specialisti, 7 infermieri, ai quali se ne aggiungono un’altra trentina che operano con appalto esternalizzato. Senza contare la somministrazione di farmaci che riguarda circa 700 detenuti al giorno, sono circa 200 le prestazioni quotidianamente erogate dal personale sanitario a Sollicciano. Al più presto i tecnici dell’Azienda sanitaria di Firenze e del Provveditorato regionale penitenziario predisporranno la progettazione, la stima dei costi e i tempi di esecuzione. Per la realizzazione dei lavori di ristrutturazione ordinaria verranno impiegati anche, sotto la guida ed il controllo della direzione del carcere, detenuti specializzati in opere murarie impegnati nelle attività di recupero lavorativo. Salerno: Rita Bernardini (Radicali); nel carcere di Fuorni ci sono trattamenti inumani di Mario Rinaldi La Città di Salerno, 25 maggio 2013 “Alla casa circondariale di Fuorni sono in atto trattamenti inumani e degradanti”. L’accusa arriva da Rita Bernardini, ospite ieri mattina nel campus universitario di Fisciano per un seminario di studio in diritto penitenziario sul sovraffollamento carcerario intitolato “Il sistema che funziona”. La segretaria dei Radicali Italiani non ha risparmiato critiche al magistrato di sorveglianza di Salerno. “Se avesse visitato personalmente gli ambienti dell’istituto penitenziario di Fuorni - ha detto - si sarebbe accorto del sovraffollamento che i detenuti sono costretti a subire, a causa della presenza di un numero di carcerati superiore rispetto a quello che la struttura è in grado di accogliere”. E ancora: “Alcuni detenuti hanno rivelato che qui il magistrato di sorveglianza è come un plotone di esecuzione, che rigetta ogni istanza. Dalle testimonianze si è appreso che sono i detenuti a recarsi presso l’ufficio del magistrato e non il contrario. Questo comporta una conseguente mancanza di controlli nella struttura, con un’ulteriore disorganizzazione interna che rischia di mandare in tilt l’intero sistema carcerario”. Secondo un recente rapporto del Ministero della Giustizia, la capienza regolamentare delle strutture penitenziarie in Italia è pari a 37mila unità a fronte di circa 66mila detenuti, quasi il doppio del previsto. La deputata ha poi indirizzato la discussione sul tema della legalizzazione degli stupefacenti leggeri, lanciando una provocazione: “Il 6 giugno coltiverò piantine di cannabis davanti a Montecitorio per distribuirle ai malati che la utilizzano a scopo terapeutico. Spero che con la mia provocazione riesca ad ottenere delle risposte. Mi devono spiegare se è meglio che i malati bisognosi debbano rivolgersi ai delinquenti che spacciano droga, favorendo così i loro guadagni illeciti, piuttosto che legalizzare il commercio delle sostanze stupefacenti al solo scopo terapeutico rendendo loro un servizio utile per la salute”. Catania: l’Assessore Valguarnera; grande successo corsi di formazione e lavoro in carcere La Sicilia, 25 maggio 2013 Sono stati organizzati da “La Città del sole” nelle carceri di Catania e Giarre. La responsabile per i detenuti dell’Assessorato regionale alla Famiglia, “nuovi progetti potranno presto essere programmati”. “Quasi tutti e 18 i progetti sperimentali per il reinserimento dei detenuti finanziati dalla Regione sono da considerare un grande successo, a cominciare da quello de La Città del Sole, condotto seguendo alla perfezione le regole”. Lo ha detto Patrizia Valguarnera, responsabile dei progetti in favore dei detenuti dell’Assessorato regionale alla Famiglia, durante la conferenza stampa svoltasi nell’Hotel Nettuno di Catania per presentare le conclusioni dell’iniziativa finalizzata al reinserimento sociale dei detenuti dal titolo “Formazione e lavoro: nuove prospettive di vita” avviata nel settembre del 2010 nelle carceri di Catania e Giarre da un gruppo di imprese e consorzi capitanato dalla cooperativa sociale La Città del Sole. Nel corso del progetto - finanziato come detto dall’Assessorato regionale alla Famiglia attraverso il Fondo sociale europeo - cinquanta detenuti, dopo le fasi di ricerca e di orientamento - a cura della Staff Relation, hanno seguito cinque corsi teorico - pratici da 150 ore. La fase successiva è stata un periodo di 480 ore di work experience realizzato, per la prima volta in Sicilia, anche in alcune imprese, come la Stamperia Braille di Catania, nella quale è stata svolta la sperimentazione per realizzare libri in Braille e Large print per non vedenti e ipovedenti. Nel corso dell’incontro Salvatore Panarello, coordinatore della ricerca sulle opportunità lavorative dei detenuti, ha spiegato le motivazioni della scelta di creare due corsi per riparatore di elettrodomestici, e altri per imbianchino, per addetto alla tessitura di tappeti tipici siciliani e per traduttore di testi per non vedenti e ipovedenti. Quest’ultimo corso è stato svolto dagli esperti della Stamperia Braille di Catania e il suo direttore, Pino Nobile, ha spiegato come la struttura sia pronta ad accogliere gli ex detenuti corsisti attraverso i consorzi di inserimento lavorativo partner del progetto, ossia Arnia e Il lavoro solidale. Quest’ultimo presieduto da Salvo Falletta che ha confermato come l’inserimento avverrà “attraverso un tutoraggio destinato a durare da tre a sei mesi”. Un plauso all’iniziativa è venuto anche da Maurizio Veneziano, direttore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, che ha affermato: “L’art. 27 della Costituzione dice che bisogna rieducare il condannato, e l’ozio, in questo caso, è il peggior nemico”. Elisabetta Zito, poi, direttore della Casa circondariali di Catania, ha sottolineato come “la retribuzione che il corso prevedeva” abbia “contribuito a stimolare nel detenuto l’etica del lavoro”. Al punto che, come spiegato da Ester Scuderi, coordinatrice della Formazione, “nei detenuti che hanno frequentato i corsi c’è una forte volontà di rimanere, nonostante le difficoltà, nel mondo del lavoro”. Da qui la necessità, sottolineata da Nino Novello de La Città del Sole, che la Regione incrementi i progetti da finanziare, perché “se questi dovessero fermarsi alla fase sperimentale, rappresenterebbero soltanto una goccia nel mare”. Ma Patrizia Valguarnera ha assicurato che nuovi progetti potranno presto essere programmati. Firenze: firmato protocollo d’intesa tra l’Asl 11 Empoli e l’Opg di Montelupo Fiorentino Firmato il 16 maggio, il protocollo d’intesa fra l’Asl 11 di Empoli e l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino, al fine di migliorare gli interventi igienico - sanitari e di carattere sociale nello stesso Opg. Per la loro realizzazione si è convenuto che è indispensabile adottare un sistema informatico/informativo in grado di supportare una idonea presa in carico dei bisogni sociosanitari. Per questo l’amministrazione penitenziaria si è impegna a favorire il collegamento informatico con la rete del l’Asl 11 dei locali in uso al servizio sanitario dell’ Istituto, in modo da assicurare la continuità e l’integrazione assistenziale. L’Asl 11, da parte sua, assicurerà un incremento dell’attività di supporto per l’assistenza di base e per le attività di formazione e supervisione dei lavoranti investiti delle pulizie degli ambienti nelle tre sezioni dell’Opg, sulla base di un progetto educativo rivolto ai “lavoranti” stessi. L’Asl 11 a tal fine prevede di incrementare la dotazione di biancheria piana (lenzuola e federe) dell’Opg in modo da favorire una maggiore frequenza di cambio in relazione anche alla tipologia delle sezioni e attraverso un sistema di codifica dei loro bisogni. Queste linee di indirizzo sono organicamente esplicitate in un progetto, allegato al protocollo. Nello stesso progetto sono, inoltre, definite le modalità organizzative ed il cronoprogramma delle azioni previste per favorire l’igiene personale e l’abbigliamento adeguato degli internati, la pulizia e l’ordine delle celle, la pulizia ed il riordino quotidiano degli spazi comuni. Asti: il Consiglio comunale ha deciso, ora i detenuti avranno il loro Garante di Riccardo Santagati La Nuova Provincia, 25 maggio 2013 Anche Asti si doterà di un Garante per i diritti dei detenuti. A deciderlo è stato il Consiglio comunale di lunedì sera nel quale è stata approvata la pratica promossa in modo bipartisan e sostenuta, fuori dall’assemblea, anche dai Radicali. “L’istituto del Garante - spiega il sindaco Brignolo - è già stato sperimentato in molte città con risultati positivi perché consente di migliorare i rapporti tra l’interno e l’esterno del carcere al fine di concorrere alle attività di rieducazione di porre le basi per il reinserimento sociale in vista dell’uscita dall’istituto”. Il Garante, secondo quanto approvato al termine della discussione, sarà eletto dal Consiglio comunale (e non dal sindaco come invece si era pensato in un primo tempo) per “promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone private della libertà personale ovvero limitate nella libertà, con particolare riferimento ai diritti fondamentali, alla casa, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport, per quanto nelle attribuzioni e nelle competenze del Comune medesimo; promuovere iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani; promuovere con le amministrazioni interessate protocolli di intesa utili a poter espletare le sue funzioni anche attraverso visite ai luoghi di detenzione in accordo con gli organi preposti alla vigilanza penitenziaria”. Chi ricopre cariche elettive (consiglieri, assessori) ma anche avvocati, operatori delle forze dell’ordine e addetti che lavorano nel comparto della Giustizia non potranno essere nominati per ricoprire questo ruolo mentre gli altri cittadini potranno probabilmente presentare la propria candidatura. “Tutta la commissione si è detta favorevole all’istituzione del Garante” ha spiegato Mariangela Cotto (Noi per Asti) durante il proprio intervento ricordando di essere stata la prima firmataria della legge regionale che istituì il Garante (2009) mentre Riccardo Fassone (Pd) ha ripercorso il senso di questa figura dalla sua istituzione in Svezia nel 1809 fino ad oggi. Durante la discussione della pratica c’è stata però una voce fuori dal coro, quella del consigliere Maurizio Lattanzio (Lista Civica) che non ha esitato a definire l’istituzione del Garante “pura demagogia”. “In altri Paesi c’è una legge che prevede la figura del Garante dei detenuti ma in Italia non c’è nessuna norma a riguardo. Se queste persone sono prive di qualsiasi effettiva potestà e riconoscimento legale noi andiamo ad istituire una figura che farà bella mostra sui giornali ma che nei confronti di chi è sensibile a questo problema appare come una presa in giro. Mi piacerebbe vedere se il Garante potrà entrare in carcere mostrando la delibera del Consiglio comunale di Asti. Stiamo quindi attenti alla aspettative che diamo. Meglio sarebbe stato distinguere tra periodo detentivo e post detentivo quando, effettivamente, l’amministrazione può fare tanto per il reinserimento in società e per tutelare il diritto della casa e del lavoro”. Il sindaco ha quindi replicato ricordando come l’iniziativa “sia stata accolta con favore dalla direttrice del carcere e che se non fosse utile non si capisce perché altri Comuni l’abbiano già adottata”. Alla fine la pratica è stata approvata con 23 voti favorevoli. Monza: Cooperativa Sociale 2000, quei falegnami-detenuti che diventano “imprenditori” www.ilsussidiario.net, 25 maggio 2013 Hanno lavorato sodo, di lima pialla e seghetto, per una gran quantità di ore degli ultimi due mesi. Adesso la loro opera prima è pronta. Al debutto loro però non ci saranno. Loro sono i quattro falegnami di Legnamèe, una delle attività della Cooperativa Sociale 2000 (l’altra è una lavanderia industriale) che offre opportunità di lavoro ai detenuti del carcere di Monza. L’opera che hanno realizzato è la scenografia del Trovatore di Verdi che andrà in scena, riadattato in chiave moderna, sabato 25 maggio (e in replica il giorno dopo) al Teatro Rosetum di Milano. “È stato entusiasmante”, commenta Daniela Taneggi che per la cooperativa si occupa del marketing e della ricerca di nuovi clienti. “C’erano schizzi e disegni tecnici a guidare la lavorazione. Perfino un’attività ordinaria come la scelta dei materiali, è stata svolta con tutt’altro spirito”. “Benedetto XVI diceva che senza possibilità di riscatto in carcere la pena rischia di raddoppiare”. Voi cosa fate per queste persone? “Molti di quelli che sono qui devono ancora imparare un lavoro perché nella vita non hanno avuto occasioni. Altri le hanno avute, ma adesso che sono qui possono, attraverso il lavoro, riprendere in mano la loro vita”. Ma chi sono i falegnami, perché sono finiti dentro? “Quando lavori assieme, durante la giornata il problema non è quello che hai fatto per finire qui; puoi aver spacciato o anche ucciso. Stanno scontando la pena; il lavoro permette di farlo con dignità”. Età? “Dai vent’anni in su”. Che lavorazioni fate? “Siamo alla continua ricerca di nuovi clienti ma ci siamo specializzati in alcuni filoni: il mondo del verde, quello dell’arredamento e quello delle scenografie. Quest’ultimo veramente da poco: la collaborazione con l’associazione Voci all’Opera del Teatro Rosetum è nata qualche mese fa”. Quelli del Legnamèe hanno realizzato anche un bellissimo portale per il Musical Siddharta, che verrà messo in scena dai detenuti del Carcere di Opera. Nel laboratorio del carcere, sotto la guida di Francesco Chinellato, il maestro “esterno” che viene tutti i giorni a insegnare il mestiere, si fanno mobili in legno massello, arredamenti per housing sociale, elementi per l’arredo urbano, rifugi per uccelli, cassettine per vino e oggettistica varia. Da qui escono anche le famose “bat box”, le casette per i pipistrelli che il Comune sta collocando nei parchi di Milano per ripopolare la specie: “a Palazzo Marino finora ne abbiamo fornite 500”. Ci sono difficoltà? “Da morire”. Alcune legate all’organizzazione del carcere che ha scopi ed esigenze diverse da un’organizzazione aziendale. Ma per chi tenta di svolgere un’attività minimamente competitiva non sono certamente d’aiuto. “Per fortuna le imprese che lavorano con noi non si scoraggiano e vanno avanti”. “Per noi è decisiva la disponibilità e la collaborazione della Direzione e della Polizia Penitenziaria che sostengono il nostro tentativo”. E quando si trova un cliente privato, le difficoltà sono di altro genere. “Un carcerato non può uscire per recarsi a casa del cliente a prendere le misure dei mobili che deve fabbricare. Deve andarci per forza un esterno. E questo per la cooperativa è oneroso”. Ce la fate? “La nostra è una produzione artigianale, per motivi evidenti non punta a grossi quantitativi”. Un aiuto importante viene da imprese che decidono di affidare fasi di lavorazione del loro prodotto. “È accaduto con Le Zie di Milano, una giovane realtà imprenditoriale che disegna e realizza arredi ecologici. A noi hanno affidato la produzione di un modulo componibile in rovere che diventa una libreria. Una soluzione di questo tipo per noi è molto ambita”. Cosa chiedete alle aziende? “Puntiamo sulla responsabilità sociale d’impresa, invitando le aziende a coinvolgersi direttamente con il nostro lavoro. Cerchiamo di far capire che se una persona smette di delinquere è un bene per tutti”. Che progetti avete per il futuro? “Creare ponti dentro - fuori dal carcere”. Cioè? “Cerchiamo soluzioni occupazionali all’esterno per quelli che hanno già fatto un percorso formativo o lavorativo all’interno del carcere. In questo riceviamo un aiuto dal Comune di Monza che mette a disposizione borse lavoro per sostenere il reinserimento delle persone che hanno lavorato con noi”. Roma: il modello è “Isola dell’amore fraterno”… se questo fosse il carcere di domani di Enrico Borellini La Repubblica, 25 maggio 2013 Ecco cosa è il “casale” in campagna al quale il Ministro della Giustizia Cancellieri ha dato la sua “benedizione”. Una struttura che esiste da anni ma che negli intendimenti del Ministro va replicata, moltiplicata e fatta diventare un pilastro del sistema carcerario. È l’Isola dell’Amore Fraterno”, un villone nell’agro romano, sull’Ardeatina dove detenuti in attesa di giudizio vivono in maniera più umana. Un carcere senza sbarre. Ecco cosa è il “casale” in campagna al quale il Ministro della Giustizia Cancellieri ha dato la sua benedizione inaugurando un campetto sportivo e compiendo una “visita pastorale” che ha riempito di gioia detenuti e operatori di una struttura che esiste da anni ma che negli intendimenti del Ministro va replicata, moltiplicata e fatta diventare un pilastro del sistema carcerario. Il villone nell’Agro romano. La struttura - pilota oggetto delle attenzioni del Ministro è l’Isola dell’Amore Fraterno”. Un villone nell’agro romano, sull’Ardeatina dove detenuti in attesa di giudizio vivono in maniera più umana la restrizione della libertà. Gente che ha commesso degli errori, che attende un processo e che invece di stare in carcere - una struttura che molti addetti ai lavori individuano come l’università del crimine - aspettano il giudizio in un luogo dove devono lavorare per partecipare a mandare avanti la “Casa”, assistiti da personale qualificato e - per l’Isola - religioso. A che costo per lo Stato? Zero. Un modello dunque. Che risolverebbe non pochi problemi allo Stato per il quale pende entro l’anno una condanna dalla Corte Europea se non “umanizzerà” il carcere. E allora cosa meglio che creare strutture esterne al carcere per deflazionare - termine orribile - la popolazione carceraria? Funziona così il modello: si creano delle “case”, delle “strutture” di non più di trenta quaranta detenuti che debbono accudire a se stessi, lavando, stirando, facendo le pulizie, facendosi da mangiare, coltivando orto, facendo piccoli lavori che stiano economicamente in equilibrio. Senza contributo dello Stato. Oggi ce ne sono poche, ma se il modello sarà individuato dal Parlamento come efficace, presto una nuova legge le istituirà. “Un’esperienza da replicare”. Ci aveva provato il Ministro Severino nella scorsa legislatura, ma il disegno di legge è stato approvato solo in un ramo del Parlamento e poi è morto assieme alla legislatura e non se ne è fatto nulla. In questi giorni il nuovo Ministro della Giustizia Cancellieri lo ha ritirato fuori dai cassetti e vuole farne un punto qualificante del suo operato. “Un’esperienza da replicare” sono state le parole del Ministro dopo aver visitato la struttura e parlato con Padre Vittorio, il cappellano del carcere di Regina Coeli grande sostenitore di questo progetto. Un “carcerato” particolare perché è il cappellano del carcere di Regina Coeli da 34 anni. Grande esperto di carcere con migliaia di “persone - dice lui - non detenuti” passate sotto le sue cure. L’episodio raccontato da padre Trani. Padre Vittorio Trani ama raccontare una storia. In ogni convegno, incontro, dibattito in cui si parla di carcere si fa accompagnare da un distinto signore che di mestiere fa il dirigente in Banca d’Italia e che intrattiene l’uditorio su temi economici. Finito il dibattito tanti si fanno intorno al dirigente per domande, spiegazioni, delucidazioni. L’economia è argomento che tira. Fino a quando Padre Vittorio prende sottobraccio il signore e spiega che “voi lo vedete così, fra noi, tranquillo. Ma dovete sapere che lui è stato due anni in carcere. Accusato ingiustamente e poi assolto, tanto è vero che la Banca d’Italia lo aveva sospeso e ora lo ha reintegrato nelle sue funzioni di dirigente”. Tutti di fronte ai propri pregiudizi. Passa qualche nanosecondo e si fa il vuoto. È il pregiudizio. E nemmeno il fatto che la Banca d’Italia lo abbia reintegrato, basta a tranquillizzare gli astanti. Padre Vittorio, usa poi questo test nel dibattito che segue - fa questa scenetta generalmente nel coffee break - e mette tutti di fronte ai propri pregiudizi. Perché avere a che fare con i detenuti è complicato. È un pò come la malattia. Fino a quando non la si incontra, non se ne è colpiti, non si sa cosa sia. E insieme a tante iniziative caritatevoli - chi non si pulisce la coscienza regalando un obolo, anche in tempi di crisi, adottando un bambino a distanza, un animale, allungando una banconota a un bisognoso - se la richiesta fosse quella di adottare un detenuto a distanza? Come reagisce la gente? Neanche una lira dallo Stato. È la scommessa, la provocazione, dell’Isola, la Onlus che gestisce la casa esterna per detenuti oggetto della attenzioni del Ministro della Giustizia. Una struttura che non riceve una lira dallo Stato ma che ospita una quarantina di detenuti, che fa risparmiare allo Stato 250 mila euro al mese. Tre milioni di euro l’anno. I conti sono presto fatti: un detenuto costa alle casse dello Stato più di 200 euro al giorno. 200 per 40 fa ottomila. Ottomila per 30, fa 250 mila, arrotondati. Che moltiplicati per dodici mesi, fanno appunto tre milioni di euro. Dice Domenico Naccari, un avvocato che si è imbattuto nell’Isola per motivi professionali e che ne è diventato un sostenitore - “perché è una associazione che merita di essere sostenuta” - “che se non lo si vuol fare per i detenuti, lo si faccia per contribuire alla spending rewiew”. Ortaggi e frutta da mangiare e vendere. Ma l’aspetto economico è la cosa meno avvincente dell’attività dell’”Isola dell’amore fraterno”, il grande casale sull’Ardeatina con qualche ettaro di terra che i detenuti coltivano. Campi e serre producono ortaggi e frutta da mangiare e da vendere - perché la casa si deve autofinanziare - ma sopratutto producono l’occupazione del tempo in un lavoro a chi altrimenti passerebbe la giornata chiuso in cella a non far nulla. Una esperienza da incentivare dice il Ministro, soprattutto per i detenuti in attesa di giudizio. Per evitare di dover costruire nuovi carceri - la popolazione carceraria è in continuo aumento e soldi non ce ne sono, per ridurre l’Imu, per la sanità, per gli esodati, ma nemmeno per costruire nuove carceri - la strada imboccata dalla Cancellieri è questa. Strada risparmiosa e umana. “Adotta un detenuto a distanza”. Sono troppo poche le strutture, come l’Isola sull’Ardeatina che svolgono quel ruolo che la nostra Costituzione vorrebbe fosse l’espiazione della pena e cioè la rieducazione del detenuto. Perché se è vero come dicono le statistiche, che il 65 per cento di chi è entrato in carcere, ci ritorna, chi sconta la pena in una di queste case ha più possibilità di reinserirsi nella società e di non tornare a delinquere. Imparano un mestiere: che sia il falegname, l’agricoltore, il giardiniere, il cuoco. Mestieri manuali che spesso lasciano i detenuti diventati ex, in contatto con queste strutture. Dice Claudio Guerrini, direttore dell’”Isola dell’amore fraterno” e che lancia il progetto - la provocazione - dell’”adotta un detenuto a distanza”: “è un piacere accogliere i tanti ex detenuti che ci vengono a trovare, magari con le famiglie, con i bambini, gente che riconosce che proprio grazie al periodo passato in questa struttura è riuscita a rialzarsi. Sono loro che ce lo dicono: “Se fossi rimasto in carcere, non sarebbe andata così”. Perché si può cadere, ma ci si può anche rialzare”. Una piccola cosa, una grande idea. Che non deve diventare la privatizzazione del carcere che qualcuno già vede come pericolo. Un saggio di Michael J. Sandel “Quello che i soldi non possono comprare, i limiti morali del mercato” inizia con un articolo del New York Times: “una cella di categoria superiore a 82 dollari a notte. A santa Ana, in California, e in qualche altra città i criminali non violenti possono pagare per una sistemazione migliore una cella pulita e silenziosa lontano da quelle dei detenuti che non pagano”. È il rischio che è dietro l’angolo di questa idea: la privatizzazione del carcere, l’istituzione di un carcere per “censo” con celle a due tre quattro e cinque stelle. Un rischio da scongiurare perché, come dice Sandel, anche il mercato deve avere dei limiti morali. Firenze: l’Uisp organizza corsa podistica per detenuti, presto anche le “mini olimpiadi” Ansa, 25 maggio 2013 Sport protagonista nel carcere di Sollicciano a Firenze. Dopo il successo della I edizione, torna il prossimo 29 maggio nell’ istituto di detenzione fiorentino la corsa podistica aperta a tutti i detenuti. Nel novembre scorso furono circa 200 i partecipanti. La prossima settimana, secondo le stime degli organizzatori, si dovrebbe salire a circa 250, in prevalenza uomini ma è previsto anche un buon numero di donne. L’iniziativa è stata presentata oggi a Firenze in un incontro cui hanno preso parte, tra gli altri, il direttore del carcere Oreste Cacurri, il vicesindaco di Firenze Stefania Saccardi e l’ assessore al welfare e allo sport della Regione Salvatore Allocca. Come nella I edizione il percorso, all’ interno del carcere, circa 3,5 km, sarà corso per due volte dagli uomini e una volta dalle donne. L’ inizio della gara è stato fissato alle 9.30. A tutti i corridori verrà dato un pettorale numerato ed il controllo della gara sarà affidato a giudici Uisp. “La corsa è un’ iniziativa positiva - ha commentato Allocca - che introduce un elemento di novità nella pesante routine di chi è costretto a vivere in carcere. Lo sport, ancora una volta, dimostra di poter essere uno strumento di emancipazione e relazione, oltre che di svago”. Nel corso della presentazione, il presidente dell’ Associazione Sportiva Dilettantistica G.S. Le Torri, Sanzio Moretti, ha spiegato che molto presto all’interno del carcere verrà organizzato un altro evento sportivo, una sorta di mini - olimpiadi, con gare di getto del peso, salto in alto e corsa veloce. Potenza: corso di allenatore per i detenuti, un progetto promosso dall’Aiac Agi, 25 maggio 2013 Entra nel pieno e prende ormai forma l’idea di un corso allenatori di calcio a favore dei detenuti. Progetto - pilota che partirà da Potenza, monitorato in itinere, e proponibile su scala nazionale ad altri istituti penitenziari. A rendersi interprete di tale progetto è l’Aiac, l’Associazione Allenatori di Calcio, presente ed attiva sul territorio grazie all’opera del Presidente Regionale Gerardo Passarella. Ma stamane è voluto essere presente a Potenza anche Renzo Ulivieri, Presidente Nazionale Aiac, invitato dal Direttore del Carcere di Potenza, dott. Michele Ferrandina, per fare una valutazione generale di fattibilità del Corso che avrà inizio nel prossimo autunno. Un corso intensivo quanto quello che ufficialmente svolgono i tecnici Aiac, propedeutico all’iter che potrà agevolare l’acquisizione dei titoli per sedere in panchina da allenatori di calcio a quanti vorranno intraprendere quest’attività. Sicuramente un’occasione per i detenuti di impegnare costruttivamente il loro tempo anche proseguendo il percorso di rieducazione alla legalità che resta pur sempre la massima aspirazione di quanti operano nelle strutture carcerarie. Francia: record di detenuti nelle prigioni a fine maggio, 67.800 a fronte di 57mila posti Tm News, 25 maggio 2013 Le carceri francesi hanno battuto un nuovo record con 67.839 detenuti a inizio maggio, nonostante la volontà della sinistra di rompere con la politica del “carcere per forza” dell’epoca dell’ex presidente di destra Nicolas Sarkozy. Le istruzioni trasmesse a settembre alle Procure dal ministro della Giustizia, Christiane Taubira, che chiedevano di favorire i patteggiamenti e le vie alternative alla prigione, non sono state sufficienti ad invertire la tendenza al rialzo della popolazione carceraria. La cifra di inizio maggio scalza anche il precedente record registrato a inizio dicembre 2012 (67.674). Fra i 67.839 detenuti, su una capacità operativa dei penitenziari di 57.235 posti, figurano 16.987 imputati in attesa di giudizio e 50.852 persone condannate, secondo le cifre dell’Amministrazione penitenziaria pubblicate oggi. In una intervista a l’Express, ad aprile, il controllore dei luoghi di privazione di libertà, Jean - Marie Delarue, si era detto “molto preoccupato” dalla sovrappopolazione carceraria i Francia e sempre favorevole ad una amnistia delle pene più brevi pronunciate prima del 2010. Afghanistan: centinaia di donne in carcere per “reati contro la morale” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 maggio 2013 La fonte è ufficiale, quella del ministero dell’Interno dell’Afghanistan: le donne e le ragazze imprigionate per reati contro la morale erano 400 nell’ottobre 2011, ora sono 600. Trascorsi 12 anni dalla sconfitta dei talebani e quattro dall’adozione di una legge contro la violenza sulle donne, in Afghanistan la vita delle donne e delle ragazze continua a essere un incubo. Secondo Human Rights Watch, il 95 per cento delle ragazze e il 50 per cento delle donne rinchiuse nelle carceri del paese ha commesso il “reato” di fuga non autorizzata (abbandono del tetto coniugale o familiare) o è colpevole di “zina”, ossia ha avuto relazioni sessuali extraconiugali. La fuga non autorizzata non è neanche menzionata nel codice penale, ma la Corte suprema ha dato istruzione ai giudici di considerare le donne e le ragazze che cercano riparo dalla violenza alla stregua di criminali. Il punto di vista contrario dei ministri della Giustizia e degli Affari femminili è stato completamente ignorato. Human Rights Watch ha esortato il presidente Hamid Karzai a graziare tutte le donne e le ragazze in carcere per fuga non autorizzata e a dire a chiare lettere che questo comportamento non dovrà essere più considerato un reato. Il reato di “zina”, invece, nel codice penale è menzionato ampiamente ed è punito anche con 15 anni di prigione. Molte donne condannate per “zina” sono state in realtà stuprate o costrette a prostituirsi. Le ragazze e le donne in carcere per fuga non autorizzata, intervistate da Human Rights Watch, hanno raccontato l’orrore da cui hanno cercato di scappare, solo per ritrovarsi a languire in galera: matrimoni forzati e precoci, anche al di sotto dei 16 anni, torture domestiche mediante pestaggi, coltellate e bruciature, stupri, prostituzione forzata, minacce di omicidi d’onore, rapimenti. Come “prova” della colpevolezza di “zina”, i giudici si basano spesso sui “test di verginità”. Senza alcuna preparazione medica, i poliziotti afgani obbligano donne e ragazze a sottoporsi a questa umiliante aggressione sessuale che, sulla base dell’esito, può significare anni e anni di carcere. Ovviamente, mentre le ragazze e le donne sono in prigione, gli autori dei reati contro di loro sono a piede libero. La legge del 2009 semplicemente non funziona. Sono poche le donne e le ragazze, fuggite di casa, che riescono a trovare un destino diverso dal carcere. In circa la metà delle 34 province afgane, specialmente in quelle meridionali, non esistono rifugi. I 18 rifugi esistenti hanno un numero di posti esiguo. In vista del ritiro delle forze internazionali dall’Afghanistan, i paesi donatori stanno diminuendo i loro fondi al governo di Kabul, che a sua volta non ha mai mostrato interesse a finanziare i rifugi. L’anno scorso il ministro della Giustizia ha sostenuto che si tratta di luoghi di “corruzione morale”. Nel 2012, secondo l’ultimo Rapporto annuale di Amnesty International, la Commissione indipendente afgana sui diritti umani ha potuto documentare 4000 casi di violenza sulle donne nel periodo compreso tra il 21 marzo e il 21 ottobre. Come abbiamo più volte ricordato nel nostro blog, la sicurezza, l’incolumità e la vita stessa delle ragazze e delle donne dell’Afghanistan rischiano di essere sacrificate nei negoziati tra governo e gruppi armati. Ogni giorno che passa, questo rischio si fa sempre più concreto. Stati Uniti: Guantánamo addio? di Michele Zurleni Panorama, 25 maggio 2013 Barack Obama ha annunciato ancora una volta la sua intenzione di chiudere il campo, ma lo farà veramente questa volta. È stata la sua prima promessa elettorale. Che, cinque anni dopo, non ha ancora mantenuto. Ora, Barack Obama torna a farla. Chiuderà il campo di Guantánamo, trasferirà i prigionieri ancora presenti in Yemen. Cento di loro (su 166) sono da settimane in sciopero della fame. Alcuni sono alimentati forzatamente da medici inviati dal Pentagono nella base. La protesta, dicono fonti militare, è nata dopo che il presidente aveva annunciato la chiusura del campo e poi aveva fatto marcia indietro. Questa,invece, sembra essere la volta buona. Una decisione presa anche a causa dello sciopero della fame. Il Liberal Obama non vuole che qualcuno possa morire in prigionia. Già messo sotto pressione da una parte dell’opinione pubblica anche per la politica dei droni, il Numero 44 non vuole che la “macchia” Guantánamo rimanga sui record della sua presidenza. Il primo carico di prigionieri Era l’11 gennaio 2002. Il primo gruppo di detenuti provenienti dall’Afghanistan sbarcano a Guantánamo. Vengono collocati nelle gabbie chiuse da un reticolato di filo metallico, nella sezione chiamata Camp X - Ray. È l’inaugurazione del campo. La sua nascita risale a qualche mese prima. Il 13 novembre, George W. Bush emana un ordine militare con il quale chiede al Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld di trovare un luogo adeguato dove poter detenere a tempo indeterminato e senza incriminazione persone non di nazionalità statunitense. I “combattenti nemici” - come vengono classificati - vengono messi sotto la giurisdizione di appositi tribunale militari speciali. I vertici del Pentagono scelgono la base cubana per diversi motivi: è isolata, inaccessibile, lontano dagli Usa. Negli annì90, sotto Bush Senior, fu il punto di raccolta delle migliaia di profughi haitiani che lasciarono l’isola nel tentativo di raggiungere gli States. Dieci anni dopo, l’amministrazione di Bush junior sostiene con un memorandum del dicembre del 2001 che, poiché la Baia di Guantánamo non è sotto la sovranità statunitense, le corti federali, non possono prendere in considerazione le richieste di habeas corpus da parte di nemici stranieri. La struttura del campo All’inizio era diviso in tre: Camp Delta è il sito il principale. Èstato costruito nella primavera del 2002 dopo che era stata abbattuta la struttura provvisoria eretta nel 2001. Ha la possibilità di ospitare 612 prigionieri ed è composto da sei sezioni. I nuovi arrivati, erano messi nella prima sezione, quella di massima sicurezza. Avanzavi fino alla quarta, quella con docce e altri confort, se collaboravi con gli interrogatori. Il Campo Sei, invece, aveva celle singole, la struttura di un carcere americano di media sicurezza e i detenuti in qualche caso avevano anche la possiblità di vedere la televisione. Il secondo campo era l’Iguiana. Distante un chilometro dal principale, ha ospitato ragazzi sotto i 17 anni. Venne chiuso nel 2004 quando gli ultimi tre minori furono riportati nei loro paesi di origine. Esisteva poi il Camp 7, il “Black Site”, la struttura più piccola di quella presenti nellla base. Sotto il diretto controllo della Cia ospitava pochi detenuti alla volta. Tre detenuti sono morti mentre si trovavano in quel campo. Versione ufficiale: suicidio. Quanti detenuti sono passati per Guantánamo Negli 11 anni di vita, Guantánamo ha aperto le sue porte a 779 persone, la maggior parte delle quali è rimasta in stato di detenzione senza accusa né processo. La quantità di arrivi è progressivamente diminuita con il passare degli anni. 632 nel 2002, 117 l’anno seguente, 10 nel 2004, 14 nel 2006, 5 nel 2007 e solo 1 nel 2008. Dopo l’elezione di Barack Obama, non arrivano più prigionieri nel campo. Che comunque non viene chiuso. Attualmente sono 171 i prigionieri presenti. Novanta dei quali di origini yemenite. Il presidente ha annunciato che verranno rimpatriati, mentre non è chiaro se anche altri 48 - il cui destino sembrava incerto - verranno mandati in Yemen, nonostante non siano cittadini di quel paese. Nel corso degli anni, 600 detenuti sono stati trasferiti dalla base in altri 35 paesi. Alcuni di loro sono tornati in libertà, altri invece sono finiti nelle locali prigioni. Uno di loro è stato processato da un tribunale civile negli Usa e condannato all’ergastolo nel gennaio del 2011. Tra le centinaia di detenuti, diversi di loro provenivano da paesi europei come Gran Bretagna, Spagna, Russia, Germania, Danimarca. uno solo aveva la cittadinanza statunitense. Si trattava di un uomo con doppio passaporto, che venne rispedito in Arabia Saudita nel 2002. Minori, vecchi e tanti innocenti È tornato in Canada, nel 2012, per scontare il resto della pena Omar Khadr. Era stato imprigionato nel 2002 in Afghanistan dove aveva seguito il padre, che si era affiliato ad Al Qaeda. Aveva sparato a un soldato americano. Aveva solo 15 anni, ed è stato il più giovane detenuto di Guantánamo. Nel campo ha trascorso quasi dieci anni. Nel 2010, un tribunale militare lo ha condannato a 40 anni di carcere. Non è (stato) il solo caso di minore detenuto a Camp Delta. Le statistiche dicono che almeno 12 detenuti avevano meno di 18 anni al momento della cattura. Accanto a loro, il destino (simile) di diversi anziani. Mohammed Sadiq, un contadino afghano malato di demenza senile, aveva 89 anni quando una pattuglia americana è entrato in casa sua e ha trovato del materiale di propaganda jihadista del figlio. Prelevato, fu portato prima in una prigione locale, dove rimase quattro mesi, e poi trasferito nella base cubana, dove venne interrogato per sei settimane. Alla fine, i soldati americani si resero conto che non c’entrava nulla, ma il vecchio rimase ancora quattro mesi a Guantánamo prima di essere riportato a Kabul. Secondo le statistiche, almeno 150 persone innocenti, sono state rinchiuse nella base. Le torture Il primo agosto del 2002 un memorandum del Dipartimento di Giustizia afferma che il presidente può autorizzare metodi di interrogatorio speciali per i presunti membri di Al Qaeda. È il via libera alla pratiche di tortura adottate anche a Guantánamo. I dieci modi autorizzati sono, tra gli altri: mantenere il prigioniero in posizioni dolorose, la privazione del sonno, il confino in uno spazio angusto, l’isolamento totale, e il “water boarding”, in cui il detenuto viene sottoposto a un finto annegamento. Ma, nella base cubana, secondo i rapporti delle organizzazioni umanitarie, vengono usati anche altri metodi di tortura. I prigionieri vengono tenuti per ore in un luogo dove viene diffusa musica ad altissimo volume, oppure sono costretti a rimanere esposti a basse o ad altissime temperature, umiliati per il loro credo religioso, picchiati. Le torture andranno avanti fino a quando Barack Obama, appena insediato, firma un ordine esecutivo che le vieta espressamente. I suicidi In dieci anni, otto prigionieri perdono la vita nel campo. Due per cause naturali, sei per suicidio. Almeno questa è la versione ufficiale, messa in dubbio dalle organizzazioni umanitarie. I tentativi di togliersi la vita sarebbero stati almeno 41 da parte di 25 detenuti. Questo significa che alcuni di loro, hanno tentato più volte. Il 29 giugno del 2005, tre detenuti vengono trovati morti all’interno della base. Le autorità militari parlano di un suicidio collettivo deciso come “apparente atto di guerra nei confronti degli Usa”. Amnesty International dice che è la naturale conseguenza delle condizioni in cui sono detenuti i prigionieri e chiede un’indagine indipendente sul tragico episodio. Quattro anni dopo, il rapporto di un’organizzazione per i diritti umani, Center fo Policy and Research afferma che la dinamica di quelle morti era incompatibile con il suicidio e avanza il sospetto che qualcuno sia intervenuto per coprire le reali causa di quelle tre morti. Nel giugno del 2006, ci saranno altri tre morti, altri tre “suicidi”. Nel 2010, un’inchiesta di un giornalista di Harper’s Magazine afferma che i sarebbero deceduti a causa delle torture subite. Chi conduceva gli interrogatori non voleva arrivare a tanto, ma non era riuscito a fermarsi prima. I decessi si sarebbero verificati a “Camp No”, il sito di massima sicurezza dove venivano fatti gli interrogatori più delicati. I tribunali militari David Hicks è stato il primo detenuto di Guantánamo condannato da uno dei tribunali militari speciali istituiti dall’amministrazione Bush. È il 30 marzo del 2007, e il giovane, cittadino australiano, dopo aver ammesso la sua colpevolezza (aveva fornito supporto materiale alla rete terroristica), viene rispedito in patria per scontare il resto della pena, pochi mesi in tutto. Alla fine, saranno meno di una decina i prigionieri condannati dalle corte militari. Quando Obama entrerà in carica nel 2008 firmerà l’ordine che sospende il lavoro della commissioni militari. Lo ripristinerà nel 2011. Già in precedenza, la loro esistenza era stata contestata dalle organizzazioni umanitarie. Perché i prigionieri non avevano alcun diritto legale. Nel 2008, la Corte Suprema degli Usa aveva deciso che potevano ricorrere contro la legittimità della loro detenzione presso le corti federali. In 22 casi, i tribunali civili le avevano ritenute illegali. La chiusura del campo Barack Obama la promette. Ma cinque anni dopo, non arriva ancora. Non solo per volontà, ma anche per l’impossibilità di trovare soluzioni per il destino di 48 detenuti del campo. La task force incaricata di valutare la situazione dei prigionieri, nel 2001, conclude che alcune decine di loro non potranno essere processati né rilasciati e che è stato deciso che la loro detenzione dovrà proseguire ai sensi dell’autorizzazione all’uso della forza militare, firmata da George W. Bush nel 2001. L’idea è quelli di trasferirli in strutture all’interno del territorio degli Stati Uniti. Ma il Congresso si oppone. Non vuole finanziare l’operazione. Nel 2012, vota per impedire il trasferimento dei 48 prigionieri. Per questo Barack Obama, che non è riuscito a trovare un’altra soluzione per quei prigionieri, indica nel Congresso il responsabile della mancata chiusura.